14 Dichiarazione

«Non puoi farla sul serio», dissi. Era mercoledì. «Hai completamente perso la testa!».

«Di’ quel che vuoi», rispose Alice. «La festa si farà». La fissai incredula, con gli occhi talmente sgranati che pensavo sarebbero usciti dalle orbite e caduti nel vassoio.

«Calmati, Bella! Non c’è motivo per non farla. E poi, ho già spedito gli inviti».

«Ma... Ecco... Io... Tu... Sei una pazza!», farfugliai.

«Mi hai già comprato il regalo», ricordò. «Non devi far altro che venire». Mi sforzai di restare calma. «Visti gli avvenimenti di questi giorni, una festa non è proprio il massimo».

«Gli avvenimenti di questi giorni sono i tuoi esami, e per celebrarli niente è meglio di una festa, anche se è un po’ fuori moda».

«Alice!».

Sbuffò, poi provò a essere seria. «Dobbiamo sistemare un paio di cose, che richiedono del tempo. Nell’attesa, possiamo sempre festeggiare un lieto evento: il giorno del diploma — del primo diploma — arriva una sola volta nella vita. Non sarai più umana, Bella. È un’occasione unica per te». Edward, in silenzio durante tutto il nostro battibecco, le lanciò un’occhiata ammonitrice. Lei gli rispose con una linguaccia. Fece bene: la sua vocina non avrebbe mai sovrastato il baccano della mensa. E nessuno avrebbe capito il significato delle sue parole.

«Quali sono le cose che dobbiamo sistemare?», chiesi decisa a non lasciarmi distrarre. Edward rispose a voce bassa. «Secondo Jasper potremmo farci aiutare. La famiglia di Tanya non è l’unica alternativa. Carlisle sta cercando di rintracciare dei nostri vecchi amici e Jasper è andato e trovare Peter e Charlotte. Sta pensando di chiamare Maria... ma nessuno in realtà vuole coinvolgere quelli del Sud».

Alice rabbrividì. «Non dovrebbe essere così difficile convincerli ad aiutarci», continuò. «Nessuno vuole ricevere visite dall’Italia».

«Ma questi amici non sono... vegetariani, vero?», dissi, usando il soprannome con cui i Cullen stessi si definivano.

«No», rispose Edward, impassibile.

«Qui? A Forks?».

«Sono nostri amici», mi rassicurò Alice. «Andrà tutto bene. Non ti preoccupare. Poi Jasper ci darà un paio di lezioni su come eliminare i neonati...». A Edward brillarono gli occhi e un sorriso gli illuminò per un momento la faccia. All’improvviso sentii lo stomaco pieno di schegge di ghiaccio affilate.

«Quando partirete?», domandai seria. Non riuscivo a sopportare l’idea che qualcuno potesse non tornare. E se fosse stato Emmett, tanto coraggioso e avventato da non badare alla propria incolumità? O Esme, così dolce e materna da non riuscire a immaginarla in combattimento? O Alice, tanto piccola e fragile? Oppure... non riuscivo nemmeno a pensare al suo nome.

«Tra una settimana», disse Edward disinvolto. «C’è tempo a sufficienza per organizzarci».

Le schegge di ghiaccio si agitarono nello stomaco, nauseandomi all’istante.

«Sei quasi livida, Bella», commentò Alice.

Edward mi abbracciò e mi strinse forte. «Andrà tutto bene. Credimi».Certo , pensai. Dovevo credergli. Non sarebbe toccato a lui restare ad aspettare, tutto solo, senza sapere se il proprio amore sarebbe tornato a casa o meno.

E allora ebbi un’idea. Forse non avrei dovuto aspettare. Una settimana era più che sufficiente.

«Avete bisogno di aiuto», dissi piano.

«Sì», Alice piegò la testa quando sentì che il tono della mia voce era cambiato.

Risposi guardandola in faccia. La mia voce fu poco più che un sussurro.

«Potrei aiutarvi io».

Edward s’irrigidì all’istante e mi strinse fortissimo. Fece un sospiro che suonò come un sibilo.

Ma a rispondere fu Alice, calma. «Davvero, non saresti affatto d’aiuto».

«Perché no?», domandai; sentivo la disperazione nella mia voce. «Otto è meglio di sette. E abbiamo tutto il tempo».

«Non abbastanza per far sì che tu possa aiutarci, Bella», replicò fredda.

«Ricordi come Jasper ha descritto i neonati? Non saresti in grado di combattere. Non potresti controllare i tuoi istinti e ciò ti renderebbe un bersaglio facile. E poi Edward, per proteggerti, si esporrebbe a pericoli inutili». Incrociò le braccia, soddisfatta della sua logica inoppugnabile. Sapevo che aveva ragione. Sprofondai nella poltrona, insieme alle mie speranze deluse. Accanto a me Edward si rilassò.

Mi sussurrò all’orecchio. «Non perché tu abbia paura».

«Oh», disse Alice con sguardo assente. Poi fece un’espressione imbronciata. «Non sopporto chi disdice all’ultimo minuto. Tocca rifare la lista degli invitati. Siamo a sessantacinque...».

«Sessantacinque!». Strabuzzai di nuovo gli occhi. Non sapevo di avere tanti amici. Conoscevo davvero così tanta gente?

«Chi ha disdetto?», domandò Edward, ignorandomi.

«Renée».

«Cosa?». Restai a bocca aperta.

«Voleva farti una sorpresa il giorno dell’esame, ma qualcosa è andato storto. Ti ha lasciato un messaggio».

Per un momento mi godetti il sollievo. Qualsiasi cosa fosse andata storta, gliene sarei stata eternamente grata. Se fosse venuta a Forks in quel momento... Meglio non pensarci. La mia testa sarebbe esplosa.

Giunta a casa trovai un messaggio in segreteria. La mia sensazione di sollievo di poco prima riaffiorò quando udii mia madre descrivere l’incidente di Phil sul campo da gioco: durante la dimostrazione di una palla a effetto si era scontrato con un ricevitore rompendosi il femore. Ingessato com’era, dipendeva completamente da lei e non era il caso che lo abbandonasse in un frangente del genere. Mia madre si stava ancora scusando, quando il messaggio s’interruppe.

«Bene, almeno una ce n’è», sospirai.

«Cosa?», domandò Edward.

«Una persona di cui non devo preoccuparmi. Questa settimana non verrà uccisa».

Alzò gli occhi al cielo.

«Perché tu e Alice non mi ascoltate?», chiesi. «È una questione seria». Sorrise. «Fiducia».

«Fantastico», borbottai. Presi il telefono e composi il numero di Renée. Sapevo che sarebbe stata una conversazione lunga... a cui non avrei dovuto contribuire granché.

Restai in ascolto e la rassicurai ogni volta che mi concesse di aprire bocca: non ero delusa, non ero arrabbiata, non ero offesa. Doveva concentrarsi su Phil, aiutarlo a rimettersi in sesto. La salutai con un «guarisci presto» per Phil e promisi di chiamarla per raccontarle ogni minimo dettaglio degli esami di fine anno. Infine fui costretta a sfruttare la scusa del mio disperato bisogno di studiare e riagganciai.

La pazienza di Edward era infinita. Aspettò tranquillo che finissi di parlare, giocando con i miei capelli e sorridendo ogni volta che alzavo gli occhi. Forse era un atteggiamento superficiale notare certi dettagli mentre avrei dovuto pensare a ben altro, ma quel sorriso mi toglieva ancora il respiro. Era talmente bello che a volte era difficile pensare ad altro, difficile concentrarsi sui problemi di Phil, sulle scuse di Renée o sugli eserciti di vampiri nemici. In fin dei conti ero un essere umano. Riagganciai e mi alzai sulle punte dei piedi per baciarlo. Mi afferrò per i fianchi e mi sollevò sul bancone della cucina, per non farmi sporgere troppo. Ottima soluzione. Lo abbracciai all’altezza del collo e mi sciolsi contro il suo petto.

Come sempre, mi spinse via troppo presto.

Misi il broncio. Scoppiò a ridere, mentre si districava dal groviglio delle mie gambe e delle mie braccia. Si sporse verso il bancone e mi appoggiò dolcemente le braccia sulle spalle.

«Lo so, pensi che abbia una specie di autocontrollo perfetto e irremovibile, ma non è così».

«Magari», sospirai.

Ricambiò il sospiro.

«Domani dopo la scuola», disse cambiando argomento, «vado a caccia con Carlisle, Esme e Rosalie. Solo un paio d’ore e non ci separeremo un attimo. Alice, Jasper ed Emmett ti terranno d’occhio».

«Uffa», borbottai. Il giorno dopo iniziavano gli esami, avrei passato soltanto mezza giornata a scuola. Avevo matematica e storia, le due materie che mi spaventavano, sarei stata quasi tutto il giorno senza vederlo e mi sarei preoccupata tantissimo. «Non sopporto i babysitter».

«È una cosa passeggera», promise.

«Jasper si annoierà. Emmett mi prenderà in giro».

«Si comporteranno in maniera impeccabile».

«Esatto», borbottai.

E poi mi ricordai che avevo un’alternativa. «Sai... Non vado a La Push dal giorno del falò».

Scrutai attentamente il suo volto in cerca di un mutamento d’espressione. Strizzò giusto un pochino gli occhi.

«Là sarò al sicuro», gli dissi.

Ci pensò per qualche secondo. «Forse hai ragione».

La sua espressione era calma, anche troppo. Fui sul punto di chiedergli se preferiva che restassi a Forks, ma poi pensai che Emmett mi avrebbe presa in giro e cambiai argomento. «Sei già assetato?», chiesi, avvicinandomi per osservare la leggera ombra sul fondo dei suoi occhi. Le iridi erano dorate.

«In realtà no». Sembrava non voler rispondere e ciò mi sorprese. Attesi una spiegazione.

«Dobbiamo aumentare la nostra forza, il più possibile», spiegò circospetto. «Probabilmente continueremo a cacciare, sperando in un bel bottino».

«Serve per restare in forma?».

Cercò qualcosa nella mia espressione, ma c’era soltanto curiosità.

«Sì», disse infine. «Il sangue umano è quello che ci rende più forti, anche se di poco. Jasper ci ha pure pensato — come sai è contrario all’idea, ma è un tipo pratico — però non arriverà nemmeno a proporlo. Sa bene come reagirebbe Carlisle».

«Sarebbe d’aiuto?», domandai calma.

«Non importa. Non cambieremo il nostro modo di essere». Corrugai la fronte. Se fosse servito a pareggiare le forze... e rabbrividii all’idea di veder morire un estraneo per proteggere lui. Mi spaventai, ma non fui in grado di reprimere del tutto quel pensiero. Cambiò di nuovo discorso. «Ovviamente è per questo che sono così forti. I neonati sono saturi di sangue umano: il loro, che reagisce al cambiamento. Penetra nei tessuti e li rafforza. Il loro corpo lo consuma lentamente, come ha detto Jasper, e la forza inizia a diminuire soltanto dopo un anno».

«Quanto sarò forte, io?».

Sorrise. «Più di me».

«Anche più di Emmett?».

Il sorriso si allargò. «Certo. Fammi un favore e sfidalo a braccio di ferro. Sarebbe una bella esperienza per lui».

Scoppiai a ridere. Era tutto così assurdo.

Poi sospirai e saltai giù dal bancone, non potevo più rimandare. Dovevo prepararmi in fretta, e bene. Per fortuna avevo l’aiuto di Edward, un insegnante fenomenale, che sapeva tutto. Il problema maggiore era costituito dagli scritti. Se non fossi stata attenta e concentrata, nel compito di storia avrei parlato delle guerre tra vampiri nel Sud.

Feci una pausa per chiamare Jacob, ed Edward sembrò a suo agio come quando avevo chiacchierato con Renée. Giocò di nuovo con i miei capelli. Sebbene fosse pomeriggio inoltrato, la mia telefonata lo svegliò e sulle prime restò imbambolato. Lo sentii ravvivarsi quando gli chiesi se potevo andare a fargli visita il giorno dopo. La scuola dei Quileute aveva chiuso i battenti, era in vacanza, perciò mi disse di andarlo a trovare appena potevo. Ero contenta di avere un’alternativa ai babysitter. C’era un briciolo di dignità in più nel trascorrere la giornata con Jacob. Una parte di quella dignità scomparve quando Edward insistette per accompagnarmi fino al confine, come una bambina scambiata tra i suoi tutori.

«Allora, come sono andati gli scritti?», chiese Edward per la strada, tanto per fare due chiacchiere.

«Il compito di storia era facile, ma non sono sicura di quello di matematica. Mi è sembrato che tornasse tutto, perciò probabilmente ho sbagliato». Rise. «Sono sicuro che te la sei cavata. Certo, se sei davvero preoccupata posso corrompere il signor Varner e farti promuovere con il massimo dei voti».

«Ah, grazie ma è meglio di no».

Rise di nuovo, ma smise dopo l’ultima curva, quando scorgemmo la macchina rossa lì ad aspettarci. Aggrottò la fronte, si concentrò e poi, dopo aver parcheggiato, sbuffò.

«Cosa c’è che non va?», chiesi, con la mano sulla portiera. Scosse la testa. «Niente». Con gli occhi socchiusi fissò l’altra macchina attraverso il parabrezza. Avevo già visto quello sguardo.

«Non stai ascoltando quello che dice Jacob, vero?».

«Non è facile ignorare chi urla».

«Ah». Ci pensai un attimo. «E cosa urla?», sussurrai.

«Sono certo che te lo dirà lui stesso», disse Edward sarcastico. Avrei insistito volentieri, ma Jacob suonò il clacson, due colpi impazienti.

«Che maleducato», borbottò Edward.

«Jacob è fatto così», dissi, e scattai prima che Jacob rischiasse di far spazientire davvero il vampiro.

Nel salire sulla vecchia Golf, salutai Edward, che da quella distanza sembrava davvero sconvolto per via del clacson... o dei pensieri di Jacob. Ma i miei occhi erano stanchi, forse mi sbagliavo.

Desideravo che Edward mi seguisse. Desideravo che entrambi scendessero dall’auto, si stringessero la mano e fossero amici: che fossero Edward e Jacob invece chevampiro elicantropo. Era come tenere di nuovo in mano due calamite potenti e tentare di forzare la natura a cambiare le proprie leggi...

«Ehi, Bells». La sua voce era allegra, ma stanca. Lo guardai attentamente in volto, mentre ci muovevamo. Guidava più veloce di quanto avrei fatto io, ma più lento di Edward, sulla strada per La Push. Jacob era strano, sembrava quasi malato. Aveva le palpebre gonfie e la faccia contratta. Ciocche ispide sparate qua e là gli coprivano parte del viso.

«Tutto bene, Jake?».

«Sono solo stanco», cercò di cambiare discorso prima di essere sopraffatto da uno sbadiglio. Poi chiese: «Cosa ti va di fare oggi?». Lo guardai per un momento. «Per adesso andiamo semplicemente da te, e stiamo un po’ lì», suggerii. Non sembrava in condizione di fare altro. «Le moto possiamo prenderle dopo».

«Certo, certo», disse e sbadigliò di nuovo.

La casa di Jacob era stranamente vuota e deserta. Mi resi conto che consideravo Billy una specie di installazione permanente lì dentro.

«Dov’è tuo padre?».

«Dai Clearwater. Ci va spesso da quando è morto Harry. Sue si sente molto sola».

Jacob si sedette sul vecchio divano che era poco più grande di una poltrona e si schiacciò su un lato per farmi posto.

«Oh. È gentile da parte sua. Povera Sue».

«Sì... ha qualche problema, al momento...». Ebbe un’incertezza. «Con i figli».

«Certo, dev’essere difficile per Seth e Leah crescere senza il padre...». Annuì, perso nei suoi pensieri. Prese il telecomando e accese la TV quasi senza pensarci. Sbadigliò.

«Che hai, Jake? Sembri uno zombie».

«Ho dormito due ore stanotte, e quattro la notte precedente», rispose. Stiracchiò lentamente le lunghe braccia e quando le ripiegò sentii le giunture scricchiolare. Stese il braccio sinistro lungo lo schienale della poltrona, alle mie spalle, e lasciò cadere la testa all’indietro, contro il muro, per riposarsi. «Sono distrutto».

«Perché non dormi?».

Fece una smorfia. «Sam fa il difficile. Non si fida dei tuoi succhiasangue. Da due settimane sto facendo doppio turno, finora nessuno mi ha toccato con un dito, ma lui non ne vuole sapere. Perciò per il momento sono da solo».

«Doppio turno? Per proteggermi? Jake, non va bene! Devi dormire. Io sono al sicuro».

«Non è un problema». All’improvviso gli occhi gli si fecero più vigili.

«Ehi, poi hai scoperto chi è entrato in camera tua? C’è qualche novità?». Ignorai la seconda domanda. «No, non abbiamo scoperto niente sullo... sconosciuto che mi ha fatto visita».

«Allora continuerò a vigilare», disse mentre chiudeva le palpebre.

«Jake...», iniziai a lamentarmi.

«Ehi, è il minimo che posso fare... ti ho giurato che sarò tuo schiavo in eterno. A vita».

«Ma io non voglio uno schiavo!».

Non aprì gli occhi. «E allora cosa vuoi, Bella?».

«Voglio il mio amico Jacob. E non lo voglio mezzo morto, né ferito in un tentativo maldestro...».

Mi zittì. «Vedila così: spero di riuscire a scovare un vampiro da uccidere, va bene?». Non risposi. Lui mi guardò, sperando di cogliere una mia reazione.

«Sto scherzando, Bella».

Fissai la TV.

«Allora, hai qualche piano speciale per la settimana prossima? Stai per diplomarti. Grande. È fantastico». La sua voce si perse e il suo volto, già contratto, sembrava davvero stravolto. Chiuse gli occhi, non per la stanchezza, ma per il dispiacere. Capii che il diploma per lui aveva un significato orrendo, benché la mia decisione stesse andando in fumo.

«No, niente di speciale», dissi misurando le parole, nella speranza che notasse il mio tono rassicurante e non chiedesse ulteriori spiegazioni. Meglio non toccare l’argomento. Da una parte, non mi sembrava in grado di sostenere una conversazione su temi così complicati. Dall’altra, sapevo che avrebbe dato troppo peso ai miei scrupoli. «Be’, devo andare a una festa. La mia». Lo dissi con un tono di disgusto. «Alice adora le feste e ha invitato tutta la città a casa sua. Sarà terribile». Mentre parlavo spalancò gli occhi e un sorriso di sollievo alleviò il suo sfinimento. «Non sono stato invitato. Sono offeso», mi punzecchiò.

«Considerati invitato. In teoria sarebbe la mia festa, dovrei poter invitare chi pare a me».

«Grazie», rispose sarcastico e richiuse gli occhi.

«Mi farebbe piacere se venissi», dissi senza sperarci. «Sarebbe più divertente. Per me, intendo».

«Certo, certo», borbottò. «Sarebbe davvero... saggio...». La sua voce si affievolì.

Un paio di secondi dopo russava già.

Povero Jacob. Studiai il suo viso, perso nei sogni, e mi piacque molto. Il sonno aveva abbattuto le difese e allontanato le amarezze. Era tornato a essere il mio migliore amico, ciò che era stato fino a che non erano iniziate quelle assurdità da licantropi. Sembrava molto più giovane. Sembrava il mio Jacob.

Mi rannicchiai sul divano, in attesa del suo risveglio. Speravo che dormisse abbastanza da recuperare un po’ del sonno arretrato. Presi il telecomando, ma il mio zapping non servì a nulla. Mi fermai su una trasmissione di cucina, nonostante sapessi, mentre la guardavo, che non mi sarei mai impegnata fino a quel punto per far da mangiare a Charlie. Jacob continuava a russare, un po’ più forte. Alzai il volume della TV. Ero stranamente rilassata, quasi assonnata. Quella casa mi sembrava più sicura della mia, forse perché là nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Mi accoccolai sul divano e decisi di fare anch’io un sonnellino. E l’avrei fatto davvero, se Jacob non avesse russato così forte. Perciò, invece di appisolarmi, lasciai che la mia mente divagasse. Gli esami erano finiti, ed era stata una passeggiata. Tranne che per matematica, ma del voto finale m’importava poco. Il liceo ormai era un ricordo. E non sapevo esattamente cosa pensare. Non potevo essere obiettiva, dato che la mia vita da umana era agli sgoccioli.

Mi chiedevo per quanto tempo ancora Edward avrebbe usato la scusa "No, perché hai paura". Forse avrei dovuto puntare i piedi, prima o poi. Dal punto di vista pratico, sapevo che avrebbe avuto più senso chiedere a Carlisle di trasformarmi subito dopo la consegna dei diplomi. Forks stava diventando pericolosa quasi come una zona di guerra. Anzi, Forks era zona di guerra. Oltretutto... mi forniva una buona scusa per non andare alla festa. Risi di me stessa, al pensiero di volermi trasformare per ragioni così frivole. Che stupida...

Ma Edward aveva ragione: non ero ancora pronta.

E non volevo badare al lato pratico. Doveva farlo Edward. Non era un desiderio razionale. Ero sicura che due secondi dopo il morso, non appena il veleno avesse iniziato a bruciarmi nelle vene, non mi sarebbe importato più di chi mi avesse trasformato. Perciò non dovevo dargli così tanta importanza. D’altra parte, era difficile spiegarmi perché tenessi così tanto alla sua presenza. Contava che fosse lui a fare la scelta, a volermi con sé a tal punto da non permettere a nessun altro di trasformarmi. Era un pensiero infantile, ma mi piaceva l’idea che fossero le sue labbra l’ultima bella cosa che avrei sentito. Un altro enorme motivo di disagio, che non avrei mai ammesso di fronte ad altri, era che volevo essere contagiata dalsuo veleno. Così gli sarei appartenuta in un modo tangibile, reale. Ma sapevo che per niente al mondo avrebbe rinunciato all’idea del matrimonio, che era il modo più ovvio di rimandare, e fino a quel momento aveva funzionato. Cercai di immaginare come sarei riuscita a dire ai miei genitori che mi sarei sposata entro l’estate. Come lo avrei detto ad Angela, Ben e Mike. Ma non trovavo le parole. Sarebbe stato più facile raccontargli che stavo per diventare una vampira. Ed ero sicura che almeno mia madre, se le avessi esposto la verità in ogni dettaglio, si sarebbe opposta più strenuamente al matrimonio che alla mia trasformazione. Reagii con una smorfia al pensiero della sua espressione sconvolta.

Poi, solo per un secondo, ebbi di nuovo l’assurda visione di Edward e me, seduti sotto un portico, con indosso vestiti d’altri tempi. Tempi in cui nessuno si sarebbe sorpreso nel vedermi l’anello al dito. Un mondo semplice, dove l’amore era definito in modo semplice. Uno più uno fa due... Jacob russava e si girò dall’altra parte. Il braccio gli cadde dalla spalliera del divano e m’immobilizzò, incollandomi al suo corpo. Santo cielo, quanto pesava! E quanto riscaldava. Iniziai a sudare dopo pochi secondi.

Provai a scivolare via da quella presa senza svegliarlo, ma fui costretta a spingerlo via e quando sentì il braccio cadere spalancò gli occhi. Balzò in piedi e iniziò a guardarsi intorno, in preda all’ansia.

«Che è successo?», chiese disorientato.

«Sono stata io, Jake. Scusa se ti ho svegliato».

Si girò a guardarmi e sbatté gli occhi confuso. «Che ci fai qui?».

«Ehi, bell’addormentato!».

«Oddio! Sono crollato, mi dispiace! Per quanto tempo ho dormito?».

«Un paio di dimostrazioni del cuoco. Ho perso il conto». Si buttò di nuovo sul divano, accanto a me.

«Oddio, mi dispiace davvero».

Gli passai la mano sui capelli, cercando di ravvivare un po’ quel disordine selvaggio. «Non devi sentirti in colpa. Sono contenta che sei riuscito a dormire un po’».

Fece uno sbadiglio e si stiracchiò. «In questi giorni non sono buono a nulla. Non mi meraviglia che Billy non sia mai in casa. Sono di un noioso...».

«Sei in gamba», lo rassicurai.

«Su, usciamo. Ho bisogno di fare due passi o crollo di nuovo».

«Jake, torna a dormire. Sto bene. Chiamo Edward e mi faccio venire a prendere». Nel dirlo, mi tastai le tasche e mi resi conto che erano vuote.

«Cavolo, ti devo chiedere in prestito il cellulare, mi sa che il suo l’ho lasciato in macchina». Iniziai a preparare le mie cose.

«No!», insistette lui, prendendomi per mano. «Ti prego, resta. Non ti vedo mai. Non riesco a credere di avere sprecato tutto questo tempo». Mentre parlava mi spinse giù dal divano e poi uscì, abbassando la testa per passare dalla porta. Mentre Jacob dormiva, la temperatura era scesa; l’aria era incredibilmente fredda per questa stagione — forse stava per arrivare una tormenta. Sembrava febbraio, non giugno. L’aria invernale svegliò del tutto Jacob, che si mise a camminare su e giù davanti a casa sua, trascinandomi con sé.

«Sono uno stupido», brontolò tra sé.

«Che c’è, Jake? Ti sei addormentato». Mi strinsi nelle spalle.

«Ti volevo parlare. Non riesco a crederci».

«Parlami ora», dissi.

Jacob mi fissò per un attimo negli occhi, poi distolse lo sguardo in fretta e si girò verso gli alberi.

Quasi sembrava arrossire, ma non era facile dirlo, scura com’era la sua pelle.

All’improvviso ricordai le parole di Edward a proposito di ciò che Jacob urlava nella sua testa. Iniziai a mordicchiarmi il labbro.

«Ascolta», disse Jacob. «Pensavo di farlo in maniera un po’ diversa». Sembrava ridere di sé. «Con più calma», aggiunse. «Volevo stare attento ai particolari, ma...», e guardò le nuvole, che si facevano più scure mano a mano che il tempo passava, «ormai sono fuori tempo massimo». Rise di nuovo, nervosamente. Stavamo ancora camminando, piano.

«A cosa ti riferisci?», domandai.

Fece un sospiro profondo. «Ho una cosa da dirti. La sai già... ma credo di dovertela dire in modo chiaro e tondo. Tanto per non lasciare spazio a fraintendimenti».

Mi fermai di colpo, e lui con me. Liberai la mano dalla sua stretta e incrociai le braccia. D’un tratto ero sicura di non voler sapere cosa aveva da dirmi.

Abbassò le sopracciglia e un’ombra apparve nei suoi occhi profondi. Erano neri come la pece, quando fissarono i miei.

«Bella, sono innamorato di te», disse con tono fermo e sicuro. «Bella, ti amo. E voglio che tu scelga me invece che lui. So che non provi gli stessi sentimenti, ma ho bisogno di dirtelo, così sarai in grado di scegliere. Non voglio che il silenzio tra noi diventi un ostacolo».

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