Ancora non si capiva se il sole, sepolto dietro le nuvole, fosse tramontato. Dopo un volo così lungo, da est verso ovest all’inseguimento della luce all’orizzonte, mi sentivo disorientata; il tempo era trascorso in maniera strana. Restai sorpresa quando la foresta lasciò il posto ai primi edifici, il segnale che eravamo vicini a casa.
«Che silenzio», osservò Edward. «Hai il mal d’aria?».
«No, sto bene».
«Ti è dispiaciuto ripartire?».
«Più che dispiaciuta sono sollevata, credo».
Mi guardò di sottecchi. Dirgli di continuare a fissare la strada era vano e, per quanto odiassi ammetterlo, inutile.
«In un certo senso Renée è molto più... perspicace di Charlie. Mi ha innervosita». Edward rise. «Tua madre ha una mente molto interessante. Quasi infantile, ma molto sagace. Vede le cose in modo diverso dagli altri». Sagace. Era una buona descrizione di mia madre — quando era attenta. Di solito Renée era talmente sorpresa dalla sua stessa vita da non accorgersi granché del resto. Durante quel fine settimana, però, mi aveva prestato molta attenzione.
Phil era impegnato — i liceali della squadra di baseball che allenava avevano raggiunto i playoff — e restare sola con me ed Edward aveva permesso a Renée di affilare lo sguardo. Finiti gli abbracci e i gridolini di gioia, aveva iniziato a tenerci d’occhio. E, mentre ci osservava, i suoi grandi occhi blu si erano fatti prima perplessi, poi preoccupati.
Quella mattina avevamo passeggiato insieme sul lungomare. Voleva mostrarmi le bellezze della sua nuova città, forse sperava ancora che il sole potesse convincermi ad abbandonare Forks. Voleva anche parlare con me a quattr’occhi e non fu difficile trovare il modo. Edward si era inventato una tesina da scrivere: una buona scusa per chiudersi in casa tutto il giorno. Tornai con la mente alla nostra conversazione...
Io e Renée costeggiavamo lente il marciapiede, cercando di restare all’ombra delle poche palme. Malgrado l’orario, il caldo era soffocante. Con l’aria così carica d’umidità, si faceva fatica persino a respirare.
«Bella?», chiese mia madre, e parlando spostò lo sguardo dalla sabbia alle onde che s’infrangevano leggere sulla riva.
«Che c’è, mamma?».
Sospirò, senza guardarmi. «Sono preoccupata...».
«Cosa c’è che non va?», le chiesi improvvisamente ansiosa. «Posso aiutarti?».
«Non si tratta di me». Scosse la testa. «Sono preoccupata per te... e per Edward».
Mentre pronunciava il suo nome tornò a guardarmi, desolata.
«Ah», farfugliai, fissando lo sguardo su due fanatici del jogging che correvano zuppi di sudore.
«Le cose fra voi sembrano molto più serie di quanto pensassi», proseguì. Aggrottai le sopracciglia e feci un veloce riassunto mentale dei due giorni precedenti. Edward e io c’eravamo a malapena sfiorati, perlomeno davanti a lei. Chissà, forse anche Renée era pronta a darmi una lezione di senso della responsabilità. La cosa non mi disturbava com’era accaduto con Charlie. Con mia madre non m’imbarazzavo. Dopotutto, era il genere di ramanzina che le avevo fatto io chissà quante volte nei dieci anni precedenti.
«C’è qualcosa di... strano, nel modo in cui state insieme», mormorò, la fronte corrugata e lo sguardo preoccupato. «Il modo in cui ti guarda... è così protettivo. Come se fosse pronto a farti scudo di fronte a una pistola, o qualcosa del genere».
Risi, non ancora in grado di incrociare il suo sguardo. «È una cosa brutta?».
«No». Aggrottò le sopracciglia mentre cercava le parole. «È una cosa diversa. È molto coinvolto da te e... molto premuroso. E come se non capissi davvero cosa c’è tra voi. Come se mi nascondeste un segreto».
«Vedi cose che non ci sono, mamma», risposi subito, sforzandomi di mantenere un tono rilassato. Il mio stomaco sussultò. Avevo dimenticato quanto mia madre sapesse osservare. La sua idea semplice del mondo le permetteva di sfrondare il superfluo e mirare dritto alla verità. Non era mai stato un problema, fino a quel momento. Non avevo mai custodito segreti inconfessabili.
«Non è soltanto lui». Tese le labbra, sulla difensiva. «Dovresti vedere come ti muovi quando gli sei accanto».
«In che senso?».
«I tuoi spostamenti... ti orienti attorno a lui senza neanche pensarci. Quando lui si muove, anche di poco, cambi posizione. Come le calamite, o la gravità. Sei come un... satellite, o giù di lì. Mai visto niente del genere». Increspò le labbra e abbassò lo sguardo.
«Dimmi un po’ mamma», la presi in giro sforzandomi di sorridere. «Hai ricominciato a leggere i thriller, vero? O stavolta sei passata alla fantascienza?». Renée arrossì appena. «Questo non c’entra».
«Hai scoperto qualche libro interessante?».
«Be’, sì, uno... ma questo non c’interessa. Ora stiamo parlando di te».
«Dovresti darti ai romanzi d’amore, mamma. Lo sai che perdi la testa troppo facilmente».
Accennò un sorriso. «Mi sto comportando da stupida, vero?». Non riuscii a rispondere subito. Bastava sempre poco per condizionare Renée. A volte era meglio così, specie quando perdeva di vista il buon senso. Eppure, vederla cedere così velocemente alle mie banalità mi turbò, perché stavolta era lei ad avere ragione da vendere.
Alzò lo sguardo e cercai di controllare la mia espressione.
«Non da stupida, soltanto da mamma».
Rise, e con un gesto ampio indicò la spiaggia bianca e le acque azzurre.
«Tutto questo non basta a farti tornare dalla tua stupida mamma?». Con un gesto teatrale mi passai la mano sulla fronte e feci il gesto di strizzarmi i capelli.
«All’umidità ci si abitua», mi assicurò.
«Anche alla pioggia», replicai.
Mi diede una gomitata giocosa, poi mi riaccompagnò verso l’auto tenendomi per mano. A parte le preoccupazioni per me, sembrava felice. Soddisfatta. Guardava ancora Phil con occhi da pesce lesso, il che era confortante. Di certo la sua vita era ricca e appagante. Non avrebbe sentito la mia mancanza più di tanto, nemmeno dopo...
Le dita ghiacciate di Edward mi accarezzarono la guancia. Alzai lo sguardo, strizzai gli occhi e tornai al presente. Lui si chinò a baciarmi la fronte.
«Siamo a casa, Bella Addormentata. È ora di svegliarsi». Eravamo fermi davanti a casa di Charlie. La luce in veranda era accesa, l’auto della polizia parcheggiata sul vialetto d’ingresso. Esaminai le finestre e dalla tenda tirata del salotto vidi filtrare un raggio di luce gialla che illuminava il prato buio. Sospirai. Charlie era pronto all’assalto.
Probabilmente Edward aveva lo stesso timore, perché aprì la mia portiera con l’espressione rigida e lo sguardo lontano.
«È grave?», chiesi.
«Charlie non sarà un problema», mi rassicurò, senza un filo d’ironia nella voce. «Ha sentito la tua mancanza». Lo guardai torva e dubbiosa. E allora perché Edward sembrava teso come prima di una battaglia?
La mia valigia era leggera, ma insistette per portarla in casa. Charlie ci tenne la porta aperta.
«Bentornata, piccola!», gridò Charlie in tono sorprendentemente sincero.
«Com’è Jacksonville?».
«Umida. E piena d’insetti».
«Dunque Renée non ti ha convinta a iscriverti all’università laggiù?».
«Ci ha provato. Ma io l’acqua preferisco berla, non respirarla». Gli occhi di Charlie guizzarono involontariamente su Edward. «Tu ti sei trovato bene?».
«Sì», rispose Edward sereno. «Renée è stata molto ospitale».
«Mi fa... ehm, piacere. Sono contento che vi siate divertiti». Charlie distolse lo sguardo da Edward e mi tirò a sé per un abbraccio inaspettato.
«Notevole», gli sussurrai nell’orecchio.
Scoppiò a ridere. «Mi sei mancata davvero, Bells. Il cibo qui fa schifo quando non ci sei».
«Ora ci penso io», gli dissi quando mi lasciò andare.
«Forse è meglio se prima chiami Jacob: mi sta assillando dalle sei di stamattina, si fa vivo ogni cinque minuti. Gli ho promesso che l’avresti chiamato prima ancora di disfare la valigia».
Non fu necessario guardare Edward per sentire che era impietrito, immobile accanto a me. Ecco la causa di tanta tensione.
«Jacob vuole parlarmi?».
«Con urgenza, direi. Non mi ha voluto spiegare, ha detto solo che era importante».
In quel momento squillò il telefono, insistente e stridulo.
«Eccolo ancora, ci scommetto il prossimo stipendio», brontolò Charlie.
«Rispondo io». Corsi in cucina.
Edward mi seguì e Charlie scomparve in salotto.
Agguantai il telefono a metà squillo e mi voltai verso la parete per non mostrare il viso. «Pronto?».
«Sei tornata», disse Jacob.
La sua voce familiare e rauca scatenò un’ondata di nostalgia. Mille ricordi iniziarono a girare aggrovigliati nella mia mente: una spiaggia di sassi punteggiata di tronchi d’albero, un garage fatto di casotti prefabbricati, bibite calde in una busta di carta, una stanza minuscola con un divano malandato e troppo piccolo. La risata nei suoi occhi neri e profondi, il calore febbricitante della sua grande mano che stringeva la mia, il bagliore dei denti bianchi a contrasto con la pelle scura, il viso disteso in quel sorriso ampio che era sempre stato la chiave di una porta segreta, aperta soltanto per gli spiriti affini.
Era una specie di nostalgia di casa, il desiderio del luogo e della persona che mi avevano protetta nei momenti più bui.
Sciolsi il nodo che avevo in gola. «Sì», risposi.
«Perché non mi hai chiamato?», chiese Jacob.
Il suo tono arrabbiato mi fece subito drizzare i capelli. «Perché sono in casa da quattro secondi esatti, e quando il telefono ha squillato Charlie mi stava giusto dicendo che avevi chiamato».
«Ah. Scusa».
«Niente. Allora, perché stai tormentando Charlie?».
«Ho bisogno di parlarti».
«Fin qui c’ero arrivata da sola. Dimmi».
Seguì una breve pausa.
«Domani vai a scuola?».
Aggrottai le sopracciglia, incapace di dare un senso alla domanda. «Ovvio che ci vado. Perché non dovrei?».
«Niente. Ero solo curioso».
Un’altra pausa.
«Allora, di cosa volevi parlare, Jake?».
Esitò. «Di niente, credo. Volevo... volevo sentire la tua voce».
«Sì, lo so. Sono molto contenta che tu mi abbia chiamato, Jake. Io...». Ma non sapevo cosa aggiungere. Forse che avrei voluto uscire in quello stesso istante per andare a La Push. Ma non potevo dirglielo.
«Ora devo andare», disse all’improvviso.
«Cosa?».
«Ti chiamo presto, okay?».
«Ma Jake...».
Aveva già riattaccato. Restai incredula ad ascoltare il segnale del telefono.
«Una chiamata breve», bofonchiai.
«Tutto bene?», chiese Edward, con voce bassa e premurosa. Mi voltai lentamente verso di lui. La sua espressione era perfettamente calma. Indecifrabile.
«Non lo so. Non ho capito bene cosa volesse». Era assurdo che Jacob avesse tormentato Charlie tutto il giorno soltanto per sapere se sarei andata a scuola. E se voleva sentire la mia voce, perché aveva riattaccato così presto?
«Probabilmente sei l’unica che può indovinarlo», disse Edward, stiracchiando la bocca in un sorriso.
«Chissà», mormorai. Era vero. Conoscevo Jake come le mie tasche. Non era mai stato così difficile immaginare le sue motivazioni. Con i pensieri a chilometri di distanza — più di venti, lungo la strada per La Push — passai al setaccio il frigorifero in cerca degli ingredienti per la cena di Charlie. Edward si appoggiò al ripiano della cucina; sapevo che i suoi occhi, a distanza, fissavano il mio viso, ma ero troppo assorta per preoccuparmi di cosa ci vedesse. Forse la faccenda della scuola era la chiave di tutto. Era l’unica vera domanda che mi aveva fatto Jake. E di sicuro era in cerca di una risposta precisa, a giudicare dall’insistenza con cui aveva tormentato Charlie. Ma perché mettersi a tenere il conto delle mie presenze?
Cercai di pensarci razionalmente. Senon fossi andata a scuola il giorno seguente, quale sarebbe stato il problema, per Jacob? Charlie mi aveva fatto una piccola predica sulla necessità di evitare le assenze quando mancava così poco agli esami, ma l’avevo convinto che un venerdì non avrebbe compromesso i miei studi. Difficile che Jake fosse preoccupato di questo. Dal mio cervello non veniva alcuna intuizione brillante. Forse mi era sfuggita qualche informazione fondamentale.
Che cosa poteva essere cambiato di così importante, in soli tre giorni, da convincere Jacob a spezzare la sua sequela di dinieghi e a rimettersi in contatto con me? Che differenza facevano tre giorni?
Restai immobile al centro della cucina. La scatola di hamburger surgelati che avevo fra le mani mi scivolò dalle dita intorpidite. Passò un secondo interminabile, in cui mi persi il tonfo che avrebbero dovuto fare sul pavimento. Edward li aveva presi al volo e poggiati sul ripiano. Le sue braccia erano già attorno a me, le sue labbra al mio orecchio.
«Cosa c’è che non va?».
Scrollai la testa, confusa.
Tre giorni possono cambiare tutto.
In fondo, non mi ero convinta io stessa che l’alternativa del college fosse impraticabile? Che non avrei più potuto avvicinare nessuno, dopo aver attraversato i tre dolorosi giorni di trasformazione necessari per liberarmi della mortalità e trascorrere l’eternità con Edward? La trasformazione che mi avrebbe resa per sempre prigioniera della mia sete... Forse Charlie aveva detto a Billy che ero sparita per tre giorni? Forse Billy aveva tirato conclusioni affrettate? Forse Jacob voleva soltanto assicurarsi che fossi ancora un essere umano? Che il patto dei licantropi non fosse stato infranto, che nessuno dei Cullen avesse osato mordere un umano... mordere, non uccidere?
Ma pensava davvero che sarei tornata a casa da Charlie, in tal caso?
Edward mi diede uno strattone. «Bella?», chiese, sinceramente ansioso.
«Credo... credo che volesse controllare», mugugnai. «Rassicurarsi. Che sono un essere umano, ecco».
Edward s’irrigidì e un sibilo profondo mi risuonò nell’orecchio.
«Dovremo andarcene», sussurrai. «Prima. Per rispettare il patto. Non potremo tornare mai più». Le sue braccia si strinsero a me. «Lo so».
Charlie si schiarì forte la voce dietro di noi.
Con un sussulto mi liberai dall’abbraccio di Edward, mentre arrossivo. Edward tornò ad appoggiarsi al ripiano. Mi guardava di sottecchi. La preoccupazione e la rabbia erano evidenti.
«Se non hai voglia di preparare da mangiare, posso farmi portare una pizza», suggerì Charlie.
«No, tutto a posto, sono già all’opera».
«Okay», rispose. Si appoggiò allo stipite della porta, a braccia incrociate. Sospirai e mi misi al lavoro, cercando di ignorare il mio pubblico.
«Se ti chiedessi di fare una cosa, ti fideresti?», mi chiese Edward, un filo di nervosismo nella voce morbida.
Eravamo quasi a scuola. Fino a un momento prima aveva scherzato come se niente fosse ma, all’improvviso, aveva afferrato stretto il volante, sforzandosi di non sbriciolarlo.
Osservai la sua espressione ansiosa. Lo sguardo era distante, come distratto da voci lontane. Il battito del mio cuore accelerò, innescato dalla tensione, ma replicai con la dovuta fermezza. «Dipende».
Entrammo nel parcheggio della scuola.
«Temevo che avresti risposto così».
«Cosa vuoi che faccia, Edward?».
«Voglio che resti in macchina». Parcheggiò al solito posto e mentre parlava spense il motore. «Voglio che resti ad aspettare finché non torno».
«Ma... perché?».
In quel momento lo notai. Alto com’era, lo avrei visto svettare in mezzo agli altri studenti anche se non si fosse appoggiato alla moto nera, parcheggiata sfrontatamente sul marciapiede.
«Oh».
Il volto di Jacob era una maschera tranquilla che conoscevo bene. Era l’espressione che usava quando era deciso a imbrigliare le emozioni, a mantenere il controllo. Somigliava a Sam, il più vecchio dei lupi, il capo del branco dei Quileute. Ma Jacob non avrebbe mai potuto conquistare la serenità perfetta irradiata da Sam.
Avevo dimenticato quanto m’infastidisse quell’espressione. Ero riuscita a conoscere Sam piuttosto bene prima del ritorno dei Cullen — tanto da apprezzarlo, persino — ma quando Jacob imitava quello sguardo non potevo fare a meno di stizzirmi. Era il volto di uno sconosciuto. Con quella maschera addosso, non era il mio Jacob.
«Ti sei sbagliata, ieri sera», mormorò Edward. «Ti ha chiesto della scuola perché sapeva di potermi trovare dov’eri tu. Cercava un posto sicuro per parlarmi. Un posto con dei testimoni».
Dunque la sera precedente avevo frainteso le ragioni di Jacob. Mancanza di informazioni, ecco il problema. Per esempio, perché mai Jacob avrebbe dovuto parlare proprio con Edward?
«Non resto in macchina», dissi.
Edward sospirò tranquillo. «Lo sapevo. Bene, leviamoci questo impiccio». Il volto di Jacob s’indurì quando ci vide camminare verso di lui, mano nella mano.
Notai altri volti, i miei compagni di scuola. Strabuzzavano gli occhi di fronte al metro e novantacinque del lungo corpo di Jacob, alla muscolatura tutt’altro che usuale per un ragazzo di sedici anni e mezzo. Li vedevo indugiare sulla sua maglietta nera aderente — a maniche corte, nonostante la giornata fosse più fredda della media — sui jeans logori e macchiati di grasso e sulla moto nera e lucida alla quale era appoggiato. Non si soffermavano sul viso: qualcosa nella sua espressione li induceva a deviare lo sguardo. Gli avevano creato il vuoto attorno, una bolla di spazio che nessuno osava invadere.
Con un certo stupore, mi resi conto che Jacob a loro sembrava pericoloso. Che strano. Edward si fermò a pochi metri da lui; lo sentivo, non era a suo agio sapendomi così vicina a un licantropo. Portando la mano indietro, si mise davanti a me, in modo da coprirmi per metà.
«Avresti potuto chiamarci», disse Edward in tono duro come l’acciaio.
«Scusa», rispose Jacob, distorcendo il viso in un ghigno. «Non ci sono sanguisughe nella mia rubrica».
«Mi avresti trovato a casa di Bella, lo sai».
Jake fece una smorfia e aggrottò le sopracciglia. Non rispose.
«Non è questo il posto, Jacob. Ne possiamo parlare più tardi?».
«Certo, come no. Dopo scuola posso sempre fermarmi alla tua cripta». Jacob ghignò. «L’orario è un problema?».
Edward lanciò uno sguardo pungente tutt’attorno e si soffermò sugli altri studenti che si trovavano appena fuori del raggio delle nostre voci. Alcuni erano fermi sul marciapiede, con gli occhi luccicanti d’attesa. Forse speravano che scoppiasse una rissa, tanto per alleviare la noia del lunedì mattina. Vidi Tyler Crowley dare di gomito ad Austin Marks, ed entrambi si fermarono a osservare.
«So già che cosa sei venuto a dire», ricordò Edward a Jacob con voce tanto bassa che persino io feci fatica a distinguerla. «Messaggio ricevuto. Consideraci avvisati».
Edward mi rivolse uno sguardo fugace e preoccupato.
«Avvisati?», domandai ingenua. «Di cosa state parlando?».
«Non gliel’hai detto?», chiese Jacob, con gli occhi spalancati di stupore.
«Che c’è, avevi paura che si schierasse con noi?».
«Piantala Jacob, per favore», disse Edward impassibile.
«Perché?», lo sfidò Jacob.
Corrugai la fronte, confusa. «Cos’è che non so? Edward?». Edward inchiodò con lo sguardo Jacob, come se non mi avesse sentito.
«Jake?».
Jacob mi guardò di sottecchi. «Non ti ha raccontato che il suo grande...
"fratello" ha passato il confine sabato sera?», domandò sarcastico. Poi i suoi occhi scintillarono di nuovo verso Edward. «Paul era nel pieno diritto di...».
«Era terra di nessuno!», sibilò Edward.
«No!».
Jacob era visibilmente alterato. Gli tremavano le mani. Scosse la testa e respirò a fondo.
«Emmett e Paul?», sussurrai. Nel branco Paul era il più imprevedibile. Era lui che aveva perso il controllo quel giorno nei boschi... il ricordo del lupo grigio che ringhiava si fece improvvisamente vivo dentro di me.
«Cos’è successo? Hanno combattuto?». Il panico rese la mia voce più stridula. «Perché? Paul è ferito?».
«Non c’è stato nessun combattimento», disse Edward tranquillo, rivolgendosi a me. «Non si è ferito nessuno. Non farti prendere dall’ansia». Jacob ci osservava, lo sguardo incredulo. «Non le hai detto un bel niente, vero? Ecco perché l’hai portata via! Per non farle sapere che...».
«Ora vattene». Edward lo interruppe a metà frase e il suo viso si fece improvvisamente spaventoso. Per un secondo, sembrò un...vampiro. Fulminò Jacob con uno sguardo pieno d’odio e sfacciata cattiveria. Jacob alzò le sopracciglia, ma non mosse altro. «Perché non gliel’hai detto?».
Si guardarono in silenzio per un istante interminabile. Molti studenti si erano raggruppati dietro Tyler e Austin. Vidi Mike accanto a Ben: poggiava una mano sulla sua spalla, come per trattenerlo. Nel silenzio assoluto, un’intuizione improvvisa rimise ogni dettaglio al suo posto.
C’era qualcosa di cui Edward non aveva voluto parlarmi. Qualcosa che Jacob non mi avrebbe tenuta nascosta.
Qualcosa che aveva attirato i Cullen e i lupi nella foresta e li aveva fatti avvicinare pericolosamente.
Qualcosa che aveva convinto Edward a insistere perché prendessimo l’aereo e ce ne andassimo. Qualcosa che Alice aveva visto la settimana precedente e su cui Edward mi aveva mentito.
Tuttavia, stavo aspettando proprio quel momento. Lo temevo, ed ero pronta ad affrontarlo, malgrado desiderassi con tutta me stessa che non arrivasse mai. Ma i miei guai non potevano aver fine, vero?
Sentivo il respiro pesante e affannoso sulle mie labbra, e non riuscivo a fermarlo. Era come se la scuola stesse tremando, come se ci fosse un terremoto, ma sapevo che erano i miei fremiti a provocare quella sensazione.
«È tornata a cercarmi», dissi con voce strozzata.
Victoria si sarebbe arresa soltanto dopo avermi uccisa. Avrebbe continuato a ripetere la stessa tattica — finta, fuga, finta, fuga — fino ad aprirsi un varco tra i miei difensori.
Magari, con un po’ di fortuna, i Volturi mi avrebbero trovata per primi: perlomeno mi avrebbero uccisa più velocemente.
Edward mi strinse forte, posizionandosi in modo da non lasciare varchi fra me e Jacob, e mi accarezzò il viso con mani ansiose. «Va tutto bene», sussurrò. «Va tutto bene. Non le permetterò mai di avvicinarsi, non preoccuparti». Poi fulminò Jacob. «Questa risposta è sufficiente alla tua domanda, randagio?».
«Non credi che Bella abbia diritto di sapere?», lo incalzò Jacob. «È la sua vita».
Edward abbassò il tono; nemmeno Tyler, che ormai era lontano solo pochi centimetri, riuscì a sentirlo. «Perché dovrebbe essere preoccupata, se non è mai stata in pericolo?».
«Meglio una preoccupazione che una bugia».
Cercai di riprendere il controllo, ma avevo gli occhi inondati di lacrime. Mi bastava chiuderli per vederla: il volto di Victoria, le labbra che scoprivano i denti, gli occhi rossi accesi dall’ossessione di vendetta; riteneva Edward responsabile della morte di James, il suo amato. Non si sarebbe fermata finché non gli avesse portato via me, il suo amore. Edward mi asciugò le lacrime con la punta delle dita.
«Credi davvero che tormentarla sia meglio che proteggerla?», mormorò.
«È più forte di quanto credi», disse Jacob. «E ne ha passate di peggiori». All’improvviso Jacob cambiò espressione e restò a guardare Edward con uno sguardo strano, pensieroso. I suoi occhi si strinsero, come cercasse di risolvere un difficile problema di matematica.
Sentii Edward rabbrividire. Lo guardai, il suo viso era contratto, preda di un evidente dolore. Per un terribile istante, ricordai quel nostro pomeriggio in Italia, nel macabro salone della torre dei Volturi, dove Jane aveva torturato Edward con i suoi poteri maligni, ustionandolo con la sola forza del pensiero...
Il ricordo mi fece riprendere da quel momento di quasi isteria e rimise tutto in prospettiva. Avrei permesso a Victoria di uccidermi cento volte, piuttosto che vedere di nuovo Edward soffrire in quel modo.
«Molto divertente», disse Jacob ridendo mentre osservava Edward. Edward trasalì, ma con un piccolo sforzo si distese. Non riusciva a nascondere del tutto l’agonia nei suoi occhi. Strabuzzai gli occhi e passai dalla smorfia di Edward al ghigno di Jacob.
«Che cosa gli stai facendo?», domandai.
«Non è niente, Bella», disse Edward pacato. «Jacob ha soltanto buona memoria, tutto qui».
Jacob sorrise ed Edward rabbrividì di nuovo.
«Basta! Qualunque cosa tu stia facendo finiscila».
«Certo, se vuoi». Jacob si strinse nelle spalle. «Comunque è soltanto colpa sua se i miei ricordi non gli piacciono».
Lo guardai, e mi rispose con un sorriso impertinente, come un bambino sorpreso a fare qualcosa che sapeva di non dover fare, da qualcuno che sa che non lo punirà.
«Il preside sta arrivando a controllare chi è ancora in giro», mormorò Edward. «Andiamo a inglese, Bella, così non ti darà noia».
«Iperprotettivo, eh?», disse Jacob, rivolgendosi a me. «Qualche problemino rende la vita divertente. Fammi indovinare, scommetto che non hai il permesso di divertirti, vero?».
Lo sguardo di Edward si riempì di rabbia e tese le labbra per scoprire lentamente i denti.
«Chiudi il becco, Jake», dissi.
Jacob rise. «Mi suona come un "no". Ehi, vieni a trovarmi, se ti torna la voglia di avere una vita. Ho ancora la tua moto nel garage». La notizia mi distrasse. «Avresti dovuto venderla. Hai promesso a Charlie che l’avresti venduta». Se non l’avessi pregato in nome di Jacob — dopotutto, le due motociclette gli erano costate settimane di lavoro e meritava una ricompensa — Charlie avrebbe buttato la mia moto in un cassonetto. E magari avrebbe dato fuoco pure al cassonetto.
«Sì, è vero. Ma, come potrei? È tua, non mia. Comunque, me la terrò stretta finché non la rivorrai».
Un piccolo cenno del sorriso che ricordavo apparve improvvisamente agli angoli della sua bocca.
«Jake...».
Si chinò in avanti, con un’espressione più sincera, priva del suo sarcasmo amaro. «Credo di essermi sbagliato; voglio dire, sul fatto che non possiamo essere amici. Forse ce la possiamo fare, dentro i miei confini. Vieni a trovarmi».
Sentivo forte la presenza di Edward, il suo abbraccio protettivo stretto attorno a me, immobile come una roccia. Lanciai un’occhiata al suo viso: era calmo, paziente.
«Io... be’... non lo so, Jake».
Jacob rinunciò del tutto alla facciata da cattivo. Come se si fosse dimenticato di Edward, o perlomeno avesse deciso di ignorarlo del tutto. «Mi manchi, Bella. Sento la tua mancanza tutti i giorni. Non è lo stesso senza di te».
«Lo so e mi dispiace, Jake, io...».
Scosse la testa e sospirò. «Lo so. Non importa, okay? Non morirò di certo, figuriamoci. Tanto a che servono gli amici?». Fece una smorfia, cercando di coprire il dolore con un debole accenno di spavalderia. Il dolore di Jacob aveva sempre stimolato il mio lato protettivo. Non c’era un motivo razionale, visto che Jake non aveva bisogno della scarsa protezione fisica che gli potevo offrire. Ma le mie braccia, bloccate da quelle di Edward, desiderarono raggiungerlo. Avvolgersi al suo petto ampio e caldo, in una promessa muta di comprensione e conforto. Le braccia protettive di Edward erano diventate un freno.
«Okay, tutti in classe», risuonò dietro di noi una voce severa.
«Si muova, signor Crowley».
«Torna a scuola, Jake», sussurrai ansiosa non appena riconobbi la voce del preside. Jacob frequentava la scuola dei Quileute e rischiava di ficcarsi nei guai per essere entrato nel nostro complesso.
Edward mi lasciò andare, tenendomi solo la mano, ma senza smettere di farmi scudo con il suo corpo.
Il signor Greene si fece strada nel cerchio degli spettatori, con le sopracciglia che premevano sugli occhietti piccoli come nuvole minacciose di tempesta. «Forse non mi sono spiegato», minacciò. «Punizione per chiunque sarà ancora qui quando torno». L’adunata del pubblico si sciolse prima ancora che finisse la frase.
«Ah, signor Cullen. C’è qualche problema?».
«Assolutamente no, signor Greene. Stavamo giusto andando in classe».
«Benissimo. Non mi sembra di conoscere il suo amico». Greene spostò lo sguardo su Jacob. «Lei è un nostro nuovo studente?», Gli occhi di Greene scrutarono Jake e capii che stava arrivando alla stessa conclusione degli altri:pericoloso. Un provocatore.
«Negativo», rispose Jacob, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra piene.
«In questo caso, giovanotto, le suggerisco di allontanarsi dalla struttura scolastica immediatamente, prima che chiami la polizia». Il sorrisetto di Jacob si spalancò; di sicuro immaginava la scena in cui Charlie veniva ad arrestarlo. Era un sorriso troppo amaro, troppo beffardo per soddisfarmi. Non era il sorriso che mi aspettavo di vedere.
«Sì, signore», disse Jacob, e schioccò un saluto militare prima di mettersi in sella alla sua moto e avviarla proprio lì sul marciapiede. Il motore ringhiò e gli pneumatici stridettero mentre girava la moto con un gesto aggressivo e sgommava via. In pochi secondi, Jacob sparì. Il signor Greene assistette all’esibizione a denti stretti.
«Signor Cullen, mi aspetto che dica al suo amico di trattenersi dall’entrare di nuovo».
«Non è un mio amico, signor Greene, ma trasmetterò il suo avviso». Il signor Greene strinse le labbra. La media perfetta e l’immacolata carriera scolastica di Edward erano chiaramente un fattore importante nella valutazione dell’incidente. «Bene. Se c’è qualcosa che la preoccupa, sarò lieto di...».
«Non c’è niente di cui preoccuparsi, signor Greene. Non ci sarà alcun problema».
«Spero sia vero. Bene, allora. Tornate in classe. Anche lei, signorina Swan».
Edward annuì e mi trascinò svelto verso l’istituto d’inglese.
«Te la senti di andare a lezione?», sussurrò una volta superato il preside.
«Sì», sussurrai a mia volta, senza sapere bene se fosse una bugia. Non contava poi molto che mi sentissi bene o no. Avevo bisogno di parlare subito con Edward e di sicuro l’aula non era il luogo ideale per la conversazione che avevo in mente. Ma, con il signor Greene alle nostre spalle, non c’erano grandi alternative. Entrammo in classe un po’ in ritardo e prendemmo velocemente posto. Il professor Berty stava recitando una poesia di Frost. Ignorò il nostro ingresso e non permise che spezzassimo il suo ritmo. Strappai una pagina bianca dal quaderno e cominciai a scrivere; la grafia era meno leggibile del solito, a causa dell’agitazione.
Che cosa è successo? Raccontami tutto. E smettila con la cazzata del proteggermi, per favore.
Mostrai il biglietto a Edward. Lui fece un sospiro e cominciò a scrivere. Impiegò meno tempo di me per consegnarmi un paragrafo intero scritto con la sua grafia ordinata.
Alice ha visto che Victoria stava tornando. Ti ho portato fuori città soltanto come precauzione, non c’era neanche una possibilità che ti si avvicinasse. Emmett e Jasper sono quasi riusciti a prenderla, ma Victoria ha una specie d’istinto speciale per la fuga. È scappata lungo il confine del Quileute neanche avesse in manouna mappa. I poteri di Alice purtroppo sono stati annullati dalcoinvolgimento dei lupi. Onestamente, anche i Quileute avrebbero potuto prenderla se non ci fossimo avvicinati noi. Il grande lupo grigio credeva che Emmett avesse superato il confine e si è schierato sulla difensiva. Ovviamente Rosalie ha reagito e tuttihanno mollato la caccia per proteggere i propri compagni. Carliste e Jasper sono riusciti a calmare le acque prima che la situazione si facesse incontrollabile. Ma a quel punto Victoria se l’eragià squagliata. Tutto qui.
Osservai le sue parole accigliata. C’erano proprio tutti: Emmett, Jasper, Alice, Rosalie, e Carlisle. Forse pure Esme, anche se non l’aveva nominata. E poi Paul e il resto del branco dei Quileute. C’era mancato poco che scoppiasse una battaglia, che la mia futura famiglia e i miei vecchi amici si mettessero gli uni contro gli altri. Chiunque avrebbe potuto ferirsi. I lupi si sarebbero trovati in pericolo maggiore, forse, ma l’idea della piccola Alice davanti a un enorme licantropo, a combattere...
Rabbrividii.
Cancellai l’intero paragrafo con la gomma e poi scrissi:
E Charlie? Sarebbe potuta andare da lui.
Edward iniziò a scuotere la testa prima ancora che avessi finito, ovviamente per minimizzare qualunque pericolo riguardasse Charlie. Tese la mano, ma lo ignorai e aggiunsi.
Non puoi sapere se lei ci stessa pensando, perché non c’eri. Che brutta idea la Florida.
Mi sfilò il foglio di mano.
Non ti avrei mai lasciata partire da sola. Con la fortuna che ti ritrovi, dell’aereo non sarebbe sopravvissuta neanche la scatolanera.
Non era affatto ciò che intendevo; non avrei mai pensato di andarci senza di lui. Pensavo che saremmo dovuti rimanere. Ma la sua risposta mi lasciò sconcertata e un po’ offesa. Dunque non potevo volare senza far schiantare l’aereo? Proprio divertente.
Va bene, allora la mia sfortuna avrebbe fatto precipitare l’aereo.
E cosa avresti fatto tu in quel caso, esattamente?
Perché l’aereo sta precipitando?
Ora cercava di mascherare un sorriso.
I piloti si sono ubriacati e sono svenuti.
Facile. Guido io l’aereo. Ovvio. Increspai le labbra e ci riprovai.
Entrambi i motori sono esplosi e ci stiamo avvitando in una caduta libera mortale.
Aspetto che siamo abbastanza vicini a terra, ti stringo forte, do uncalcio alla parete e salto. Poi ti riporto sul luogo dell’incidente edeccoci barcollanti, i due superstiti più fortunati della storia.
Lo fissai senza parole. «Che c’è?», sussurrò.
Scossi la testa, in soggezione. «Niente», mimai con la bocca. Cancellai quella conversazione sconcertante e scrissi un’altra riga.
La prossima volta mi spiegherai.
Sapevo che ci sarebbe stata una prossima volta. La tattica sarebbe continuata finché qualcuno non ci fosse cascato. Edward mi fissò per un istante interminabile. Mi chiesi che aspetto avesse il mio viso: sentivo freddo, come se il sangue non fosse risalito alle guance. Le ciglia erano ancora bagnate.
Sospirò e annuì con un cenno.
Il foglio scomparve da sotto la mia mano. Guardai in alto, sorpresa, mentre il professor Berty camminava tra le file di banchi.
«C’è qualcosa che vorrebbe condividere con noi, signor Cullen?». Edward alzò uno sguardo innocente e mostrò il foglio di carta in cima alla cartellina. «I miei appunti?», chiese con aria confusa. Il professor Berty esaminò gli appunti, cioè una trascrizione precisa e perfetta della sua lezione, e si allontanò accigliato. Fu più tardi, durante l’ora di algebra — il mio unico corso senza Edward — che mi accorsi del chiacchiericcio che si era scatenato.
«Io punto sull’indiano gigante», diceva qualcuno.
Sbirciai e vidi Tyler, Mike, Austin e Ben assorti in una fitta conversazione.
«Sì», sussurrò Mike. «Hai visto la "taglia" di quel Jacob? Per me è capace di fare Cullen a pezzetti». Mike sembrava compiaciuto all’idea.
«Non credo», replicò Ben. «Edward ha qualcosa di particolare. È sempre così sicuro di sé. Secondo me se la caverebbe».
«Sono d’accordo con Ben», commentò Tyler. «Fra l’altro, se quel tipo sistema Edward, di sicuro i suoi enormi fratelli si occuperanno di lui».
«Siete andati a La Push ultimamente?», chiese Mike. «Io e Lauren siamo stati al mare un paio di settimane fa e, credetemi, gli amici di Jacob sono grandi tanto quanto lui».
«Ah», disse Tyler. «Peccato che non sia successo niente. Mi sa che non sapremo mai come sarebbe andata a finire».
«Secondo me non è finita», disse Austin. «Magari riusciremo a vedere il seguito».
Mike sorrise. «A qualcuno va di scommettere?».
«Dieci su Jacob», disse Austin tutto d’un fiato.
«Dieci su Cullen», intervenne Tyler.
«Dieci su Edward», aggiunse Ben.
«Jacob», disse Mike.
«Ehi, ragazzi, voi sapete cosa c’è dietro?», si chiese Austin. «Potrebbe influenzare le puntate».
«Io forse sì», disse Mike, e mi lanciò un’occhiata, insieme a Ben e Tyler. A giudicare dalle espressioni, nessuno di loro si era reso conto che da dove stavo riuscivo a sentirli. Distolsero lo sguardo all’istante e riordinarono i fogli sul banco.
«Confermo, io punto su Jacob», commentò Mike sotto voce.