Christopher Paolini ELDEST - L'EREDITÀ (2005)

Libro Secondo


Traduzione di Maria Concetta Scotto di Santillo


FABBRI


EDITORI


© 2005 Christopher Paolini per il testo © 2005 John Jude Palencar per l'illustrazione di copertina © 2002 Christopher Paolini per l'illustrazione dei risguardi


Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2005


da Alfred A. Knopf, un marchio di Random House Children's Books,


una divisione di Random House, Inc., New York,


e simultaneamente in Canada da Random House of Canada Limited, Toronto.


© RCS Libri S.p.A., Milano I edizione Narrativa Fabbri Editori ottobre 2005


ISBN 88-41-1356-6


Ancora una volta, dedico questo libro alla mia famiglia.


E ai miei incredibili fan.


Siete stati voi a rendere possibile questa avventura. Sé onr svedar sitja hvass!

Sinossi di Eragon Libro Primo dell'Eredità

Eragon, un ragazzo di quindici anni, resta di stucco quando vede comparire davanti a sé una pietra blu, liscia e rotonda, durante una battuta di caccia sull'impervia catena montuosa conosciuta come Grande Dorsale. Eragon prende la pietra e la porta con sé alla fattoria dove vive con suo zio Garrow e suo cugino Roran. Sono stati Garrow e la sua defunta moglie, Marian, ad allevare Eragon fin da piccolo; non si è mai saputo nulla dell'identità di suo padre, mentre la madre, Selena, sorella di Garrow, ha fatto perdere le sue tracce subito dopo aver dato alla luce Eragon.


In seguito, la pietra si frantuma e dal suo interno emerge un cucciolo di drago. È una femmina, e non appena Eragon la tocca, sul palmo della sua mano compare un luccicante marchio d'argento: fra i due si crea un inscindibile legame mentale che fa di Eragon uno dei leggendari Cavalieri dei Draghi.


L'ordine dei Cavalieri dei Draghi era stato fondato migliaia di anni prima al termine della grande guerra degli elfi contro i draghi, allo scopo di impedire ulteriori ostilità fra le due razze. I Cavalieri erano diventati garanti di pace e di giustizia, saggi maestri, guaritori, filosofi e potenti stregoni - era lo stesso vincolo con il drago che conferiva alla persona straordinarie capacità magiche. Sotto la loro egida, il paese aveva vissuto un'epoca d'oro.


Quando anche gli umani erano approdati in Alagaèsia, alcuni di loro erano stati accolti nell'ordine. Dopo molti anni di pace e prosperità, i mostruosi e bellicosi Urgali uccisero il drago di un giovane Cavaliere umano di nome Galbatorix. Reso folle dallo strazio della perdita e dal rifiuto degli anziani di concedergli un altro drago, Galbatorix elaborò un piano per distruggere i Cavalieri.


Rapì un altro drago - che chiamò Shruikan e rese proprio servitore usando oscuri sortilegi - e radunò intorno a sé un gruppo di tredici traditori: i Rinnegati. Con l'aiuto dei suoi crudeli discepoli, Galbatorix uccise tutti i Cavalieri, compreso il loro capo, Vrael, e si autoproclamò re di Alagaésia. Il suo successo tuttavia fu parziale, in quanto gli elfi e i nani riuscirono a restare autonomi rifugiandosi nei loro nascondigli segreti, mentre alcuni umani fondarono una nazione indipendente nel sud del paese, il Surda. Dopo ottant'anni di conflitti, scaturiti dalla caduta dei Cavalieri, si era creata una situazione di stallo tra le diverse fazioni che durava ormai da una ventina di anni.


In questa fragile situazione politica Eragon capisce di essere in pericolo mortale: tutti sanno, infatti, che Galbatorix non ha esitato a uccidere qualunque Cavaliere si fosse rifiutato di giurargli fedeltà. Decide così di non rivelare alla propria famiglia l'esistenza della dragonessa, che battezza Saphira dopo aver ascoltato il cantastorie del villaggio, Brom, che narrava di un drago con quel nome. Nel frattempo, Roran lascia la fattoria per accettare una proposta di lavoro che gli consentirà di guadagnare abbastanza denaro da chiedere la mano di Katrina, la figlia del macellaio. Saphira cresce, ed è già diventata ben più alta di Eragon, quando nel villaggio di Carvahall giungono due stranieri dall'aria minacciosa e il corpo deforme. Sono i Ra'zac, e vanno in cerca della pietra blu, ossia l'uovo di Saphira. Spaventata, la dragonessa rapisce Eragon e si rifugia in volo sulla Grande Dorsale. Eragon la persuade a tornare alla fattoria, ma solo per scoprire che la sua casa è stata distrutta dai Ra'zac: fra le macerie, Eragon trova Garrow ridotto in fin di vita per le torture subite.


Garrow muore nel giro di pochi giorni, ed Eragon giura solennemente di rintracciare i Ra'zac per ucciderli. Il giovane viene avvicinato da Brom, che sa tutto di Saphira e gli chiede se può accompagnarlo nel suo viaggio, senza però rivelare quale sia la ragione che lo spinge a partire con lui. Quando Eragon acconsente, Brom gli fa dono della spada chiamata Zar'roc, un tempo appartenuta a un Cavaliere, ma si rifiuta di dirgli dove l'ha presa.


Durante i lunghi spostamenti, Eragon impara da Brom molte cose, fra cui l'arte della scherma e l'uso della magia. Quando perdono le tracce dei Ra'zac, Brom suggerisce di recarsi a Teirm, una città dove vive un suo vecchio amico, Jeod, che potrebbe aiutarli a localizzare il loro covo.


A Teirm, l'eccentrica erborista Angela predice a Eragon il futuro: potenti forze si scontreranno per controllare il suo destino; avrà una storia d'amore con una donna di nobile stirpe; un giorno lascerà Alagaésia per non farvi mai più ritorno; e sarà tradito da un membro della sua stessa famiglia. Anche Solembum, il gatto mannaro che si accompagna all'erborista, pronuncia fatidiche parole di ammonimento. Infine, Eragon, Brom e Saphira partono alla volta di Dras-Leona, dove sperano di trovare i Ra'zac.


Brom rivela di essere un agente dei Varden - un gruppo di ribelli che lottano per la destituzione di Galbatorix - e di essersi nascosto nel villaggio di Eragon in attesa della comparsa di un nuovo Cavaliere dei Draghi. Brom spiega anche che, vent'anni prima, lui e Jeod avevano rubato a Galbatorix l'uovo di Saphira. In quel frangente, Brom aveva ucciso Morzan, il primo e l'ultimo dei Rinnegati. Restano soltanto due uova di drago, entrambe ancora nelle mani di Galbatorix. Nei pressi di Dras-Leona, i Ra'zac tendono loro un agguato, e Brom resta mortalmente ferito nel tentativo di proteggere Eragon. I Ra'zac vengono messi in fuga da un giovane misterioso di nome Murtagh, che sostiene di essere a sua volta sulle tracce di quelle creature. Brom muore durante la notte. Prima di esalare l'ultimo respiro, confessa di essere stato a suo tempo un Cavaliere, e che la sua dragonessa uccisa si chiamava Saphira. Eragon seppellisce Brom in una tomba di pietra arenaria, che Saphira trasforma in un sepolcro di diamante.


Senza più la guida e la compagnia di Brom, Eragon e Saphira decidono di unirsi ai Varden. Per un colpo di sfortuna, Eragon viene catturato nella città di Gil'ead, e portato al cospetto dello Spettro Durza, il braccio destro di Galbatorix. Con l'aiuto di Murtagh, Eragon scappa dalla cella in cui era stato rinchiuso, e nella fuga porta con sé il corpo privo di sensi dell'elfa Arya, anch'essa prigioniera.


Eragon e Murtagh diventano grandi amici.


L'elfa entra in contatto mentale con Eragon e gli racconta che da anni trasportava l'uovo di Saphira avanti e indietro fra gli elfi e i Varden, nella speranza che l'uovo si schiudesse davanti a uno dei loro fanciulli. Tuttavia, durante il suo ultimo viaggio, era caduta in un'imboscata di Durza e aveva fatto ricorso alla magia per inviare l'uovo da qualche altra parte. Ed era così giunto a lui, Eragon. Arya è gravemente ferita e ha bisogno delle cure mediche dei Varden. Usando immagini mentali, indica a Eragon la via per trovare i ribelli. La loro è un'epica fuga. Eragon e i suoi amici coprono all'incirca quattrocento miglia in otto giorni, inseguiti da un contingente di Urgali che li chiudono in trappola ai piedi dei torreggiatiti Monti Beor. Murtagh, che aveva già manifestato la sua riluttanza a raggiungere i Varden, si vede costretto a confessare a Eragon di essere il figlio di Morzan.


A dire il vero, Murtagh deplora i misfatti del padre e racconta di essere sfuggito al patrocinio di Galbatorix per seguire il proprio destino.


Mostra a Eragon una lunga cicatrice che gli deturpa la schiena, affermando che gli era stata inflitta dallo stesso Morzan, che gli aveva scagliato contro la propria spada, Zar'roc. Eragon viene così a sapere che la sua spada un tempo apparteneva al padre di Murtagh, che aveva tradito i Cavalieri per consegnarli nelle mani di Galbatorix, e che aveva ucciso tanti dei suoi excompagni.


Proprio mentre stanno per essere sopraffatti dagli Urgali, Eragon e i suoi amici vengono salvati dai Varden, che sembrano materializzarsi dalla roccia stessa. I ribelli si nascondono nel Farthen Dùr, una montagna cava alta dieci miglia, e altrettanto larga, dove si trova la capitale dei nani, Tronjheim. Una volta all'interno, Eragon viene condotto al cospetto di Ajihad, il capo dei Varden, mentre Murtagh viene imprigionato a causa dei suoi natali. Ajihad spiega molte cose a Eragon, e gli rivela che Varden, elfi e nani hanno stretto un accordo secondo cui, alla comparsa di un nuovo Cavaliere, il giovane o la giovane sarebbe stato istruito all'inizio da Brom, per poi essere mandato dagli elfi a completare l'addestramento. Eragon deve quindi scegliere se aderire all'accordo.


Eragon conosce il re dei nani, Rothgar, e la figlia di Ajihad, Nasuada; viene messo alla prova dai Gemelli, due perfidi stregoni calvi al servizio di Ajihad; si esercita nella scherma con Arya, dopo che l'elfa si è ripresa; e incontra di nuovo Angela e Solembum, che si sono uniti ai Varden. Eragon e Saphira impartiscono anche una benedizione a una piccola orfana dei Varden.


All'improvviso giunge la notizia che un esercito di Urgali si sta avvicinando attraverso le gallerie scavate nei monti dai nani. Nella battaglia che segue, Eragon viene separato da Saphira e si trova ad affrontare Durza da solo. Molto più forte di qualsiasi essere umano, in pochi istanti lo Spettro ha la meglio su Eragon, infliggendogli una profonda ferita che gli solca la schiena dalla spalla fino al fianco. Ma in quel momento, Saphira e Arya irrompono nella sala dall'alto mandando in frantumi il grande Zaffiro Stellato che copriva la volta - ed Eragon approfitta dell'attimo di distrazione di Durza per colpirlo dritto al cuore. Privati dei sortilegi dello Spettro, gli Urgali si disperdono e vengono ricacciati nei tunnel.


Nello stato d'incoscienza in cui versa dopo la battaglia, Eragon viene contattato per via telepatica da Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano, che si offre di dare una risposta a tutte le sue domande. Eragon dovrà cercarlo a Ellesméra, dove vivono gli elfi.


Quando Eragon riprende i sensi, scopre che, malgrado tutti gli sforzi e le cure di Angela, gli è rimasta una terribile cicatrice, analoga a quella di


Murtagh. Sgomento, si rende conto di aver sconfitto Durza soltanto per un colpo di fortuna, e di avere un assoluto bisogno di approfondire il proprio addestramento.


Alla fine del Libro Primo, Eragon decide di partire per andare in cerca di Togira Ikonoka e completare la sua istruzione. Poiché il fosco Destino ha accelerato il passo, le prime note di guerra riecheggiano in Alagaésia, e si avvicina in fretta il momento in cui Eragon dovrà affrontare il suo unico, vero nemico: il re Galbatorix.

Una duplice sventura

Il canto dei morti è il pianto dei vivi. Questo pensò Eragon nello scavalcare il cadavere mutilato di un Urgali, mentre si levavano le lamentazioni funebri delle donne che portavano via le salme dei loro cari dalla piana intrisa di sangue del Farthen Dùr. Alle sue spalle, Saphira aggirò la carcassa ondeggiando sinuosa; le sue squame blu zaffiro erano l'unica nota di colore nell'oscurità che dominava la montagna cava.


Erano passati tre giorni da quando i Varden e i nani si erano battuti contro gli Urgali per difendere Tronjheim, la città-montagna alta un miglio nel cuore del Farthen Dùr, ma il campo di battaglia era ancora disseminato di cadaveri. L'enorme numero di caduti aveva rallentato le operazioni di sepoltura. In lontananza, una pira imponente rosseggiava ai piedi di un costone del Farthen Dùr: erano le carcasse degli Urgali che bruciavano. Nessun funerale e nessuna degna sepoltura per loro.


Da quando si era svegliato e aveva scoperto che Angela gli aveva guarito la ferita, per ben tre volte Eragon aveva tentato di dare il proprio contributo alla ricostruzione, ma era stato trafitto da dolori indicibili alla spina dorsale. I guaritori gli avevano somministrato varie pozioni da bere. Arya e Angela sostenevano che era perfettamente guarito. Eppure il dolore continuava a tormentarlo. Nemmeno Saphira era in grado di aiutarlo, se non condividendo la sofferenza trasfusa dal loro legame mentale.


Eragon si passò una mano sul viso e alzò lo sguardo alle stelle che si affacciavano dalla sommità aperta del Farthen Dùr, offuscate dal denso fumo nero della pira. Tre giorni. Erano trascorsi tre giorni da quando aveva ucciso Durza; tre giorni da quando la gente aveva preso a chiamarlo Ammazzaspettri; tre giorni da quando i residui di coscienza dello stregone gli avevano devastato la mente, ed era stato salvato dal misterioso Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano. Non aveva fatto parola con nessuno della sua visione, tranne che con Saphira. La lotta contro Durza e gli spiriti oscuri che lo controllavano lo aveva trasformato; se in meglio o in peggio, era ancora presto per dirlo. Eragon si sentiva fragile, come se un colpo improvviso potesse mandargli in frantumi il corpo e la mente che ancora dovevano ristabilirsi. E adesso era tornato sul campo di battaglia, spinto dal desiderio morboso di vedere le conseguenze dei combattimenti. Non trovò altro che l'inquietante presenza della morte e della decomposizione; nessuna traccia della gloria di cui narravano le antiche ballate eroiche.


Prima che suo zio Garrow venisse ucciso dai crudeli Ra'zac, mesi addietro, la brutalità a cui Eragon aveva assistito fra umani, nani e Urgali lo avrebbe annientato. Ora lo rendeva quasi insensibile. Si era reso conto, con l'aiuto di Saphira, che l'unico modo per conservare la propria razionalità davanti a quel dolore straziante era fare qualcosa. Inoltre non credeva più che la vita avesse un significato intrinseco, non dopo aver visto uomini fatti a pezzi dai Kull, una tribù di Urgali giganteschi, e il terreno disseminato di membra mozzate, così zuppo di sangue da trasformarsi in un orrido pantano che gli risucchiava le suole degli stivali. Se mai esisteva un qualche tipo di onore in guerra, aveva concluso, era soltanto questo: combattere per difendere gli inermi.


Si chinò a raccogliere un molare da terra. Facendosi rimbalzare il dente sul palmo della mano, continuò a percorrere lentamente con Saphira il perimetro della piana devastata. A un tratto si fermarono nel vedere Jòrmundur, il vicecomandante di Ajihad, che usciva da Tronjheim di gran carriera, diretto verso di loro. Quando fu a breve distanza, s'inchinò: un gesto che, Eragon lo sapeva, non avrebbe mai compiuto fino a qualche giorno prima. «Sono lieto di averti trovato in tempo, Eragon.» Nel pugno stringeva un rotolo di pergamena. «Ajihad sta tornando, e vuole che tu sia presente al suo arrivo. Gli altri lo stanno già aspettando davanti al cancello ovest di Tronjheim. Dobbiamo affrettarci, se vogliamo arrivare in tempo.»


Eragon annuì e si diresse verso il cancello, con una mano appoggiata sul fianco di Saphira. Ajihad mancava ormai da tre giorni, impegnato a inseguire gli Urgali che erano riusciti a fuggire nel labirinto di tunnel scavati dai nani nella roccia dei Monti Beor. L'unica volta che Eragon lo aveva scorto, fra una spedizione e l'altra, Ajihad era in preda a un attacco di collera per aver scoperto che sua figlia Nasuada gli aveva disobbedito: non aveva abbandonato la città insieme alle altre donne e ai bambini, come le era stato ordinato, ma aveva combattuto in segreto fra le schiere di arcieri Varden. Murtagh e i Gemelli avevano accompagnato Ajihad. I Gemelli perché era una missione pericolosa, e il capo dei Varden aveva bisogno di essere protetto dalle loro arti magiche, e Murtagh perché voleva continuare a dimostrare ai Varden che potevano fidarsi di lui. Eragon era rimasto sorpreso nel vedere quanto era cambiato l'atteggiamento del popolo nei riguardi di Murtagh, pur sapendo che suo padre, Morzan, era stato il Cavaliere dei Draghi che aveva tradito i suoi compagni per consegnarli a Galbatorix. Anche se Murtagh aveva dichiarato di odiare il padre e di essere leale a Eragon, i Varden non gli avevano creduto. Ma nessuno aveva voglia di sprecare energie per covare un antico rancore, quando c'era ancora tanto lavoro da fare. Eragon sentiva la mancanza delle loro chiacchierate, e non vedeva l'ora che tornasse per discutere con lui degli eventi appena accaduti.


Mentre Eragon e Saphira giravano intorno a Tronjheim, videro un gruppetto sparuto di persone nel cono di luce gettato dalle lanterne nei pressi del cancello di legno. Fra loro c'erano Orik e Arya. Il nano si dondolava impaziente da una tozza gamba all'altra; la benda bianca avvolta intorno al braccio dell'elfa spandeva deboli riflessi sui suoi capelli corvini. Eragon si sentì pervadere dallo strano brivido che provava ogni volta che vedeva l'elfa. Arya guardò lui e Saphira con un fugace scintillio negli occhi verdi, che subito tornò a rivolgere nella direzione da cui doveva arrivare Ajihad.


Grazie all'intervento di Arya, che aveva infranto Isidar


Mithrim - l'immenso Zaffiro Stellato largo venti iarde, tagliato a forma di rosa -, Eragon aveva potuto uccidere Durza e vincere così la battaglia; ma i nani erano furiosi con l'elfa perché aveva distrutto il loro tesoro più prezioso. Si erano rifiutati di rimuovere i frammenti sparpagliati dello zaffiro, lasciandoli in un ampio circolo all'interno della camera centrale di Tronjheim. Eragon aveva camminato fra le schegge scintillanti e condiviso il dolore dei nani per la loro bellezza perduta.


Lui e Saphira si fermarono accanto a Orik, lasciando vagare lo sguardo sulla piana deserta che circondava Tronjheim e si estendeva per un raggio di cinque miglia fino alla base del Farthen Dùr. «Da che parte arriverà Ajihad?» domandò Eragon.


Orik indicò un grappolo di lanterne che illuminavano l'imboccatura di un tunnel, a due miglia di distanza. «Dovrebbe essere qui a momenti.»


Eragon aspettava paziente insieme agli altri, rispondendo con garbo alle domande che gli venivano rivolte, ma rifugiandosi spesso nella quiete della mente per conversare con Saphira. Nel suo attuale stato d'animo, il silenzio che regnava nel Farthen Dùr gli era più congeniale.


Dopo mezz'ora, scorsero del movimento nel tunnel. Un gruppo di dieci umani uscì allo scoperto, poi si volsero per aiutare altrettanti nani a emergere dal sottosuolo. Uno degli uomini - Ajihad, con tutta probabilità - alzò una mano, e i guerrieri si disposero alle sue spalle in due colonne compatte. A un suo segnale, la formazione cominciò a marciare fiera e decisa verso Tronjheim.


Non avevano percorso più di cinque iarde, però, che il tunnel dietro di loro si animò di attività frenetica, mentre altre figure sciamavano all'esterno. Eragon strizzò gli occhi, incapace di distinguere bene da quella distanza. Sono Urgali! esclamò Saphira, il corpo teso come la corda di un arco.


Eragon non ne dubitò nemmeno per un istante. «Urgali!» gridò, e balzò in groppa a Saphira, rimproverandosi di aver lasciato Zar'roc, la sua spada, in camera. Nessuno si era aspettato un nuovo attacco, ora che l'esercito degli Urgali era stato respinto.


Saphira levò le ali azzurre e le riabbassò con forza per levarsi in volo; il contraccolpo provocò a Eragon una nuova fitta di dolore lungo la schiena. Mentre la dragonessa acquistava quota e velocità, sempre di più a ogni battito d'ali, sotto di loro Arya sfrecciava verso il tunnel, riuscendo quasi a tenere il passo con Saphira. Orik arrancava dietro di lei insieme a un folto drappello di uomini, mentre Jòrmundur tornava di corsa alle caserme.


Eragon fu costretto ad assistere impotente all'aggressione degli Urgali alla retroguardia di Ajihad; non era in grado di esercitare la magia da quella distanza. I mostri sfruttarono il vantaggio della sorpresa per abbattere subito quattro uomini, costringendo il resto dei soldati, umani e nani insieme, a radunarsi intorno ad Ajihad nel tentativo di proteggerlo. Le due compagini entrarono in contatto, facendo risuonare il metallo delle spade e delle asce. Uno dei Gemelli scagliò un lampo di luce, e un Urgali cadde, stringendosi il moncherino di un braccio reciso. Per un minuto parve che gli assaliti ce la facessero a resistere agli Urgali, ma poi la scena cambiò all'improvviso, trasformandosi in un turbinio confuso, come se i combattenti fossero stati avvolti da una leggera coltre di nebbia. Quando si diradò, non restavano in piedi che quattro guerrieri: Ajihad, i Gemelli e Murtagh. Gli Urgali si avventarono su di loro, ostacolando la visuale di Eragon che osservava la scena con orrore crescente.


No! No! No!


Prima che Saphira fosse in grado di raggiungere il luogo dello scontro, il manipolo di Urgali sciamò di nuovo verso il tunnel e scomparve sottoterra, lasciandosi alle spalle soltanto figure inerti.


Non appena Saphira toccò terra, Eragon si slanciò dalla sella, poi esitò, sopraffatto dal dolore e dalla rabbia. Non posso. La sua mente evocò le immagini di quando era tornato alla fattoria e aveva trovato lo zio Garrow moribondo. Con un immane sforzo di volontà, ricacciò indietro la paura e cominciò a cercare i superstiti.


La scena era fin troppo simile al campo di battaglia che aveva ispezionato poco prima: ma in questo caso il sangue era fresco.


Al centro del massacro giaceva Ajihad, con il pettorale di metallo squarciato in più punti, circondato da cinque Urgali che lui stesso aveva ucciso. Il respiro gli usciva in rantoli spezzati. Eragon s'inginocchiò al suo fianco e abbassò il capo perché le lacrime non cadessero sul torace martoriato del capo dei Varden. Nessuno era in grado di guarire quelle ferite. Arrivò anche Arya, che si fermò di colpo con il viso trasfigurato dall'angoscia nel constatare che Ajihad non poteva essere salvato.


«Eragon.» Il nome esalò dalle labbra di Ajihad come il più lieve dei sussurri.


«Sì, sono qui.»


«Ascoltami, Eragon... Questa è la mia ultima volontà.» Eragon si protese su di lui per cogliere le parole dell'uomo morente. «Devi promettermi una cosa: promettimi che non... lascerai che i Varden precipitino nel caos. Loro rappresentano l'unica speranza di combattere l'Impero... Devono restare uniti. Promettimelo.»


«Lo prometto.»


«Che la pace sia con te, Eragon Ammazzaspettri...» E dopo un ultimo sospiro, Ajihad chiuse gli occhi, distese i nobili lineamenti e spirò.


Eragon chinò il capo. Si sentiva la gola stretta in una dolorosa morsa che lo faceva respirare a fatica. Arya benedisse Ajihad con un delicato mormorio nell'antica lingua, poi aggiunse con la sua voce melodiosa: «Ahimè, la sua morte scatenerà aspri conflitti. Ajihad ha ragione: tu dovrai fare di tutto per evitare una lotta per il potere. Io ti assisterò, dove possibile.»


Senza dire una parola, Eragon scrutò il resto dei cadaveri. Avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi da un'altra parte. Saphira annusò uno degli Urgali e disse: Non sarebbe dovuto accadere. È una sciagura terrìbile, ancora più nefasta perché è capitata quando avremmo dovuto sentirci sicuri e vittoriosi. Esaminò un altro corpo, poi volse la testa da un lato e dall'altro. Che fine hanno fatto Murtagh e i Gemelli? Fra i morti non ci sono.


Eragon passò in rassegna i cadaveri. Hai ragione! Pervaso da un'improvvisa euforia, corse verso l'imboccatura del tunnel. Negli avvallamenti consumati dei gradini di marmo rilucevano, simili a tanti specchi neri, pozze di sangue denso, come se qualcuno avesse trascinato dei corpi feriti sulle scale. Devono averli presi gli Urgali! Ma perché? Di solito non fanno prigionieri né ostaggi. Eragon ripiombò nella più cupa disperazione. Non importa. Non possiamo inseguirli senza rinforzi, e comunque tu non riusciresti mai a passare per quel varco.


Potrebbero essere ancora vivi. Hai intenzione di abbandonarli?


Cosa ti aspetti che faccia? I tunnel dei nani sono un labirinto sconfinato! Di sicuro mi perderei. E non posso inseguire gli Urgali a piedi, anche se forse Arya ne sarebbe capace.


Allora chiedilo a lei.


Arya! Eragon esitò, combattuto fra il desiderio di agire e il rifiuto di metterla in pericolo. Eppure se c'era una persona fra i Varden che potesse affrontare gli Urgali, quella era lei. Con un sospiro afflitto, le spiegò che cosa avevano scoperto. Arya corrugò le sopracciglia oblique. «Non ha senso.»


«Vorresti inseguirli?»


Lei lo guardò per un lunghissimo istante. «Wiol ono.» Per te. Poi si slanciò verso il tunnel; e la lama della sua spada brillò un'ultima volta prima di venire inghiottita nelle viscere della terra.


Fremente d'inutile rabbia, Eragon si sedette a gambe incrociate accanto ad Ajihad per vegliare il cadavere. Non riusciva ancora ad accettare il fatto che Ajihad fosse morto e Murtagh scomparso. Murtagh. Figlio di uno dei Rinnegati - i tredici Cavalieri che avevano aiutato Galbatorix a distruggere l'ordine e ad autoproclamarsi re di Alagaésia e amico di Eragon. Più di una volta Eragon aveva desiderato che Murtagh se ne andasse, ma adesso che non c'era, la sua assenza gli lasciava un vuoto inatteso. Continuò a restare seduto, mentre Orik arrivava con gli uomini.


Non appena vide Ajihad, Orik pestò i piedi con foga e imprecò nella lingua dei nani, roteando l'ascia per poi abbatterla sulla carcassa di un Urgali. Gli uomini rimasero impietriti. Torcendosi le mani callose e sporche di terra, il nano borbottò: «Ah, vedrai adesso che vespaio si solleverà. Non ci sarà pace fra i Varden dopo questa sciagura. Barzuln, qui le cose si complicano. Hai fatto in tempo ad ascoltare le sue ultime parole?»


Eragon scoccò un'occhiata a Saphira. «Aspetterò di trovarmi di fronte alla persona giusta prima di ripeterle.» «Capisco. Dov'è Arya?»


Eragon indicò il tunnel.


Orik imprecò di nuovo, poi scrollò la testa e si accovacciò.


Jòrmundur arrivò poco dopo con dodici plotoni da sei uomini ciascuno. Indicò loro di attendere fuori dal cerchio di cadaveri e proseguì da solo. Toccò la spalla di Ajihad. «Mio buon amico, come ha potuto il destino essere tanto crudele? Sarei arrivato prima, se non fosse stato per la vastità di questa maledetta montagna, e forse ti saresti salvato. La sventura ci ha colpiti al culmine del nostro trionfo.»


Eragon gli accennò sottovoce di Arya e della scomparsa dei Gemelli e di Murtagh.


«Non avrebbe dovuto allontanarsi» replicò Jòrmundur, rialzandosi in piedi, «ma al momento non possiamo fare nulla. Metteremo delle sentinelle sul posto, ma ci vorrà almeno un'ora prima di poter convocare le guide dei nani per un'altra spedizione nei tunnel.»


«Sarò lieto di guidarla» si offrì Orik.


Jòrmundur rivolse uno sguardo mesto verso Tronjheim. «No, Rothgar avrà bisogno di te. Andrà qualcun altro. Mi rincresce, Eragon, ma tutte le persone più influenti dovranno attendere qui finché non sarà nominato il successore di Ajihad. Arya dovrà cavarsela da sola... E comunque non saremmo mai in grado di raggiungerla.» Eragon annuì, accettando l'inevitabile.


Jòrmundur lasciò vagare lo sguardo prima di dire ad alta voce, perché tutti potessero udirlo: «Ajihad è morto da vero guerriero! Guardate, ha ucciso cinque Urgali, quando ne sarebbe bastato uno soltanto a sopraffare un uomo qualsiasi. Lo seppelliremo con tutti gli onori, e che gli dei accolgano con benevolenza il suo spirito. Sollevate lui e i nostri compagni sui vostri scudi e riportateli a Tronjheim... e non abbiate pudore di mostrare le vostre lacrime, poiché questo è un giorno di grande lutto che tutti ricorderanno. Io prego perché presto possiamo avere il privilegio di affondare le nostre lame nei mostri che hanno ucciso il nostro condottiero!»


I soldati s'inginocchiarono come un sol uomo, scoprendosi la testa in segno di rispetto. Poi si alzarono, e con deferenza sollevarono Ajihad sugli scudi che si appoggiarono in spalla. Molti dei Varden erano scossi dai singhiozzi, le folte barbe inzuppate di lacrime, ma nessuno venne meno al suo dovere e lasciò che Ajihad scivolasse. Marciando solenni, tornarono a Tronjheim, con Eragon e Saphira al centro del corteo.

Il Consiglio degli Anziani

Eragon si destò e si voltò verso il bordo del letto, scrutando la stanza immersa nella luce soffusa che proveniva da una lanterna schermata. Si alzò a sedere e guardò Saphira che dormiva. I suoi fianchi possenti si espandevano e si contraevano, al ritmo degli enormi mantici dei polmoni che soffiavano l'aria attraverso le narici squamose. Eragon pensò all'inferno ruggente che ormai la dragonessa era capace di sprigionare a comando dalle fauci. Era uno spettacolo mozzafiato, quando fiamme in grado di sciogliere il metallo le guizzavano fra le zanne d'avorio e la lingua senza intaccarle. Dalla prima volta in cui aveva sputato fuoco, durante il duello di Eragon con Durza, gettandosi in picchiata su di loro dalla sommità di Tronjheim, Saphira approfittava di ogni occasione per sfoggiare il suo nuovo talento. Soffiava continuamente minuscole vampe di fuoco per incenerire piccoli oggetti.


Poiché Isidar Mithrim era andata distrutta, non erano più potuti alloggiare nella roccaforte dei draghi situata sopra di essa. I nani avevano offerto loro un vecchio corpo di guardia al pianterreno di Tronjheim. Era un'ampia camerata, ma aveva il soffitto basso e le pareti scure.


L'angoscia tornò a impadronirsi di Eragon quando ripensò agli eventi del giorno prima. Gli occhi gli si riempirono di lacrime; una gli cadde nel palmo della mano. Non avevano avuto notizie di Arya fino a tarda notte, quando era riemersa dal tunnel, esausta e con i piedi sanguinanti. Malgrado i suoi sforzi - e la sua magia - gli Urgali le erano sfuggiti. "Ho trovato questi" aveva detto. E mostrò uno dei mantelli viola dei Gemelli, strappato e macchiato di sangue; la tunica di Murtagh; ed entrambi i suoi guanti di pelle. "Erano sul ciglio di un nero abisso, dove non arriva nessun tunnel. Gli Urgali devono averli spogliati di corazze e armi, e aver gettato i corpi nella voragine. Ho provato a divinare sia Murtagh che i Gemelli, ma non ho visto altro che le tenebre dell'abisso." I suoi occhi avevano incontrato quelli di Eragon. "Mi dispiace. Sono morti."


Soltanto adesso Eragon si concesse l'amaro lusso di piangere Murtagh. Il suo cuore era oppresso da una strisciante e spaventosa sensazione di perdita, resa ancor più dolorosa dal fatto che, nel corso degli ultimi mesi, gli era diventata sempre più familiare.


Mentre contemplava la lacrima sulla mano - una piccola goccia lucente - decise di ricorrere alla cristallomanzia per divinare i tre uomini. Sapeva che era un tentativo futile e disperato, ma doveva provare ugualmente per convincersi che Murtagh era davvero morto. Tuttavia non era del tutto sicuro di voler riuscire laddove Arya aveva fallito; quale consolazione avrebbe tratto dal vedere Murtagh sfracellato sul fondo di un abisso sotto il Farthen Dùr? Mormorò: «Draumr kópa.» Le tenebre pervasero la goccia, trasformandola in una minuscola cupola nera nel suo palmo d'argento; balenò un guizzo fulmineo, come un improvviso frullo d'ali davanti a una luna offuscata... poi più nulla. Un'altra lacrima raggiunse la prima.


Eragon trasse un profondo respiro, raddrizzò la schiena e tentò di rilassarsi. Da quando si era ripreso dalla ferita di Durza, aveva capìto, per quanto fosse umiliante, di aver vinto per un semplice colpo di fortuna. Se mai dovessi affrontare un altro Spettro, o i Ra'zac, o Galbatorix, dovrò essere più forte per assicurarmi la vittoria. Brom avrebbe potuto insegnarmi di più, lo so. Ma senza di lui, non ho che un'unica scelta: gli elfi.


Il respiro di Saphira accelerò, e la dragonessa aprì gli occhi con un immane sbadiglio. Buongiorno, piccolo mio. È buono davvero? Eragon abbassò lo sguardo e strinse con forza il bordo del materasso. È terribile... Murtagh e Ajihad... Perché le sentinelle nei tunnel non ci hanno avvertiti degli altri Urgali? Quei mostri non possono aver seguito il gruppo di Ajihad senza farsi notare... Arya aveva ragione, non ha senso.


Potremmo non conoscere mai la verità, disse Saphira in tono sommesso. Si alzò, e le ali sfiorarono il soffitto. Devi mangiare qualcosa, poi andremo a scoprire cos'hanno in mente i Varden. Non c'è tempo da perdere. Potrebbero scegliere un nuovo capo nel giro di poche ore.


Eragon assentì, ripensando alla scena che aveva lasciato la sera prima: Orik che correva da re Rothgar per annunciargli la triste novella, Jòrmundur che scortava il corpo di Ajihad dove avrebbe riposato fino alle esequie, e Arya che restava da sola a osservare quanto le accadeva intorno.


Eragon si alzò e prese sia Zar'roc che l'arco, poi si chinò a raccogliere la sella di Saphira. Una fitta lancinante gli percorse la spina dorsale; crollò a terra in preda alle convulsioni, con le braccia che annaspavano cercando di toccare la schiena. Era come se lo stessero segando in due. Saphira ringhiò quando fu raggiunta dalla sensazione straziante. Cercò di alleviare il dolore del giovane con la propria mente, ma senza esito. L'istinto la portò a sollevare di scatto la coda, come pronta a combattere.


L'attacco durò alcuni minuti per poi ridursi a una serie di spasmi sempre più lievi, lasciando Eragon boccheggiante. Aveva il volto madido di sudore, i capelli incollati alla testa e gli occhi che gli bruciavano. Piegò indietro il braccio e cercò a tastoni la parte superiore della cicatrice. Era bollente, infiammata e sensibile al tatto. Saphira abbassò il muso e gli sfiorò il braccio. Oh, piccolo mio...


È stata la crisi peggiore, disse lui, rialzandosi a fatica. La dragonessa lasciò che Eragon si appoggiasse a lei, mentre si asciugava il sudore con un telo per poi avviarsi barcollante alla porta.


Ti senti abbastanza in forze per andare?


Dobbiamo. È nostro obbligo, in quanto drago e Cavaliere, rendere una dichiarazione pubblica in merito alla scelta del prossimo capo dei Varden, e forse addirittura influenzarla. Non posso ignorare l'importanza della nostra posizione; ormai esercitiamo una grande autorità sui Varden. Se non altro, non ci sono i Gemelli a rivendicare la stessa posizione. È l'unica nota positiva in questa tragedia.


D'accordo, allora, ma Durza si meriterebbe mille anni di tormenti per ciò che ti ha fatto.


Eragon borbottò un assenso. Ma tu stammi vicina.


Insieme si avviarono nel dedalo di corridoi di Tronjheim, diretti alla cucina più vicina. La gente si fermava e s'inchinava al loro passaggio, mormorando "Argetlam" o "Ammazzaspettri". Perfino i nani accennavano il gesto, anche se non così spesso. Eragon rimase colpito dalle espressioni tetre e malinconiche degli umani, e dagli abiti scuri che indossavano in segno di lutto. Molte donne erano vestite di nero da capo a piedi, con veli di merletto drappeggiati sul viso. In cucina, Eragon prese un piatto di pietra colmo di cibo e si sedette a un tavolino basso. Saphira lo osservava con attenzione, nel caso gli venisse un'altra crisi. Molte persone provarono ad avvicinarsi, ma lei le tenne a distanza sollevando un labbro e ringhiando piano, chiaro monito a non fare un altro passo. Eragon fingeva di ignorare gli intrusi e piluccava il cibo. Alla fine, nel tentativo di distogliere la mente da Murtagh, chiese: Chi credi abbia i mezzi per controllare i Varden, ora che Ajihad e i Gemelli sono morti?


Saphira esitò. È possibile che sia tu, se le ultime parole di Ajihad devono essere interpretate come una benedizione a garanzia della successione. Non credo che qualcuno oserebbe opporsi. Tuttavia, non mi pare la giusta via da percorrere. Prevedo soltanto guai da quella parte.


Sono d'accordo. Tanto più che Arya non approverebbe, e potrebbe addirittura rivelarsi un pericoloso nemico. Gli elfi non possono mentire nell'antica lingua, ma non hanno scrupoli a farlo nella nostra... Arriverebbe perfino a negare che Ajihad abbia mai pronunciato quelle parole, se dovesse servire ai suoi scopi. No, non voglio quell'incarico... Che ne dici di Jormundur?


Ajihad lo chiamava il suo braccio destro. Purtroppo non sappiamo molto di lui o degli altri capi dei Varden. È passato troppo poco tempo da quando siamo arrivati qui. Dovremo esprìmere il nostro parere basandoci sulle nostre sensazioni e impressioni, senza il beneficio della storia.


Eragon spappolò tra le dita un grumo di crema di tubero. Non dimenticare Rothgar e i clan dei nani; non se ne staranno in disparte. Salvo Arya, gli elfi non potranno interferire nella successione... sarà presa una decisione prima che una sola parola di tutto questo li raggiunga. Ma non si possono ignorare i nani. Rothgar appoggia i Varden, ma se incontra l'opposizione di un numero sufficiente di clan, potrebbe essere indotto a sostenere qualcuno inadeguato al comando. E chi potrebbe essere?


Una persona facilmente manovrabile. Eragon chiuse gli occhi e appoggiò la schiena al muro. Potrebbe essere chiunque nel Farthen Dùr. Chiunque.


Per lunghi minuti rimasero in silenzio a riflettere su quanto li aspettava. Poi Saphira disse: Eragon, c'è qualcuno che vuole vederti. Non riesco a mandarlo via.


Eh? Eragon socchiuse piano gli occhi, per abituarli alla luce. Davanti al tavolo c'era un ragazzino pallido, che scrutava di continuo Saphira come se temesse di essere divorato da un momento all'altro.


«Cosa c'è?» chiese Eragon, brusco ma non scortese.


Il ragazzino trasalì, avvampò e s'inchinò con deferenza. «Sei stato convocato, Argetlam, al cospetto del Consiglio degli Anziani.»


«Chi sono?»


La domanda confuse ancor di più il ragazzo. «Il... il Consiglio è... sono... persone che noi... voglio dire i Varden... abbiamo scelto per parlare in nostra vece davanti ad Ajihad. Erano i suoi fidati consiglieri, e adesso desiderano vederti. È un grande onore!» concluse con un fugace sorriso. «Sarai tu a condurmi da loro?»

«Sì, io.»


Saphira scoccò a Eragon un'occhiata interrogativa. facendo cenno al ragazzo di mostrargli la strada. Mentre camminavano, il ragazzo s'illuminò nell'ammirare Zar'roc, poi abbassò gli occhi, intimidito.


«Come ti chiami?» gli chiese Eragon.


«Jarsha, signore.»


«È un bel nome. Sei stato bravo a riferire il messaggio; dovresti sentirti orgoglioso.» Jarsha sorrise raggiante e affrettò il passo.


Giunsero davanti a una porta convessa di pietra, che Jarsha aprì con una spinta. La sala all'interno era circolare, con un soffitto a volta color del cielo, decorato di costellazioni. Al centro c'era una tavola rotonda di marmo, intarsiata con lo stemma del Dùrgrimst Ingietum: un martello circondato da dodici stelle. Erano presenti Jòrmundur e altri due uomini, uno alto e magro, l'altro basso e tarchiato; una donna con le labbra strette, gli occhi ravvicinati, e le guance colorate da fitti disegni; e una seconda donna con una criniera di capelli grigi che incorniciavano un florido volto dall'aria materna, smentita dall'elsa di un pugnale che spuntava dalle prospere colline del corsetto.


«Puoi andare» disse Jòrmundur a Jarsha, che abbozzò un veloce inchino e si dileguò.


Consapevole di essere al centro dell'attenzione, Eragon esaminò la sala, poi prese posto in mezzo a una serie di scranni vuoti, costringendo i membri del consiglio a voltarsi per continuare a guardarlo. Saphira si accucciò alle sue spalle; Eragon ne sentiva l'alito caldo sulla testa.


Jòrmundur accennò appena ad alzarsi per abbozzare un inchino, e si risedette. «Grazie di essere venuto, Eragon, benché anche tu abbia sofferto un grave lutto. Ti presento Umérth» l'uomo alto, «Falberd» l'uomo tarchiato, «e Sabra ed Elessari» le due donne.


Eragon chinò la testa, poi domandò: «Anche i Gemelli facevano parte di questo consiglio?»


Sabra scosse il capo con foga, tamburellando sul marmo con un'unghia affilata. «Quegli individui non avevano nulla a che fare con noi. Erano vermi... vermi della peggior specie... sanguisughe che agivano soltanto per i propri interessi. Non avevano alcuna intenzione di servire i Varden, e quindi non c'era posto per loro in questo consiglio.» Pur essendoci una grande distanza fra loro, Eragon riusciva a sentire il suo profumo, pungente e viscido, come quello di un fiore in putrefazione. Represse un sorriso al pensiero.


«Basta. Non siamo qui per parlare dei Gemelli» disse Jòrmundur. «Ci troviamo ad affrontare una crisi che occorre superare in fretta, e con la massima efficienza. Se non scegliamo noi il successore di Ajihad, ci penserà qualcun altro. Rothgar ci ha già espresso le sue condoglianze, ma nonostante i suoi modi più che garbati, sono sicuro che sta già elaborando una sua strategia. Dobbiamo inoltre considerare il Du Vrangr Gata, gli stregoni del Tortuoso Cammino. La maggior parte di loro sono leali ai Varden, ma è difficile prevedere le loro mosse persino quando la situazione è tranquilla. Potrebbero decidere di opporsi alla nostra autorità al fine di perseguire i loro obiettivi. Ecco perché ci serve il tuo appoggio, Eragon: per garantire la legittimità a chiunque sia destinato a prendere il posto di Ajihad.» Falberd issò la sua mole dalla sedia, piantando le mani carnose sul marmo. «Noi cinque abbiamo già deciso chi sostenere. Fra di noi, nessuno dubita di chi sia la persona giusta. Ma» aggiunse, sollevando il grasso indice, «prima di rivelarti il suo nome, vogliamo la tua parola d'onore che non una virgola della nostra discussione uscirà da questa sala, che tu sia d'accordo con noi oppure no.»


Perché vogliono questo da me? domandò Eragon a Saphira.


Non lo so, rispose lei sbuffando. Potrebbe essere una trappola. ..È un rischio che devi correre. Ricorda, però, che a me non hanno chiesto alcun impegno. Potrò sempre riferire ad Arya quanto diranno, se necessario. Sciocco da parte loro, dimenticare che sono intelligente quanto un essere umano.


Confortato da quel pensiero, Eragon disse: «D'accordo, avete la mia parola. E dunque, chi volete che comandi i Varden?»


«Nasuada.»


Colto alla sprovvista, Eragon abbassò lo sguardo per riflettere alla svelta. Non aveva preso in considerazione Nasuada per la successione, a causa della sua giovane età: era di appena qualche anno più grande di lui. Non esisteva alcun motivo concreto, ovviamente, perché non fosse lei ad assumere l'incarico, ma quali recondite ragioni erano celate dietro la scelta del Consiglio degli Anziani? In che modo ne avrebbero tratto vantaggio? Rammentò i consigli di Brom e cercò di esaminare la situazione da ogni angolatura possibile, sapendo che doveva decidere in fretta.


Nasuada ha i nervi d'acciaio, osservò Saphira. Potrebbe essere come suo padre.


Forse, ma quali sono le ragioni dietro questa scelta?


Per guadagnare tempo, Eragon domandò: «Perché non tu, Jòrmundur? Ajihad ti considerava il suo braccio destro. Non dovresti essere tu a prendere il suo posto ora che è morto?»


Un fremito d'inquietudine pervase il consiglio: Sabra raddrizzò la schiena, le mani intrecciate avanti a sé; Umérth e Falberd si scambiarono sguardi cupi, mentre Elessari si limitò a sorridere, l'elsa del pugnale che scintillava nel solco dei seni.


«Perché» rispose Jòrmundur, scegliendo le parole con cura «Ajihad si riferiva alle questioni militari, nient'altro. Inoltre, Lui si strinse nelle spalle e lasciò il piatto pressoché intatto, sono membro di questo consiglio, che ha potere solo perché ci sosteniamo l'un l'altro. Sarebbe stupido e avventato da parte di uno qualsiasi di noi elevarsi al di sopra degli altri.» Il consiglio si acquietò al termine del breve discorso, ed Elessari battè il palmo sul braccio di Jòrmundur.


Hai esclamò Saphira. Probàbilmente avrebbe già rivendicato la posizione, se avesse trovato il modo di farsi sostenere dagli altri. Guarda come lo fissano. Sembra un lupo in mezzo a loro.


Un lupo in mezzo a un branco di sciacalli, direi.


«Nasuada possiede sufficiente esperienza?» indagò Eragon.


Elessari protese le sue forme sul tavolo. «Ero qui già da sette anni quando Ajihad si unì ai Varden. Ho visto crescere Nasuada e trasformarsi da bambina vivace nella donna che è ora. Forse un po' impulsiva in certe occasioni, ma perfetta per guidare i Varden. Il popolo l'amerà. E io» dichiarò, battendosi orgogliosamente il petto «e i miei amici saremo qui per guidarla in questi tempi difficili. Non resterà mai senza qualcuno che le indichi la via. L'inesperienza non sarà un ostacolo al ruolo che le compete!»


Eragon afferrò al volo. Vogliono una marionetta!


«Le esequie di Ajihad si terranno fra due giorni» intervenne Umérth. «Subito dopo, abbiamo in programma di designare Nasuada come nostro nuovo capo. Dobbiamo ancora chiederglielo, ma siamo sicuri che accetterà. Vogliamo che tu sia presente alla nomina, perché in tal caso nessuno, nemmeno Rothgar, potrà lamentarsi della designazione. E vogliamo un tuo giuramento di fedeltà ai Varden. Questo servirà a restituire al popolo la fiducia che ha smarrito con la morte di Ajihad, e impedirà qualsiasi tentativo di disgregare questa organizzazione.»


Fedeltà!


Saphira sfiorò la mente di Eragon. Nota bene, non vogliono che giurì fedeltà a Nasuada... solo ai Varden. Già, e vogliono essere loro a designare ufficialmente Nasuada, per ribadire la supremazia del consiglio. Avrebbero potuto chiedere ad Arya o a noi di farlo, ma questo significherebbe riconoscere la superiorità del designatore su tutti i Varden. In questo modo, invece, rafforzano la loro autorità su Nasuada e ottengono il controllo su di noi attraverso il giuramento di fedeltà, con il vantaggio supplementare di avere un Cavaliere che sostiene Nasuada in pubblico. «Che succede» domandò «se decido di non accettare la vostra proposta?»


«Proposta?» replicò Falberd, perplesso. «Be'... niente, è naturale. Solo che sarebbe una terribile negligenza se tu non presenziassi alla nomina di Nasuada. Se l'eroe del Farthen Dùr la ignorasse, cosa potrebbe pensare lei se non che un Cavaliere la disprezza e trova i Varden indegni da servire? Chi potrebbe sopportare una simile onta?» Il messaggio non avrebbe potuto essere più esplicito.


Eragon strinse il pomo di Zar'roc sotto il tavolo, reprimendo l'impulso di gridare che non era necessario che lo costringessero a sostenere i Varden, che lo avrebbe fatto in ogni caso. Tuttavia in quel momento provò il desiderio di ribellarsi, di sottrarsi al giogo che stavano cercando di imporgli. «Poiché avete una così alta considerazione dei Cavalieri, potrei decidere che i miei sforzi sarebbero meglio spesi guidando i Varden io stesso.»


L'atmosfera nella sala si fece subito tesa. «Sarebbe una mossa poco saggia» dichiarò Sabra.


Eragon si arrovellò in cerca di un modo per sfuggire alla situazione. Con la morte di Ajihad, disse Saphira, temo che sarà difficile restare indipendenti dalle diverse fazioni come lui voleva. Non possiamo rischiare di inimicarci i Varden, e se questo consiglio è destinato a controllarli attraverso Nasuada, allora dobbiamo assecondarlo. Rammenta, le loro azioni scaturiscono dallo stesso spirito di conservazione che guida noi.


Ma cosa vorranno da noi quando saremo alla loro mercé? Rispetteranno il patto con gli elfi e ci manderanno a Ellesméra per l'addestramento, o comanderanno altrimenti? Jormundur mi pare un uomo d'onore, ma il resto del consiglio? Non saprèi dire.


Saphira gli sfiorò la cima dei capelli con la mascella. Acconsenti a presenziare alla cerimonia per la nomina di Nasuada; questo credo che ci tocchi. Quanto al giuramento di fedeltà, cerca di capire se puoi evitarlo. Magari succederà qualcosa, da qui ad allora, che possa ribaltare la nostra posizione... Arya potrebbe avere una soluzione. Senza preavviso, Eragon annuì e disse: «Come desiderate. Sarò presente alla designazione di Nasuada.» Jormundur parve sollevato. «Bene, molto bene. Ci resta soltanto un'ultima questione prima che tu vada via: il consenso di Nasuada. Non c'è ragione di attardarsi, ora che siamo tutti qui. Manderò subito a chiamarla. E anche Arya... ci serve l'approvazione degli elfi prima di rendere pubblica questa decisione. Non dovrebbe essere difficile da ottenere: Arya non può mettersi contro il consiglio e contro di te, Eragon. Dovrà accettare il nostro giudizio.»


«Un momento» intervenne Elessari, con un luccichio metallico nello sguardo. «La tua parola, Cavaliere. Giurerai fedeltà durante la cerimonia?» «Certo, devi giurare» necessaria.»


Ma che abile maniera per capovolgere la situazione!


Almeno ci hai provato, commentò Saphira. Temo che a questo punto tu non abbia scelta.


Non oserebbero farci del male se rifiutassi.


No, ma potrebbero ostacolarci. Non è per me che ti dico di accettare, ma per te stesso. Esistono molti pericoli dai quali non sono in grado di proteggerti,


Eragon. Con Galbatorix contro di noi, ti servono alleati, non altri nemici. Non possiamo permetterci di combattere contro l'Impero e i Varden.


«Giurerò» proclamò Eragon alla fine. Tutto intorno al tavolo si manifestarono segni tangibili di sollievo: persino un malcelato sospiro di Umérth.


Hanno paura di noi


Com'e. giusto che sia! fu l'aspro commento di Saphira.


incalzò Falberd. «Sarebbe un disonore per i Varden non poterti fornire ogni protezione Jòrmundur chiamò Jarsha e, dopo un breve scambio di frasi, lo spedì a cercare sia Nasuada che Arya. Nel frattempo, la conversazione languì e scivolò in un imbarazzato silenzio. Eragon ignorò il consiglio per concentrarsi sul modo di sciogliere il dilemma. Non gli venne in mente niente.


Quando la porta si aprì di nuovo, tutti si volsero con ansia. Per prima entrò Nasuada, a testa alta, lo sguardo fiero. Indossava un lungo abito nero ricamato, ancor più scuro della sua pelle, interrotto soltanto da una fascia purpurea che andava dalla spalla al fianco. Alle sue spalle c'era Arya, il passo lieve e delicato come quello di una gatta, e a seguire Jarsha, in rispettoso silenzio.


Congedato il fanciullo, Jòrmundur invitò Nasuada ad accomodarsi. Eragon si affrettò a fare lo stesso per Arya, ma lei ignorò la sedia offerta e rimase in piedi, a una certa distanza dalla tavola rotonda. Saphira, disse lui, raccontale cosa è successo. Ho la netta sensazione che il consiglio non le dirà che mi hanno costretto a giurare fedeltà ai Varden. «Arya» la salutò Jòrmundur con un cenno del capo, poi si concentrò su Nasuada. «Nasuada, figlia di Ajihad, il Consiglio degli Anziani desidera esprimerti formalmente le sue più sentite condoglianze per la perdita che tu, più di chiunque altro, hai subito...» Poi, abbassando la voce, aggiunse: «Sappi che ti siamo vicini con tutto il nostro personale affetto. Ciascuno di noi sa bene cosa significa avere un familiare ucciso dall'Impero.»


«Vi ringrazio» mormorò Nasuada, abbassando gli occhi a mandorla. Si sedette con aria timida e malinconica; emanava un senso di vulnerabilità che suscitò in Eragon un desiderio di protezione. Il suo atteggiamento era tragicamente diverso da quello della vivace giovane donna che era andata a far visita a lui e a Saphira nella roccaforte, prima della battaglia.


«Sebbene per te questo sia il tempo del cordoglio, c'è una decisione importante che ti aspetta. Questo consiglio non può guidare i Varden. E qualcuno deve prendere il posto di tuo padre dopo il funerale. Ti chiediamo di accettare l'incarico. In qualità di sua erede, ne hai tutti i diritti... i Varden si aspettano questo da te.»


Nasuada chinò il capo, con gli occhi lucidi. La sua voce tradì una grande emozione quando disse: «Non avrei mai pensato di essere chiamata a prendere il posto di mio padre ancora così giovane. Ma... se insistete che questo è il mio dovere... accetterò l'incarico.»

Verità fra amici

Il Consiglio degli Anziani irradiava un'aura di trionfo, soddisfatto che Nasuada avesse accondisceso ai loro piani. «Insistiamo» disse Jòrmundur, «per il tuo bene e per il bene dei Varden.» Gli altri anziani aggiunsero ulteriori espressioni di sostegno, che Nasuada accettò con tristi sorrisi. Sabra scoccò un'occhiata furente a Eragon quando lui non si unì al coro.


Durante tutta la conversazione, Eragon aveva tenuto d'occhio Arya in cerca di una reazione alle notizie fornitele da Saphira o all'annuncio del consiglio, ma nulla mutò la sua imperscrutabile espressione. Tuttavia Saphira gli disse: Arya desidera parlarci più tardi.


Prima che Eragon avesse il tempo di rispondere, Falberd si rivolse ad Arya. «Gli elfi troveranno la decisione di loro gradimento?»


Arya fissò Falberd finché l'uomo non vacillò sotto il suo sguardo penetrante, poi inarcò un sopracciglio. «Non posso parlare a nome della mia regina, ma personalmente non trovo nulla da obiettare. Nasuada ha la mia benedizione.» Come avrebbe potuto reagire altrimenti, sapendo quanto le abbiamo detto? pensò Eragon con amarezza. Ci hanno messi con le spalle al muro.


Il commento di Arya venne accolto dal consiglio con palese compiacimento. Nasuada la ringraziò, e chiese a Jòrmundur: «C'è qualcos'altro di cui dobbiamo discutere? Perché sono molto stanca.»


Jòrmundur scosse la testa. «Ci occuperemo noi dei preparativi. Ti prometto che non ti disturberemo fino ai funerali.» «Vi ringrazio ancora tutti. Ma adesso, volete lasciarmi, per cortesia? Ho bisogno di tempo per decidere come meglio onorare mio padre e servire i Varden. Mi avete dato molto su cui riflettere.» Nasuada distese le dita delicate sul nero tessuto del grembo.


Umérth aprì la bocca per protestare davanti a quell'improvviso congedo, ma Falberd gli fece cenno con la mano di tacere. «Ma certo, qualsiasi cosa ti dia sollievo. Se hai bisogno di aiuto, noi siamo pronti e desiderosi di servirti.» Indicando agli altri di seguirlo, passò davanti ad Arya per imboccare la porta.


«Eragon, te ne prego, resta.»


Sconcertato, il giovane tornò a sedersi, ignorando gli sguardi allarmati dei consiglieri. Falberd indugiò sulla soglia, colto da un'improvvisa riluttanza, poi lentamente s'incamminò. Arya fu l'ultima ad andarsene. Prima di chiudersi la porta alle spalle, guardò Eragon con occhi che esprimevano tutta l'ansia e il timore che prima aveva nascosto. Nasuada era seduta con le spalle parzialmente rivolte a Eragon e Saphira. «E così ci incontriamo ancora, Cavaliere. Non mi hai salutata. Ti ho offeso in qualche modo?»


«Assolutamente no, Nasuada. Ero riluttante a parlare per timore di suonare scortese o banale. La attuali circostanze non permettono dichiarazioni affrettate.» Non riusciva a liberarsi dall'ossessione che qualcuno spiasse la loro conversazione. Superando le barriere mentali, fece ricorso alla magia e intonò: «Atra nosu waise vardo fra eld hórnya... Ecco, ora possiamo parlare senza tema di essere uditi da uomo, nano o elfo.»


L'atteggiamento di Nasuada si addolcì. «Grazie, Eragon. Non sai che regalo mi hai fatto.» La sua voce risuonò più forte e risoluta di prima.


Saphira si mosse dietro la sedia di Eragon per avvicinarsi con cautela alla tavola rotonda e prendere posto davanti a Nasuada. Abbassò la grande testa finché un occhio di zaffiro non incontrò quelli neri di Nasuada. La dragonessa la fissò per un minuto intero, prima di sbuffare dolcemente e rialzarsi. Dille, comunicò Saphira, che soffro per lei e la sua perdita. E che la sua forza dovrà diventare quella dei Varden quando indosserà il mantello di Ajihad. Hanno bisogno di una solida guida.


Eragon ripetè le parole, aggiungendo di suo: «Ajihad era un grand'uomo... il suo nome verrà ricordato per sempre. C'è una cosa che devo dirti. Prima di morire, Ajihad mi ha incaricato, mi ha ordinato di impedire ai Varden di precipitare nel caos. Sono state le sue ultime parole. Anche Arya le ha udite.


«Volevo serbarle segrete per via delle implicazioni, ma tu hai il diritto di conoscerle. Non sono sicuro di cosa intendesse dire Ajihad, né riesco a comprendere cosa volesse esattamente, ma sono certo di questo: difenderò sempre i Varden con tutti i miei poteri. Voglio che tu lo sappia, e che capisca che non ho alcuna intenzione di usurpare il comando dei Varden.»


Nasuada rise appena. «Ma quel comando non sarà davvero mio, non è così?» Bandita ogni riserva, la giovane conservava soltanto un contegno dignitoso e un'espressione ferma. «So perché sei qui davanti a me e cosa il consiglio sta cercando di fare. Credi forse che nel corso degli anni in cui ho servito mio padre non abbiamo mai pensato a questa eventualità? Io mi aspettavo dal consiglio esattamente quello che ha fatto. E adesso tutto è pronto perché io prenda il comando dei Varden.»


«Quindi non permetterai che ti controllino?» fece Eragon, stupito.


«No. Continua a tenere segrete le istruzioni di Ajihad.


Sarebbe poco saggio divulgarle poiché il popolo potrebbe considerarlo un tentativo da parte tua di prendere il suo posto; sarebbe dannoso per la mia autorità e destabilizzante per i Varden. Ha detto ciò che pensava di dover dire per proteggere i Varden. Io avrei fatto lo stesso. L'opera di mio padre...» Esitò per un istante. «L'opera di mio padre non resterà incompiuta, dovesse costarmi la vita. Ed è questo che voglio che tu capisca, come Cavaliere. Tutti i progetti di Ajihad, le sue strategie, i suoi scopi, adesso sono miei. Non lo tradirò mostrandomi debole. L'Impero sarà sconfitto, Galbatorix sarà deposto, e un giusto governo sarà insediato.»


Pronunciata che ebbe l'ultima parola, una grossa lacrima le rotolò lungo la guancia. Eragon la guardava ammirato, consapevole della difficoltà della sua posizione e testimone di uno spessore di carattere che non le aveva riconosciuto in precedenza. «Cosa ne sarà di me, Nasuada? Cosa dovrei fare tra i Varden?»


Lei lo guardò dritto negli occhi. «Puoi fare ciò che vuoi. I membri del consiglio sono degli sciocchi se pensano di poterti controllare. Tu sei un eroe per i Varden e per i nani, e perfino gli elfi acclameranno la tua vittoria su Durza, quando lo sapranno. Se tu volessi opporti a me o al consiglio, saremmo costretti ad assecondarti, poiché il popolo ti sosterrebbe in massa. In questo preciso momento, tu sei la persona più potente fra i Varden. Ma se accetterai che sia io a comandare, proseguirò il cammino tracciato da Ajihad: andrai con Arya dagli elfi, dove verrai istruito, e poi tornerai dai Varden.»


Perché è tanto sincera con noi? si domandò Eragon. Se ha ragione, avremmo potuto rifiutarci di assecondare le richieste del consiglio?


Saphira impiegò qualche istante per rispondere. In entrambi i casi, ormai è troppo tardi. Hai già acconsentito, io credo che Nasuada sia sincera perché è il tuo incantesimo che glielo consente, e perché spera di conquistarsi la nostra lealtà. Eragon fu colto da un'idea improvvisa, ma prima di esprimerla fece un'altra domanda. Possiamo fidarci di lei? Terrà fede a quanto ha detto? È molto importante.


Sì, rispose Saphira convinta. Ha parlato col cuore.


A quel punto Eragon spiegò le sue intenzioni a Saphira, che accondiscese, poi estrasse Zar'roc e si avvicinò a Nasuada. Il volto della donna fu attraversato da un lampo di timore; il suo sguardo guizzò verso la porta; la sua mano s'infilò lesta in una piega del vestito per stringere qualcosa. Eragon si fermò dinnanzi a lei e s'inginocchiò, con Zar'roc adagiata sulle mani tese.


«Nasuada, Saphira e io siamo qui da poco. Ma in questo periodo abbiamo imparato a rispettare Ajihad e, adesso, anche te. Hai combattuto nel Farthen Dùr quando altri fuggivano, comprese le due donne del consiglio, e ci hai trattati con onestà, senza ricorrere a infidi raggiri. Per questo ti offro la mia spada... e la mia fedeltà come Cavaliere.» Eragon pronunciò il suo giuramento con assoluta determinazione, sapendo che non lo avrebbe mai fatto prima della battaglia. Ma assistere alla morte di così tanti uomini intorno a sé aveva cambiato il suo modo di vedere le cose. Resistere all'Impero non era più qualcosa che faceva per se stesso, ma per i Varden e per tutti i popoli ancora schiacciati dalla tirannia di Galbatorix. Non importava quanto ci sarebbe voluto; si sarebbe dedicato con ogni fibra del suo essere a quella missione. Per il momento, la cosa migliore che poteva fare era servire la causa dei Varden. Tuttavia lui e Saphira stavano correndo un terribile rischio a impegnarsi con Nasuada. Il consiglio non avrebbe potuto obiettare, poiché Eragon aveva promesso soltanto di giurare fedeltà, ma non a chi. D'altro canto, lui e Saphira non potevano avere la certezza che Nasuada sarebbe stata un buon capo. È meglio giurare fedeltà a uno stolido onesto che a un saggio menzognero, si disse Eragon.


Nasuada non nascose la sua sorpresa. Impugnò l'elsa di Zar'roc e la sollevò, ammirandone la lama cremisi, poi ne posò la punta sulla testa di Eragon. «Accetto con onore la tua fedeltà, Cavaliere, come tu accetti tutte le responsabilità derivanti dal tuo rango. Alzati come mio vassallo, e riprendi la tua spada.»


Eragon fece come gli era stato detto. «Ora che sei la mia signora, posso rivelarti che il consiglio mi ha fatto promettere di giurare fedeltà ai Varden, una volta che tu fossi stata designata. Questo è l'unico modo in cui Saphira e io possiamo raggirarli.»


Nasuada rise di cuore. «Ah, vedo che hai già imparato a giocare il nostro gioco. Bene. Come mio nuovo e unico vassallo, acconsenti a giurarmi di nuovo la tua fedeltà... questa volta in pubblico, quando il consiglio si aspetterà il tuo impegno?»


«Ma certo.»


«Bene, così il consiglio sarà servito come merita. Adesso potete andare. Mi occorre tempo per pianificare, e devo prepararmi per i funerali... Ricorda, Eragon, il legame che abbiamo appena stretto ci vincola in pari misura: io sono responsabile delle tue azioni così come tu hai il dovere di servirmi. Non disonorarmi.»


«Così sia per entrambi.»


Nasuada fece una breve pausa, poi lo guardò negli occhi e addolcì il tono. «Ti porgo le mie condoglianze, Eragon. Mi rendo conto che altri, oltre a me, hanno motivo di cordoglio. Io ho perso mio padre, mentre tu hai perso un amico. Mi piaceva molto Murtagh, e mi rattrista il fatto che sia morto... Ora ti saluto.»


Eragon annuì, e lasciò la sala con l'amaro in bocca. Una volta uscito nell'ampio e deserto corridòio di pietra grigia, si fermò, le mani sui fianchi, gettò indietro la testa ed esalò un lungo sospiro. La giornata era appena iniziata, e già si sentiva esausto per tutte le emozioni che aveva provato.


Saphira lo spronò con il muso e gli disse: Da questa parte. Senza altre spiegazioni, la dragonessa imboccò il tunnel a destra, con le unghie lucide che ticchettavano sul duro pavimento.


Eragon aggrottò la fronte, ma la seguì. Dove stiamo andando? Nessuna risposta. Saphira, allora? Lei si limitò a un guizzo di coda. Rassegnato all'attesa, Eragon mutò registro. Le cose cambiano così in fretta per noi. Non so mai cosa aspettarmi da un giorno all'altro... tranne che dolore e spargimento di sangue.


Non va così male, ribattè lei. Possiamo vantare una grande vittoria. Dovremmo celebrarla, non rammaricarcene. Scusa, ma non mi sento di condividere la tua euforia.


La dragonessa sbuffò seccata. Una sottile lingua di fuoco le scaturì dalle narici, scottando la spalla di Eragon. Il giovane fece un salto indietro con uno strillo di sorpresa, mordendosi le labbra per non lasciarsi andare a una sfilza di imprecazioni. Oops, disse Saphira, scuotendo la testa per dissipare il fumo.


Oops? Per poco non mi mandavi arrosto!


Non volevo. Continuo a dimenticare che il fuoco esce da solo se non sto attenta. Immagina che ogni volta che alzi la mano ti parta un fulmine. Sarebbe facile fare un movimento distratto e distruggere qualcosa senza volerlo. Hai ragione... Scusa se me la sono presa.


Le sue palpebre coriacee schioccarono quando gli fece l'occhiolino. Non fa niente. Il punto dove volevo arrivare è che nemmeno Nasuada può costringerti a fare qualcosa.


Ma le ho dato la mia parola di Cavaliere!


Può darsi, ma se dovessi infrangerla per salvarti, o per fare la cosa giusta, io non esiterei. È un fardello che so di poter sopportare. Poiché sono legata a te, il mio onore è insito nel tuo giuramento, ma come individuo non sono vincolata. Se necessario, potrei rapirti. In questo modo, qualunque atto di disobbedienza non sarebbe colpa tua. Non si arriverà mai a questo. Se fossimo costretti a ricorrere a simili trucchi, vorrebbe dire che Nasuada e i Varden hanno perso la loro integrità. Saphira si fermò. Erano giunti davanti all'arco intarsiato della biblioteca di Tronjheim. L'ampia sala silenziosa sembrava deserta, ma le file di alti scaffali intervallati da colonne potevano nascondere molte persone. Le lanterne spandevano una morbida luce sulle pareti tappezzate di pergamene, illuminando le nicchie destinate alla consultazione. Facendosi strada fra gli scaffali, Saphira lo condusse a una nicchia dov'era seduta Arya. Eragon si fermò a studiarla. Sembrava più agitata di quanto l'avesse mai vista, anche se lo manifestava soltanto con una lieve tensione nei movimenti. Al contrario di poco prima, portava la spada dalla squisita impugnatura a croce, una mano appoggiata sull'elsa.


Eragon si sedette dall'altra parte del tavolo di marmo. Saphira prese posto tra di loro, dove nessuno poteva sfuggire al suo sguardo. «Cos'hai fatto?» esclamò Arya con inattesa ostilità. «Che cosa vuoi dire?» Lei sollevò il mento. «Cos'hai promesso ai Varden? Cos'hai fatto?»


L'ultima frase raggiunse Eragon anche mentalmente, chiaro indice di quanto l'elfa fosse vicina a perdere il controllo. Provò una punta di timore. «Abbiamo fatto quel che dovevamo. Non conosco le usanze degli elfi, e se le nostre azioni ti hanno arrecato offesa, chiedo scusa. Non c'è motivo di essere arrabbiata.»


«Stupido! Non sai niente di me. Ho trascorso qui sette decenni in rappresentanza della mia regina, e per quindici anni ho portato l'uovo di Saphira avanti e indietro fra i Varden e gli elfi. Per tutto questo tempo mi sono battuta per assicurare ai Varden una guida forte e saggia, in grado di resistere a Galbatorix e rispettare i nostri desideri. Brom mi ha aiutata elaborando l'accordo che riguardava il nuovo Cavaliere... te. Ajihad si impegnò affinchè tu restassi indipendente, per non alterare l'equilibrio dei poteri. E ora ti vedo schierarti, volente o nolente, con il Consiglio degli Anziani che intende controllare Nasuada! Hai distrutto una vita di lavoro! Cos'hai fatto?»


Sgomento, Eragon si affrettò a spiegarle, in modo chiaro e conciso, il motivo per cui aveva accettato le richieste del consiglio e il modo in cui lui e Saphira avevano cercato di aggirarle.


Quando ebbe finito, Arya disse: «È così?»


«È così.» Settant'anni. Pur sapendo che la vita di un elfo era straordinariamente lunga, non aveva mai sospettato che lei fosse tanto vecchia, dato che aveva l'aspetto di una ventenne. L'unico indizio che tradiva la vetustà sul suo volto privo di rughe erano gli occhi smeraldini: profondi, saggi e, molto spesso, solenni.


Arya si appoggiò allo schienale, studiandolo a fondo. «La tua posizione non è quella che desideravo, ma è meglio di quanto sperassi. Sono stata scortese; Saphira... e tu... comprendete molto più cose di quanto pensassi. Gli elfi accetteranno il tuo compromesso, ma tu non dovrai mai dimenticare di esserci debitore per Saphira. Non esisterebbero Cavalieri senza i nostri sacrifici.»


«Il debito è impresso a fuoco nel mio sangue e nel mio


palmo» disse Eragon. Nel silenzio che seguì, il giovane si affannò a cercare un altro argomento, avido di prolungare la conversazione e magari di apprendere qualcosa di più sul suo conto. «Sei stata lontana per così tanto tempo... Ti manca Ellesméra? Oppure vivi da qualche altra parte?»


«Ellesméra era e sarà sempre la mia patria» rispose lei, con lo sguardo perso oltre le spalle di lui. «Non vivo nella mia casa natale da quando sono partita per unirmi ai Varden, quando le mura e le finestre sfoggiavano i primi boccioli di primavera. Le volte che sono tornata sono state soltanto fugaci passaggi, minuscoli brandelli di memoria, secondo i nostri criteri di misura.»


Eragon notò, ancora una volta, che l'elfa odorava di aghi di pino. Era un profumo evanescente eppure acuto, che gli acuiva i sensi e gli rinfrescava la mente. «Dev'essere difficile vivere fra tutti questi umani e nani, senza nessuno della tua specie.»


Lei inclinò la testa da un lato. «Parli degli umani come se tu non ne facessi parte.»


«Forse...» esitò lui, «forse sono qualcos'altro... un misto di due razze. Saphira vive dentro di me, così come io vivo in lei. Condividiamo sentimenti, sensazioni, pensieri, a tal punto che spesso siamo una sola mente, invece che due.» Saphira abbassò la testa per manifestare il suo accordo, rischiando di ribaltare il tavolo con il muso. «È come dovrebbe essere» osservò Arya. «Un patto più antico e potente di quanto tu possa immaginare vi unisce. Non potrai comprendere appieno cosa significa essere un Cavaliere finché non avrai completato il tuo addestramento. Ma per questo occorrerà aspettare fino alle esequie. Nel frattempo, che le stelle ti proteggano.»


Arya si alzò e si allontanò inghiottita dalle ombre della biblioteca. Eragon sbattè le palpebre. Sono io, oppure oggi hanno tutti i nervi a fior di pelle? Guarda Arya... un momento prima è su tutte le furie, un momento dopo mi da la sua benedizione!


Nessuno si sentirà a proprio agio finché le cose non torneranno alla normalità.


Se riesci a spiegarmi che cosa vuol dire normalità...

RORAN

Roran arrancava su per la collina. Sostò e socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole, sotto la frangia di capelli ispidi. Ancora cinque ore al tramonto. Non potrò restare a lungo. Con un sospiro, riprese il cammino lungo il filare di olmi, che svettavano da zolle d'erba incolta.


Era la sua prima visita alla fattoria da quando lui, Horst e altri sei uomini di Carvahall avevano raccolto le poche cose che si erano salvate dalla casa distrutta e dal fienile bruciato. Aveva lasciato passare ben cinque mesi prima di trovare la forza di tornare.


Raggiunta la cima del colle, Roran si fermò e incrociò le braccia. Davanti a lui giacevano le rovine della sua casa natale. Un angolo della casa restava in piedi, diroccato e annerito, ma il resto era disseminato sul terreno, già ricoperto da un folto tappeto di erbacce. Del fienile non restava più nulla. I pochi acri che ogni anno riuscivano a coltivare erano stati invasi da piante di tarassaco, senape selvatica e altre erbe infestanti. Qualche rapa o barbabietola era sopravvissuta, ma non altro. Poco oltre la fattoria, una folta cinta di alberi oscurava il fiume Anora.


Roran serrò i pugni, i muscoli della mascella contratti nello sforzo di reprimere il misto di rabbia e di angoscia che provava. Rimase immobile per lunghi minuti, rabbrividendo ogni volta che gli sovveniva un ricordo piacevole. Quel luogo rappresentava tutta la sua vita, e anche di più. Era il suo passato... e il suo futuro. Suo padre, Garrow, una volta gli aveva detto: "La terra è qualcosa di speciale. Abbi cura di lei, e lei si prenderà cura di te. Non ci sono molte altre cose che lo fanno." Roran aveva avuto intenzione di seguire alla lettera quel saggio consiglio, fino al momento in cui un breve messaggio di Baldor aveva sconvolto il suo mondo.


Lasciandosi sfuggire un gemito, si volse e scese lungo il pendio per tornare sulla strada maestra. L'angoscia di quel momento riecheggiava ancora dentro di lui: aver perso tutti coloro che amava era un evento sconvolgente da cui non si sarebbe mai ripreso e che aveva alterato ogni aspetto del suo comportamento e del suo modo di pensare. Si era visto costretto a riflettere molto più di quanto non fosse abituato a fare. Era come se fino ad allora avesse avuto la mente fasciata di bende; bende che gli erano state strappate via di colpo, dandogli modo di contemplare certe idee inimmaginabili solo qualche tempo prima. Come il fatto che forse non sarebbe mai diventato un agricoltore, o che la giustizia - tanto decantata nelle ballate e nelle leggende - aveva ben poco spazio nella realtà. A volte si sentiva talmente oppresso da questi pensieri da non riuscire quasi ad alzarsi dal letto la mattina, tanto erano penosi. Imboccata la strada maestra, si diresse a nord, percorrendo la Valle Palancar per tornare a Carvahall. Le montagne frastagliate che svettavano su entrambi i lati erano coperte di neve, malgrado il verde primaverile avesse già cominciato a insinuarsi nella valle durante le ultime settimane. Nel cielo, una solitària nube grigia avanzava verso i picchi. Roran si passò una mano sul mento, coperto da una barba sottile. Eragon è stato la causa di tutto questo - lui e la sua maledetta curiosità - quando ha raccolto quella pietra sulla Grande Dorsale. Gli ci erano volute settimane per arrivare a quella conclusione. Aveva ascoltato i racconti della gente.


Più e più volte aveva chiesto a Gertrude, la guaritrice del paese, di leggergli ad alta voce la lettera che Brom gli aveva lasciato. Non c'erano altre spiegazioni. Qualunque cosa fosse, dev'essere stata quella pietra ad attirare gli stranieri. Per questo riteneva Eragon responsabile della morte di Garrow, pur senza provare rancore; sapeva che Eragon non aveva agito con l'intenzione di fare del male. No, ciò che più lo faceva infuriare era il fatto che Eragon avesse lasciato Garrow senza sepoltura e che fosse fuggito dalla Valle Palancar, abbandonando le sue responsabilità per seguire un vecchio cantastorie in un viaggio assurdo. Come ha potuto avere così poco rispetto per coloro che lasciava? È fuggito perché si sentiva in colpa? Perché aveva paura? Brom lo ha convinto parlandogli di chissà quali fantastiche avventure? E perché Eragon gli ha prestato ascolto in un momento del genere?... Non sapeva nemmeno se Eragon era vivo o morto. Roran si accigliò e scrollò le spalle, cercando di schiarirsi la mente. La lettera di Brom... bah! Non aveva mai sentito una più sconclusionata sequela di insinuazioni e ammonimenti. L'unica cosa che risultava chiara era il consiglio di evitare gli stranieri, ma per quello bastava un po' di buon senso. Il vecchio era un pazzo, decise.


Con la coda dell'occhio colse un movimento, si volse e vide un branco di dodici cervi - tra cui un giovane maschio dalle corna vellutate - che trottava verso gli alberi. Annotò mentalmente il luogo per poterlo ritrovare l'indomani. Era fiero di saper cacciare abbastanza bene da contribuire al sostentamento della famiglia di Horst, di cui era ospite, anche se non era mai stato bravo quanto Eragon.


Mentre camminava, continuava a mettere ordine nei propri pensieri. Dopo la morte di Garrow, Roran aveva lasciato il suo lavoro al mulino di Dempton a Therinsford per tornare a Carvahall. Horst lo aveva accolto in casa propria e, nei mesi successivi, gli aveva procurato un lavoro nella fucina. Il dolore del lutto aveva ritardato le decisioni di Roran circa il suo futuro fino a due giorni prima, quando aveva stabilito una linea d'azione.


Voleva sposare Katrina, la figlia del macellaio. La ragione per cui all'inizio era andato a Therinsford era stata quella di guadagnare abbastanza da garantire un sereno inizio alla loro vita insieme. Ma adesso, senza più casa, senza più fattoria, e mezzi per sostenerla, Roran non poteva in tutta coscienza chiedere la mano di Katrina. Era il suo orgoglio a impedirglielo. E comunque non pensava che Sloan, il padre della ragazza, avrebbe mai accettato un pretendente dalle prospettive così misere. Anche nella più rosea delle ipotesi, Roran si era aspettato di dover faticare per convincere Sloan a concedergli Katrina: i due non erano mai stati in buoni rapporti. Ed era praticamente impossibile per Roran sposare Katrina senza il consenso del padre, se non volevano dividere la famiglia, provocare il villaggio sfidando le tradizioni e, con ogni probabilità, ingaggiare una faida sanguinosa con Sloan.


Tutto considerato, Roran riteneva che la sua unica opportunità era quella di rimettere in piedi la fattoria, avesse dovuto ricostruire la casa e il fienile lui stesso. Sarebbe stata un'impresa ardua, dovendo partire da zero, ma una volta consolidata la sua posizione, avrebbe potuto affrontare Sloan a testa alta. La prossima primavera potrò andargli a parlare, pensò Roran con un sorriso mesto.


Sapeva che Katrina avrebbe aspettato... almeno per qualche tempo.


Continuò di buon passo fino a sera, quando arrivò in vista del villaggio. Nella piccola cerchia di umili dimore, sventolavano i panni stesi ad asciugare da una finestra all'altra. Gli uomini tornavano a casa dai campi verdeggianti di grano. Sullo sfondo, le Cascate di Igualda, alte mezzo miglio, scintillavano al tramonto precipitando dalla Grande Dorsale nell'Anora. La visione confortò Roran con la sua normalità. Niente era più rassicurante di vedere che tutto era come doveva essere.


Lasciò la strada maestra e risalì il pendio in cima al quale si trovava la casa di Horst, affacciata sulla Grande Dorsale. La porta era già aperta. Roran entrò e seguì le voci che conversavano fino in cucina.


Al tavolo di legno grezzo, addossato a una parete della stanza, c'erano Horst, con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e sua moglie Elain, incinta di cinque mesi e sorridente; di fronte erano seduti Albriech e Baldor, i loro figli. Quando Roran entrò, Albriech stava dicendo: «... e non mi ero mosso dalla fucina! Thane giura di avermi visto, ma io ero dall'altra parte del villaggio.»


«Che succede?» domandò Roran, sfilandosi lo zaino dalle spalle.


Elain scambiò un'occhiata con Horst. «Ti porto qualcosa da mangiare» disse, e gli andò a prendere del pane e un piatto di manzo freddo. Poi lo guardò negli occhi, come in cerca di una particolare espressione. «Com'è andata?» Roran si strinse nelle spalle. «Tutto il legno è bruciato o marcito... non si può riutilizzare niente. Ma almeno il pozzo è rimasto intatto, qualcosa di cui dovrei rallegrarmi, suppongo. Dovrò tagliare legna per la casa il più presto possibile se voglio avere un tetto sulla testa per la stagione della semina. Ma ditemi. Cosa è successo?»


«Ha!» fece Horst. «Una disputa bell'e buona, ecco cosa. Thane dice che gli manca una falce e che pensa l'abbia presa Albriech.»


«Probabilmente l'ha lasciata nel campo e si è dimenticato dove» sbuffò Albriech.


«Già» convenne Horst sorridendo.


Roran addentò il pane. «Ma che senso ha accusarti? Se ti serviva una falce, ti bastava forgiarne una.» «Lo so» disse Albriech, appoggiandosi allo schienale, «ma invece di cercarla, ha cominciato a borbottare di aver visto qualcuno che si allontanava dal suo campo, qualcuno che mi somigliava... e siccome nessuno mi assomiglia, ha concluso che devo essere stato io.»


Era vero che nessuno gli assomigliava. Albriech aveva ereditato la corporatura massiccia del padre e i capelli biondo miele della madre, il che lo rendeva una rarità a Carvahall, dove il castano era il colore predominante. In contrasto, Baldor era più magro e aveva i capelli scuri.


«Sono sicuro che salterà fuori» disse Baldor con voce sommessa. «Nel frattempo, cerca di non prendertela troppo.» «È facile dirlo per te.»


Mentre Roran finiva il pane e attaccava il manzo, chiese a Horst: «Hai bisogno di me domani?»


«Non credo. Devo lavorare al carro di Quimby. Quel maledetto coso non ne vuol sapere di stare dritto.» Roran annuì compiaciuto. «Bene. Allora mi prendo la giornata per andare a caccia. Ho visto un piccolo branco di cervi giù nella valle, che mi sembrano abbastanza in carne. Almeno non gli si contavano le costole.»


Baldor s'illuminò di colpo. «Ti serve compagnia?»


«Certo. Partiamo all'alba.»


Terminata la cena, Roran si lavò il viso e le mani, e uscì per schiarirsi le idee. Sulla soglia si stiracchiò e poi si avviò verso il centro del paese.


A metà strada, un brusìo di voci eccitate davanti ai Sette Covoni attirò la sua attenzione. Si volse, incuriosito, e si diresse alla taverna, dove lo aspettava un insolito spettacolo. Seduto sotto il portico c'era un uomo di mezz'età che indossava un soprabito di pelli cucite. Accanto a lui c'era uno zaino festonato dalle ganasce d'acciaio delle tagliole da cacciatore. C'erano decine di persone del villaggio che ascoltavano mentre l'uomo gesticolava eccitato e diceva: «Così quando sono arrivato a Therinsford, sono andato da questo Neil, un brav'uomo. Lo aiuto nei campi in primavera e d'estate.»


Roran annuì. I cacciatori di pellicce trascorrevano l'inverno fra le montagne, tornando in primavera per vendere le pelli ai conciatori come Gedric e lavorare come braccianti per i contadini. Poiché Carvahall era il villaggio più a nord della Grande Dorsale, molti cacciatori vi passavano: una delle ragioni per cui Carvahall aveva una sua taverna, un fabbro e un conciatore.


«Dopo qualche boccale di birra - per lubrificarmi la lingua, sapete, visto che non spiccicavo parola da sei mesi, se non per mandare al diavolo il mondo e il resto dell'universo quando perdevo una preda - sono andato da Neil, con la barba ancora bagnata di schiuma, e abbiamo cominciato a scambiare quattro chiacchiere. Gli faccio qualche domanda innocente, tanto per dire, tipo che si dice dell'Impero e del re - che possa marcire - e se è nato o morto o è stato bandito qualcuno che dovrei sapere. E Neil che fa? Si sporge verso di me tutto serio e mi racconta che da Dras-Leona e da Gil'ead sono giunte voci di strani accadimenti in tutta Alagaésia. Gli Urgali sono praticamente scomparsi dai territori civilizzati, evviva, ma nessuno sa dire perché o che fine hanno fatto. I commerci dell'Impero languiscono in seguito a una serie di razzìe e attacchi, ma da quanto ho sentito non è opera di semplici briganti, perché gli attacchi sono troppo diffusi e organizzati. Non rubano niente, si limitano a bruciare e a distruggere. Ma non è tutto, oh no, non finisce qui, per i baffi di quella santa donna di vostra nonna!»


Il cacciatore scosse la testa e bevve un sorso dall'otre di vino che portava a tracolla prima di proseguire: «Si parla di uno Spettro che vaga per i territori del nord. È stato avvistato ai margini della Du Weldenvarden e nei pressi di Gil'ead. Dicono che abbia i denti aguzzi e gli occhi rossi come il vino, e i capelli cremisi come il sangue che beve. E quel che è peggio, pare che qualcosa abbia fatto infuriare quel pazzo del nostro buon monarca. Cinque giorni fa, un giocoliere proveniente dal sud ha fatto tappa a Therinsford durante il suo viaggio solitario verso Ceunon, e ha detto di aver visto che le truppe venivano radunate e spostate, anche se non sapeva perché.» Si strinse nelle spalle. «Come mi ha insegnato il mio vecchio fin da quando ero un poppante, non c'è fumo senza arrosto. Forse sono i Varden. Nel corso degli anni hanno dato non poche gatte da pelare al nostro vecchio Ossadiferro. O forse Galbatorix ha finalmente deciso che non intende più tollerare il Surda. Almeno sa dove si trova, al contrario dei ribelli. Schiaccerà il Surda come un orso schiaccia una formica, date retta a me.» Roran si accigliò, mentre intorno al dell'avvistamento di uno Spettro - suonava troppo come una panzana da boscaiolo ubriaco - ma il resto gli sembrava abbastanza brutto da essere vero. Il Surda... Ben poche informazioni su quel paese distante raggiungevano Carvahall, ma Roran se non altro sapeva che, pur essendoci una pace apparente fra il Surda e l'Impero, i surdani vivevano nella paura costante che il loro più potente vicino del nord li invadesse. Per questa ragione si diceva che Orrin, il loro re, sostenesse i Varden.


Se il cacciatore aveva ragione su Galbatorix, poteva significare soltanto una cosa: stava per scoppiare una guerra devastante, con tutte le terribili conseguenze del caso, come l'aumento delle tasse e la leva forzata. Quanto preferirei vivere in un'epoca priva di eventi importanti. Le guerre rendono le vite come la nostra, già difficili, praticamente impossibili.


«Per di più, si parla di...» E qui il cacciatore fece una pausa e, con un'espressione sapiente, si batte il naso con la punta dell'indice. «Di un nuovo Cavaliere in Alagaésia.» E scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi la pancia mentre si dondolava sul gradino del portico.


Anche Roran si mise a ridere. Ad anni alterni circolavano storie che parlavano dei Cavalieri. Le prime due o tre volte si era lasciato convincere, ma poi aveva imparato a non fidarsi di questi racconti, che non approdavano mai a nulla di concreto. Quelle storie non erano altro che l'espressione di un desiderio da parte di coloro che anelavano a un futuro migliore.


Stava per girare i tacchi quando notò Katrina in piedi all'angolo della taverna, vestita con una lunga tunica rossiccia ornata da un nastro verde. La ragazza ricambiò il suo sguardo con la stessa intensità. Roran si avvicinò, le sfiorò una spalla, e insieme si allontanarono dalla folla.


Camminarono fino ai margini di Carvahall, dove si fermarono a contemplare le stelle. Il cielo era terso quella sera, scintillante di una miriade di fuochi celesti, solcato da nord a sud dalla gloriosa fascia lattiginosa simile a polvere di diamanti.


Senza guardarlo, Katrina gli posò la testa su una spalla e gli chiese: «Com'è andata la giornata?» «Sono tornato a casa.» La sentì irrigidirsi contro il suo corpo.


«Come ti sei sentito?»


«Malissimo.» La sua voce s'incrinò e rimase in silenzio, abbracciandola stretta. La fragranza dei suoi capelli ramati sulla guancia era come un elisir distillato da vino, spezie ed essenze profumate. Gli penetrò nelle ossa, riempiendolo di un calore confortante. «La casa, il fienile, tutto distrutto... Non li avrei mai trovati, se non avessi saputo dove cercare.» Finalmente lei si volse a guardarlo, le stelle che si riflettevano nei suoi occhi, il volto adombrato dal dolore. «Oh, Roran.» Lo baciò, sfiorandogli le labbra per un breve istante. «Hai sopportato così tante pene, eppure la tua forza non ti ha mai abbandonato. Tornerai alla fattoria adesso?»


cacciatore esplodeva una babele di domande. Era propenso a dubitare «Sì. È tutto quello che ho.» «E che ne sarà di me?»

Lui esitò. Dal momento in cui aveva cominciato a corteggiarla, fra di loro si era stabilito il tacito accordo che si sarebbero sposati. Non c'era stato bisogno di dar voce alle proprie intenzioni; erano chiare come il sole, e perciò la domanda di lei lo turbò. Non gli sembrava opportuno introdurre l'argomento in maniera così schietta, quando non era ancora pronto a fare la proposta. La prima mossa spettava a lui - con una dichiarazione prima a Sloan e poi a Katrina - e non a lei. Ma adesso che la ragazza aveva espresso la sua apprensione, Roran si vide costretto a discuterne. «Katrina... non posso affrontare tuo padre come avevo progettato. Mi riderebbe in faccia, e non avrebbe tutti i torti. Dobbiamo pazientare. Soltanto quando avrò una casa dove poter vivere insieme e la terra mi avrà fruttato il primo raccolto, allora mi ascolterà.» Lei rivolse ancora lo sguardo al cielo, e mormorò qualcosa a voce talmente bassa che lui non riuscì a capire. «Cosa?»


«Ho detto, hai paura di lui?»


«Certo che no! Io...»


«Allora devi ottenere il suo consenso, domani, e annunciare il fidanzamento. Devi fargli capire che anche se adesso non hai niente, riuscirai a darmi una casa e sarai un genero di cui andare orgoglioso. Non c'è ragione di sprecare i nostri anni vivendo lontani, quando proviamo questi sentimenti.»


«Non posso» insistette lui, con una nota di disperazione, perché lei capisse. «Non posso provvedere a te, non...» «Ma non capisci?» esclamò lei angosciata, allontanandosi di qualche passo. «Io ti amo, Roran, e voglio sposarti, ma mio padre ha altri progetti per me. Ci sono altri uomini, di gran lunga preferibili dal suo punto di vista, e più a lungo tu aspetti, più lui mi sprona ad accettare un marito di suo gradimento. Teme che diventi una vecchia zitella, e anch'io ho paura. Non ho molto tempo, né scelta, qui a Carvahall... Se dovrò sposare un altro, lo farò.» Le lacrime scintillarono nei suoi occhi mentre lo scrutava ansiosa, in attesa di una risposta; poi raccolse l'orlo della veste e scappò verso casa. Roran rimase immobile, impietrito dal terrore. La sua assenza era dolorosa quando la perdita della fattoria: il mondo si era trasformato all'improvviso in una landa gelida e inospitale. Era come se gli avessero strappato un brano di carne. Trascorse lunghe ore a vagare smarrito prima di tornare a casa di Horst e infilarsi nel letto.

I CACCIATORI BRACCATI

Il terriccio scricchiolava sotto gli stivali di Roran mentre scendeva lungo la valle, fredda e grigia nelle prime ore del mattino. Baldor lo seguiva; entrambi avevano gli archi incordati. Nessuno dei due parlava mentre studiavano l'ambiente in cerca di tracce di cervi.


«Laggiù» sussurrò Baldor, indicando una serie di impronte che si dirigevano verso un cespuglio di rovi sulla sponda dell'Anora.


Roran annuì e cominciò a seguire la pista. Dato che gli sembrava vecchia di un giorno, si arrischiò a parlare. «Posso chiederti un consiglio, Baldor? Mi sembri uno che capisce le persone.»


«Naturale. Di che si tratta?»


Per diverso tempo, l'unico suono fu il rumore dei loro passi. «Sloan vuole maritare sua figlia Katrina, ma non con me. Ogni giorno che passa, aumentano le probabilità che combini un matrimonio di suo gradimento.» «Katrina cosa ne pensa?»


Roran scrollò le spalle. «Lui è suo padre. Non può continuare a sfidare la sua volontà quando la persona che lei desidera non si è ancora fatta avanti per chiederla in sposa.»


«Vale a dire tu.»


«Già.»


«Ecco perché ti sei alzato così presto.» Non era una domanda.


A dire il vero, Roran era stato così angosciato da non dormire affatto. Aveva trascorso la notte a pensare a Katrina, nel tentativo di trovare una soluzione allo spinoso problema. «Non posso tollerare di perderla. Ma non credo che Sloan ci darà la sua benedizione, vista la mia posizione e il resto.»


«No, non lo credo nemmeno io» disse Baldor, rivolgendo a Roran un fugace sguardo con la coda dell'occhio. «Ma a che proposito vuoi il mio consiglio?»


Roran si lasciò sfuggire una risatina amara. «Come faccio a convincere Sloan? Come posso risolvere la questione senza scatenare una faida sanguinosa?» Alzò le braccia al cielo. «Cosa devo fare?»


«Non hai nessunissima idea?»


«Una ce l'avrei, ma non mi piace molto. Ho pensato che Katrina e io potremmo annunciare il nostro fidanzamento... non che sia vero... e aspettare le conseguenze. Questo costringerebbe Sloan ad accettare la nostra promessa di matrimonio.» La fronte di Baldor si corrugò. «Forse» commentò pensoso, «ma potrebbe anche suscitare malanimo in tutta Carvahall. Pochi approverebbero il vostro gesto. E non sarebbe giusto costringere Katrina a scegliere fra te e la sua famiglia. Potrebbe rinfacciartelo per anni.»


«Lo so, ma che alternative mi restano?»


«Prima di compiere un passo così drastico, fossi in te cercherei di guadagnarmi la stima di Sloan. In fin dei conti, potresti riuscirci, specie se gli fai capire che nessuno vorrebbe sposare una Katrina infuriata. Tantopiù se tu le restassi attorno, ridicolizzando il marito.» Roran fece una smorfia e abbassò lo sguardo a terra. Baldor ridacchiò. «Se fallisci, be', allora potrai procedere tranquillo, sapendo che hai già battuto tutte le altre strade. E la gente sarà meno propensa a darvi addosso per aver infranto le tradizioni, e diranno che è stato Sloan con la sua testardaggine ad attirarsi la sventura.»


«Non è facile.»


«Lo sapevi fin dal principio.» Baldor tornò serio. «Senza dubbio voleranno parole grosse se sfiderai Sloan, ma alla fine le cose si sistemeranno... se non in maniera perfetta, almeno tollerabile. A parte Sloan, le uniche persone che avranno da ridire saranno i bacchettoni come Quimby, anche se proprio non riesco a capire come Quimby possa distillare una birra tanto buona, quando lui è così acido e amaro.»


Roran annuì. I rancori potevano covare per anni a Carvahall. «Sono contento che abbiamo parlato. È stato...» S'interruppe, ripensando alle conversazioni che lui ed Eragon avevano un tempo. Erano stati, come aveva detto Eragon una volta, fratelli in tutto, tranne che nel sangue. Era stato confortante sapere che esisteva qualcuno disposto ad ascoltarlo, a prescindere dal tempo e dalle circostanze. E sapere che quella persona lo avrebbe sempre aiutato, a tutti i costi.


La mancanza di quel legame aveva lasciato un gran vuoto in Roran.


Baldor non lo incitò a terminare la frase, ma si fermò a bere dal suo otre di pelle. Roran continuò per qualche passo, poi si fermò fiutando un odore che s'insinuò nei suoi pensieri.


Era l'aroma pungente di carne arrostita e rami di pino bruciati. Chi c'è qui oltre a noi? Annusando l'aria, girò in circolo per stabilire la provenienza dell'odore. Un debole refolo di vento risalì dalla strada sottostante, carico di un odore caldo e fumoso. L'aroma del cibo era così forte da fargli venire l'acquolina in bocca.


Fece cenno a Baldor di avvicinarsi. «Lo senti?»


Baldor rispose di sì con un cenno della testa. Insieme tornarono sulla strada e si diressero a sud. A un centinaio di piedi di distanza, la strada spariva dietro una curva orlata da un boschetto di pioppi. Si avvicinarono cauti e sentirono delle voci che giungevano attenuate dalla densa cappa di nebbia mattutina sulla valle.


Ai margini del boschetto, Roran rallentò e si fermò. Era sciocco cogliere di sorpresa un gruppo di persone che con ogni probabilità erano a caccia come loro, ma c'era qualcosa che non gli tornava. Forse era il numero di voci: il gruppo sembrava più grande di qualsiasi famiglia della valle. Senza riflettere troppo, abbandonò la strada e scivolò dietro i cespugli che delimitavano il boschetto.


«Che fai?» mormorò Baldor.


Roran si portò l'indice alle labbra, poi strisciò parallelo alla strada, attento a fare meno rumore possibile. Nell'aggirare la curva, si sentì ghiacciare il sangue nelle vene.


Sul prato che costeggiava la strada erano accampati dei soldati. Trenta elmi scintillavano sotto i raggi del primo mattino, mentre i loro proprietari divoravano pollame e cacciagione arrostiti su diversi falò sparsi. Gli uomini erano sporchi di fango e fradici di sudore, ma l'emblema di Galbatorix era ancora ben visibile sulle tuniche rosse, una fiamma guizzante bordata d'oro. Sotto le tuniche, indossavano brigantine - casacche di pelle rinforzate da lamelle di acciaio -, cotte di maglia e giubbe imbottite. La maggior parte dei soldati erano armati di spadoni, anche se una mezza dozzina erano arcieri e un'altra mezza dozzina portavano alabarde dall'aria minacciosa.


Accovacciate nel mezzo c'erano due nere figure gibbose che Roran riconobbe dalle numerose descrizioni che i paesani gli avevano fornito al suo ritorno da Therinsford: gli stranieri che avevano distrutto la sua fattoria. Si sentì mancare il fiato. Sono servi dell'Impero! Si preparò ad attaccare, le dita già strette intorno a una freccia, quando Baldor lo afferrò per la giacchetta e lo tirò indietro.


«Fermo. Così ci fai ammazzare.»


Roran gli rivolse uno sguardo furente, poi ringhiò: «Sono... sono quei bastardi...» S'interruppe, notando quanto gli tremavano le mani. «Sono tornati!»


«Roran» sussurrò Baldor, risoluto, «non puoi fare niente. Guarda, sono al servizio del re. Anche se riuscissi a fuggire, diventeresti un fuorilegge e attireresti la sventura su Carvahall.»


«Ma cosa vogliono? Cosa possono volere?» Il re. Come ha potuto Galbatorix permettere che torturassero mio padre? «Se non hanno ottenuto quel che volevano da Garrow, ed Eragon è fuggito con Brom, allora sono tornati per te.» Baldor fece una pausa, per consentire alle sue parole di colpire nel segno. «Dobbiamo tornare indietro e avvertire tutti. Poi ti dovrai nascondere. Gli stranieri hanno


i cavalli.


Ma possiamo arrivare per primi, se ci mettiamo a correre.»


Attraverso il fogliame del sottobosco, Roran osservò i soldati


ignari. Il suo cuore cominciò a battere selvaggiamente, assetato di vendetta, bramoso di attaccare e combattere, di vedere quei due portatori di morte trafitti dalle sue frecce e ripagati con la loro stessa moneta. Non gl'importava di morire, purché il suo dolore venisse cancellato in un unico istante di cieca ferocia. Non doveva far altro che uscire allo scoperto. Il resto sarebbe venuto da sé.


Ancora un piccolo passo.


Con un singhiozzo strozzato, serrò i pugni e abbassò lo sguardo. Non posso abbandonare Katrina. Rimase immobile, gli occhi chiusi con forza, poi indietreggiò lentamente. «A casa, dunque.»


Senza aspettare la reazione di Baldor, Roran tornò lesto fra gli alberi, attento a non fare rumore, e quando l'accampamento fu abbastanza lontano, uscì sulla strada e cominciò a correre a perdifiato, riversando nelle gambe ogni oncia della sua frustrazione, della sua rabbia e della sua paura.


Baldor lo imitò, guadagnando terreno sul rettilineo. Roran rallentò per farsi raggiungere, e disse: «Tu avverti gli altri. Io vado a parlare con Horst.» Baldor annuì e ripresero a correre.


Dopo due miglia, si fermarono a dissetarsi e a riprendere fiato. Quando ebbero smesso di ansimare, proseguirono per le basse colline che precedevano Carvahall. Persero tempo con tutte quelle salite e discese, ma finalmente giunsero in vista del villaggio.


Roran prese la via della fucina, mentre Baldor si diresse al centro del paese. Correndo davanti alle case, Roran cercava di escogitare un metodo per evitare gli stranieri o per ucciderli senza incorrere nelle ire dell'Impero. Piombò nella fucina mentre Horst stava conficcando una zeppa nel fianco del carro di Quimby, cantando: ... ehi ho!


Ringhia e freme irritato come un gatto il vecchio ferro! Il buon vecchio ferro. Batti e ribatti sgobbando come un matto, ho conquistato il buon vecchio ferro!


Horst si fermò con il maglio a mezz'aria nel vedere Roran. «Cosa succede? Baldor è ferito?»


Roran scosse la testa, piegato in due per riprendere fiato. Con brevi frasi smozzicate, riferì tutto quello che avevano visto e le possibili implicazioni, dato che con ogni evidenza gli stranieri erano agenti dell'Impero. Horst si accarezzò la barba. «Devi lasciare Carvahall. Torna a casa a fare provviste e prenditi la mia giumenta, Ivor la sta usando per dissodare il campo. Poi nasconditi sulle colline. Non appena sapremo cosa vogliono i soldati, ti manderò notizie tramite Albriech o Baldor.»


«Cosa direte se chiedono di me?»


«Che sei andato a caccia e che non sappiamo quando tornerai. In fin dei conti, non è troppo lontano dalla verità, e dubito che si arrischieranno a brancolare nei boschi per timore di perderti. Sempre ammesso che stiano cercando te.» Roran annuì, poi girò sui tacchi e corse a casa di Horst. Staccò i finimenti e le bisacce della giumenta da una parete, avvolse in una coperta alcune rape, barbabietole, carne essiccata e una pagnotta, afferrò una padella di stagno e schizzò via, fermandosi giusto il tempo di dare qualche spiegazione a Elain.


Le provviste gli davano impaccio mentre si allontanava da Carvahall verso est, dove si trovava la fattoria di Ivor. Il contadino era alle spalle della casa colonica; spronava con una fronda di salice la cavalla che si affannava per strappare le radici di un olmo dal terreno.


«Forza!» gridò il contadino. «Tira!» La cavalla rabbrividì per lo sforzo, schiumando intorno al morso, poi con un strattone finale capovolse il ceppo, che rimase con le radici puntate al cielo come una mano dalle dita adunche. Ivor la fermò con uno schiocco di redini e le batte la mano su un fianco ansimante. «Brava...


Ce l'hai fatta.»


Roran lo salutò da lontano, poi si avvicinò indicando la bestia. «Devo prenderla» disse, spiegando i motivi. Ivor imprecò e cominciò a staccare le briglie, borbottando: «Sempre la stessa storia: inizi un lavoro, e subito qualcuno arriva a interroperti. Mai che accada prima che incominci.» Incrociò le braccia e guardò accigliato Roran che sellava la giumenta.


Quando fu pronto, Roran montò in groppa alla cavalla, arco in pugno. «Mi rincresce per il disturbo, ma non c'era altro modo.»


«Be', non preoccuparti. Fai solo in modo di non farti catturare.»


«Te lo prometto.»


Mentre piantava i talloni nei fianchi della cavalla, Roran sentì Ivor che esclamava: «E non metterti nei guai!» Roran sorrise e scrollò la testa, chinandosi sul collo della giumenta. Ben presto raggiunse le colline ai piedi della Grande Dorsale e cominciò a risalire verso le montagne che delimitavano l'estremità settentrionale della Valle Palancar. Raggiunto un luogo da cui poteva osservare Carvahall senza essere visto, legò la cavalla e si preparò all'attesa. Roran rabbrividì, adocchiando i pini scuri. Non gli piaceva l'idea di essere così vicino alla Dorsale. Quasi nessun abitante di Carvahall osava avventurarsi su quella catena montuosa, e quelli che lo facevano, spesso non tornavano. Poco dopo vide i soldati marciare lungo la strada in doppia colonna, con le due tetre figure in testa al drappello. Alle porte di Carvahall vennero fermati da uno sparuto gruppo di uomini, alcuni con i forconi in mano. Le due parti parlottarono fra di loro, poi si fissarono in cagnesco, come bestie ringhianti che aspettano di vedere chi attaccherà per primo. Dopo un lungo momento, gli uomini di Carvahall si scansarono e fecero passare gli intrusi. E adesso? si domandò Roran, dondolandosi sui calcagni.


Al calar della sera, i soldati si acquartierarono in un prato ai margini del villaggio. Le loro tende formavano una cupa massa grigia, tremolante di ombre, mentre le sentinelle pattugliavano il perimetro. Al centro del campo, un grande falò spandeva volute di fumo nell'aria.


Anche Roran si era accampato, e adesso non poteva far altro che osservare e pensare. Aveva sempre dato per scontato che gli stranieri avessero ottenuto quel che volevano quando avevano dist la sua casa, ossia la pietra che Eragon aveva riportato dalla Grande Dorsale. Vuoi dire che non l'hanno trovata, concluse. Forse Eragon è riuscito a fuggire con la pietra. Forse ha capìto di dover scappare per proteggerla. Aggrottò la fronte. Questo avrebbe spiegato la fuga improvvisa di Eragon, eppure Roran non ne era ancora del tutto convinto. Quali che siano stati i motivi, quella pietra deve rappresentare un tesoro inestimabile se il re ha mandato così tanti uomini a recuperarla, anche se non capisco cosa la renda così preziosa. Forse è magica.


Inspirò a fondo l'aria fresca della notte, ascoltando il lugubre lamento di una civetta. Un movimento catturò la sua attenzione. Scoccando un'occhiata in basso, vide un uomo risalire dalla foresta. Roran si nascose dietro un masso, con l'arco pronto. Attese finché non ebbe la certezza che si trattava di Albriech, poi emise un fischio sommesso. Albriech raggiunse il masso. In spalla portava uno zaino stracolmo che posò sul terreno con un gemito. «Mi ero quasi convinto che non ti avrei


mai trovato.»


«Mi sorprende che tu ce l'abbia fatta.»


«Non posso certo dire di essermi divertito a vagare per la foresta dopo il tramonto... Mi aspettavo d'imbattermi da un momento all'altro in un orso, o peggio. Credi a me, la Dorsale non è posto adatto agli uomini.»


Roran fece un cenno con la testa in direzione di Carvahall. «Allora, perché sono venuti?»


«Per prenderti in custodia. Hanno detto che aspetteranno finché non tornerai dalla caccia.»


Roran si sedette di schianto, le viscere strette in una morsa di gelida apprensione. «Vi hanno detto perché? Hanno parlato della pietra?»


Albriech fece di no con il capo. «Hanno detto soltanto che è una questione che riguarda il re. Per tutto il giorno non hanno fatto che chiedere di te e di Eragon... soltanto questo interessa loro.» Esitò. «Resterei qui, ma domani si accorgerebbero che non ci sono. Ho portato viveri e coperte, e qualche unguento di Gertrude, nel caso ti ferissi. Dovresti stare bene, nascosto quassù.»


Facendo appello a tutte le sue energie, Roran abbozzò un sorriso. «Grazie dell'aiuto.»


«Chiunque lo farebbe» disse Albriech, scrollando le spalle imbarazzato. Si volse per andarsene, poi aggiunse da sopra una spalla: «Per inciso, i due stranieri... si chiamano Ra'zac.»

La promessa di Saphira

Il mattino dopo aver incontrato il Consiglio degli Anziani, Eragon stava lucidando e ingrassando la sella di Saphira, attento a non stancarsi troppo, quando ricevette una visita di Orik. Il nano attese che finisse con una cinghia, poi gli domandò: «Va meglio, oggi?»


«Un po'.»


«Bene, poiché tutti dobbiamo essere in forze. Sono venuto a informarmi sulla tua salute, ma anche perché Rothgar desidera parlare con te, se hai tempo.»


Eragon sorrise debolmente. «Ho sempre tempo per lui. Dovrebbe saperlo.»


Orik scoppiò a ridere. «Già, ma è buona educazione chiedere.» Mentre Eragon posava la sella, Saphira si alzò dal suo comodo pagliericcio e salutò Orik con un ringhio amichevole. «Buongiorno anche a te» disse il nano con un inchino. Orik li condusse lungo uno dei quattro corridoi principali di Tronjheim, verso la camera centrale e i due scaloni speculari che scendevano a spirale nel sottosuolo, dove si trovava la sala del trono del re dei nani. Prima di raggiungere la stanza, però, il nano imboccò una piccola rampa di scale. A Eragon ci volle qualche momento per capire che Orik aveva imboccato un passaggio secondario per evitare di vedere le rovine di Isidar Mithrim. Si fermarono davanti alle porte di granito incise con una corona a sette punte. Sette nani armati su ciascun lato dell'ingresso batterono all'unisono sul pavimento con i manici dei loro picconi. Con il tonfo echeggiante del legno sulla pietra, i battenti si aprirono verso l'interno.


Eragon fece un cenno a Orik, poi entrarono nella sala scarsamente illuminata insieme a Saphira. Avanzarono verso il trono distante, oltrepassando le rigide statue, le hirna, dei defunti re dei nani. Al cospetto del massiccio trono nero, Eragon s'inchinò. Il re dei nani ricambiò il saluto con un cenno del capo canuto; i rubini incastonati nell'elmo d'oro rilucevano nella penombra come scintille di ferro incandescente. Volund, la mazza da guerra, giaceva di traverso sulle gambe fasciate di maglia d'acciaio.


Rothgar parlò. «Ammazzaspettri, benvenuto nella mia dimora. Molte gesta hai compiuto dal nostro ultimo incontro. A quanto pare, mi sbagliavo sul conto di Zar'roc. La spada di Morzan sarà ben accetta a Tronjheim, finché sarai tu a impugnarla.»


«Ti ringrazio» disse Eragon, rialzandosi. «Inoltre» proseguì il nano con voce tonante «vorremmo che tenessi l'armatura che hai indossato durante la battaglia del Farthen Dùr. In questo preciso momento, i nostri migliori fabbri la stanno riparando. Lo stesso trattamento viene riservato all'armatura del drago, e quando sarà pronta, Saphira potrà indossarla finché vorrà, o almeno finché non le andrà troppo stretta. Questo è quanto possiamo fare per mostrarvi la nostra gratitudine. Se non fosse stato per la guerra contro Galbatorix, avremmo organizzato banchetti e festeggiamenti per celebrare il tuo nome... ma dovremo attendere tempi migliori.»


Dando voce sia ai propri sentimenti che a quelli di Saphira, Eragon disse: «La tua generosità ci commuove. Accettiamo con gioia i tuoi nobili doni.»


Per quanto compiaciuto, Rothgar si incupì, contraendo le sopracciglia cespugliose. «Non possiamo indugiare in simili convenevoli. Sono assediato dai clan che pretendono che faccia una cosa o l'altra in merito al successore di Ajihad. Quando ieri il Consiglio degli Anziani ha proclamato di sostenere Nasuada, si è scatenato un putiferio quale non ho mai visto da quando sono salito al trono. I capi hanno dovuto decidere se accettare Nasuada o cercare un altro candidato. La maggior parte ha concluso che Nasuada potrà guidare i Varden, ma io vorrei conoscere il tuo parere, Eragon, prima di sostenere l'una o l'altra fazione. La cosa peggiore che un re possa fare è comportarsi da sciocco.» Quanto possiamo raccontargli? Eragon chiese a Saphira, riflettendo in fretta.


Rothgar ci ha sempre trattati con correttezza, ma non possiamo sapere cosa ha promesso ad altri. Sarà meglio mantenere un atteggiamento cauto finché Nasuada non assumerà il potere.


D'accordo.


«Saphira e io abbiamo acconsentito ad aiutarla. Non ci opporremo alla sua designazione. E...» Eragon si chiese se non stesse parlando troppo, «... ti prego di fare altrettanto. I Varden non possono permettersi una lotta intestina. Hanno bisogno di unità.»


«Oei» disse Rothgar, appoggiandosi al duro schienale, «tu parli con nuova autorità. Il tuo suggerimento è saggio, ma comporta una domanda: pensi che Nasuada sarà una buona guida, o ci sono altri motivi dietro questa scelta?» È una prova, intervenne Saphira. Vuole sapere perché l'appoggiamo.


Eragon si sentì affiorare un sorriso sulle labbra. «Credo che sia molto saggia e perspicace per la sua età. Sì, sarà una buona guida per i Varden.»


«Ed è questo il motivo per cui la sostieni?»


«Sì.»


Rothgar annuì, facendo ondeggiare la lunga barba bianca. «Questo mi solleva. Troppa poca attenzione è stata dedicata di recente a cosa è buono e giusto, e troppa al potere individuale. È difficile assistere a tanta idiozia e non sentirsi adirati.»


Un silenzio inquietante scese fra di loro, aleggiando nella lunga sala del trono. Per spezzarlo, Eragon disse: «Cosa ne sarà della roccaforte dei draghi? Verrà costruito un nuovo pavimento?»


Per la prima volta, gli occhi del sovrano si adombrarono, rendendo più profonde le rughe che li circondavano come raggi di una ruota. Fu la cosa più simile al pianto che Eragon avesse mai visto in un nano. «Si dovrà discutere molto prima di intraprendere qualsiasi passo. È stato terribile, ciò che Saphira e Arya hanno fatto. Necessario, forse, ma terribile. Ah, chissà, forse avrei preferito che gli Urgali ci sconfiggessero, prima di vedere Isidar Mithrim distrutta. Il cuore stesso di Tronjheim è stato spezzato, e con lui il nostro.» Rothgar si posò il pugno chiuso sul petto, poi lentamente lo aprì, e con la mano strinse il manico di Volund fasciato di pelle.


Saphira toccò la mente di Eragon. Il giovane percepì nella dragonessa una varietà di emozioni, ma ciò che più lo sorprese fu il rimorso e il senso di colpa. Saphira rimpiangeva con tutto il cuore di aver distrutto lo Zaffiro Stellato, malgrado fosse stato un gesto necessario. Piccolo mio, disse lei, aiutami. Devo parlare con Rothgar. Chiedigli se i nani sono capaci di ricostruire Isidar Mithrim con i suoi frammenti.


Mentre Eragon ripeteva ad alta voce la domanda, Rothgar borbottò qualcosa nella propria lingua, poi disse: «Possediamo le capacità tecniche, ma a cosa servirebbe? L'impresa richiederebbe mesi, se non anni, e il risultato finale sarebbe una pallida e grottesca imitazione della bellezza che un tempo coronava Tronjheim. Non permetterei mai un simile abominio!»


Saphira continuava a fissare imperturbabile il re. Ora digli che se riuscissero a ricostruire Isidar Mithrim, senza tralasciare nemmeno il più piccolo frammento, sono sicura di poterlo far tornare integro come prima. Eragon spalancò la bocca, così sbalordito da dimenticarsi di Rothgar. Saphira! Pensa a quanta energia ci vorrebbe! Tu stessa mi hai detto di non saper usare la magia a comando, perciò come fai a essere tanto sicura? Posso farlo, in caso di estrema necessità. Sarà il mio dono per i nani. Rammenta il sepolcro di Brom per fugare ogni dubbio. E adesso chiudi la bocca... è indecoroso, e il re ti sta osservando.


Quando Eragon ebbe riferito le parole di Saphira, Rothgar si lasciò sfuggire un'esclamazione. «È mai possibile? Nemmeno gli elfi oserebbero compiere una simile impresa.»


«Lei ha fiducia nelle proprie capacità.»


«Allora ricostruiremo Isidar Mithrim, ci volessero cent'anni. Costruiremo un'intelaiatura per la gemma e collocheremo ogni frammento al suo posto. Non verrà tralasciata la minima scheggia. Anche se dovremo infrangere i pezzi più grossi per spostarli, useremo tutta la nostra maestria come tagliatori di pietre, per non perdere polvere o frammenti. Quando avremo finito, tornerete, e sanerete lo Zaffiro Stellato.»


«Verremo» promise Eragon con un inchino.


Rothgar sorrise, e fu come se una crepa si aprisse in un muro di granito. «Mi hai dato una gioia immensa, Saphira. Ho ritrovato un motivo per vivere e governare. Se riuscirai, i nani di ogni dove onoreranno il tuo nome per generazioni. Ora andate con la mia benedizione, mentre annuncio la lieta novella ai clan. E non sentitevi in obbligo di attendere il mio annuncio, poiché nessun nano deve restarne all'oscuro. Ditelo a chiunque incontrerete. Che le nostre mura possano riecheggiare del giubilo della nostra razza.»


Con un ultimo inchino, Eragon e Saphira si congedarono, lasciando il re dei nani ancora sorridente sul suo trono. Una volta usciti dalla sala, Eragon raccontò a Orik la novità. Il nano cadde in ginocchio e baciò il pavimento davanti a Saphira. Poi si alzò raggiante e strinse il braccio di Eragon, dicendo: «Un prodigio. Ci avete dato la speranza che ci serviva per sopportare i recenti avvenimenti. Scorreranno fiumi di birra stanotte, ve l'assicuro!»


«Ma domani ci saranno i funerali.»


Orik tornò serio per un momento. «Domani sì. Ma fino ad allora, che nessun pensiero funesto offuschi la nostra gioia! Venite!»


Preso Eragon per mano, il nano lo condusse attraverso Tronjheim verso una grande sala da banchetti dove c'erano molti nani seduti davanti ai tavoli di pietra. Orik balzò in piedi su un tavolo, facendo volare via i piatti, e con voce roboante annunciò la novità su Isidar Mithrim. Eragon rimase quasi assordato dalle grida di esultanza che seguirono. Ogni nano insistette per avvicinarsi a Saphira e baciare il pavimento come aveva fatto Orik. Quando ebbero finito, abbandonarono il cibo e riempirono i boccali di pietra con birra e idromele.


Eragon si unì ai brindisi con un abbandono che lo sorprese. Lo aiutava ad alleviare la malinconia che gli opprimeva il cuore. Tuttavia cercò di non lasciarsi andare del tutto, poiché era consapevole dei dovéri che lo attendevano il giorno dopo, e voleva conservare un minimo di lucidità.


Persino Saphira bevve un sorso di idromele, e quando scoprirono che le piaceva, i nani le portarono un intero barile. Abbassando con delicatezza le fauci possenti nel barile aperto, lo prosciugò con tre lunghi sorsi, poi levò la testa al soffitto e ruttò una gigantesca lingua di fuoco. Eragon impiegò parecchi minuti per convincere i nani che non avevano nulla da temere ad avvicinarsi di nuovo, ma a quel punto portarono un altro barile - nonostante le proteste del cuoco e osservarono compiaciuti la dragonessa che lo svuotava come il primo.


A mano a mano che Saphira si ubriacava, le sue emozioni e i suoi pensieri pervasero Eragon con intensità maggiore. Gli risultava sempre più difficile affidarsi ai propri sensi: la vista di lei prese il sopravvento sulla sua, confondendo i movimenti e cambiando i colori. Perfino gli odori divennero più forti e pungenti.


I nani cominciarono a cantare in coro. Dondolandosi sul posto, Saphira gorgheggiava insieme a loro, sottolineando ogni strofa con un ruggito. Anche Eragon aprì la bocca per cantare, ma rimase di stucco quando, invece delle parole, gli uscì il rantolo ringhiante tipico di un drago. Qui, pensò, scuotendo la testa, si esagera... O sono soltanto ubriaco? Poi decise che non gl'importava e riprese a cantare noncurante, voce di drago oppure nò.


I nani continuavano a riversarsi nella sala via via che si diffondeva la notizia su Isidar Mithrim. A centinaia si affollarono ai tavoli, formando un cerchio intorno a Eragon e Saphira. Orik chiamò i musicisti, che presero posto in un angolo e tolsero le coperture di velluto verde dai loro strumenti. Ben presto arpe, liuti e flauti d'argento emisero le loro note melodiose, superando il chiasso.


Ci vollero parecchie ore perché il clamore e l'eccitazione si placassero. A quel punto Orik salì di nuovo sul tavolo, e con le tozze gambe divaricate per non perdere l'equilibrio, il boccale in mano e l'elmo di ferro di sghimbescio, gridò: «Udite, udite! Finalmente abbiamo festeggiato come si conviene. Gli Urgali sono fuggiti, lo Spettro è morto, e noi abbiamo vinto!» I nani pestarono i pugni sui tavoli per manifestare la loro approvazione. Era un bel discorso conciso che andava dritto al punto. Ma Orik non aveva concluso. «A Eragon e Saphira!» ruggì, levando il bicchiere. Anche quest'ultima frase fu accolta da un'ovazione.


Eragon si alzò e si inchinò, suscitando altri applausi. Accanto a lui, Saphira s'impennò e si portò una zampa al petto, nel tentativo di imitare il suo gesto. Barcollò, e i nani, consci del pericolo, si affrettarono ad allontanarsi. Appena in tempo. Con un tonfo assordante, la dragonessa cadde all'indietro, schiantandosi su un tavolo di pietra. Eragon si sentì trafiggere la schiena da un lampo di dolore e crollò svenuto accanto alla sua coda. Requiem


"Svegliati, Knurlhiem! Non puoi dormire adesso. Ci aspettano al cancello... non cominceranno senza di noi.» Eragon si costrinse ad aprire gli occhi. Aveva un atroce mal di testa e il corpo dolorante. Era disteso su un freddo tavolo di pietra. «Come?» Fece una smorfia nel sentire un sapore nauseabondo sulla lingua.


Orik si tirò la barba scura. «Il corteo funebre di Ajihad. Dobbiamo andare!»


«No, come mi hai chiamato?» Si trovavano ancora nella sala dei banchetti, ma non c'era più nessuno, tranne lui, Orik e Saphira, riversa sul fianco fra due tavoli. Si mosse e alzò la testa, guardandosi intorno con gli occhi annebbiati. «Testadipietra! Ti ho chiamato Testadipietra perché ti sto chiamando da quasi un'ora.»


Eragon si alzò a sedere e scese dal tavolo sulle gambe malferme. Brevi immagini di quanto era accaduto la notte prima gli attraversarono la mente. Saphira, come ti senti? domandò, inciampando su di lei.


La dragonessa annuì lentamente, passandosi la lingua rossa sulle zanne, come un gatto che ha mangiato qualcosa di disgustoso. Tutta intera... mi fare. Mi sento l'ala sinistra un po' strana; credo sia quella su cui sono caduta. E ho la testa come trafitta da mille frecce incandescenti.


«Si è fatto male qualcuno quando è caduta?» chiese Eragon, preoccupato.


Una risata esplosiva scosse il torace del nano. «Solo quelli che sono caduti dalle sedie per il troppo ridere. Un drago che si ubriaca e stramazza! Sono sicuro che ci comporranno qualche ballata che sarà cantata per decenni.» Saphira smosse le ali e distolse lo sguardo altezzosa. «Abbiamo pensato che fosse meglio lasciarti qui, dato che non potevamo muoverti, Saphira. Il cuoco è andato su tutte le furie... temeva che avresti prosciugato tutta la sua migliore riserva, oltre i quattro barili che ti eri già scolata.»


E tu una volta hai rimproverato me per aver bevuto! Se mi fossi scolato quattro barili, sarei morto! Questo perché non sei un drago.


Orik spinse un fagotto d'indumenti fra le braccia di Eragon. «Tieni, mettiti questi. Sono più appropriati per un funerale che non quelli che indossi. Ma sbrigati, non ci resta molto tempo.» Eragon si affannò a vestirsi: indossò un'ampia blusa bianca stretta ai polsi, pantaloni scuri, una tunica rossa con fitti ricami d'oro, un paio di lucidi stivali neri e un mantello svolazzante che si allacciò alla gola con una spilla borchiata. Zar'roc era legata a una cintura decorata invece che alla solita striscia di pelle.


Eragon si spruzzò acqua sul viso e cercò di ravviarsi i capelli. Orik spinse lui e Saphira fuori dalla sala dei banchetti, verso il cancello sud di Tronjheim. «Dobbiamo partire da lì» spiegò, muovendosi con sorprendente rapidità sulle gambette tozze, «perché è dove il corteo con il corpo di Ajihad si è fermato tre giorni fa. Il suo viaggio verso la tomba non può essere interrotto, altrimenti il suo spirito non troverà riposo.»


Che strana usanza, commentò Saphira.


Eragon annuì, notando una lieve incertezza nella sua andatura. A Carvahall di solito le persone venivano seppellite nelle proprie fattorie, oppure, se vivevano al villaggio, in un piccolo cimitero. Gli unici rituali che accompagnavano la cerimonia erano la recitazione di alcune strofe


tratte da famose ballate e, più tardi, un banchetto funebre per i parenti e gli amici. Ce la farai a resistere per tutto il funerale? chiese Eragon, quando Saphira vacillò di nuovo.


La dragonessa diede in un ghigno sommesso. Sì, e anche per la nomina di Nasuada, ma poi avrò bisogno di dormire. Dannato idromele!


Tornando alla conversazione con Orik, Eragon gli chiese: «Dove sarà sepolto Ajihad?»


Orik rallentò e scoccò a Eragon un'occhiata inquieta. «Questo è stato oggetto di discussione fra i clan. Quando muore un nano, noi crediamo che debba essere sigillato nella pietra, altrimenti non raggiungerà mai i suoi antenati. È qualcosa di complesso e non posso spiegare altro a un estraneo... ma facciamo di tutto per assicurarci una simile tumulazione. Il disonore colpisce la famiglia o il clan che lasciano giacere uno di loro in un elemento meno nobile. «Sotto il Farthen Dùr c'è una camera, dimora di tutti i knurlan, tutti i nani, che sono morti qui. È lì che sarà portato Ajihad. Non potrà essere tumulato insieme a noi, poiché è un umano, ma è stata predisposta una speciale nicchia per lui. Così i Varden potranno fargli visita senza disturbare le nostre sacre grotte, e Ajihad riceverà il rispetto che merita.» «Il vostro re ha fatto molto per i Varden» disse Eragon.


«Alcuni sostengono che abbia fatto anche troppo.»


Davanti al massiccio cancello, sollevato sulle catene nascoste per rivelare la fievole luce del giorno che pioveva dalla sommità del Farthen Dùr, trovarono un corteo organizzato con cura meticolosa. Davanti a tutti c'era Ajihad, freddo e pallido, adagiato su un feretro di marmo portato da sei uomini in armatura nera. In testa aveva un elmo tempestato di pietre preziose; all'altezza dello sterno le mani erano intrecciate sull'impugnatura d'avorio della spada snudata, posta sotto lo scudo che gli copriva il petto e le gambe. Una fitta rete di maglie d'argento, simili a tanti cerchietti di luce lunare, gli ricopriva le membra e ricadeva sul feretro.


Subito dietro la salma c'era Nasuada, alta e fiera sotto il mantello di zibellino, con le lacrime come unico ornamento. Al suo fianco c'era Rothgar, vestito di scuro; poi Arya; il Consiglio degli Anziani, tutti con l'espressione contrita di circostanza; e infine una moltitudine in lutto che si allungava per un miglio da Tronjheim.


Ogni porta e ogni arcata del corridòio alto quattro piani che conduceva alla camera centrale di Tronjheim, lontana mezzo miglio, erano stati aperti alla folla di umani e nani. Fra i volti mesti, i lunghi stendardi ondeggiavano per le centinaia di sospiri e sussurri che si levarono quando comparvero Saphira ed Eragon. Jòrmundur fece loro cenno di avvicinarsi. Cercando di non disturbare la formazione, Eragon e Saphira percorsero la colonna fino allo spazio riservato al suo fianco, guadagnandosi un'occhiata di riprovazione da parte di Sabra. Orik prese posto alle spalle di Rothgar. Si disposero tutti all'attesa, anche se Eragon non sapeva di che cosa.


Gli schermi delle lanterne furono abbassati a metà, diffondendo una fredda penombra che conferiva un'aura mistica all'evento. Nessuno sembrava muoversi o respirare: per un breve istante Eragon ebbe l'impressione che fossero tutti statue impietrite per l'eternità. Una voluta solitària d'incenso si levò dal feretro verso la volta nebbiosa, spandendo un aroma di cedro e ginepro. Era l'unica cosa che si muoveva nel corridòio: una spirale grigiastra che ondeggiava sinuosa da parte a parte.


Nelle viscere di Tronjheim rimbombò un tamburo. Boom.


La nota bassa riverberò nelle loro ossa, scuotendo la pietra della città-montagna che vibrò come un'enorme campana. Mossero il primo passo.


Boom. Alla seconda nota si unì quella di un altro tamburo più basso; ogni colpo rimbombava inesorabile nel corridòio, sospingendo il corteo a un ritmo maestoso. La forza del suono conferiva a ogni passo il significato, lo scopo e la solennità adeguati all'occasione. Il lento rullio dei tamburi non permetteva a nessuno di formulare un pensiero, ma soltanto di provare emozioni, abilmente evocate, che si esprimevano con lacrime di cordoglio e gioia acre al tempo stesso.


Boom.


Quando il tunnel finì, i necrofori di Ajihad si fermarono fra i pilastri di onice, prima di procedere lenti nella camera centrale. Qui Eragon vide le espressioni dei nani farsi ancora più solenni nello scorgere le rovine di Isidar Mithrim. Boom.


Attraversarono un cimitero di cristallo. Un cerchio di schegge torreggianti giaceva al centro della grande camera, circondando il martello e i pentacoli incisi. Molti frammenti erano più grandi di Saphira. I colori dello Zaffiro Stellato ancora baluginavano nei frammenti, e su alcuni erano visibili i petali della rosa intagliata.


Boom.


I necrofori continuarono ad avanzare fra innumerevoli bordi affilati come rasoi. Poi il corteo deviò per scendere lungo un ampio scalone verso i tunnel sottostanti. Marciarono attraverso molte cavèrne, superando rifugi di pietra dove nani bambino si tenevano avvinghiati alle sottane delle madri e osservavano con occhi spalancati.


Boom.


. E con un crescendo finale, si fermarono sotto una volta di stalattiti nervate che copriva una grande catacomba fiancheggiata da nicchie. In ciascuna nicchia c'era una tomba con sopra inciso un nome e l'emblema di un clan. Migliaia


- centinaia di migliaia - di morti erano sepolti lì. L'unica fonte di illuminazione erano alcune lanterne rosse che brillavano fioche nell'oscurità.


Dopo una pausa, i necrofori entrarono in una piccola stanza annessa alla sala principale. Al centro, su una piattaforma rialzata, c'era un grande sepolcro aperto, come un nero abisso in attesa. Sulla lapide era inciso in rune: Che tutti, Knurlan, Umani ed Elfi,


Ricordino


Quest'Uomo.


Poiché era Nobile, Forte e Saggio.


Gùntera Arùna


Quando si furono tutti radunati in circolo, Ajihad venne calato nel sepolcro, e coloro che lo avevano conosciuto personalmente ebbero il permesso di avvicinarsi. Eragon e Saphira erano i quinti in coda, dietro Arya. Mentre salivano i gradini di marmo per rendere omaggio al defunto, Eragon fu sopraffatto da un dolore straziante, aggravato dal fatto che considerava il funerale di Ajihad anche quello di Murtagh.


Fermandosi davanti alla tomba, abbassò lo sguardo su Ajihad. Appariva molto più sereno e tranquillo di quanto non fosse mai stato in vita, come se la morte avesse riconosciuto la sua grandezza e lo onorasse cancellando ogni traccia di affanno terreno dal suo volto. Eragon aveva conosciuto Ajihad soltanto per un breve periodo, ma in quel tempo aveva imparato a rispettarlo sia come persona che per ciò che rappresentava: la libertà dalla tirannia. Inoltre Ajihad era stato il primo a concedere asilo a Eragon e Saphira da quando avevano lasciato la Valle Palancar.


Afflitto, Eragon cercò di pensare al più grande tributo da offrirgli. Alla fine inghiottì il nodo alla gola e sussurrò: «Sarai ricordato, Ajihad. Lo giuro. Riposa in pace sapendo che Nasuada continuerà la tua opera e che l'Impero sarà distrutto grazie a quanto tu hai compiuto.» Consapevole del contatto di Saphira con il suo braccio, Eragon scese dalla piattaforma insieme a lei, e lasciò il posto a Jòrmundur.


Quando anche l'ultimo ebbe onorato la salma, Nasuada si chinò su Ajihad e toccò la mano del padre, stringendola con gentile premura. Con un gemito sofferto, cominciò a cantare in una strana lingua dolente, riempiendo la caverna con i suoi lamenti.


Poi arrivarono dodici nani che fecero scivolare un lastrone di marmo sul volto di Ajihad. Ed egli più non fu. Giuramento di fedeltà


Eragon sbadigliò, coprendosi la bocca, mentre la folla si disponeva nell'anfiteatro sotterraneo. La grande arena riecheggiava di voci che discutevano del funerale appena concluso.


Eragon prese posto nell'ordine più basso, al livello del podio. Con lui c'erano Orik, Arya, Rothgar, Nasuada e il Consiglio degli Anziani. Saphira si accomodò sulla rampa di scale che tagliava le gradinate. Orik si protese verso il giovane e disse: «Fin dai tempi di Korgan, tutti i nostri re sono stati eletti in questo luogo. È giusto che i Varden facciano altrettanto.»


Resta da vedere, pensò Eragon, se questo trasferimento di poteri sarà pacifico. Si strofinò un occhio per asciugare le ultime lacrime; la cerimonia lo aveva profondamente scosso.


Sulle ceneri del suo cordoglio cominciò a ribollire l'ansia: lo impensieriva il proprio ruolo negli eventi imminenti. Se anche tutto fosse filato liscio, lui e Saphira stavano per farsi dei nemici potenti. La sua mano si spostò su Zar'roc, stringendone il pomo.


Ci vollero parecchi minuti perché l'anfiteatro si riempisse. Poi Jòrmundur salì sul podio. «Popolo dei Varden. Quindici anni or sono ci siamo qui riuniti alla morte di Deynor. Il suo successore, Ajihad, ha fatto molto per opporsi all'Impero e a Galbatorix, più di chiunque prima di lui. Ha vinto innumerevoli battaglie contro forze superiori. Ha quasi ucciso Durza, imprimendo una scalfittura sulla lama dello Spettro. E ha accolto il Cavaliere Eragon e Saphira a Tronjheim. Tuttavia è il momento di scegliere un nuovo capo, che ci assicuri la gloria finale.»


Qualcuno dalle gradinate più in alto gridò: «L'Ammazzaspettri!»


Eragon cercò di non reagire, e fu lieto di notare che Jòrmundur non battè ciglio nel replicare: «Forse negli anni a venire, ma per il momento egli è chiamato ad altri dovéri e responsabilità. No, il Consiglio degli Anziani ha riflettuto a lungo. Ci occorre qualcuno che comprenda i nostri bisogni e i nostri desideri, qualcuno che ha vissuto e sofferto insieme a noi. Qualcuno che si è rifiutato di fuggire, anche quando la battaglia era imminente.»


In quel momento Eragon sentì che il pubblico aveva capìto. Il nome si diffuse come un sussurro esalato da mille gole e fu pronunciato da Jòrmundur stesso: «Nasuada.» Con un inchino, Jòrmundur si fece da parte.


Fu il turno di Arya. L'elfa scrutò il pubblico in attesa, poi disse: «Gli elfi onorano Ajihad questa notte... E in nome della regina Islanzadi, riconosco l'ascesa di Nasuada e le offro il medesimo sostegno e la medesima amicizia che tributavamo a suo padre. Che le stelle la proteggano.»


Rothgar salì sul podio e dichiarò asciutto: «Anch'io sostengo Nasuada, come i nostri clan.» E si allontanò subito. Toccava a Eragon. Eretto davanti alla folla, con tutti gli sguardi puntati su lui e Saphira, annunciò: «Anche noi sosteniamo Nasuada.


» Saphira ringhiò la sua approvazione.


Pronunciate le dichiarazioni, i membri del Consiglio si disposero sui lati del podio, Jòrmundur davanti a tutti. Con fiero contegno, Nasuada si avvicinò e s'inginocchiò umilmente davanti a lui, l'abito disposto in pieghe corvine. Alzando la voce, Jòrmundur disse: «Per diritto di eredita


e successione, abbiamo scelto Nasuada. Per i ineriti di suo padre e la benedizione dei suoi pari, abbiamo scelto Nasuada. Ora vi chiedo: abbiamo scelto bene?»


Il ruggito di acclamazione fu unanime. «Sì!»


Jòrmundur annuì. «E dunque, per i poteri conferiti a questo consiglio, passiamo i privilegi e le responsabilità accordati ad Ajihad alla sua unica discendente, Nasuada.» E depose un cerchietto Prendendola per mano, la fece alzare e annunciò: «Ecco la nostra nuova guida!» Per dieci minuti i Varden e i nani esultarono, gridando la loro approvazione finché l'arena non riverberò tutta del loro clamore. Una volta placati gli animi, Sabra fece cenno a Eragon, mormorando: «È tempo di mantenere la tua promessa.» In quel momento, per Eragon cessò ogni rumore. Anche il suo nervosismo scomparve, inghiottito dall'importanza del momento. Facendosi forza, con un profondo respiro, lui e Saphira si avvicinarono a Jòrmundur e Nasuada, ogni passo lungo un'eternità. Mentre camminavano, Eragon guardò Sabra, Elessari, Umérth e Falberd, notando i loro mezzi sorrisi, il loro compiacimento e, da parte di Sabra, un evidente disdegno. Alle spalle dei membri del consiglio c'era Arya, che annuì in suo sostegno.


Stiamo per cambiare la storia, disse Saphira.


Ci stiamo gettando da una rupe senza sapere quanto è profonda l'acqua di sotto.


Già, ma che volo magnifico!


Con un'occhiata fugace al volto sereno di Nasuada, Eragon s'inchinò e s'inginocchiò. Estrasse Zar'roc dal fodero, la prese di piatto con entrambe le mani e la levò, come per offrirla a Jòrmundur. Per un istante, la lama rimase fra Jòrmundur e Nasuada, in bilico fra due differenti destini. Eragon trattenne il fiato: quale semplice scelta su cui basare una vita. Più di una vita: un drago, un re, un Impero!


Poi il fiato tornò a riempirgli i polmoni, il tempo riprese a scorrere, e lui si volse verso Nasuada. «In nome del più profondo rispetto e apprezzamento per le difficoltà che incontrerai, io, Eragon, primo Cavaliere dei Varden, Ammazzaspettri e Argetlam, ti faccio dono della mia spada e della mia fedeltà, Nasuada.»


d'argento sulla fronte di Nasuada. I Varden e i nani ammutolirono, esterrefatti. Nel medesimo istante, il Consiglio degli Anziani passò dal trionfo alla rabbia impotente. I loro sguardi ardevano con la forza e il veleno di chi si sente tradito. Persino Elessari lasciò che la collera le cancellasse il suo cortese contegno. Soltanto Jòrmundur - dopo un breve sussulto di sorpresa - sembrò accettare l'annuncio con equanimità.


Nasuada sorrise e prese Zar'roc, posando la punta della spada sulla fronte di Eragon, come aveva già fatto. «Sono onorata che tu abbia scelto di servirmi, Cavaliere Eragon. Accetto, come tu accetti, tutte le responsabilità derivanti da questa posizione. Levati come mio vassallo e riprendi la tua spada.»


Eragon obbedì, poi indietreggiò insieme a Saphira. La folla balzò in piedi fra grida di esultanza; i nani pestavano gli stivali chiodati al ritmo dei guerrieri umani che battevano le spade sugli scudi.


Voltandosi sul podio, Nasuada afferrò la balaustra con le mani e guardò la folla dell'anfiteatro. Il suo volto irradiava gioia pura. «Popolo dei Varden!»


Silenzio.


«Come mio padre prima di me, darò la mia vita per voi e per la nostra causa. Non smetterò mai di combattere finché gli Urgali non saranno annientati, Galbatorix morto, e Alagaèsia ancora una volta libera!»


Un boato di applausi e grida.


«Perciò vi dico che è tempo di prepararci. Qui nel Farthen Dùr, dopo infinite schermaglie, abbiamo ottenuto la nostra più grande vittoria. È il nostro turno di reagire. Galbatorix è debole per aver perso così tante forze, e non ci sarà mai più un'occasione simile.


«Perciò, vi ripeto, è tempo di prepararci, affinchè la vittoria finale ci arrida!»


Dopo altri discorsi di svariati personaggi - fra cui un Falberd ancora schiumante di collera - l'anfiteatro cominciò a svuotarsi. Mentre Eragon si alzava per andarsene, Orik lo afferrò per un braccio e lo fermò. Il nano aveva gli occhi sgranati. «Eragon, avevi già deciso tutto?»


Eragon riflettè brevemente sull'opportunità di dirglielo, poi annuì. «Sì.»


Orik si lasciò sfuggire un lungo sospiro, scuotendo la testa. «È stata una mossa molto scaltra, direi. Hai dato a Nasuada una posizione molto forte per cominciare. Ma anche pericolosa, a giudicare dalle reazioni del Consiglio degli Anziani. Arya sapeva?»


«Ha convenuto che era necessario.»


Il nano lo studiò meditabondo. «Ne sono convinto. Ma hai appena alterato l'equilibrio dei poteri, Eragon. Nessuno oserà più sottovalutarti... Attento alla roccia che frana. Ti sei fatto dei nemici potenti, quest'oggi.» Batte il palmo sulla schiena del giovane e si allontanò.


Saphira lo osservò andar via, poi disse: Dobbiamo prepararci a lasciare il Farthen Dùr. Il Consiglio sarà assetato di vendetta. Prima ci troveremo lontani dalla loro portata, meglio sarà.

La maga, il serpente e la pergamena

Quella sera, quando tornò ai suoi alloggi dopo essersi lavato, Eragon rimase sorpreso nel trovare una donna alta che lo aspettava nel corridòio. Aveva i capelli scuri, gli occhi azzurri e le labbra atteggiate a un sorriso sardonico. Al polso portava un bracciale d'oro a forma di serpente sibilante. Eragon sperò che non fosse venuta a chiedergli consiglio, come facevano molti Varden.


«Argetlam» disse lei, con una graziosa riverenza.


Lui ricambiò con un cenno del capo. «Posso aiutarti?»


«Lo spero. Sono Trianna, maga del Du Vrangr Gata.»


«Davvero? Una maga?» disse lui, incuriosito.


«E strega di guerra, e spia, e qualunque altra cosa i Varden ritengano necessario. Non ci sono molti esperti di arti magiche, perciò ciascuno di noi assume una mezza dozzina di compiti.» La donna sorrise, mostrando una chiostra perfetta di denti bianchissimi. «Ecco perché sono venuta. Saremmo onorati se volessi assumere la guida del nostro gruppo, il Du Vrangr Gata. Tu sei l'unico che può sostituire i Gemelli.»


Senza quasi rendersene conto, Eragon ricambiò il sorriso. La donna era così amichevole e seducente che odiava dover dire di no. «Temo di non potere; Saphira e io lasceremo presto Tronjheim. Inoltre, sarebbe comunque mio dovere consultarmi prima con Nasuada.» E non voglio restare invischiato in altri intrighi politici... specie in quelli che un tempo ordivano i Gemelli.


Trianna si morse il labbro. «Mi dispiace sentirtelo dire.»


Si avvicinò di un passo. «Magari potremmo trascorrere del tempo insieme, prima della tua partenza. Potrei mostrarti come evocare e controllare gli spiriti... Sarebbe istruttivo per entrambi.»


Eragon si sentì avvampare le guance. «Apprezzo l'offerta, ma sono davvero molto occupato al momento.» Una scintilla d'ira balenò negli occhi di Trianna, poi svanì altrettanto rapida, tanto che Eragon si chiese se l'avesse effettivamente vista. La donna sospirò con grazia. «Capisco.»


Suonava così delusa - e aveva un'aria così afflitta - che Eragon si sentì in colpa per averla respinta. Che male può fare se le parlo per qualche minuto? si disse. «Sono curioso. Come hai appreso la magia?»


Trianna s'illuminò. «Mia madre era una guaritrice del Surda. Aveva qualche potere e m'istruì nelle antiche arti. Ovviamente non sono potente quanto un Cavaliere. Nessun membro del Du Vrangr Gata avrebbe potuto sconfiggere Durza da solo, come hai fatto tu. È stata un'impresa eroica.»


Imbarazzato, Eragon strisciò gli stivali sul pavimento. «Non sarei sopravvissuto se non fosse stato per Arya.» «Sei troppo modesto, Argetlam» lo adulò lei. «Sei stato tu a infliggere il colpo di grazia. Dovresti essere fiero di ciò che hai fatto. È stato un gesto degno dello stesso Vrael.» La maga si protese verso di lui. Il cuore di Eragon accelerò nel sentire il suo profumo, intenso e muschiato, con una nota di spezie esotiche. «Hai sentito le canzoni composte per te? I Varden le cantano ogni notte intorno ai fuochi. Dicono che sei venuto a strappare il trono a Galbatorix!» «No» ribattè aspro Eragon. Quella era una diceria che non poteva tollerare. «Loro possono dirlo, ma non è ciò che voglio. Qualunque sia il mio destino, non aspiro a governare.»


«Ed è saggio da parte tua. In fin dei conti, che cos'è un re se non un uomo imprigionato dai propri dovéri? Sarebbe invero una ben misera ricompensa per l'ultimo Cavaliere libero e il suo drago. No, a te spetta la facoltà di andare e compiere ciò che desideri e, per esteso, di forgiare il futuro di Alagaésia.» La donna fece una pausa. «Hai una famiglia nei territori dell'Impero?»


Cosa? «Soltanto un cugino.»


«Dunque non sei fidanzato?»


La domanda lo colse di sorpresa. Non gli avevano mai chiesto nulla di simile. «No, non sono fidanzato.» «Ma di certo dev'esserci qualcuno a cui tieni particolarmente.» La maga fece un altro passo avanti, e la sua manica dai lunghi nastri fluttuanti gli sfiorò il braccio.


«Non c'era nessuno a cui mi sentissi legato a Carvahall» balbettò lui, «e da allora ho sempre viaggiato.» Trianna indietreggiò appena, poi levò il polso in modo da portare il bracciale a forma di serpente all'altezza degli occhi. «Ti piace?» domandò. Eragon battè le palpebre e annuì, anche se il monile era piuttosto inquietante. «Lo chiamo Lorga. È mio amico e mi protegge.» La seduttrice avvicinò il volto al bracciale e vi soffiò sopra, mormorando: «Sé orùm thornessa hàvr sharjalvi lìfs.»


Con un fruscìo secco, il serpente prese vita. Eragon lo contemplò affascinato, mentre la creatura avvolgeva le sue spire intorno al pallido braccio di Trianna, poi levò la testa e fissò gli ipnotici occhi di rubino su di lui, con la lingua biforcuta che guizzava dentro e fuori. I suoi occhi parvero espandersi fino a diventare grandi quanto il pugno di Eragon. Il giovane provò la sensazione di precipitare nei loro sconfinati abissi; non riusciva a distogliere lo sguardo, per quanto si sforzasse.


Poi, a un brusco comando, il serpente s'irrigidì e riprese la sua forma originale. Con un sospiro esausto, Trianna si appoggiò alla parete. «Non sono in molti a capire quello che facciamo noi stregoni. Ma desidero che tu sappia che ci sono altri come te, e che faremo il possibile per aiutarti.»


D'impulso, Eragon le prese una mano. Non aveva mai tentato un simile approccio con una donna prima, ma l'istinto gli suggeriva di osare, di cogliere l'occasione. Era spaventoso e inebriante. «Se ti va, possiamo andare a mangiare qualcosa insieme. C'è una cucina non molto distante da qui.»


Lei posò l'altra mano su quelle di lui, le dita lisce e fresche, così diverse dalle ruvide strette a cui era abituato. «Volentieri. Potremmo...» Trianna trasalì quando la porta alle sue spalle si spalancò di colpo. La maga si volse e lanciò un grido nel trovarsi faccia a faccia con Saphira.


La dragonessa rimase immobile; si limitò ad arricciare un labbro che rivelò una minacciosa fila di zanne affilate. Poi ringhiò. Fu un ringhio prodigioso, carico di disprezzo e riprovazione, che echeggiò nel corridòio per oltre un minuto. Ascoltarlo fu come sopportare un'interminabile e umiliante predica.


Eragon la fissò truce.


Quando cessò, Trianna si stringeva la veste con entrambi i pugni, torcendo il tessuto. Il suo volto era sbiancato dalla paura. Rivolse una frettolosa riverenza a Saphira, poi, con malcelata ansia, si volse e si dileguò. Come se niente fosse, Saphira sollevò una zampa e si leccò gli artigli. Non riuscivo ad aprire la porta, disse.


Eragon non riuscì più a trattenersi. Perché l'hai fatto? esplose. Non avevi ragione d'interferirei


Ti serviva il mio aiuto, ribattè lei, imperturbabile.


Se mi serviva il tuo aiuto, ti avrei chiamata!


Non rivolgerti a me con quel tono, sbottò lei, facendo schioccare le fauci. Eragon percepì in lei lo stesso groviglio di emozioni che sconvolgeva lui. Non ti permetterò di perdere tempo con una sgualdrina che si interessa più a Eragon come Cavaliere che non come persona.


Non è una sgualdrina, ruggì lui, sferrando un pugno alla parete per la frustrazione. Sono un uomo, adesso, Saphira, non un eremita. Non puoi pretendere che ignori... ignori le donne solo perché io sono quello che sono. E di sicuro non spetta a te decidere. Almeno avrei potuto godere di una piacevole conversazione con lei, una piccola distrazione fra tutte le tragedie che abbiamo affrontato di recente. Tu sei dentro di me abbastanza da sapere cosa provo. Perché non mi hai lasciato stare? Che male c'era?


Non capisci. La dragonessa si rifiutava di incontrare il suo sguardo.


Non capisco! Vorresti forse impedirmi di avere una moglie e dei figli, un giorno? Una famiglia?


Eragon. Finalmente Saphira posò un grande occhio su di lui. Noi siamo legati intimamente.


Ovvio!


E se tu intrecci una relazione, con o senza la mia benedizione, e ti... affezioni... a qualcuno, coinvolgerai anche i miei sentimenti. Dovresti saperlo. Perciò - e ti avverto solo questa volta - stai attento a chi scegli, perché entrambi ne subiremo le conseguenze.


Eragon riflettè qualche istante sulle sue parole. Il nostro legame funziona in entrambi i sensi, ricorda. Se tu odi qualcuno, anch'io ne resterò influenzato... ma comprendo la tua preoccupazione. Quindi, non eri soltanto gelosa? Saphira si leccò ancora gli artigli. Forse, un pochino.


Fu Eragon a ringhiare, questa volta. La superò imbronciato ed entrò nella stanza, prese Zar'roc e uscì di nuovo a grandi passi, allacciandosi la spada alla cintura.


Vagò per Tronjheim per ore, evitando chiunque. Quello che era successo lo addolorava, anche se non poteva negare la verità delle parole di Saphira. Di tutte le questioni che condividevano, era la più delicata, quella su cui andavano meno d'accordo. Quella notte - per la prima volta da quando era stato catturato a Gil'ead - dormì lontano da Saphira, in uno dei quartieri destinati ai nani.


Eragon tornò al proprio alloggio la mattina seguente. Per un tacito accordo, lui e Saphira evitarono di discutere su quanto era accaduto; litigare ancora era inutile quando nessuno dei due era disposto a cedere. Per giunta, provarono un tale sollievo nel riunirsi che non vollero rischiare di mettere in pericolo la loro amicizia.


Stavano mangiando - Saphira strappava brani di carne da un cosciotto sanguinolento - quando arrivò Jarsha. Come sempre, rimase impalato a fissare Saphira, seguendone i movimenti mentre rosicchiava i resti di un femore. «Sì?» disse Eragon, asciugandosi il mento e chiedendosi se era il Consiglio degli Anziani che lo mandava a chiamare. Non aveva più avuto notizie dal funerale.


Jarsha distolse lo sguardo da Saphira giusto il tempo di dire: «Nasuada desidera vederti, mio signore. Ti aspetta nello studio di suo padre.»


Signore! Eragon trattenne una risata. Soltanto qualche tempo prima, era lui a chiamare signore gli altri, e non viceversa. Rivolse un'occhiata a Saphira. «Hai finito, o dobbiamo aspettare ancora?»


Roteando gli occhi, la dragonessa inghiottì la carne e spezzò l'osso con uno schianto secco. Ho finito. «D'accordo» disse Eragon, alzandosi. «Puoi lasciarci, Jarsha, conosciamo la strada.»


Impiegarono quasi mezz'ora per raggiungere lo studio, data la vastità della città-montagna. Come durante il governo di Ajihad, la soglia era presidiata, ma invece di due soli uomini, un'intera brigata di guerrieri armati di tutto punto sorvegliavano la porta, pronti a intervenire al minimo segnale di pericolo e disposti a sacrificare la propria vita per proteggere il loro nuovo capo da agguati o aggressioni.


Pur avendoli chiaramente riconosciuti, le sentinelle sbarrarono il passo a Eragon e Saphira, mentre Nasuada veniva avvertita della loro visita. Soltanto dopo fu concesso loro di entrare.


Eragon si accorse subito di un cambiamento nello studio: un vaso di fiori. I piccoli boccioli purpurei erano discreti, ma spandevano una tiepida fragranza che a Eragon evocava estati profumate di lamponi appena colti e campi di grano falciato che imbiondivano al sole. Inspirò a fondo, apprezzando l'abilità di Nasuada nell'affermare la propria personalità senza offuscare il ricordo di Ajihad.


La giovane era seduta alla grande scrivania, ancora vestita a lutto. Mentre Eragon si accomodava, e Saphira prendeva posto al suo fianco, lei disse: «Eragon.» Una semplice constatazione, né amichevole né ostile. Distolse brevemente lo sguardo, poi si concentrò su Eragon, gli occhi fieri e risoluti. «Ho trascorso gli ultimi giorni a esaminare gli affari dei Varden. Un'attività sconfortante. Siamo poveri, divisi e a corto di risorse; per giunta, sono pochi i rinforzi che giungono a noi dall'Impero. Ho intenzione di cambiare la situazione.


«I nani non possono continuare a mantenerci ancora a lungo; è stata una brutta annata per i raccolti, e loro hanno subito molte perdite. Tutto considerato, ho deciso di spostare i Varden nel Surda. È un progetto ambizioso, lo so, ma lo ritengo necessario per la nostra sicurezza. Una volta nel Surda, finalmente saremo abbastanza vicini da sferrare un attacco diretto all'Impero.»


Perfino Saphira ebbe un sussulto di sorpresa. Un'impresa immane! commentò Eragon. Ci vorranno mesi per spostare i beni di ogni Varden nel Surda, per non parlare della popolazione. E con ogni probabilità verranno attaccati durante il cammino. «Credevo che re Orrin non osasse sfidare apertamente Galbatorix» obiettò.


Nasuada sorrise. «La sua posizione è cambiata da quando abbiamo sconfitto gli Urgali. Ci offrirà asilo e rifornimenti, e combatterà al nostro fianco. Molti Varden sono già nel Surda, soprattutto donne e bambini che non potevano o non volevano combattere. Anche loro ci sosterranno, altrimenti li rinnegherò.»


«Ma come hai fatto» chiese Eragon «a comunicare così in fretta con re Orrin?»


«I nani usano un sistema di specchi e lanterne per trasmettere messaggi attraverso i tunnel. Sono in grado di inviare un dispaccio da qui ai confini occidentali dei Monti Beor in meno di un giorno. Poi i corrieri lo portano ad Aberon, la capitale del Surda. Tuttavia, per quanto veloce, questo metodo è ancora troppo lento, quando Galbatorix è in grado di sorprenderei con un esercito di Urgali con meno di un giorno di preavviso. Intendo organizzare qualcosa di molto più rapido fra il Du Vrangr Gata e i maghi di Rothgar, prima che ce ne andiamo.»


Nasuada aprì un cassetto della scrivania ed estrasse un rotolo di pergamena. «I Varden partiranno dal Farthen Dùr nel giro di un mese. Rothgar ci garantirà un passaggio sicuro attraverso i tunnel. Inoltre ha mandato una squadra a Orthìad per eliminare quel che resta degli Urgali e sigillare i tunnel affinchè nessuno possa attaccare i nani usando ancora quel percorso. E sebbene questo non assicuri la sopravvivenza dei Varden, ho un favore da chiederti.» Eragon annuì. Si era aspettato una richiesta o un comando. Era l'unica ragione per cui lei li aveva convocati. «Sono ai tuoi ordini.»


«Può darsi.» Gli occhi di lei guizzarono dalla parte di Saphira per un secondo. «Ma non si tratta di un ordine, e voglio che tu rifletta a fondo prima di rispondere. Per ingrossare le schiere di coloro che sostengono i Varden, vorrei diffondere in tutto l'Impero la notizia che un nuovo Cavaliere, di nome Eragon Ammazzaspettri, e il suo drago, Saphira, si sono uniti alla nostra causa. Tuttavia, gradirei il tuo consenso prima di farlo.»


È troppo pericoloso, protestò Saphira.


La notizia della nostra esistenza raggiungerà l'Impero in ogni caso, puntualizzò Eragon. I Varden vogliono vantarsi della vittoria e della morte di Durza. Dato che accadrà con o senza il nostro consenso, credo che dovremmo accettare. La dragonessa diede in un leggero sbuffo. Mi preoccupa Galbatorix. Finora non abbiamo manifestato pubblicamente da che parte stiamo.


Le nostre azioni sono state fin troppo eloquenti.


Sì, ma anche quando Durza ha combattuto contro di te a Tronjheim, non aveva intenzione di ucciderti. Se ci schieriamo contro l'Impero, Galbatorix non sarà più così indulgente. Chi può sapere quali forze o complotti ha tenuto in sospeso, mentre tentava di attirarci dalla sua parte? Finché restiamo nell'ambiguità, non saprà che fare.


Il tempo per l'ambiguità è passato, dichiarò Eragon. Abbiamo combattuto gli Urgali, ucciso Durza, e ho giurato fedeltà al capo dei Varden. Non esiste alcuna ambiguità. No, col tuo permesso acconsentirò alla sua proposta. La dragonessa tacque per lunghi istanti, poi abbassò la testa. Come preferisci.


Eragon le posò una mano sul fianco prima di rivolgere la sua attenzione a Nasuada e proclamare: «Fa' ciò che ti sembra opportuno. Se è questa la maniera in cui possiamo aiutare i Varden, così sia.»


«Ti ringrazio. Lo so che è chiederti molto. Ora, come abbiamo stabilito prima del funerale, vorrei che andassi a Ellesméra per completare il tuo addestramento.»


«Con Arya?»


«S'intende. Gli elfi si sono rifiutati di comunicare sia con noi umani che con i nani da quando fu catturata. Arya è l'unico essere vivente in grado di convincerli a uscire dall'isolamento.»


«Non può usare la magia per riferire loro del suo salvataggio?»


«Purtroppo no. Quando gli elfi si sono ritirati nella Du Weldenvarden, dopo la caduta dei Cavalieri, hanno eretto protezioni magiche tutto intorno alla foresta per impedire a qualunque pensiero, oggetto o creatura di entrare per mezzo di poteri arcani, anche se non di uscire, se ho ben capìto le spiegazioni di Arya. Per questo motivo, Arya deve andare di persona nella Du Weldenvarden affinchè la regina Islanzadi sappia che è viva, che tu e Saphira esistete, e venga a conoscenza di tutti gli eventi che hanno coinvolto i Varden in questi ultimi mesi.» Nasuada gli porse la pergamena. Era chiusa da un sigillo di cera. «Questa è una lettera per la regina Islanzadi, che le spiega la situazione dei Varden e i miei progetti in proposito. Difendila a costo della vita. Se cadesse nelle mani sbagliate, provocherebbe danni enormi. Spero che dopo quanto è accaduto, Islanzadi ci conceda nuovamente la sua benevolenza e riallacci i rapporti diplomatici. Il suo aiuto potrebbe rappresentare la differenza fra la vittoria e la sconfitta. Arya lo sa e ha accettato di perorare la nostra causa, ma volevo che anche tu conoscessi la situazione, per poter sfruttare qualunque occasione si presenti.» Eragon s'infilò la pergamena nella giubba. «Quando dovremmo partire?»


«Domattina... a meno che non abbiate già qualche altro programma.»


«No.»


«Bene» fece Nasuada, intrecciando le mani avanti a sé. «Sappiate che un'altra persona viaggerà insieme a voi.» Eragon la guardò interrogativo. «Re Rothgar ha deciso che per amor di equità dovrebbe esserci un rappresentante dei nani ad assistere al tuo addestramento, poiché la questione riguarda anche la loro razza. Perciò vi accompagnerà Orik.» La prima reazione di Eragon fu di irritazione. Saphira avrebbe potuto volare fino alla Du Weldenvarden portando lui e Arya, risparmiando loro settimane di inutile cammino. Ma tre passeggeri erano troppi da ospitare sulle spalle di Saphira. La presenza di Orik li avrebbe costretti a viaggiare via terra.


Dopo una breve riflessione, però, Eragon riconobbe che la richiesta di Rothgar era molto saggia, perché garantiva a Eragon e Saphira una parvenza di imparzialità di fronte alle diverse razze. Sorrise. «D'accordo. Questo ci rallenterà, ma suppongo di dover cedere a Rothgar. A dire il vero, sono contento di avere la compagnia di Orik. Attraversare Alagaèsia soltanto con Arya era una prospettiva inquietante. Lei è...»


Anche Nasuada sorrise. «È diversa.»


«Già.» Eragon tornò serio. «Hai davvero intenzione di attaccare l'Impero? Tu stessa hai detto che i Varden sono deboli. Non mi pare una mossa saggia. Se aspettiamo...»


«Se aspettiamo» lo interruppe lei, decisa, «Galbatorix diventerà sempre più forte. Questa è la prima volta da quando Morzan fu ucciso che abbiamo una sia pur minima opportunità di coglierlo impreparato. Non aveva ragioni per sospettare che avremmo sconfitto gli Urgali - un successo che dobbiamo a te - perciò non ha ancora preparato l'Impero a un'invasione.»


Invasione! esclamò Saphira. E come pensa di uccidere Galbatorix quando interverrà ad annientare il loro esercito con la magia?


Nasuada scrollò la testa in risposta, quando Eragon diede voce all'obiezione. «Da quanto sappiamo di lui, non combatterà finché la stessa Urù'baen non sarà minacciata.


A Galbatorix non importa se mezzo Impero viene distrutto, purché siamo noi ad andare da lui, e non viceversa. Perché dovrebbe preoccuparsi? Se mai riuscissimo a raggiungerlo, le nostre rendendogli ancor più facile il compito di distruggerci.»


«Non hai ancora risposto alla domanda di Saphira» protestò Eragon. «Perché ancora non lo so. Sarà una lunga campagna. Quando volgerà abbastanza potente da sconfiggere Galbatorix, o gli elfi potrebbero essersi uniti a noi, e i loro maghi sono i più potenti di Alagaésia. Non importa quel che accade, non possiamo permetterci altri indugi. È il momento di rischiare e osare quel che nessuno pensa che possiamo realizzare. I Varden sono vissuti nell'ombra troppo a lungo: dobbiamo sfidare Galbatorix, oppure sottometterci e perire.»


La portata di quanto Nasuada stava suggerendo lo turbava. Implicava così tanti rischi e pericoli ignoti che era quasi assurdo prendere in considerazione una simile impresa. Tuttavia non spettava a lui decidere, e doveva accettarlo. Né aveva intenzione di discuterne oltre. Dobbiamo confidare nel suo giudizio.


«Ma che ne sarà di te, Nasuada? Sarai al sicuro quando ce ne saremo andati? Devo pensare al mio giuramento. Ora è mia responsabilità garantire la tua incolumità.»


truppe sarebbero decimate ed esauste,

al termine, tu potresti essere diventato La donna serrò la mascella e agitò una mano. «Non devi temere, sono ben protetta.» Abbassò lo sguardo. «Tuttavia devo ammettere... una delle ragioni per cui voglio andare nel Surda è che Orrin mi conosce da tanto tempo e mi ha offerto la sua protezione. Non posso restare qui senza te e Arya, e con il Consiglio degli Anziani ancora troppo potente. Non mi accetteranno come loro capo finché non proverò oltre ogni dubbio che i Varden sono sotto il mio controllo, e non il loro.»


Poi sembrò attingere a una misteriosa forza interiore, che le raddrizzò le spalle e le sollevò il mento, dandole un'aria distante e altezzosa. «Ora va', Eragon. Prepara il tuo cavallo, riempi le bisacce, e trovati al cancello nord al sorgere del sole.»


Eragon s'inchinò, rispettando il suo ritorno alle formalità, e uscì con Saphira.


Dopo cena, Eragon e Saphira volarono insieme. Si librarono sopra Tronjheim, dove ghiaccioli scintillanti guarnivano le pendici interne del Farthen Dùr come un gigantesco merletto bianco. Anche se mancava ancora qualche ora alla notte, era già quasi buio dentro la montagna.


Eragon reclinò indietro la testa, assaporando l'aria sul viso. Gli mancava il vento: il vento che soffiava sui prati e sospingeva le nuvole, il vento che portava la pioggia e i temporali, e sferzava gli alberi tanto da piegarli. A dire il vero, mi mancano anche gli alberi, pensò. Il Farthen Dùr è un luogo incredibile, ma è privo di piante e animali come la tomba di Ajihad.


Saphira assentì. I nani sembrano pensare che le gemme possano prendere il posto dei fiori. Poi rimase in silenzio, mentre la luce sbiadiva a poco a poco. Quando fu troppo buio per gli occhi di Eragon, Saphira disse: È tardi. Sarà meglio rientrare.


Va bene.


La dragonessa cominciò a scendere tracciando ampie e pigre spirali, avvicinandosi a Tronjheim che riluceva come un faro al centro del Farthen Dùr. Erano ancora lontani dalla città-montagna, quando volse la testa e disse: Guarda. Eragon seguì il suo sguardo, ma non scorse altro che la grigia e piatta landa sotto di loro. Cosa? Invece di rispondere, la dragonessa inclinò le ali e virò a sinistra, sorvolando una delle quattro strade che partivano da Tronjheim seguendo i quattro punti cardinali. Mentre atterravano, Eragon notò una macchia bianca su una collinetta poco distante. La macchia ondeggiò stranamente nell'oscurità, come la fiamma di una candela, poi si trasformò in Angela, che indossava una tunica di lana candida.


L'indovina portava una grossa cesta di vimini carica di funghi delle più svariate specie; Eragon non ne riconobbe la maggior parte. Mentre lei si avvicinava, il giovane li indicò e disse: «Stai raccogliendo funghi?»


«Ciao» lo salutò Angela con una risata, e posò in terra il pesante fardello. «Oh no, funghi è un termine troppo generico.» Li sparpagliò con le mani. «Questo è una famigliola cattiva, questo è un coprino chiomato e qui c'è un gallinaccio, e un pletus, un cantarello, una colombina rossa e quello è un agarico ametistino. Una meraviglia, non trovi?» Indicò ciascuno a turno, per finire con un fungo dal cappello screziato di rosa, lavanda e giallo. «E quello?» domandò Eragon, indicando un fungo dal gambo azzurro folgore, le lamelle color arancio acceso e il cappello nero e lucido come inchiostro.


Lei lo guardò con orgoglio. «La Fricai Andlàt, come direbbero gli elfi. Il gambo provoca la morte istantanea, mentre il cappello può curare la maggior parte dei casi di avvelenamento. È da esso che si estrae il Nettare di Tunivor. La Fricai Andlàt cresce soltanto nelle grotte della Du Weldenvarden e del Farthen Dùr, ma qui morirebbe se i nani cominciassero a depositare i loro rifiuti da qualche altra parte.»


Eragon si guardò intorno, scrutando la piccola collina, e si rese conto di cosa voleva dire esattamente: un letamaio. «Salute a te, Saphira» disse Angela, oltrepassandolo per accarezzare la dragonessa sul naso. Saphira socchiuse gli occhi e sospirò di piacere, dimenando la coda. In quello stesso momento arrivò Solembum trotterellando, con un ratto inerte che gli penzolava dalla bocca. Senza scomporsi, il gatto mannaro si acciambellò sul terreno e cominciò a mordicchiare il roditore con deliberata indifferenza.


«Dunque» disse Angela, scostando una ciocca dell'enorme massa di riccioli, «si parte per Ellesméra?» Eragon annuì. Non si prese la briga di chiederle come lo sapeva: Angela sembrava sapere sempre tutto quel che accadeva. Quando lui rimase in silenzio, lei lo rimbrottò: «Perché quella faccia scura? Non è mica una condanna a morte!» «Lo so.»


«E allora sorridi, perché se non è una condanna a morte, allora devi essere contento! Sei flaccido come il ratto di Solembum. Flaccido. Che bella parola, non trovi?»


Eragon non potè fare a meno di sorridere, e anche Saphira ridacchiò, con un profondo brontolìo gutturale. «Non sono sicuro che sia bella come dici, ma sì, capisco il tuo punto di vista.»


«Ne sono lieta. La comprensione è un'ottima cosa.» Inarcando le sopracciglia, Angela infilò un'unghia sotto un fungo e lo capovolse per esaminarne le lamelle, mentre diceva: «Che fortunata coincidenza esserci incontrati stanotte, proprio mentre tu stai per partire e io... andrò ad accompagnare i Varden nel Surda. Come ti dissi tempo fa, mi piace trovarmi dove succedono le cose, e quello è il posto giusto.»


Eragon sorrise ancora di più. «Be', allora questo significa che faremo un viaggio tranquillo, altrimenti accompagneresti noi.»


Angela si strinse nelle spalle, poi si fece seria e disse: «Sta' attento nella Du Weldenvarden. Solo perché gli elfi sono misteriosi e imperscrutabili, non vuol dire che non siano soggetti alla rabbia e alle passioni come il resto di noi mortali. Ciò che le rende letali, però, è come le nascondono, a volte per anni.»


«Ci sei stata?»


«Tanto tempo fa.»


Dopo una pausa, Eragon chiese: «Cosa ne pensi dei progetti di Nasuada?»


«Mmm... è predestinata! Tu sei predestinato! Sono tutti predestinati!» Scoppiò a ridere, piegata in due, poi si raddrizzò di colpo. «Nota bene che non ho specificato quale tipo di destino vi attende, perciò non importa quel che accadrà, io l'ho predetto. Molto saggio da parte mia.» Sollevò di nuovo la cesta, posandola su un'anca. «Suppongo che non ti vedrò per un bel pezzo, perciò stammi bene, buona fortuna, evita i cavoli arrosto, non mangiare moccio, e guarda il lato bello della vita!» E con una strizzatina d'occhio, si allontanò, lasciando Eragon perplesso e imbarazzato. Dopo una pausa appropriata, Solembum raccolse la sua cena e la seguì, con la sua solita aria sdegnosa e noncurante.

Il dono di Rothgar

Mancava ancora mezz'ora all'alba quando Eragon e Saphira giunsero al cancello nord di Tronjheim. Il cancello era sollevato quel tanto da permettere a Saphira di passare, così si affrettarono a varcarlo e si disposero all'attesa sotto la volta vicina, dove torreggiavano pilastri di diaspro rosso, e sculture di bestie ringhianti si affacciavano fra le colonne color del sangue. Più avanti, due grifoni d'oro alti trenta piedi montavano guardia perenne ai confini di Tronjheim. Coppie identiche si trovavano davanti a ciascun cancello della città-montagna. Non c'era anima viva. Eragon teneva le redini di Fiammabianca. Lo stallone era stato strigliato, ferrato e sellato, con le bisacce che traboccavano di provviste. Scalpitava impaziente; Eragon non lo cavalcava da oltre una settimana. Poco dopo arrivò Orik, con la sua peculiare andatura dondolante, un grosso zaino in spalla e un voluminoso involto sotto il braccio. «Niente cavallo?» domandò Eragon, piuttosto stupito. Si aspetta che andiamo a piedi fino alla Du Weldenvarden?


Orik grugnì. «Faremo sosta a Tarnag, il primo insediamento a nord. Da lì navigheremo lungo l'Az Ragni fino a Hedarth, un avamposto per il commercio con gli elfi. Non ci serviranno cavalcature prima di Hedarth, perciò userò i miei piedi fino a lì.»


Lasciò cadere il fagotto, che produsse un sonoro clangore; quando lo aprì, comparve l'armatura di Eragon. Lo scudo era stato ridipinto - l'albero di quercia al centro era tornato smagliante - e tutte le ammaccature e i graffi erano scomparsi. Sotto c'era la lunga cotta di maglia, lucidata e oliata fino a far scintillare l'acciaio. Non c'era traccia dello squarcio lasciato da Durza quando aveva colpito Eragon alla schiena. Allo stesso modo erano stati riparati la calotta, i guanti, i bracciali, gli schinieri e l'elmo.


«I nostri migliori fabbri si sono adoperati per le tue armi» disse Orik, «come anche per la tua bardatura, Saphira. Ma poiché non possiamo portare con noi un'armatura per draghi, è stata affidata ai Varden, che la custodiranno fino al nostro ritorno.»


Per favore, ringrazialo da parte mia, disse Saphira.


Eragon eseguì, poi si allacciò i bracciali e gli schinieri, riponendo gli altri pezzi nelle bisacce. Per ultimo, stava per prendere l'elmo, quando vide che lo reggeva Orik. Accarezzando pensieroso il copricapo d'acciaio, il nano disse: «Non essere troppo precipitoso nell'indossarlo, Eragon. Devi prima fare una scelta.»


«Di quale scelta parli?»


Il nano sollevò l'elmo e ne rivelò la lucida visiera, che, Eragon notò, era stata alterata: incisi nell'acciaio c'erano il martello e le stelle del clan di Rothgar e Orik, l'Ingietum. Orik aggrottò la fronte, con un'espressione a metà fra il compiaciuto e il preoccupato, e disse in tono formale: «Il mio re, Rothgar, desidera farti dono di questo elmo come pegno dell'amicizia che prova per te. E con esso, Rothgar ti porge l'offerta di adottarti come uno del Dùrgrimst Ingietum, quale membro della nostra famiglia.»


Eragon fissò l'elmo, sconcertato dal gesto di Rothgar. Questo vuol dire che sarò soggetto alla sua autorità? Se continuo a promettere fedeltà e alleanze a questo ritmo, mi ritroverò presto imbrigliato, incapace di fare qualsiasi cosa senza infrangere un giuramento!


Non devi indossarlo per forza, precisò Saphira.


E rischiare di offendere Rothgar? Siamo di nuovo in trappola.


D'altro canto, potrebbe essere un dono sincero, un altro segno di otho, non una trappola. Credo che sia un modo per ringraziarci della mia promessa di risanare Isidar Mithrim.


Eragon non ci aveva pensato, troppo assorto a immaginare in che modo il re dei nani volesse approfittare di loro. Giusto. Ma credo sia anche un tentativo di correggere lo squilibrio di poteri creatosi quando ho giurato fedeltà a Nasuada. I nani non devono essere rimasti molto soddisfatti della piega che hanno preso gli eventi. Si rivolse a Orik, che attendeva ansioso: «Quante volte è stata fatta una simile offerta?»


«A un umano? Mai. Rothgar ha discusso con le famiglie dell'Ingietum un giorno e una notte prima di convincerle ad accettarti. Se acconsenti a portare il nostro emblema, avrai tutti i diritti di un membro del clan. Potrai venire ai nostri consigli e intervenire su ogni questione. E» aggiunse solenne, «se lo desideri, avrai il diritto di essere seppellito con i nostri defunti.»


Fu allora che il valore del gesto di Rothgar si rivelò a Eragon in tutta la sua grandiosità. I nani non potevano offrire onore più immenso. Con un rapido movimento, Eragon prese l'elmo dalle mani di Orik e se lo calcò in testa. «È un vero privilegio per me unirmi al Dùrgrimst Ingietum.»


Orik annuì soddisfatto e disse: «Ora prendi questo Knurlien, questo Cuore di Pietra, fra le tue mani... sì, così. Adesso devi tagliarti una venuzza per bagnare la pietra. Qualche goccia sarà sufficiente... E per finire, ripeti con me: Os il dom qirànù earn dùr thargen, zeitmen, oen grimst vor formv edaris rak skilfz. Narho is belgond...» Fu un lungo discorso, ancora più prolisso perché Orik si fermava a tradurre ogni singola frase. Alla fine, Eragon si guarì la ferita con un semplice incantesimo.


«Checché ne dicano i clan» osservò Orik, «ti sei comportato con integrità e rispetto. Non possono ignorarlo.» Sogghignò. «Facciamo parte dello stesso clan, adesso. Sei mio fratello adottivo! In circostanze normali, Rothgar ti avrebbe donato l'elmo di persona, e avremmo organizzato una lunga cerimonia per festeggiare il tuo ingresso nel Dùrgrimst Ingietum; tuttavia il precipitare degli eventi non ci permette di perdere altro tempo. Ma non pensare di cavartela così! La tua adozione sarà celebrata con i rituali del caso quando tu e Saphira tornerete nel Farthen Dùr. Brinderai e danzerai, e dovrai firmare molti pezzi di carta per formalizzare la tua nuova posizione.» «Non vedo l'ora che arrivi quel giorno» disse Eragon, ancora intento a esaminare ogni possibile sottinteso della sua affiliazione al Dùrgrimst Ingietum.


Orik si sfilò lo zaino dalle spalle, si sedette appoggiato a un pilastro ed estrasse la sua ascia, che cominciò a rigirarsi fra le mani. Dopo qualche minuto, guardò infuriato Tronjheim e sbottò: «Barzul knurlar! Dove si sono cacciati? Arya ha detto che sarebbe venuta subito. Ha! Gli elfi hanno un concetto molto elastico del tempo.»


«Li conosci da molto?» domandò Eragon, accovacciandosi accanto a lui. Saphira osservava la scena con interesse. Il nano scoppiò a ridere. «Età. Ho conosciuto soltanto Arya, e sempre in maniera sporadica perché viaggiava spesso. In settantanni ho imparato soltanto una cosa su di lei: non puoi mettere fretta a un elfo. È come prendere a martellate una lima: magari si spezza, ma non si piega.»


«Ma i nani, non sono anche loro così?»


«Già, ma la pietra col tempo può cambiare.» Orik sospirò e scosse il capo. «Fra tutte le razze, gli elfi sono quelli che cambiano meno, ragion per cui non ho molta voglia d'incontrarli.»


«Ma pensa, conosceremo la regina Islanzadi e vedremo


Ellesméra e chissà cos'altro! Quand'è stata l'ultima volta che un nano è stato invitato nella Du Weldenvarden?» Orik si accigliò. «La bellezza dei luoghi non significa niente. Questioni urgenti riguardano Tronjheim e le nostre altre città, ma a me tocca andare dall'altro capo di Alagaésia per scambiare convenevoli e assistere al tuo addestramento, ingrassando per l'ozio. Potrebbero volerci anni!»


Anni!... Ma se necessario alla sconfitta degli Spettri e dei Ra'zac, lo farò.


Saphira gli toccò la mente. Dubito che Nasuada ci permetterà di restare a Ellesméra più di qualche mese. Considerato quanto ha detto, ci sarà bisogno di noi molto presto.


«Finalmente!» esclamò Orik, alzandosi in piedi.


Stava arrivando Nasuada - le pantofoline ricamate che spuntavano dall'orlo della veste come topolini che si affacciano dalla tana - insieme a Jòrmundur e Arya, che portava uno zaino simile a quello di Orik. Indossava lo stesso completo di pelle nera con cui Eragon l'aveva vista la prima volta, e aveva con sé la spada.


All'improvviso Eragon si rese conto che Arya e Nasuada avrebbero potuto non approvare il fatto che si fosse legato all'Ingietum. Un profondo senso di colpa e di trepidazione lo pervase nel riconoscere che sarebbe stato suo dovere consultarsi prima con Nasuada. E Arya! Fece una smorfia al ricordo di come lei si era arrabbiata dopo il suo primo incontro con il Consiglio degli Anziani.


Quando Nasuada si fermò davanti a lui, Eragon evitò il suo sguardo, imbarazzato. Ma lei disse soltanto: «Hai accettato.» Il suo tono era cortese, controllato.


Lui annuì, con gli occhi ancora bassi.


«Mi chiedevo se l'avresti fatto. Ancora una volta, ti trovi vincolato a tutte e tre le razze. I nani possono rivendicare la tua alleanza in qualità di membro del Dùrgrimst Ingietum, gli elfi ti addestreranno e ti plasmeranno - e la loro influenza probabilmente sarà la più forte, poiché tu e Saphira siete legati dalla loro magia - e hai giurato fedeltà a me, un'umana... Tutto sommato, credo sia un bene che tutti noi condividiamo la tua lealtà.» La giovane accolse lo stupore di Eragon con uno strano sorriso, poi gli mise in mano un sacchetto di monete e si fece da parte.


Jòrmundur gli tese la mano ed Eragon ricambiò la stretta, ancora piuttosto confuso. «Buon viaggio, Eragon. Abbi cura di te.»


«Andiamo» disse Arya, oltrepassandoli per immergersi nelle tenebre del Farthen Dùr. «È tempo di partire. Aiedail è tramontata, e ci aspetta un lungo cammino.»


«Pronti» disse Orik, ed estrasse una lanterna rossa da una tasca laterale dello zaino.


Nasuada li guardò ancora una volta. «Molto bene. Eragon e Saphira, vi accompagni la benedizione dei Varden, come anche la mia personale. Vi auguro un viaggio tranquillo. Ricordate, con voi portate il peso delle nostre speranze e delle nostre aspettative, perciò fatevi onore.»


«Faremo del nostro meglio» promise Eragon.


Con le redini di Fiammabianca saldamente in pugno, Eragon si avviò dietro Arya, che era già avanti di parecchie iarde. Orik lo seguì, e infine Saphira. Nel passare accanto a Nasuada, la dragonessa si fermò un istante per leccarle la guancia. Poi allungò il passo e li raggiunse.


A mano a mano che si allontanavano verso nord, il cancello alle loro spalle rimpiccioliva sempre di più, finché non rimase che uno spiraglio di luce su cui si stagliavano le due sagome nere di Nasuada e Jòrmundur fermi sulla soglia. Quando alla fine raggiunsero la base del Farthen Dùr, trovarono una porta gigantesca - alta trenta piedi - con i battenti spalancati. I tre nani di guardia s'inchinarono e si fecero da parte. Oltre la porta cominciava un tunnel di analoghe proporzioni, fiancheggiato da colonne e lanterne per i primi cinquanta piedi. Il resto era vuoto e silenzioso come un mausoleo.


Era identico all'ingresso occidentale del Farthen Dùr, ma Eragon sapeva che quel tunnel era diverso: invece di scavarsi la strada per oltre un miglio nel fianco del Farthen Dùr per emergere all'esterno, proseguiva sotto terra di montagna in montagna, fino alla città di Tarnag.


«Ci siamo» disse Orik, sollevando la lanterna.


Lui e Arya varcarono la soglia, ma Eragon esitò, pervaso da un'improvvisa incertezza. Anche se non aveva paura del buio, lo turbava il pensiero di trovarsi immerso in una notte eterna finché non fossero arrivati a Tarnag. Una volta entrato nel tunnel, si sarebbe di nuovo avventurato fra le braccia dell'ignoto, abbandonando le poche cose cui si era abituato fra i Varden, in cambio di un destino incerto.


Cosa c'è? gli chiese Saphira.


Niente.


Trasse un profondo respiro e riprese il cammino, lasciando che la montagna lo inghiottisse nelle sue viscere.

Falci e forconi

Tre giorni dopo l'arrivo dei Ra'zac, Roran camminava avanti e indietro ai margini del suo piccolo accampamento sulla Grande Dorsale, in preda a una forte inquietudine. Non aveva avuto più notizie dalla visita di Albriech, né gli era possibile carpire informazioni dal suo punto di osservazione su Carvahall. Scoccò un'occhiata furente alle tende lontane dove dormivano i soldati, poi riprese a camminare.


A mezzogiorno consumò un magro pasto freddo. Asciugandosi la bocca col dorso della mano, si domandò: Ma quanto intendono aspettare i Ra'zac? Se era una gara di pazienza, era deciso a vincerla.


Per ammazzare il tempo, si esercitò al tiro con l'arco contro un tronco marcio, fermandosi solo quando una freccia s'infranse contro una pietra incastrata nel legno. A quel punto non gli rimase altro da fare che ricominciare a marciare avanti e indietro lungo l'arido sentiero che andava da un grosso masso fino al punto in cui dormiva. A un tratto sentì un rumore di passi provenire dalla foresta sottostante. Afferrò l'arco e si nascose in attesa. Con grande sollievo accolse la comparsa della faccia di Baldor tra il fogliame. Roran gli fece cenno di avvicinarsi. Si sedettero a terra e Roran gli chiese: «Perché non è più venuto nessuno?»


«Non potevamo» rispose Baldor, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. «I soldati ci stanno addosso. Oggi è stata la prima volta che ho avuto occasione di svignarmela.


Ma non posso trattenermi a lungo.» Alzò lo sguardo verso il picco che torreggiava su di loro e rabbrividì. «Sei molto più coraggioso di me, a restare qui. Hai avuto problemi con gli orsi, i lupi o i puma?»


«No, no, sto bene. Novità sui soldati?»


«Uno di loro, l'altra sera, si è vantato con Morn che ogni elemento della loro squadra è stato selezionato con cura per questa missione.» Roran aggrottò la fronte. «Non sono tipi tranquilli, sai... Almeno due o tre si ubriacano ogni sera. Il primo giorno alcuni hanno distrutto la sala comune di Morn.»


«Hanno pagato i danni?»


«Ma figurati!»


Roran rivolse lo sguardo al villaggio. «Ancora non capisco perché l'Impero si dia tanto da fare per catturarmi. Cosa vogliono da me? Cosa credono che potrei dargli?»


Baldor seguì il suo sguardo. «I Ra'zac hanno interrogato


Katrina stamane. Qualcuno gli ha riferito che voi due siete molto amici, e i Ra'zac volevano sapere se lei era al corrente di dove fossi finito.»


Roran si volse di scatto verso Baldor. «Lei sta bene?»


«Ci vuole ben altro che quei due per spaventarla» lo rassicurò Baldor. Poi pronunciò la frase seguente con cautela. «Magari potresti consegnarti.»


«Preferirei impiccarmi, e loro con me!» Roran scattò in piedi e cominciò a percorrere la solita pista, battendosi le mani sulle gambe. «Come puoi dire una cosa simile, sapendo come hanno torturato mio padre?»


Baldor lo afferrò per un braccio e disse: «Cosa accadrà se resti ancora nascosto e i soldati non si arrendono? Penseranno che stiamo mentendo per aiutarti a fuggire. L'Impero non perdona i traditori.»


Roran si liberò dalla stretta con una scrollata di spalle. Fece qualche altro passo, poi tornò indietro e si sedette. Se non mi consegno, i Ra'zac se la prenderanno con chiunque gli capiti a tiro. Se provo a sviare i Ra'zac... Roran non era abbastanza esperto di montagne e foreste per eludere le ricerche di trenta uomini e dei Ra'zac. Eragon potrebbe farlo, ma non io. Eppure, a meno che la situazione non cambiasse, quella gli pareva l'unica soluzione possibile. Guardò Baldor. «Non voglio che qualcuno passi un guaio a causa mia. Per adesso continuerò ad aspettare, ma se i Ra'zac perderanno la pazienza e minacceranno qualcuno... be', allora penserò a qualcosa da fare.» «Comunque la rigiri, è una situazione difficile» commentò Baldor.


«Ma ho tutte le intenzioni di superarla indenne.»


Baldor se ne andò poco dopo, lasciando Roran solo con i propri pensieri, a macinare miglia su miglia sulla solita pista, dove impresse solchi profondi sotto il peso dei suoi pensieri. Quando scese il freddo crepuscolo, si tolse gli stivali per paura di consumarli - e continuò a piedi nudi.


Proprio mentre sorgeva la pallida luna, scacciando le ombre della notte con i suoi raggi d'argento, notò un certo scompiglio giù nel villaggio. Decine di lanterne sobbalzavano nell'oscurità, scomparendo per poi ricomparire quando passavano dietro le case. I puntini gialli si raggrupparono al centro di Carvahall, come uno sciame di lucciole, poi si mossero verso i margini del paese, dove vennero intercettati da una compatta fila di torce proveniente dall'accampamento dei soldati.


Per due ore Roran osservò le due fazioni affrontarsi a viso aperto: le agitate lanterne baluginavano deboli contro le solide fiamme delle torce. Alla fine i due gruppi si dispersero: chi rientrò nelle tende, chi nelle case. Quando tutto tornò alla calma, Roran srotolò il suo sacco e s'infilò sotto le coperte.


Per tutto il giorno seguente, Carvahall brulicò di insolita attività. Figure si aggiravano per le case e Roran notò con sorpresa che alcuni s'inoltravano nella Valle Palancar diretti alle fattorie. A mezzogiorno vide due uomini entrare nell'accampamento dei soldati e scomparire nella tenda dei Ra'zac per quasi un'ora.


Roran era così preso da quanto accadeva di sotto che non si mosse per tutto il giorno.


Stava cenando, quando, come aveva sperato, ricomparve Baldor. «Fame?» chiese Roran, indicandogli il cibo. Baldor scosse il capo e si lasciò cadere con un sospiro esausto. Aveva gli occhi cerchiati e la pelle del volto cerea e tirata. «Quimby è morto.»


La scodella di Roran cadde con un tonfo. Il giovane imprecò, spazzolandosi i calzoni dai pezzi di carne fredda, poi chiese: «Come?»


«Un paio di soldati hanno cominciato a importunare Tara, ieri sera.» Tara era la moglie di Morn. «Lei non ci ha fatto caso, ma i due hanno cominciato a litigare su chi doveva essere servito per primo. Quimby era lì - stava controllando un barile di birra, perché Morn gli aveva detto che era andata a male - e ha cercato di dividerli.» Roran annuì. Tipico di Quimby, intervenire sempre per garantire l'ordine. «Solo che un soldato ha scagliato un boccale che lo ha colpito alla tempia. È morto sul colpo.»


Con le mani sui fianchi, Roran fissava il terreno, sforzandosi di riprendere il controllo del respiro affannato. Era come se Baldor gli avesse sferrato un pugno allo stomaco. Non è possibile... Quimby, morto? Il contadino birraio faceva parte del panorama quanto le montagne che circondavano il villaggio, una presenza indiscussa radicata nel tessuto di Carvahall. «I soldati saranno puniti?»


Baldor alzò le mani al cielo. «Subito dopo che Quimby è morto, i Ra'zac hanno preso il corpo dalla taverna e se lo sono portato nella loro tenda. Abbiamo tentato di recuperarlo ieri notte, ma non hanno voluto sentire ragioni.» «Capisco.»


Baldor gemette, massaggiandosi il mento. «Papà e Loring si sono incontrati stamattina con i Ra'zac e sono riusciti a convincerli a restituire la salma. I soldati però non subiranno alcuna conseguenza.» Fece una pausa. «Stavo per venire qui, quando è stato consegnato il corpo. Sai che ha ottenuto sua moglie? Ossa.»


«Ossa?»


«Un mucchio di ossa spolpate... si vedevano i segni dei denti... alcune perfino spezzate in cerca di midollo.» Disgusto e orrore s'impadronirono di Roran al pensiero del terribile destino di Quimby. Tutti sapevano che uno spirito non può riposare in pace se al suo corpo non viene data degna sepoltura. Disgustato dalla profanazione, chiese: «Ma chi l'ha mangiato?» «I soldati sono rimasti altrettanto sconvolti. Devono essere stati i Ra'zac.»


«Perché? A quale scopo?»


«Sai» disse Baldor, «io non credo che siano umani. Tu non li hai mai visti da vicino, ma hanno l'alito fetido, e si coprono sempre la faccia con sciarpe nere. Hanno la schiena gobba e deforme, e tra loro comunicano con strani schiocchi. Perfino i loro uomini li temono.»


«Ma se non sono umani, di che razza di creature si tratta?» s'interrogò Roran. «Perché Urgali non sono.» «E chi lo sa?»


La paura, adesso, si aggiunse al disgusto: paura del soprannaturale. La vide riflettersi sul volto di Baldor, mentre il giovane si torceva le mani. Nonostante tutte le storie che si raccontavano sui misfatti di Galbatorix, era terribile accorgersi che i tentacoli malvagi del re si aggiravano anche fra le loro case, adesso. Roran capì di essere entrato a far parte della Storia, dove operavano forze oscure e grandiose che fino a quel momento aveva conosciuto soltanto attraverso le ballate e le leggende. «Bisogna fare qualcosa» mormorò.


Nel corso della notte e durante la mattinata l'aria si fece più tiepida, finché nel pomeriggio la Valle Palancar non brillò di un inatteso fulgore primaverile. Carvahall sembrava tranquilla sotto il cielo azzurro e limpido, ma Roran poteva percepire l'acre rancore che serpeggiava fra gli abitanti con feroce intensità. La calma era come un lenzuolo teso contro il vento.


Malgrado il senso di attesa, la giornata si rivelò noiosa: Roran passò la maggior parte del tempo a spazzolare il manto della giumenta di Horst. Alla fine si coricò, contemplando, sopra le chiome dei pini, le galassie di stelle che illuminavano il cielo notturno. Gli sembravano così vicine da poterle toccare mentre si lasciava cadere in un vuoto di tenebra.


La luna stava tramontando quando Roran si destò, la gola irritata dal fumo. Tossì e si alzò a sedere, battendo le palpebre mentre gli occhi gli bruciavano e lacrimavano. Non riusciva quasi a respirare per il fumo denso. Afferrò le coperte e sellò la cavalla spaventata, poi la spronò a salire ancora più su, in cerca d'aria fresca. Ben presto si rese conto che il fumo lo stava sorpassando, così fece voltare la giumenta e tagliò per la foresta. Dopo lunghi minuti passati a brancolare nel buio, finalmente uscirono allo scoperto e proseguirono lungo una cengia spazzata da una leggera brezza. Inspirando a pieni polmoni, Roran scandagliò la valle in cerca dell'incendio. Lo individuò subito.


Il granaio di Carvahall era avvolto da un turbine di fiamme, che trasformavano il suo prezioso contenuto in pagliuzze ardenti. Roran rabbrividì nel guardare le scorte alimentari del villaggio andare in fumo. Voleva gridare e correre ad aiutare gli uomini con i secchi, ma non riusciva ad abbandonare la sicurezza del suo rifugio.


Una scintilla cadde sul tetto della casa di Delwin. Nel giro di qualche secondo, il tetto di paglia esplose in una vampa di fuoco.


Roran imprecò e si strappò i capelli, con le lacrime che gli rigavano le guance. Ecco perché era così importante maneggiare con cura il fuoco a Carvahall. È stato un incidente? Sono stati i soldati? O forse i Ra'zac hanno voluto punire il villaggio per avermi coperto? Sono io il responsabile di questo scempio?


La casa di Fisk fu la terza a prendere fuoco. Atterrito, Roran non potè far altro che distogliere lo sguardo, odiandosi per la propria codardia.


Giunta l'alba, tutti gli incendi erano stati domati, o si erano consumati da soli. Soltanto la buona sorte e una notte senza vento avevano salvato il resto di Carvahall dalla distruzione.


Roran aspettò per assicurarsi che tutto fosse sotto controllo, poi tornò al suo campo e crollò a terra sfinito. Dalla mattina alla sera fu dimentico del mondo, pur soffrendo sprazzi di dolore nei suoi sogni tormentati. Quando si svegliò, si limitò ad aspettare il visitatore che era sicuro sarebbe comparso. Questa volta era Albriech. Arrivò al crepuscolo, con un'espressione cupa e tesa. «Seguimi» disse.


Roran s'irrigidì. «Perché?» Hanno deciso di consegnarmi? Se era stato lui la causa dell'incendio, poteva capire che il villaggio volesse sbarazzarsi di lui. Poteva persino capire che era una mossa necessaria. Era assurdo aspettarsi che gli abitanti di Carvahall si sacrificassero per lui. Ma questo non significava che si sarebbe lasciato consegnare ai Ra'zac. Dopo quello che i due mostri avevano fatto a Quimby, Roran si sarebbe battuto fino alla morte pur di non finire loro prigioniero.


«Perché» rispose Albriech, i muscoli della mascella tesi allo spasimo «sono stati i soldati ad appiccare il fuoco. Morn li aveva banditi dai Sette Covoni, ma quelli si sono ubriacati lo stesso con la loro birra. Uno di loro ha fatto cadere una torcia vicino al granaio mentre tornava alla tenda.»


«Si è fatto male qualcuno?» chiese Roran.


«Qualche leggera ustione. Gertrude è riuscita a curarle. Abbiamo tentato di negoziare con i Ra'zac. Hanno respinto la nostra richiesta che l'Impero ci rifondesse i danni e il colpevole venisse consegnato alla giustizia. Si sono perfino rifiutati di confinare i soldati nell'accampamento.»


«Ma perché devo tornare?»


Albriech ridacchiò. «È giunto il tempo delle falci e dei forconi. Ci serve il tuo aiuto per... estirpare i Ra'zac.» «Fareste questo per me?»


«Non rischiamo la nostra vita soltanto per la tua sicurezza. Adesso la questione riguarda tutto il villaggio. Se non altro, vieni a parlare con papà e con gli altri, per ascoltare le loro proposte... Pensavo che saresti stato contento di allontanarti da queste montagne maledette.»


Roran riflettè a lungo sull'invito di Albriech prima di decidere se seguirlo. O accetto o dovrò fuggire, ma potrò sempre fuggire in seguito. Andò a prendere la giumenta, legò le bisacce alla sella, e s'incamminò dietro Albriech, verso la valle. A mano a mano che si avvicinavano a Carvahall, rallentarono, usando alberi e cespugli per nascondersi. Rannicchiandosi dietro una botte per l'acqua piovana, Albriech controllò che le strade fossero sgombre, poi fece un segnale a Roran. Insieme sfrecciarono di ombra in ombra, sempre in guardia contro i servi dell'Impero. Alla fucina di Horst, Albriech aprì uno dei battenti della porta quel tanto da far passare Roran e la cavalla.


All'interno, la bottega era illuminata da una sola candela, che gettava una luce tremolante sul cerchio di facce chine su di essa nel buio circostante. C'era Horst - la folta barba che sporgeva come una mensola nella luce - in compagnia di Delwin, Gedric e Loring, i volti tesi. Il resto del gruppo era formato da uomini più giovani: Albriech, Baldor, i tre figli di Loring, Parr e il figlio di Quimby, Nolfavrell, che aveva soltanto tredici anni.


Tutti si volsero a guardare Roran che si univa all'assemblea. Horst disse : «Ah, ce l'hai fatta. Sei sfuggito alla sventura mentre eri sulla Dorsale?»


«Sono stato fortunato.» «Allora possiamo procedere.»


«Con che cosa, esattamente?» Roran legò la cavalla a un'incudine mentre ascoltava.


Rispose Loring: la faccia coriacea del calzolaio era una ragnatela di rughe profonde. «Abbiamo tentato di ragionare con questi Ra'zac... questi invasori.» Si fermò, il fragile petto scosso da un preoccupante sibilo rauco. «Si sono rifiutati di ragionare. Ci hanno messi tutti in pericolo, senza la minima traccia di rimorso o contrizione.» Si schiarì la gola, poi annunciò con voce stentorea: «Devono... andarsene. Queste creature...»


«No» intervenne Roran. «Non creature. Profanatori.»


I volti si incupirono e annuirono. Fu Delwin a riprendere il discorso. «Il punto è che qui si tratta delle nostre vite. Se l'incendio si fosse propagato, decine di persone sarebbero rimaste uccise, e coloro che si fossero messi in salvo, avrebbero perso tutto quello che possedevano. Di conseguenza, abbiamo deciso di cacciare i Ra'zac da Carvahall. Sarai dei nostri?»


Roran esitò. «E se tornano o mandano a chiamare rinforzi? Non possiamo sconfiggere tutto l'Impero.» «No» disse Horst con aria solenne, «ma non possiamo nemmeno restare a guardare i soldati che ci ammazzano e distruggono le nostre proprietà. Quanto deve sopportare un uomo prima di passare al contrattacco?» Loring scoppiò a ridere, gettando indietro la testa e la candela illuminò i monconi dei suoi denti. «Prima dobbiamo armarci» disse con gusto, «poi combatteremo. Li faremo pentire di aver messo le loro luride zampe sulla terra di Carvahall! Ha ha!»

Vendetta

Dopo l'assenso di Roran, Horst cominciò a distribuire falci, forconi, badili e tutto ciò che poteva servire a ricacciare indietro i soldati e i Ra'zac.


Roran scelse un forcone, poi lo rimise a posto. Anche se non aveva mai prestato troppa attenzione alle storie di Brom, una di esse, la Canzone di Gemnd, gli faceva vibrare le corde dell'anima ogni volta che l'ascoltava. Narrava di Gerand, il più grande guerriero dei suoi tempi, che depose la spada per prendere moglie e coltivare la terra. Purtroppo non trovò la pace agognata, poiché un signorotto geloso scatenò una sanguinosa faida contro la sua famiglia, costringendo Gerard a uccidere ancora. Ma non combattè con la spada, bensì con un semplice martello.

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