19 Egoista

Edward mi riaccompagnò a casa portandomi in braccio, nel timore che non riuscissi ad aggrapparmi a lui. Probabilmente mi addormentai durante il tragitto.

Mi svegliai nel mio letto, la luce fioca entrava dalla finestra con una strana inclinazione. Sembrava quasi pomeriggio.

Sbadigliai e mi stiracchiai; le mie dita cercarono lui, ma non trovarono nulla.

«Edward?», sussurrai.

La mia mano incontrò qualcosa di freddo e liscio. La sua.

«Sei sveglia, finalmente?», mormorò.

Mugugnai qualcosa e sospirai, assente. «Ti ho dato molti falsi allarmi?».

«Non hai avuto pace. Non sei stata zitta un momento, tutto il giorno».

«Tutto il giorno?». Sbattei gli occhi e poi guardai di nuovo verso la finestra.

«È stata una notte lunghissima», mi disse rassicurante. «Ti sei meritata un giorno intero di riposo».

Mi sedetti sul letto, ma mi girava la testa. La luce entrava nella stanza da ovest. «Caspita».

«Hai fame?», mi chiese. «Vuoi fare colazione a letto?».

«Dopo», borbottai, stirandomi di nuovo. «Ho bisogno di alzarmi e sgranchirmi le gambe».

Mi tenne per mano fino in cucina e mi sorvegliò per tutto il tragitto come se stessi per cadere. Forse pensava che fossi sonnambula. Cercai di sbrigarmi e misi a scaldare un paio di brioche. Mi guardai riflessa nel vetro.

«Oddio, sono uno straccio».

«È stata una notte lunghissima», ripeté. «Forse facevi meglio a restare qui a dormire».

«Certo! Per perdermi tutto. Devi iniziare ad accettare che ormai faccio parte della famiglia».

Sorrise. «Potrei anche abituarmi all’idea».

Mi sedetti con la mia colazione e lui si accomodò accanto a me. Quando presi la brioche, pronta a dare il primo morso, notai che mi fissava la mano. La guardai anch’io e mi accorsi che al polso avevo ancora il braccialetto che mi aveva regalato Jacob.

«Posso?», domandò allungando la mano verso il lupetto di legno. Deglutii rumorosamente. «Certo!».

Giocherellò con la figurina, rigirandosela tra le dita. Per un attimo ebbi paura. Con una minima pressione avrebbe potuto farlo a pezzi. Ma Edward non l’avrebbe mai fatto. Mi vergognai di averci pensato. Chiuse il lupo nella mano, per un momento, poi lo lasciò. Dondolò leggero al mio polso.

Provai a leggere l’espressione dei suoi occhi. Sembrava pensieroso; il resto lo teneva nascosto, se c’era un resto.

«A Jacob Black è permesso farti dei regali».

Non era una domanda, né un’accusa. Solo una constatazione. Ma sapevo che si riferiva al mio ultimo compleanno e alle mie scenate, a proposito dei regali che non volevo. Men che meno da Edward. Le mie ragioni non erano esattamente razionali, e d’altra parte tutti le avevano ignorate...

«Tu mi hai fatto dei regali», gli ricordai. «E sai che mi piacciono quelli fatti a mano».

Accennò una smorfia. «E quelli riciclati? Li accetti?».

«Che vuoi dire?».

«Questo braccialetto». Disegnò con le dita un cerchio attorno al mio polso. «Lo porterai per parecchio tempo?». Alzai le spalle.

«Perché non vuoi ferire i suoi sentimenti», suggerì con tono acido.

«Sì, direi di sì».

«Allora sii corretta», disse mentre mi guardava la mano. Girò il palmo verso l’alto e passò il dito sulle vene del mio polso. «E indossa anche qualcosa di mio».

«Che cosa?».

«Un portafortuna, qualcosa che mi trattenga nei tuoi pensieri».

«Tu sei sempre nei miei pensieri. Non ho bisogno di aiuto per ricordarlo».

«Se ti regalassi una cosa, la indosseresti?», insistette.

«Un regalo riciclato?», chiesi.

«Sì, qualcosa che conservo da un po’». E fece uno dei suoi sorrisi angelici. Se questa era l’unica sua reazione al regalo di Jacob, l’avrei accettato volentieri. «Farò qualsiasi cosa, pur di renderti felice».

«Ti sei resa conto dell’ingiustizia?», domandò, e il suo tono si fece d’accusa. «Io me ne sono accorto subito».

«Quale ingiustizia?».

Affilò lo sguardo. «Tutti possono farti regali. Tutti tranne me. Avrei voluto regalarti qualcosa per il diploma, ma non l’ho fatto. So che ti avrei messo in crisi più di chiunque altro. Tutto questo è terribilmente ingiusto. Come te lo spieghi?».

«Facile». E alzai le spalle. «Tu sei più importante di chiunque altro. E mi hai regalato te stesso. Questo è più di quanto io meriti, e ogni aggiunta da parte tua mi scombussola ancora di più».

Ci pensò un momento, poi alzò gli occhi. «Il modo in cui mi consideri è assurdo».

Continuai a masticare la brioche, con calma. Sapevo che non mi avrebbe ascoltato se gli avessi detto che in questo era un po’ all’antica. Il suo cellulare squillò.

Prima di rispondere, guardò il numero. «Che c’è, Alice?». Ascoltò le parole della sorella e io attesi la sua reazione, in preda a un panico improvviso. Qualsiasi cosa gli avesse detto, non lo sorprese. Fece un paio di sospiri.

«L’avevo intuito», le disse, fissandomi negli occhi e aggrottando le sopracciglia in segno di disapprovazione. «Ha parlato nel sonno». Arrossii. Cosa avevo detto?

«Ci penso io», dichiarò.

Dopo aver riattaccato, mi lanciò un’occhiataccia. «C’è qualcosa che vorresti dirmi?». Ci pensai per un attimo. Dopo l’avvertimento di Alice della sera prima, potevo immaginare perché avesse chiamato. Poi ricordai i sogni tormentati di quel pomeriggio: inseguivo Jasper nel tentativo di trovare la radura nel labirinto del bosco, conscia che vi avrei incontrato Edward... Edward e i mostri che volevano uccidermi, ma non mi preoccupavo di loro, ormai avevo preso la mia decisione. A quel punto era facile intuire cos’avessi detto nel sonno.

Restai indecisa per un attimo, incapace di sostenere il suo sguardo. Lui non disse nulla.

«È un’idea di Jasper», dissi.

Grugnì qualcosa.

«Voglio rendermi utile. Voglio fare qualcosa», insistetti.

«Metterti nei guai non è utile».

«Jasper pensa di sì. In questo è lui l’esperto».

Edward m’inchiodò con lo sguardo.

«Non puoi tenermi alla larga da tutto», minacciai. «Non me ne starò in disparte, nella foresta, mentre voi rischiate la vita per me». Alla fine lo vidi sforzarsi di non sorridere. «Alice non ti vede nella radura, Bella. Ti vede girovagare nel bosco, disorientata. Non sarai in grado di trovarci e mi farai solo perdere un sacco di tempo, dopo, quando dovrò venire a cercarti». Tentai di mantenere la calma. «Questo perché Alice non tiene conto di Seth Clearwater», risposi educata. «Ovvio, anche se lo facesse, non sarebbe in grado di vedere nulla. Ma sembra che Seth ci tenga a essere presente, almeno quanto me. Non sarà difficile chiedergli di indicarmi la strada». Un accenno di rabbia gli attraversò il volto, poi con un respiro profondo si ricompose. «Avrebbe potuto funzionare... se non me l’avessi detto. Ora dovrò chiedere a Sam di dare ordini precisi a Seth. Per quanto sia caparbio, Seth non potrà ignorare quel genere di ingiunzione».

Continuai a sorridere. «Ma perché Sam dovrebbe impartire certi ordini?

Credo che sarebbe più disposto a fare un piacere a me che non a te». Di nuovo si trattenne. «Forse hai ragione. Ma secondo me Jacob sarebbe fin troppo felice di dargli l’ordine».

Aggrottai la fronte. «Jacob?».

«Jacob è il comandante in seconda. Non te l’ha detto? Tutti sono tenuti a obbedire anche a lui».

Mi aveva presa in castagna e, a giudicare dal sorriso, lo sapeva bene. Corrugai la fronte. Jacob sarebbe stato di certo d’accordo con quella decisione. E mi aveva tenuta all’oscuro. Edward approfittò del mio momentaneo stupore e continuò a parlare con voce fin troppo lieve e suadente.

«Sono rimasto affascinato dal modo di pensare del branco, stanotte. È meglio di una soap opera. Non avevo idea delle dinamiche in un branco così grande. Le tensioni individuali opposte alla psiche del gruppo... Assolutamente fantastico». Stava cercando di distrarmi, ovviamente. Gli lanciai un’occhiataccia.

«Jacob ti nasconde un sacco di cose», disse con un ghigno. Non risposi ma continuai a guardarlo, senza perdere il filo del discorso e in attesa di un suo cenno.

«Per esempio, hai notato il lupo grigio più piccolo, ieri sera?». Annuii solo una volta, fredda.

Ridacchiò. «Prendono le loro storie così sul serio... e poi accadono cose a cui nemmeno le leggende sanno prepararli».

Feci un sospiro. «Va bene, mi arrendo. Di cosa stai parlando?».

«Hanno sempre dato per scontato che soltanto i pronipoti diretti del primo lupo possono trasformarsi».

«E allora? Qualcuno che non è un discendente diretto si è trasformato?».

«No. Anche lei è una discendente».

Sbattei gli occhi e li spalancai. «Lei?».

Annuì. «Ti conosce. Si chiama Leah Clearwater».

«Leah è un licantropo!» gridai. «Cosa? Da quando? Perché Jacob non me l’ha detto?».

«Ci sono cose che non possono dire a nessuno, per esempio, quanti sono. Come ho detto prima, se Sam dà un ordine, il branco non può ignorarlo. Jacob è stato molto attento, non ha mai pensato niente di proibito in mia presenza. Certo, dopo la notte scorsa è tutto alla luce del sole».

«Non ci posso credere. Leah Clearwater!». All’istante ricordai quanto Jacob mi aveva raccontato di Leah e Sam, e di come avesse lasciato cadere il discorso dopo aver detto che Sam era costretto a subire lo sguardo accusatore di Leah ogni giorno... e poi Leah al falò, con una lacrima sulla guancia quando il vecchio Quil aveva parlato del peso e del sacrificio che i figli dei Quileute condividono... E Billy che andava a trovare Sue per aiutarla a tenere a bada i ragazzi... Il vero problema era che entrambi i suoi figli erano licantropi!

Non avevo pensato molto a Leah Clearwater: avevo solo sofferto per la sua perdita di Harry e avevo provato compassione quando Jacob mi aveva raccontato la sua storia, di come lo strano imprinting tra Sam e sua cugina Emily le avesse spezzato il cuore. E adesso lei era parte del branco, sentiva i pensieri di Sam... e le era impossibile nascondere i propri.È orribile , aveva detto Jacob.Tutto ciò di cui ti vergogni è lì in bellamostra, sotto gli occhi di tutti.

«Povera Leah», sussurrai.

Edward sbuffò. «Sta rendendo la vita decisamente impossibile a tutti. Forse non merita la tua compassione».

«Cosa intendi?».

«Per gli altri è già abbastanza difficile condividere ogni pensiero. La maggior parte dei membri del branco cerca di cooperare, di alleggerire le cose. Basta che uno solo di loro abbia pensieri cattivi, ed è un tormento per tutti».

«A me sembra che Leah abbia ragione da vendere».

«Oh, lo so», disse. «L’imprinting è una delle cose più strane che abbia mai visto, e di cose strane ne ho viste parecchie». Scosse la testa. «È impossibile descrivere il legame tra Sam e la sua Emily, forse dovrei dire che èlui a essere suo. Sam non aveva scelta. Mi ricordaSogno di una notte dimezza estate , con tutta la confusione creata dagli incantesimi delle fate... è come una magia». Sorrise. «È una sensazione forte, quasi come quella che provo per te».

«Povera Leah», dissi di nuovo. «Ma cosa intendi per pensieri cattivi?».

«Che sono sgradevoli per tutti, eppure Leah insiste nell’andarli a pescare», spiegò. «Embry, per esempio».

«Che problema c’è?», domandai sorpresa.

«Sua madre lasciò la riserva Makah diciassette anni fa, incinta di lui. Non è una Quileute. Tutti pensavano che il padre del bambino fosse rimasto nella riserva. Ma poi il figlio è entrato a far parte del branco».

«E allora?».

«I candidati alla paternità sono il padre di Quil Ateara, Joshua Uley e Billy Black, e, ovviamente, all’epoca erano tutti già sposati».

«No!», esclamai. Edward aveva ragione: era davvero una soap opera.

«Ora Sam, Jacob e Quil si chiedono chi di loro abbia un fratellastro. Tutti pensano che sia Sam, perché suo padre non ha rigato sempre dritto. Ma il dubbio rimane. Jacob non se l’è mai sentita di chiederlo direttamente a Billy».

«Caspita. Come hai fatto a scoprire tutto in una sola notte?».

«La mente del branco è affascinante. Pensano tutti insieme, e allo stesso tempo ognuno per conto suo. C’è così tanto da leggere!». Notai in lui un leggero rammarico, come qualcuno che è stato costretto a chiudere un libro proprio sul più bello. Risi.

«Il branco è affascinante», confermai. «Quasi come te, quando cerchi di distrarmi».

La sua espressione si fece di nuovo cortese e impassibile, perfetta per un giocatore di poker.

«Voglio venire anch’io nella radura, Edward».

«No», disse in un tono che non ammetteva repliche.

All’istante pensai a un’altra soluzione.

Non dovevo per forza stare nella radura, mi bastava avere Edward al mio fianco.

Crudele, mi accusai.Egoista, egoista, egoista! Non farlo! Ignorai il mio buon senso. Tuttavia non riuscii ad alzare gli occhi mentre parlavo. Il senso di colpa mi incollava lo sguardo al tavolo.

«Va bene, Edward, ascolta», sussurrai. «Le cose stanno così... Sono già impazzita una volta. Conosco i miei limiti.E non sopporto che tu mi lascidi nuovo ».

Non volli vedere la sua reazione, temevo di scoprire quanto dolore gli stavo infliggendo. Sentii un respiro profondo, poi più nulla. Fissai il piano del tavolo di legno scuro e desiderai di potermi rimangiare tutto. Ma non l’avrei fatto. Non se la cosa sortiva il suo effetto. All’improvviso sentii le sue braccia attorno a me, le sue mani che mi accarezzavano il viso e le braccia. Era lui a confortare me. Il senso di colpa iniziò a travolgermi. Ma l’istinto di conservazione fu più forte. Non avevo più dubbi, Edward era fondamentale per la mia sopravvivenza.

«Lo sai che non è così, Bella», mormorò. «Non sarò lontano, e tornerò presto».

«Non ce la faccio», insistetti, senza alzare lo sguardo. «Non posso restare ad aspettare, senza sapere se tornerai o no. Come farò a resistere, anche se tornerai presto?».

Sospirò. «Andrà tutto liscio, Bella. È inutile che ti preoccupi».

«Davvero?».

«Sì, davvero».

«E ve la caverete tutti?».

«Tutti quanti», promise.

«Perciò è proprio impossibile che vi segua anch’io nella radura?».

«Certo. Alice mi ha appena confermato che sono scesi a diciannove. Ce la faremo senza grandi sforzi».

«Va bene. Hai detto che sarà tanto semplice che a qualcuno toccherà stare in disparte», ripetei le parole che lui stesso aveva pronunciato la sera precedente. «Dicevi sul serio?».

«Sì».

Mi sembrava una mossa davvero scontata, avrebbe dovuto aspettarsela.

«Così semplice che tu potresti stare in disparte?».

Dopo un lungo silenzio, riuscii ad alzare gli occhi e lo guardai in volto. Aveva di nuovo l’espressione da poker.

Incalzai: «Ci sono due possibilità. Forse il rischio è più grande di quello che mi vuoi far credere, e in tal caso è giusto che io sia presente, per aiutarvi come posso. Oppure... la faccenda è così semplice che gli altri ce la faranno anche senza di te. Quale delle due è giusta?». Non rispose.

Sapevo cosa stava pensando: erano i miei stessi pensieri. Carlisle. Esme. Emmett. Rosalie. Jasper. Dovetti sforzarmi per pensare l’ultimo nome: Alice. Chissà, forse il mostro ero io. Un mostro vero, non quello che pensava di essere lui. Un mostro che fa del male alle persone. Che non guarda in faccia nessuno pur di raggiungere il suo scopo. Il mio unico desiderio era di tenerlo al sicuro, insieme a me. C’era un limite a ciò che avrei sacrificato, per questo? Non ne ero sicura.

«Mi stai chiedendo di lasciarli combattere senza di me?», disse tranquillo.

«Sì». Fui sorpresa di riuscire a mantenere un tono pacato, malgrado il disgusto che sentivo. «Oppure di farmi partecipare. Una o l’altra cosa, purché restiamo vicini». Inspirò profondamente e poi espirò con calma. Mi prese il volto tra le mani e mi obbligò a incrociare il suo sguardo. Restammo a lungo occhi negli occhi. Cosa cercava? E cosa aveva trovato? Probabilmente il senso di colpa mi si leggeva in faccia. Lo sentivo nello stomaco e mi dava la nausea. I suoi occhi nascondevano un sentimento che non riuscii a decifrare, poi fece scivolare una mano dal mio viso e prese il cellulare.

«Alice», disse. «Puoi venire a fare da babysitter a Bella per un po’?». Sollevò un sopracciglio in segno di sfida. «Devo parlare con Jasper». Lei rispose di sì, decisa. Edward infilò il telefono in tasca e tornò a guardarmi.

«Cosa devi dire a Jasper?», sussurrai.

«Vado a discutere... se posso rimanere in disparte».

Gli si leggeva in faccia quanto fosse difficile per lui pronunciare quelle parole.

«Scusami».

Mi dispiaceva. Non volevo costringerlo a fare una cosa del genere. Non abbastanza, però, da fingere un sorriso e lasciare che andasse via senza di me. No, senza dubbio.

«Non ti scusare», disse, sorridendo appena. «Non avere mai paura di mostrare i tuoi sentimenti, Bella. Se ti fa star meglio...», alzò le spalle, «tu sei il mio primo pensiero».

«Non intendevo questo... non voglio che tu debba scegliere tra me e la tua famiglia».

«Lo so. Ma d’altra parte è quel che mi hai chiesto. Mi hai dato due alternative e io ho scelto quella più accettabile. È così che funzionano i compromessi». Mi avvicinai a lui per appoggiare la fronte al suo petto. «Grazie», sussurrai.

«Quando vuoi», rispose baciandomi i capelli, «ciò che vuoi». Per un istante infinito restammo immobili. Tenevo il viso ancora sepolto nella sua camicia. Sentivo due voci. Una mi suggeriva di essere buona e coraggiosa, l’altra diceva alla prima di tenere la bocca chiusa.

«Chi è la terza moglie?», mi chiese all’improvviso.

«Eh?», esclamai, cercando di guadagnare tempo. Non ricordavo di aver fatto di nuovo quel sogno.

«La notte scorsa hai borbottato qualcosa in merito alla "terza moglie". Il resto aveva senso, ma in quel frangente mi sono proprio perso».

«Oh. Sì, certo. È una storia che ho sentito raccontare l’altra sera attorno al fuoco». Scrollai le spalle. «Deve avermi colpita molto». Edward si scostò da me e inclinò la testa di lato, confuso dal tono incerto della mia voce.

Prima che potesse aprire bocca, Alice apparve sulla soglia della cucina con un’espressione tutt’altro che allegra.

«Ti perderai tutto il divertimento», brontolò.

«Ciao, Alice», la salutò. Con un dito mi alzò il mento e mi salutò con un bacio.

«Tornerò tardi stasera», mi promise. «Andrò a esercitarmi con gli altri, a riorganizzare i piani».

«Va bene».

«Non c’è molto da riorganizzare», disse Alice. «L’ho già detto a tutti. Emmett è contento».

Edward fece un sospiro. «Ovviamente».

Uscì dalla porta e mi lasciò sola con Alice.

Lei mi lanciò un’occhiataccia.

«Mi dispiace», dissi. «Credi che questo aumenterà i rischi?». Sbuffò. «Ti preoccupi troppo, Bella. Ti verranno i capelli bianchi».

«Allora perché sei agitata?».

«Edward diventa un musone quando non può fare a modo suo. Sto soltanto immaginando la vita con lui nei prossimi mesi». Fece una smorfia.

«Certo, se serve a non farti impazzire, ne varrà la pena. Ma spero che tu riesca a controllare il tuo pessimismo, Bella. È del tutto superfluo».

«Lasceresti combattere Jasper senza di te?», le chiesi. Alice fece una smorfia. «È diverso».

«Certo».

«Vai a prepararti», mi ordinò. «Charlie sarà a casa tra un quarto d’ora, e se ti vede in queste condizioni non ti farà... più uscire». Caspita, avevo davvero perso il giorno intero. Mi sentivo sprecata. Però ero contenta di non dover passare le giornate a dormire. Quando Charlie rientrò ero presentabile: vestita e pettinata, stavo mettendo in tavola la sua cena. Alice era seduta a quello che di solito era il posto di Edward, e ciò rese Charlie quasi felice.

«Salve, Alice! Come stai, tesoro?».

«Sto bene, Charlie, grazie».

«Finalmente ti vedo in piedi, dormigliona», mi disse, quando mi sedetti accanto a lui. Poi si voltò di nuovo verso Alice. «Parlano tutti della festa di ieri sera. Scommetto che avete ancora un bel po’ da pulire». Alice si strinse nelle spalle. Conoscendola, era tutto fatto.

«Ne è valsa la pena», disse. «È stata una bellissima festa».

«Dov’è Edward?», si sforzò di chiedere Charlie. «Sta aiutando nelle pulizie?». Alice sospirò e si fece improvvisamente cupa. Probabilmente era tutta scena, ma la finzione fu talmente perfetta da insinuare il dubbio persino a me. «No, sta organizzando il fine settimana insieme a Emmett e Carlisle».

«Un’altra escursione?».

Alice annuì, sconsolata. «Sì. Andranno tutti, eccetto me. Alla fine dell’anno scolastico andiamo sempre a fare trekking, a mo’ di festeggiamento. Quest’anno preferirei darmi allo shopping, ma nessuno vuole accompagnarmi. Sono rimasta sola». Fece un’espressione corrucciata, così affranta che Charlie si sporse automaticamente verso di lei e allungò una mano per offrirle un aiuto. La guardai con sospetto. Cosa aveva in mente?

«Alice, tesoro, perché non vieni a stare da noi?», si offrì Charlie. «Non vorrai restartene tutta sola in una casa tanto grande». Lei sospirò. Qualcosa mi schiacciò un piede sotto il tavolo.

«Ahi!».

Charlie si voltò verso di me. «Che c’è?».

Alice mi guardò frustrata. Non capiva perché non avessi reagito prontamente.

«Ho sbattuto il piede da qualche parte», borbottai.

«Ah». Charlie riprese il discorso con Alice. «Allora, che ne dici?». Mi diede un altro pestone, meno violento.

«Papà, sai bene non abbiamo posto per gli ospiti. Immagino che Alice non voglia dormire sul pavimento...».

Charlie si morse le labbra. Alice rispolverò l’espressione affranta.

«Forse Bella potrebbe venire da te», suggerì. «Fino a che non torna il resto della truppa».

«Oh, lo faresti davvero, Bella?». Alice sorrise, raggiante. «Non ti dispiacerebbe fare un po’ di shopping insieme a me, vero?».

«No», sorrisi. «Vada per lo shopping».

«Quando partono?», chiese Charlie.

Alice fece un’altra smorfia. «Domani».

«Quando vuoi che venga?», le chiesi.

«Dopo pranzo, direi», mentre parlava si sfiorò il mento con un dito, pensierosa. «Non hai niente in programma per sabato, vero? Voglio andare a fare acquisti in città e credo che ci resterò tutto il giorno».

«Non a Seattle», s’intromise Charlie, increspando la fronte.

«Certo che no», rispose pronta Alice, nonostante entrambe sapessimo che Seattle sarebbe stata un posto molto sicuro quel sabato. «Pensavo a Olympia, magari...».

«Ti piacerà, Bella». Charlie era felice e sollevato. «Andate a fare il pieno di atmosfera cittadina».

«Certo, papà. Sarà fantastico».

Con una semplice conversazione Alice mi aveva garantito una via di fuga per il giorno della battaglia. Edward tornò poco dopo e accolse il «Buon viaggio» di Charlie senza sorprendersi. Annunciò che sarebbero partiti al mattino presto e diede la buonanotte prima del solito. Alice se ne andò con lui. Poco dopo, anch’io annunciai che me ne andavo a dormire.

«Non puoi essere stanca», protestò Charlie.

«Un po’», mentii.

«Non mi meraviglia che tu eviti le feste», borbottò, «se ti ci vuole così tanto per riprenderti».

Al piano di sopra trovai Edward disteso sul mio letto.

«Quand’è l’appuntamento con i lupi?», domandai.

«Tra un’ora».

«Perfetto. Jake e i suoi amici hanno bisogno di dormire un po’».

«Gli occorrono meno ore che a te», precisò.

Cambiai argomento, sicura che avrebbe cercato di convincermi a restare a casa. «Alice ti ha detto che mi rapirà di nuovo?».

Sorrise. «In realtà, no».

Lo fissai, confusa, e lui rise tranquillo.

«Sono l’unico che ha il permesso di prenderti in ostaggio, ricordi?», disse. «Alice andrà a caccia con tutti gli altri». Sospirò. «Per me non è indispensabile, al momento».

«Mi rapisci tu?».

Annuì.

Ci pensai per un istante. Non ci sarebbe stato nessun Charlie in ascolto e di vedetta al piano di sotto. E neanche un vampiro nei paraggi, pronto a intromettersi con i suoi sensi ipertrofici... Soltanto lui e io... da soli, sul serio.

«Tutto bene?», chiese preoccupato dal mio silenzio.

«Sì, insomma... eccetto una cosa».

«Che cosa?». Mi guardò con ansia. Roba da non crederci, ma in qualche modo sembrava dubitare di avermi convinta. Forse dovevo esprimermi meglio.

«Perché Alice non ha detto a Charlie che partite stasera?», domandai. Rise, sollevato.

Il viaggio alla radura fu più piacevole rispetto alla sera precedente. Mi sentivo ancora in colpa, avevo paura, ma non ero più terrorizzata. Riuscivo a controllarmi. Pensavo a ciò che stava per accadere e, a conti fatti, forse, sarebbe andato tutto bene. Edward sembrava tranquillo di fronte alla prospettiva di perdersi lo scontro... perciò era difficile non assecondare il suo ottimismo. Non avrebbe mai piantato in asso la famiglia se non fosse stato così convinto. Forse Alice aveva ragione e mi stavo preoccupando per nulla. Arrivammo alla radura per ultimi.

Jasper ed Emmett stavano già combattendo, o meglio, si stavano riscaldando, a giudicare dalle risate. Alice e Rosalie li guardavano, allungate per terra. Esme e Carlisle parlavano, poco distanti, con le teste vicine e le mani nelle mani, senza badare a nessuno.

La notte era più chiara della precedente, la luna splendeva attraverso le nubi leggere e riuscii a distinguere con facilità i tre lupi seduti in disparte, a una certa distanza l’uno dall’altro, in modo da controllare la situazione da diverse angolazioni.

Riconobbi subito Jacob; ci sarei riuscita anche se non avesse alzato lo sguardo al nostro arrivo.

«Dov’è il resto del branco?», chiesi.

«Non c’è bisogno che vengano tutti. In realtà ne sarebbe bastato uno, ma Sam non si fida abbastanza da mandare Jacob da solo. Lui sarebbe stato disposto a farlo. Quil ed Embry sono i suoi soliti... credo che potrei definirli gregari».

«Jacob si fida di te».

Edward annuì. «Si fida del fatto che non lo uccideremo. Però, sì, forse hai ragione».

«Stanotte ti alleni anche tu?», domandai esitante. Sapevo che rinunciare alla battaglia era difficile per lui come per me. Forse di più.

«Aiuterò Jasper quando ce ne sarà bisogno. Vogliamo provare a formare dei gruppi non omogenei e insegnare loro come comportarsi in caso di attacchi multipli». Si strinse nelle spalle.

E una lieve ondata di panico frantumò il mio senso di sicurezza. I neonati erano ancora in maggioranza. Stavo peggiorando la situazione. Fissai il prato, provando a nascondere i miei sentimenti. Non era il posto giusto dove guardare, impegnata com’ero a mentire a me stessa e a convincermi che tutto sarebbe andato come volevo. Perché non appena distoglievo lo sguardo dai Cullen — dall’immagine dei loro scontri simulati, che nel giro di pochi giorni sarebbero diventati veri e letali — Jacob mi guardava e sorrideva. Era lo stesso sorriso lupesco di sempre, con l’espressione di quando era umano.

Era difficile credere che fino a poco tempo prima i licantropi mi terrorizzavano; avevo perso spesso il sonno per colpa loro. Sapevo senza chiederlo chi era Embry e chi Quil. Embry era chiaramente il lupo grigio più magro, quello con le macchie scure sulla schiena, che stava seduto paziente, mentre Quil, color cioccolato, più chiaro sul muso, si muoveva in continuazione, come se morisse dalla voglia di entrare in quella finta battaglia. Non erano mostri, erano degli amici. Amici che non erano invincibili come Emmett e Jasper, con la loro pelle dura come il marmo scintillante alla luce della luna e i loro movimenti più veloci di quelli di un cobra.

Amici che non sembravano rendersi conto dei rischi che correvano. Amici che erano in qualche modo ancora mortali, che potevano sanguinare, amici che potevano morire...

La sicurezza di Edward mi dava fiducia, perché dava l’impressione di non essere affatto preoccupato per la sua famiglia. Ma se fosse successo qualcosa ai lupi, gli sarebbe importato? Era in ansia per loro oppure l’idea non lo sfiorava nemmeno? La sicurezza di Edward placava soltanto una parte delle mie paure.

Provai a sorridere a Jacob, cercando di inghiottire il groppo che avevo in gola. Ma non ci riuscii.

Jacob si alzò con un’agilità insolita per uno con la sua massa muscolare e trotterellò verso me ed Edward, al margine.

«Jacob», Edward lo salutò educatamente.

Il lupo lo ignorò e puntò i suoi occhi scuri su di me. Abbassò la testa all’altezza della mia, come la sera precedente, inclinandola da un lato. Dal suo muso uscì un latrato dimesso.

«Sto bene», risposi, senza aver bisogno della traduzione che Edward stava per fare. «Sono soltanto preoccupata, lo sai».

Jacob continuò a fissarmi.

«Vuole sapere perché», disse Edward.

Jacob ringhiò — un suono infastidito, più che minaccioso — e le labbra di Edward si contrassero.

«Che c’è?», domandai.

«Pensa che le mie traduzioni lascino un po’ a desiderare. In realtà ha pensato: "Che cazzata. Cosa c’è da preoccuparsi?". Ho adattato le sue parole perché mi erano sembrate volgari». Accennai a un sorriso, troppo in ansia per esserne divertita. «Ci sono un sacco di cose di cui preoccuparsi», risposi. «Per esempio, un branco di sciocchi lupi che stanno per farsi male».

Jacob rise abbaiando un colpo di tosse.

Edward fece un sospiro. «Jasper ha bisogno di aiuto. Ve la cavate senza interprete?».

«Non ti preoccupare».

Edward mi guardò per un istante, assorto in un’espressione difficile da decifrare, poi si voltò e si avviò a grandi passi verso Jasper. Mi sedetti. Il suolo era freddo e scomodo.

Jacob fece un passo avanti, poi si voltò a guardarmi e dalla sua gola fuoriuscì un lamento cupo. Fece un altro mezzo passo.

«Vai avanti senza di me», gli dissi. «Non voglio guardare». Jacob inclinò di nuovo la testa da un lato, per un momento, e poi si accucciò accanto a me, emettendo un latrato che suonò come una protesta.

«Davvero, puoi andare», gli assicurai. Rispose appoggiando la testa sulle zampe. Alzai gli occhi verso le nuvole chiare, argentee; non volevo vederli combattere. La mia immaginazione aveva già più carburante del necessario. Una brezza leggera soffiò nella radura e mi diede i brividi. Jacob mi si avvicinò e premette la pelliccia calda contro di me.

«Ehm, grazie», mormorai.

Dopo pochi minuti mi appoggiai alla sua schiena ampia. Stavo molto più comoda così.

Le nuvole attraversavano lentamente il cielo, macchie dense che si illuminavano e si spegnevano incrociando la luna. Distratta, iniziai a giocherellare con il pelo del collo di Jacob. Risuonò di nuovo nella sua gola il verso strano, simile a un ruggito lieve, che avevo sentito la sera prima. Era familiare. Era più ruvido, più selvatico delle fusa di un gatto, ma trasmetteva lo stesso senso di appagamento.

«Sai, non ho mai avuto un cane», dissi. «Ne ho sempre voluto uno, ma Renée è allergica».

Jacob rise, il suo corpo tremò sotto di me.

«Proprio non hai paura per sabato?», gli chiesi.

Girò la testa enorme verso di me e vidi uno dei suoi occhi alzarsi verso il cielo.

«Vorrei essere altrettanto ottimista».

Appoggiò la testa alla mia gamba e riprese a ruggire. Mi fece sentire un po’ meglio.

«Domani ci aspetta una bella escursione, eh?».

Ruggì di entusiasmo.

«Può anche darsi che sia un’escursione lunga», lo avvertii. «Edward non giudica le distanze come le persone normali».

Jacob abbaiò un’altra risata.

Sprofondai nella sua pelliccia calda e gli appoggiai la testa sul collo. Era strano. Nonostante avesse assunto quella forma bizzarra, sentivo di stare accanto al Jake che avevo conosciuto un tempo, quando la nostra era un’amicizia serena e spontanea, naturale come la vita stessa. Tutt’altra cosa rispetto agli ultimi momenti passati con lui in forma umana. Che strano riscoprire quella sensazione, dopo aver creduto di averla persa proprio per colpa dei lupi.

Nella radura continuavano i giochi di morte, mentre fissavo i contorni nebbiosi della luna.

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