27 Necessità

Già dopo un breve tratto di strada, guidare divenne impossibile. A un certo punto non vidi più niente e lasciai che fossero le ruote a trovare il ciglio terroso della strada per accostare lentamente. Mi abbandonai sul sedile, a pezzi e in balia della debolezza che avevo combattuto nella stanza di Jacob. Era peggio di quanto pensassi e mi colse con intensità sorprendente. Sì, avevo fatto bene a tenerla nascosta a Jacob. Nessuno doveva vedermi in quello stato.

Ma non restai sola a lungo: Alice impiegò poco ad accorgersi di me ed Edward mi raggiunse nel giro di pochi minuti. La portiera si aprì cigolando e lui mi prese tra le braccia.

Sulle prime mi sentii ancora peggio. Perché c’era quella piccola parte di me — piccola, ma più grande e rumorosa a ogni minuto che passava, infuriata con il resto di me stessa — che agognava un altro paio di braccia. A intensificare il dolore c’era un senso di colpa appena nato. Lui non disse niente, mi lasciò frignare finché non iniziai a biasciare il nome di Charlie.

«Pronta a tornare a casa?», domandò dubbioso.

Dopo parecchi tentativi riuscii a spiegargli che le cose non sarebbero migliorate in fretta. Dovevo raggiungere Charlie prima che si facesse troppo tardi e che lui e Billy si sentissero. Perciò fu Edward ad accompagnarmi a casa e per una volta non tentò nemmeno di sfidare i limiti fisici di velocità del mio pick-up, mentre mi proteggeva con un braccio sulle spalle. Durante il tragitto mi sforzai di mantenere il controllo. Sulle prime mi sembrò un tentativo vano, ma non mi diedi per vinta. Ancora qualche secondo, mi dicevo. Giusto il tempo di inventare una scusa, o una bugia, e avrei potuto crollare di nuovo. Rovistai nella mia mente alla ricerca disperata di una riserva di forze. Ne avevo abbastanza per placare i singhiozzi, o almeno per trattenerli, ma non per metterli a tacere. Le lacrime non accennavano a rallentare. Non trovavo un appiglio che mi aiutasse ad affrontarle.

«Aspettami di sopra», mugugnai quando fummo davanti a casa. Lui mi strinse forte per un minuto, poi sparì.

Entrata, puntai dritta alle scale.

«Bella?», chiamò Charlie dalla sua solita posizione sul divano, mentre gli passavo davanti.

Mi voltai a guardarlo senza parlare. I suoi occhi si spalancarono e balzò in piedi.

«Cos’è successo? Jacob è...».

Scossi la testa con violenza, cercando un po’ di voce. «Sta bene, sta bene», giurai, con voce bassa e rauca. In effetti Jacob stava bene, almeno fisicamente: al momento, era quella l’unica preoccupazione di Charlie.

«Ma cos’è successo?». Mi afferrò per le spalle, lo sguardo sempre ansioso e spalancato. «Cosa ti è successo?». Probabilmente avevo un aspetto peggiore di quanto immaginassi.

«Niente, papà. Io... ho solo dovuto parlare con Jacob... di una faccenda delicata. Sto bene».

L’ansia si placò e fu rimpiazzata dalla disapprovazione.

«Non potevi aspettare un momento migliore?», domandò.

«Probabilmente no, papà, non avevo alternative. Per come si sono messe le cose ero costretta a scegliere... A volte, trovare un compromesso è impossibile». Scosse la testa lentamente. «Come l’ha presa?».

Non risposi. Mi guardò in faccia per qualche istante e annuì. Probabilmente come risposta era più che sufficiente.

«Spero che tu non gli abbia rovinato la convalescenza».

«Guarirà in fretta», mormorai.

Charlie sospirò.

Stavo per perdere il controllo, lo sentivo.

«Salgo in camera», dissi scrollandomi dalla sua presa.

«Va bene», disse Charlie. Probabilmente aveva intuito che la fontana stava per esplodere. Niente lo impauriva più delle lacrime. Mi trascinai in camera, cieca e zoppicante.

Quando entrai, lottai con il fermaglio del mio braccialetto, nel tentativo di aprirlo con le dita tremanti.

«No, Bella», sussurrò Edward stringendomi la mano. «Fa parte di ciò che sei».

Mi accolse nel rifugio delle sue braccia e a quel punto scoppiarono di nuovo i singhiozzi.

La più lunga delle giornate sembrava non finire mai, mai, mai. Come fosse eterna.

Eppure, sapevo che la notte che incombeva senza darmi scampo non sarebbe stata la peggiore della mia vita. Ciò mi diede sollievo. Infine, non ero sola. Altra fonte di grande sollievo.

La sua paura nei confronti delle mie crisi emotive impedì a Charlie di venire a controllarmi, malgrado non fossi tranquilla. Probabilmente non riuscì a dormire neanche lui.

Quella notte, ragionando con il senno di poi, vivevo con una lucidità quasi insopportabile. Avevo ben presente ogni errore commesso, ogni pugnalata inflitta, le piccole e le grandi cose. Ogni tormento scatenato in Jacob, ogni ferita provocata a Edward, accumulati in alte pile che non potevo ignorare né cancellare.

E mi resi conto di essermi sbagliata, quanto alle calamite. Non erano Edward e Jacob i poli che avevo cercato di avvicinare con la forza, ma le due metà di me stessa, la Bella di Edward e quella di Jacob. Purtroppo non potevano coesistere e mai avrei dovuto tentare l’esperimento. Avevo combinato troppi danni.

A un certo punto della nottata ricordai la promessa che mi ero fatta quel mattino, che non avrei mai più permesso a Edward di vedermi versare un’altra lacrima per Jacob Black. Il pensiero scatenò l’ennesima reazione isterica, che spaventò Edward ancora più del pianto. Ma anche quella ebbe il proprio corso e si esaurì.

Edward parlò poco, accontentandosi di abbracciarmi, sul letto, e di lasciare che gli rovinassi la camicia, inzuppandogliela d’acqua salata. Mi occorse più di quanto pensassi per liberarmi, con il pianto, di quella parte di me, piccola e tormentata. Alla fine fui abbastanza esausta da prendere sonno. La perdita di coscienza non placò del tutto il dolore e fu soltanto una pace nebbiosa e vuota, come se avessi preso un tranquillante. Ma rese tutto più sopportabile, senza cancellare niente. Ne ero conscia persino nel sonno e ciò mi aiutò a fare le correzioni di rotta di cui avevo bisogno. Il mattino portò con sé, se non uno sguardo più lucido, perlomeno un briciolo di controllo, di consapevolezza. L’istinto mi diceva che la ferita nel mio cuore sarebbe bruciata per sempre. Ormai era parte di me. Il tempo avrebbe reso tutto più facile — era un luogo comune. Che il tempo potesse guarirmi o no, l’importante era che Jacob stesse meglio. E potesse essere ancora felice.

Mi alzai senza sentirmi frastornata. Aprii gli occhi, finalmente asciutti, e incontrai il suo sguardo ansioso.

«Ciao», dissi. Avevo la voce roca. Mi schiarii la gola. Non rispose. Mi guardava, in attesa che ricominciassi.

«No, sto bene», giurai. «Non succederà più».

Rispose con uno sguardo di sottecchi.

«Scusa se ti ho costretto ad assistere», dissi. «Non lo meritavi». Mi prese il viso tra le mani.

«Bella... sei sicura di aver fatto la scelta giusta? Non ti ho mai vista così addolorata...». La sua voce si spezzò su quell’ultima parola. In realtà ero sopravvissuta a tormenti anche peggiori. Sfiorai le sue labbra. «Sì».

«Non lo so...». Aggrottò le sopracciglia. «Se soffri così tanto, com’è possibile che sia la scelta migliore?».

«Edward, so a chi posso rinunciare per la vita».

«Ma...».

Scossi la testa. «Non capisci. Tu saresti anche coraggioso o abbastanza forte da poter vivere senza di me, se fosse la scelta migliore. Io non riuscirei mai a sacrificarmi altrettanto. Devo stare con te. Non posso vivere diversamente». Sembrava ancora titubante. Non avrei mai dovuto lasciare che passasse la notte accanto a me. Ma avevo avuto così bisogno di lui...

«Mi dai quel libro, per favore?», domandai, indicando un punto sopra la sua spalla.

Abbassò le sopracciglia, confuso, ma me lo porse alla svelta.

«Ancora questo?».

«Volevo soltanto trovare una parte che ricordavo... per vedere come lo dice...». Sfogliai il libro e trovai subito la pagina che mi serviva. A furia di rileggerla si era formato un orecchio. «Cathy è un mostro, ma qualcosa l’ha capita», mormorai. Leggevo a bassa voce, per me stessa più che per lui.

«"Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo diverrebbe per me un’immensa cosa estranea"». Annuii, sempre a me stessa. «So esattamente cosa significa. E so di chi non posso fare a meno».

Edward mi sfilò il libro dalle mani e lo lanciò dall’altra parte della stanza. Atterrò con un tonfo rumoroso sulla scrivania. Mi strinse le braccia sui fianchi.

Un leggero sorriso accese il suo volto perfetto, ma la preoccupazione gli rigava ancora la fronte. «Anche Heathcliff ha i suoi momenti di gloria», disse. Non aveva bisogno del libro per citare. Mi avvicinò e sussurrò al mio orecchio: «Non posso vivere senza la mia vita! Non posso vivere senza l’anima mia!».

«Ecco», risposi a bassa voce. «È proprio così».

«Bella, non sopporto che tu sia così disperata. Magari...».

«No, Edward. Ho combinato un vero disastro, e mi toccherà farci i conti per tutta la vita. Ma so cosa voglio, di cosa ho bisogno... e cosa devo fare, ora».

«Cosa dobbiamo fare ora?».

La precisazione mi fece ridere appena, poi sospirai. «Andiamo a trovare Alice».

Trovammo Alice seduta sui gradini del portico sul retro, troppo iperattiva per aspettarci al chiuso. Sembrava pronta a lasciarsi andare a una danza di festeggiamento, eccitata com’era dalle notizie che già sapeva.

«Grazie, Bella!», intonò mentre scendevamo dal pick-up.

«Aspetta, Alice», dissi, alzando una mano per placare la sua gioia. «Ho qualche condizione da porre».

«Lo so, lo so, lo so. Dev’essere al più tardi il 13 di agosto, hai potere di veto sulla lista degli invitati e se esagero non mi rivolgerai più la parola».

«Ah, okay. Be’, d’accordo. Vedo che conosci le regole».

«Non preoccuparti, Bella, sarà perfetto. Vuoi vedere il tuo vestito?».Tutto, pur di farla felice , dissi a me stessa.

«Certo».

Lei sorrise maliziosa.

«Ehm, Alice», dissi senza perdere il mio tono disinvolto e spontaneo.

«Quando mi hai comprato un vestito?».

Probabilmente non ero stata convincente. Edward strinse la mia mano. Alice ci guidò all’interno, dritto verso le scale. «Per queste cose occorre tempo, Bella», spiegò. Il suo tono di voce sembrava... evasivo. «Voglio dire, non ero certa che le cose avrebbero preso questa piega, ma c’era una possibilità concreta...».

«Quando?», ripetei.

«Da Perrine Bruyere la lista d’attesa è sempre lunga, ecco», disse, sulla difensiva. «I capolavori di tessuto non si creano in un giorno. Se non ci avessi pensato prima, saresti stata costretta a pescare dal tuo armadio!». Evidentemente non potevo aspettarmi una risposta chiara.

«Perri chi?».

«Non è uno stilista di serie A, Bella, perciò non è il caso di perdere le staffe. Però promette bene, ed è specializzato in ciò che cercavo».

«Non sto perdendo le staffe».

«Certo che no». Osservò con sospetto la mia espressione calma. Poi, prima che entrassimo nella sua stanza, si rivolse a Edward.

«Tu resti fuori».

«Perché?», domandai.

«Bella», sbuffò, «conosci le regole. Non può vedere il vestito fino a quel giorno».

Feci un respiro profondo. «Non m’importa. E poi, l’avrà già visto nei tuoi pensieri. Ma se preferisci...».

Cacciò Edward fuori dalla porta. Lui non le badò: i suoi occhi erano su di me, timorosi, aveva paura a lasciarmi sola.

Annuii, nella speranza che la mia espressione fosse abbastanza tranquilla da rassicurarlo.

Alice gli chiuse la porta in faccia.

«Perfetto!», mormorò. «Forza».

Mi afferrò per un polso, mi trascinò verso l’armadio — più grande di camera mia — e infine verso l’angolo posteriore del mobile, dove una custodia bianca aveva un reparto tutto per sé.

Aprì la zip della custodia con un movimento fluido, e la fece scivolare con cura dalla stampella. Fece un passo indietro, e con una mano indicò il vestito, come fosse la valletta di un gioco a premi.

«Allora?», chiese senza fiato.

Lo osservai per un istante interminabile, per tenerla in sospeso. La sua espressione si fece preoccupata.

«Ah», dissi, e grazie al mio sorriso riuscì a rilassarsi. «Vedo».

«Che te ne pare?», domandò.

Riecco il mio incubo allaAnna dai capelli rossi.

«È perfetto, ovviamente. Va a pennello. Sei un genio». Sorrise. «Lo so».

«Millenovecentodiciotto?».

«Più o meno», disse e annuì. «In parte è un disegno mio, lo strascico, il velo...», parlava sfiorando la seta bianca. «Il pizzo è d’epoca. Ti piace?».

«È bellissimo. Perfetto per lui».

«Ma per te è perfetto?», insistette.

«Sì, penso di sì, Alice. Penso sia proprio ciò di cui ho bisogno. So che farai un gran bel lavoro... se riesci a contenerti».

Si illuminò.

«Posso vedere il tuo vestito?», domandai.

Restò perplessa e impassibile.

«Non hai ordinato anche il vestito da damigella? Non voglio che la mia testimone sia costretta a pescare qualcosa dall’armadio». Finsi una smorfia di orrore.

Lei mi abbracciò. «Grazie, Bella!».

«Com’è possibile che non lo sapessi già?», la stuzzicai, baciandole i capelli spettinati. «Che razza di veggente sei?». Alice si allontanò con un passo di danza, il viso acceso di entusiasmo sincero. «Ho talmente tanto da fare! Vai a giocare con Edward. Devo rimettermi al lavoro». Schizzò fuori dalla stanza, strillando: «Esme!», e sparì. La seguii al mio passo. Edward mi aspettava in corridoio, appoggiato ai pannelli di legno della parete.

«È stato molto, molto gentile da parte tua», mi disse.

«Mi sembra felice».

Sfiorò il mio viso; i suoi occhi — troppo scuri, era passato troppo tempo da quando mi aveva lasciata — scrutarono attenti la mia espressione.

«Usciamo», suggerì di scatto. «Andiamo alla nostra radura». Proposta molto allettante. «Non devo più nascondermi, vero?».

«No. Ormai il pericolo è passato».

Era muto e pensieroso mentre correva. Il vento soffiava sul mio viso, caldo, ora che la tempesta era passata. Le nuvole coprivano il cielo come al solito.

Quel giorno la radura era un luogo pacifico e felice. Fazzoletti di margherite estive coloravano di macchie bianche e gialle la distesa d’erba. Mi sdraiai sulla terra senza badare alla lieve umidità e cercai di leggere le sagome delle nuvole. Erano troppo regolari, troppo lisce. Niente immagini, soltanto una coperta grigia e soffice.

Edward si sdraiò accanto a me e mi prese la mano.

«Tredici agosto?», chiese disinvolto dopo qualche minuto di gradevole silenzio.

«Così mancherà un mese al mio compleanno. Non volevo che cadesse troppo vicino».

Sospirò. «Esme è nata tre anni prima di Carlisle. Lo sapevi?». Scossi la testa.

«Non ha mai contato granché».

La mia voce era serena, un controcanto alla sua ansia. «Ormai la mia età non importa, Edward. Sono pronta. Ho scelto la mia vita e voglio iniziare a viverla».

Mi accarezzò i capelli. «E il veto sulla lista degli invitati?».

«Non è che m’importi, però...». Mi trattenni, poco entusiasta di dare spiegazioni. Meglio togliersi subito il peso. «Non credo che Alice sentirebbe la necessità di invitare... i licantropi. Non so se... Jake si sentirà di... di dover presenziare. Non voglio che sia indeciso, che tema di offendermi se non si presenta. Questo glielo voglio risparmiare». Edward restò in silenzio per qualche istante. Io fissavo le cime degli alberi, quasi nere sullo sfondo grigio chiaro del cielo. All’improvviso mi cinse i fianchi e mi strinse al suo petto.

«Dimmi perché fai tutto questo, Bella. Perché adesso hai deciso di lasciare carta bianca ad Alice?». Gli ripetei la conversazione della sera precedente tra me e Charlie. «Non è giusto che Charlie resti escluso da tutto questo», conclusi. «E come lui Renée e Phil. Tanto vale lasciar divertire Alice. Magari sarà più facile per Charlie, se riesce a salutarmi come vorrebbe. Anche se pensa che sia troppo presto, non voglio privarlo della possibilità di accompagnarmi all’altare». Scandii quelle parole con una smorfia e un bel respiro. «Se non altro, mia madre, mio padre e i miei amici saranno al corrente della parte migliore della scelta, il massimo che mi è consentito di rivelare. Sapranno che ho scelto te, e che viviamo assieme. Sapranno che sono felice, ovunque mi trovi. Penso sia il massimo che possa fare per loro». Edward mi prese la testa fra le mani e per un breve istante mi guardò negli occhi.

«Non ci sto», disse di punto in bianco.

«Cosa?», esclamai. «Rinunci? No!».

«Non rinuncio, Bella. Terrò fede al mio impegno. Ma tu sei libera. Alle tue condizioni, senza malintesi».

«Perché?».

«Bella, ho capito tutto. Stai cercando di fare felici tutti quanti. E a me dei sentimenti altrui non importa. Ho bisogno di sapere chetu sei felice. Non preoccuparti di dare la notizia ad Alice. Ci penserò io. Ti prometto che non ti farà sentire in colpa».

«Ma io...».

«No. Facciamo a modo tuo. Perché a modo mio non funziona. Dico che tu sei testarda, ma guarda cos’ho combinato io. Mi sono aggrappato con stupida ostinazione a una mia idea di felicità e ho finito per farti del male. Nel profondo, di continuo. Ormai non mi fido più di me stesso. Puoi essere felice a modo tuo. A modo mio non va mai bene. Quindi», scivolò sotto di me e raddrizzò le spalle, «facciamo a modo tuo, Bella. Stasera. Oggi. Prima è, meglio è. Parlerò con Carlisle. Pensavo che magari, se ti diamo una bella dose di morfina, non farà così male. Vale la pena di provare». Serrò i denti.

«Edward, no...».

Mi zittì con un dito. «Non preoccuparti, Bella, amore. Non ho dimenticato il resto delle tue richieste». Le sue mani furono tra i miei capelli, le sue labbra si mossero morbide ma determinate sulle mie, prima che capissi cosa intendeva. Cosa stesse facendo.

Non restava tempo per reagire. Se avessi aspettato troppo, non sarei riuscita a ricordarmi perché fosse il caso di fermarlo. Già faticavo a respirare. Le mie dita affondavano nelle sue braccia, che mi stringevano a lui; la bocca era incollata alla sua e rispondeva a tutte le domande inespresse che si sentiva rivolgere.

Cercai un po’ di lucidità, una maniera per parlare.

Lui rotolò con grazia e mi schiacciò contro l’erba fresca.Oh, chi se ne importa! Esultò la parte meno nobile di me. Avevo la testa piena della dolcezza del suo respiro.

No, no, no, replicai a me stessa. Scossi la testa e la sua bocca si spostò sul mio collo, concedendomi di respirare.

«Basta, Edward. Aspetta». La mia voce era debole quanto la mia volontà.

«Perché?», sussurrò nell’incavo del mio collo.

Mi affannai per far suonare decisa la mia risposta. «Non voglio farlo ora».

«Ah, no?», domandò, nella voce un sorriso. Tornò a baciarmi e m’impedì di parlare. Sentivo il calore nelle vene e la pelle bruciare a contatto con la sua.

Cercai di concentrarmi. Mi occorse un grande sforzo per costringere le mani a liberarsi dai suoi capelli, a spostarsi sul suo petto. Ma ci riuscii. A quel punto feci forza per spingerlo via. Da sola non ci riuscii, ma lui reagì come mi aspettavo.

Si scostò di pochi centimetri per guardarmi, ma i suoi occhi non facevano niente per assecondare la mia decisione. Erano fuoco nero. Ardevano.

«Perché?», chiese di nuovo, a voce bassa e ruvida. «Ti amo. Ti voglio. Adesso».

Le farfalle che avevo nello stomaco m’inondarono la gola. Approfittò della mia incapacità di parlare.

«Aspetta, aspetta», cercai di dire, aggirando le sue labbra.

«Io no di certo», mormorò.

«Per favore», esclamai.

Con una smorfia si allontanò da me e rotolò sul fianco. Per qualche istante restammo immobili, in attesa che il nostro respiro rallentasse.

«Dimmi perché no, Bella», domandò. «E spero che non mi riguardi». Che speranza sciocca. Tutto il mio mondo riguardava lui.

«Edward, per me è molto importante. Io voglio fare le cose per bene».

«Secondo quali criteri?».

«I miei».

Si appoggiò a un gomito e restò a fissarmi con uno sguardo di disapprovazione.

«E come farai le cose per bene?».

Respirai a fondo. «Con responsabilità. Tutto nell’ordine giusto. Voglio salutare Charlie e Renée nel modo migliore. Non priverò Alice del suo divertimento, perciò organizzerò lo stesso un matrimonio. E mi legherò a te in ogni maniera umana possibile, prima di chiederti di rendermi immortale. Voglio solo rispettare le regole, Edward. La tua anima è troppo, troppo importante per me, non posso rischiare. E non mi smuoverai di un centimetro».

«Magari potessi», mormorò, gli occhi ancora infuocati.

«Ma non lo faresti», dissi cercando di non perdere fermezza, «non se sapessi che questo è ciò che desidero davvero».

«Non stai giocando pulito», mi accusò.

Risposi sorridendo. «Non ho mai detto di volerlo fare». Restituì il sorriso, malinconico. «Se cambi idea...».

«Sarai il primo a saperlo, te lo prometto».

Proprio in quell’istante la pioggia iniziò a cadere: poche gocce sparse che colpivano l’erba con un suono debolissimo.

Lanciai un’occhiataccia al cielo.

«Ti porto a casa». Asciugò le piccole perle d’acqua dalle mie guance.

«Non è la pioggia il problema», mugugnai. «Vedi, è giunto il momento di fare qualcosa di molto fastidioso e probabilmente pericolosissimo». Strabuzzò gli occhi, allarmato.

«Per fortuna sei antiproiettile», sospirai. «Ho bisogno dell’anello. È ora di dirlo a Charlie».

Rise della mia espressione. «Pericolosissimo, certo». E, sempre ridendo, infilò una mano nella tasca dei jeans. «Se non altro, stavolta non dovremo nascondere le nostre tracce».

E rimise l’anello al suo posto, sull’anulare della mia mano sinistra. Dove sarebbe rimasto... probabilmente per l’eternità.

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