IV

Sposò per dovere e per far sodalizio

il primo consorte, vissuto nell’ozio.

E sposò per amicizia e per aver man forte

il secondo, che il troppo impegno portò a morte.

Ma quando volle sposarsi per amore

l’uomo che scelse dei tre fu il peggiore.

Ingenua e cieca era agli animi intriganti

la malinconica regina dell’isole vaganti.


Misero su casa a Miami. Miami! Non riuscivo a immaginare come la mia May potesse credersi felice fra la gente della terraferma, specialmente gente di quel genere, e tuttavia le sue lettere rivelavano una certa serenità. Erano brevi, devo dire, e non molto frequenti. Ma le poche notizie che contenevano erano buone. Dougie, a quanto volle scrivermi, aveva messo la testa a partito e studiava ingegneria idroelettrica! Era un peccato che questo lo tenesse a lungo lontano da casa, ma la materia a cui s’appassionava richiedeva impegno. Lei invece giocava a golf, nuotava, andava a cavallo… aveva sempre qualcosa da fare. E Jimmy Rex diceva d’essere contento della sua scuola. Dalle lettere non si capiva se la scuola fosse contenta di lui. Così un aspetto positivo riuscivo a vederlo: se non avevo May, almeno non avevo neppure Jimmy Rex.

La residenza del proprietario era rimasta a me, e avevo tutto il tempo che volevo per aggirarmi da solo in quel lusso. Non ero dell’umore di dare dei cocktail party, e se a Betsy venne mai l’idea di farsi invitare ebbe il buon senso di non parlarmene. Mi tenevo occupato. In quel periodo lavoravamo in una dozzina di campi diversi. Vendevamo gas liquidi: ossigeno, azoto, idrogeno, anidride carbonica solida, ammoniaca, metanolo, clorina e soda caustica; inoltre piccole quantità di argon e di elio, quando trovavamo compratori. Mi trastullavo con l’idea di mettere in orbita geostazionaria molto bassa un satellite con cui trasmettere energia in Australia o in Giappone. L’industria dell’acciaio di Betsy invece andava male. Intanto, prendendo spunto da quel che mi aveva fatto notare il comandante Havrila sulle navi che arrivavano in zavorra, le sfruttavo per far arrivare sabbia con cui ripulivamo le tubature dalle incrostazioni anche in alto mare. Naturalmente non ero io il proprietario della Flotta, e per ogni cosa chiedevo il permesso a May. Lei me lo dava invariabilmente. Dato che quell’attività mi gratificava avrei dovuto essere felice… o felice per quanto ci si potrebbe aspettare, sapendo che la mia May era sposata con un verme travestito da uomo. Alla mia infelicità contribuiva però la lettera che mi era arrivata più o meno quando mi aspettavo. Non c’era il nome del mittente né il suo indirizzo. Solo tre righe:

Gli ordini del commodoro sono ancora in corso. Non ero certo se fosse il caso di eseguirli o meno, così ho tirato la moneta. Stavolta hai vinto tu.

Quasi avrei desiderato che la moneta fosse caduta al contrario… o meglio, mi sarebbe piaciuto se il mio misterioso corrispondente fosse venuto a parlarmi della faccenda. E se poi avesse deciso di assassinarmi… be’, certo non gli avrei dato una mano, ma c’erano notti in cui anche andarmene a quel modo mi sembrava meglio che vivere lì da solo. E Dio sapeva se avevo bisogno di qualche buon consiglio… perfino dal mio potenziale assassino.

Infine May mi spedì una lettera in cui diceva: Ti prego, vieni a casa nostra per qualche giorno. E in fondo c’erano alcune righe scritte da Dougie d’Agasto:

Abbiamo qualche affare importante di cui parlare, Jason. Potresti venirne fuori molto ricco; inoltre, questo è ciò che May desidera.

Perfino quando quell’individuo cercava d’essere gentile riusciva a farmi rizzare il pelo. Non avevo dimenticato l’ultimo affare che mi aveva proposto. E conoscendolo pensai, per un attimo, che avrebbe potuto rifarmi la stessa offerta… ma era un’idea paranoica, ovviamente. Nessuno rapisce un bambino quando ha già catturato la madre.

Se c’era una cosa certa era che io non avevo intenzione di parlare di niente con Dougie d’Agasto, non importa quali panorami di ricchezza mi avesse steso dinanzi. Ma a chiedermi di far loro visita era May.

Non è un volo lungo quello da Papeete a Miami, ma sono pur sempre cinque fusi orari e mi portò via la nottata. Così arrivai alle dieci del mattino ora locale, con appena un’ora di sonno dietro le spalle e di umore poco felice. All’aeroporto presi un tassì e mi feci portare all’indirizzo che Dougie mi aveva dato. Il quartiere in cui mi trovai sembrava la zona dei magazzini e puzzava come se ci fosse un inceneritore di rifiuti. Un paio di vecchie auto a benzina, mezzo bruciate, arrugginivano lungo il marciapiede. Eravamo solo a due o tre isolati dalla Biscayne Bay… che aggiungeva il suo odore all’atmosfera. Uno degli edifici della zona era stato semidistrutto da un incendio, e un altro aveva porte e finestre sbarrate da assi. Di fronte a un negozio di alimentari una vecchia negra rovesciò un secchio d’acqua saponata sul marciapiede e cominciò a ramazzare con una scopa. Attraversai la strada verso di lei, con la valigetta in mano. — Mi scusi, può dirmi dove abita Douglas d’Agasto? — chiesi.

Si raddrizzò stancamente. — Dietro di lei — rispose. Ebbi l’impressione che ci fosse una luce ostile nel suo sguardo, comunque aggiunse: — Vuole che l’aiuti a portare la valigia?

— Grazie, no. Ma è un’offerta gentile da parte sua. — Sorrisi e accennai al marciapiede. — Non mi aspettavo che qualcuno sapesse ancora cos’è la pulizia da queste parti.

— Io non sono di queste parti — m’informò lei, e ci salutammo cortesemente. Se non altro, pensai, in quel quartiere sopravviveva una persona gentile per fare il paio con May… ma come poteva d’Agasto aver portato May a vivere in quel sobborgo? Be’, naturalmente poteva se la zona si adattava ai suoi scopi, anch’essi poco puliti.

E naturalmente ero partito da una premessa sbagliata. Nell’edificio che mi era stato indicato non abitava nessuno. Era adibito a uffici, e una volta che fui nel cortile interno vidi che era anche abbastanza lussuoso. Da dietro un’inferriata coperta d’edera sbucò un giovanotto smilzo, di colore, che aggirò una fontana di marmo e mi chiese cosa desiderassi. Dopo che gli ebbi dato il mio nome mi fece passare attraverso una porta — notai il montante spesso e largo, e compresi che conteneva un apparato rivelatore d’armi — quindi in una bella sala d’attesa. Qui una ragazza svelta e attraente dai capelli rosa mi prese in consegna, guidandomi nell’ufficio di Douglas d’Agasto.

Avevo già visto una foto di quel salone: era l’ufficio di Mussolini, al Quirinale. — Ehilà, zio Jason! — esclamò d’Agasto alzandosi per darmi il benvenuto con una stretta di mano, cosa che avvenne solo quand’ebbi superato i quindici metri che mi separavano dalla sua scrivania. — Lieto che tu sia potuto venire. Scusa se ti ho dato l’indirizzo dell’ufficio, ma ho pensato che avresti preferito prima parlare d’affari e poi andare a casa a rilassarti un po’.

Lasciai che agitasse la mia mano: — E quali sarebbero gli affari di cui dobbiamo parlare?

Lui annuì, approvando che venissi subito al punto. Non fu da meno: — May vuole la proprietà completa della Flotta. Niente più fiduciari, niente altri proprietari. Così vorremmo che tu rinunciassi al tuo incarico di amministratore e ci vendessi la tua parte di azioni. Siamo disposti a pagartele cinquanta milioni di dollari, zio Jason.

Non mi aveva invitato a sedere ma presi lo stesso una sedia. — Io non sono tuo zio — precisai, — e le mie azioni non valgono tanto. Quindici o venti milioni, al più. Ma poco importa perché non le vendo.

— May ci terrebbe molto che tu…

— Se May vuole che io faccia una cosa me lo dice lei stessa.

Nell’espressione che gli si congelò sul volto ci fu un attimo di rabbia omicida. Non me ne feci un baffo. Ma subito il suo volto abbronzato tornò a irradiare una presuntuosa sicurezza di sé. — In tal caso — disse, esibendo un gran sorriso, — non ci resta che andare a casa, e provvedere lei a chiederti questa cosuccia. Credo che il nostro posticino ti piacerà.

Se Dougie intendeva dire che l’avrei trovato lussuoso, sapevo che non esagerava. Avevo firmato io i trasferimenti di fondi, sul conto di May, che erano serviti per quella spesa. E il lusso cominciò a farsi vedere assai prima che arrivassimo là. Distavamo solo tre isolati dal molo privato di Dougie, sulla baia, ma uscendo in cortile trovammo una limousine con autista ad attenderci. Mentre giravamo fuori, sulla strada, vidi che la vecchia negra smetteva di lavare la vetrina del negozio e si voltava a gettarci un’occhiata. Apprezzai quello sguardo: ora sapevo a chi dedicava la sua ostilità. Ci trasferimmo in un motoscafo con tre uomini di equipaggio e rombammo via nel canale, passammo sotto alcuni ponti, aggirammo diverse piccole isole e facemmo rotta verso una abbastanza estesa. La costeggiammo per qualche minuto. Lungo la riva sorgevano ville eleganti, poi per un pezzo ci furono solo mangrovie e cipressi, finché raggiungemmo un molo a cui avrebbe potuto attraccare un transatlantico. Be’, non proprio, ora esagero. Ma anche quella banchina era un’esagerazione. Neppure Dougie poteva desiderare un vascello per cui occorresse tutto quello spazio.

La villa era delle dimensioni che mi aspettavo, ma la cosa più bella di quello spettacolo era May che correva giù per il vastissimo prato verde smeraldo per venirmi incontro. Mi baciò sulle guance, abbracciandomi più forte di quanto avesse mai fatto, poi fece un passo indietro per esaminarmi. Anch’io la esaminai, emozionato. Era la mia dolcissima e tenera May, bella come sempre, con i suoi grandi occhi luminosi, i capelli di seta, il volto… — Mi sembri stanca — dissi, senza stare a riflettere, ma era vero. Per farmi perdonare aggiunsi: — Troppo golf, suppongo.

Il suo sorriso vacillò, poi riprese a splendere. — Troppo tempo che non ti vedo, piuttosto, Jason. Su, lascia che ti prenda a braccetto. Oh, Jason… ho sentito tanto la tua mancanza!

Se sarò consultato dal tribunale celeste quando verrà il giorno di decidere per quanto tempo Dougie d’Agasto dovrà arrostire all’inferno, potrò dire a suo discarico che almeno ci lasciò soli a parlare. Si scusò con noi, andò nel suo studio per un’oretta, scese a pranzo e subito dopo andò via in motoscafo restando assente fino a sera. Disse che era per i suoi studi d’ingegneria idroelettrica: così ebbi May tutta per me. Mi fece vedere la villa e mi raccontò di quel che faceva Jimmy Rex. Poi mi parlò della plebaglia secessionista, che spesso impazzava per le strade, e disse che non poteva dar loro torto e che forse quella parte della Florida si sarebbe unita a Cuba. Volle sapere se avessi visto le nuove grandi isole galleggianti che la Cina stava varando, e se in mare ci fosse molto pesce morto. Ebbi anche il tempo di fare un pisolino prima di cena, ma né lei né io sfiorammo l’argomento principale.

La cena non fu sontuosa, però May aveva fatto cucinare diverse fra le mie pietanze preferite. Fin da bambina sapeva bene quali fossero. Quando il caffè fu in tavola, Dougie fece segno ai camerieri di uscire dalla sala e si appoggiò allo schienale dell’elegante sedia.

— Tesoro, è il momento di parlargliene — disse, con quel sorriso che sembrava sempre sul punto di trasformarsi in una smorfia acida.

May sembrò riluttante, ma non si oppose. Mise i gomiti sulla tavola, poggiò il mento sulle mani e mi guardò. — Tu sei stato come un secondo padre per me, Jason, e un buon amico.

Non erano proprio le parole che avevo sperato di udire da lei, ma date le circostanze erano le migliori che potessi aspettarmi. Mi sporsi ad accarezzarle una mano.

— Così non credere che io non ti sia grata, caro, perché lo sono. E lo sarò sempre. Ma non sono più una bambina: sono una donna adulta, sposata… — Sposata tre volte, pensai io, e lei dovette avere la stessa riflessione perché esitò. — Sposata, e con un figlio. E posso prendermi le mie responsabilità come ogni persona adulta. Così vorrei chiederti di rinunciare al tuo incarico di amministratore fiduciario. — Dougie annuì con serietà, quasi che ascoltasse quell’idea per la prima volta e si degnasse di riconoscerne la saggezza. Non disse nulla. E fece bene, perché avrei potuto rispondergli con un vocabolario assai poco elegante. — Non devi vendere le tue azioni se preferisci tenerle, Jay — continuò lei. — Dougie pensava che ti converrebbe, ma sta a te. Però ti prego di pensarci.

Non mi volsi a guardare Dougie. Non ne avevo bisogno perché avvertivo la temperatura del suo sorriso… e la sentii scendere sottozero quando dissi: — Se facessi quel che chiedi, May, sarei ucciso. E per ordine di tuo padre. — Tolsi di tasca le diciannove lettere che avevo ricevuto dal mio ignoto sicario e gliele porsi. Poi riferii loro parola per parola la promessa che il commodoro mi aveva fatto.

Dougie abbatté un pugno sul tavolo, e malgrado lo spessore il legno tremò. Non fece commenti, e io non lo guardai, ma con le lacrime nella voce May gemette: — Vuoi dire che mio padre ha pagato qualcuno per ucciderti? Ma questo è terribile!

Le sfiorai ancora la mano. — No, mia cara, non è così. Dal suo punto di vista aveva ragione a farmi sorvegliare; se ti avessi tradita, la punizione sarebbe stata giusta. — E desiderai essere più sicuro di non aver mai tradito i suoi interessi.

May stava piangendo, adesso. Sarebbe stato compito di suo marito confortarla, ma suo marito stava studiandosi le diciannove lettere, le buste e i francobolli. Io mi alzai, girai intorno al tavolo, poggiai un ginocchio al suolo e le cinsi la vita con un braccio. Per qualche minuto nessuno parlò, e a me non sarebbe importato nulla se quei momenti fossero durati per sempre, con May tenera e doice che si appoggiava a me. Ma alla fine Dougie smise di ruminare quel che stava ruminando, sbatté le lettere sul tavolo e mi fissò a occhi stretti. — Suppongo che tu non stia mentendo spudoratamente, è così? — disse.

May si raddrizzò, rigidamente. — Jason non mi ha mai mentito — affermò. — Mai!

— Non voglio credere che si sia cucinato da solo tutte queste lettere — concesse lui, — così diciamo pure che sia vero. Tu cos’hai da dire Jay? Hai un’idea di chi possa essere questo individuo?

Esitai, ma era ormai tardi per danneggiare in qualche modo quella persona. — Per un po’ ho creduto che fosse il comandante Havrila — dissi. — Tuttavia lui è morto sei mesi fa, e da allora ho ricevuto altre lettere.

— Non hai mai cercato di scoprirlo? Di indagare nei luoghi da cui sono state spedite? Di rintracciare chi le ha impostate?

— Come avrei potuto fare? — O forse avrei dovuto dire perché prendermi la briga di farlo? Da tempo avevo accettato la situazione che il commodoro mi aveva imposto.

Lui annuì. Non si stava mostrando d’accordo, stava sottolineando il fatto che io non avevo né il carattere né l’iniziativa per trarmi d’impaccio da solo. — Ciò che faremo noi — propose, — è di metterti attorno il più dannato apparato di sorveglianza che abbia mai visto in vita tua. Ventiquattr’ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno. E dimentica i cinquanta milioni: io posso arrivare fino a…

— Dougie, smettila! — gemette May. La guardai, sbattendo le palpebre ma lei aveva girato la testa. Poi si volse a me. — Quello che hai detto cambia tutto, naturalmente. Così la questione è chiusa. Andremo avanti come abbiamo sempre fatto finora.

Mi aspettavo un’esplosione da Dougie, invece non batté ciglio. Ancora non avevo capito che da Dougie d’Agasto c’era da aspettarsi una sola cosa: non faceva mai quello che uno si aspettava. Faceva sempre qualcosa di peggio. Annuì, riordinò le lettere, se le mise in tasca e ci elargì un luminoso sorriso.

— In questo caso — esclamò, — che ne dite di una partitina a biliardo?

Se quella sera Dougie d’Agasto non ottenne ciò che voleva dal nostro incontro, per altri versi riuscì ad avere molto. Ad esempio il diritto di darmi istruzioni sul da farsi. Ogni lettera in cui si parlava d’affari portava in calce la firma di May, ma non c’erano dubbi su chi l’avesse compilata.

Le sue istruzioni non erano sciocche o sbagliate, a dire il vero… anche se forse c’erano state lettere che May s’era rifiutata di firmare. Cancellare i piani per un’altra draga da alte profondità… be’, in quel periodo i noduli di manganese saturavano il mercato, con tante isole galleggianti che li raccoglievano. Rinunciare al progetto degli icebergs e vendere le relative attrezzature… certo, dopo i primi successi le nostre entrare s’erano ridotte quasi a zero in quel campo. Non cercò mai di tagliarmi i fondi che destinavo a rendere la Flotta sicura e confortevole per gli equipaggi, ma mise il veto a ogni programma di espansione. Stava ammassando fondi, all’apparenza. Senza dubbio aveva un suo progetto dunque, ed ero certo che presto o tardi l’avrei scoperto.

Nel frattempo eseguivo i suoi ordini, e la vita di bordo non era poi tanto malvagia. Agli ufficiali e all’equipaggio io piacevo, credo. Non solo a quelli dell’ammiraglia. Quando andai in volo a Dubai per firmare il contratto di vendita dei rimorchiatori degli icebergs, e pagai gli equipaggi, loro mi portarono in città e cenammo assieme. Mai mi sarei aspettato questo da quaranta fra uomoni e donne che avevo appena licenziato, e che non potevo far riassumere in altri reparti della Flotta… erano però tutti bravi marinai e il lavoro non mancava. Ciò che fecero fu dunque dire addio a un amico, e ne fui commosso. Ero ancora ubriaco quando risalii in aereo, e atterrando sull’ammiraglia avevo il cervello pieno di stoppa e la vista confusa… ma non abbastanza da non vedere che parcheggiato sulla pista c’era il jet privato di Betsy.

— Ho pensato — disse, venendomi incontro, — che fosse tempo di farti una visita, visto che tu non ti fai mai vedere.

Betsy era una persona che non avrei mai incluso fra i miei amici, ma non desideravo neppure offenderla. — Sei sempre la benvenuta sulla Flotta di May — dichiarai, con molta educazione e molta poca sincerità, e chiamai il maggiordomo e alcune cameriere per farle preparare un appartamento. Mi avevano già preceduto, naturalmente: c’erano fiori freschi nei vasi e bevande ghiacciate nell’ala della villa che sceicchi e ministri occupavano quand’erano nostri ospiti. Con mio sollievo Betsy non s’imbronciò quando dissi che avevo da sbrigare qualche lavoretto. — Sono stato assente un paio di giorni — borbottai, — e bisogna proprio che… — M’interruppe ponendomi un dito sulle labbra con un sorriso che in altre circostante avrei definito una seducente promessa.

— Ne approfitterò per usare la vostra piscina, Jay — disse, anche lei educatamente. E per un’oretta si trastullò nuotando in piscina e lasciandosi scivolare giù per la liscia cascata dal fondo di vetro, mentre io facevo quel che dovevo fare. Il che non era soltanto lavoro: presi alcune pasticche e respirai ossigeno puro da una bombola perché con Betsy come ospite volevo avere la mente sgombra e chiara.

Aveva chiesto che la cena fosse servita in giardino, e quando uscii a raggiungerla vidi che indossava un abito lungo e semitrasparente, bianco, e un fiore d’ibisco nella spilla di diamanti che le teneva sollevati i capelli da un lato. — Come sei elegante — dissi, inchinandomi al copione. Lei ebbe un sorriso sognante, mentre il sommelier serviva il vino.

— A noi due — disse, e quando avemmo bevuto un sorso i suoi occhi scintillarono. — Com’è fresca e profumata l’aria, qui, Jay.

— Speriamo che resti così — fu quel che dissi io, perché mi erano giunte voci sui progetti diversificanti a cui Betsy intendeva dare il via. Lei mi fissò pensosa, ma solo un attimo perché era troppo occupata a recitare la parte romantica che s’era imposta. Per tutta la cena esibì modi svenevoli e chiacchierò, spettegolando sui suoi amici altolocati. Il cuoco aveva avuto il tempo di fare del suo meglio, così la cena fu a base di sughi e salse elaborate, e prodotti freschissimi della piccola fattoria di bordo. Come dessert venne servita frutta affogata in un cocktail così alcolico che rinuciai al mio solito bicchierino di brandy come digestivo. Dopo quei due giorni a Dubai ne avevo abbastanza dell’alcol, inoltre. Betsy non aveva i miei problemi con la digestione: mangiò e bevve tutto quel che le venne servito, e quand’ebbe finito sospirò soddisfatta: — Vorrei avere il tuo cuoco, Jay! Suppongo di poterti dire che ho già cercato di portartelo via.

— Lo so — dissi. E sapevo anche per quale ragione lui si era rifiutato: fin da ragazzina Besty aveva la fama di saper far impazzire il personale di servizio.

— Tu sai molte cose sui miei affari, non è vero? — mormorò, insinuante. — Penso che volessi dire qualcosa, con quell’osservazione sull’inquinamento.

Scossi le spalle. — Ho sentito dire — ammisi cautamente, — che hai contrattato per avere grandi quantità di carbone australiano. La sola cosa che io possa ipotizzare sui tuoi progetti è che intendiate trasformarlo in benzina con la pirolisi. Così finiremo per avere attorno delle raffinerie galleggianti.

— Hai delle buone fonti d’informazione, Jay. E anch’io. Sei stato uno sciocco a metterti contro Dougie, lo sai.

Era seduta fra me e il disco rosso del sole sull’orizzonte. Mi spostai per togliermi la luce dagli occhi e vederla meglio in viso, e con una risatina lei trasse la sedia accanto alla mia. — Tu sei sempre una sorpresa per me, Jason — disse. — Quelle diciannove lettere… e in tanti anni non hai mai detto una parola a nessuno.

Finalmente capii perché sorrideva. — Hai una spia in casa di May — la accusai.

— Mio caro Jason! È naturale che io provi interesse per quel che succede intorno a mia sorella.

— Non è tua sorella.

— Penso sempre a lei come la mia sorellina maggiore. — Spostò un ginocchio contro il mio. — Ti piacerebbe sapere come penso a te?

Ora, il trascorrere degli anni non mi aveva certo reso più attraente: ero più vecchio del padre di Betsy. Non riuscivo a pensare ad alcuna ragione perché il mio corpo dovesse sedurla, ma aveva gli occhi socchiusi, un sorrisetto insinuante sulle labbra e la voce le s’era fatta rauca.

Mi alzai per riempirle il bicchiere, e quando sedetti di nuovo badai a ristabilire le distanze. — Perché sono stato uno sciocco, Betsy?

— Gli incidenti accadono — mormorò, da sopra l’orlo del bicchiere. — Potresti avere una vecchiaia tranquilla se fossi… prudente, Jay. — Io mi agitai a disagio, cercando d’ignorare le implicazioni. — E May ha davanti a sé la vita intera — continuò, — a meno che non le capiti un incidente. Perché, come sai, Jason, tu sei l’amministratore fiduciario del patrimonio di May grazie al testamento del commodoro… ma solo finché lei vive. Una volta morta, tu non avresti voce in capitolo sui proventi delle sue azioni.

— Le azioni passerebbero a Jimmy Rex.

— E se accadesse qualcosa a Jimmy Rex?

Mi stavo irritando… e non perché lei mi stesse mettendo pensieri nuovi nella testa: quelle erano preoccupazioni che mi ruminavano ormai da anni. Fortunatamente, per tranquillizzarmi l’animo, m’ero procurato una risposta a quelle domande. — Il denaro di May — dissi, — è molto, ma non è niente se paragonato a quello che Jimmy Rex erediterà da sua nonna. Gli Appermoy hanno i miliardi, e lui è l’unico erede.

Betsy rise divertita. — E pensare — si stupì, — che tu sei quello che ha svegliato il nostro interesse per il pesce morto!

Annuii, come se avessi capito. Dubito però d’averla ingannata perché la cosa sfuggiva del tutto alla mia comprensione, e per prendere tempo nel tentativo d’indovinare il significato mi versai un brandy. Camminai su e giù assaporando il Courvoisieur. O era lei a prendermi deliberatamente in giro, o ero più stanco e stordito, e sì, anche più ubriaco di quel che credevo. Forse non m’ero schiarito la mente abbastanza? La logica mi sembrava molto semplice: a Jimmy Rex non avrebbe potuto accadere niente — almeno, niente provocato da Dougie — finché sua nonna era viva, perché Dougie non avrebbe certo gettato via la possibilità di veder finire in famiglia la fortuna degli Appermoy. Non immaginavo però cosa potesse avere a che fare il pesce morto con tutto ciò, e Betsy non mi stava certo aiutando a riflettere. Si accostò a me facendo le fusa come una gatta, e d’un tratto mi leccò il lobo di un orecchio. — Sei un uomo eccitante, Jason — sussurrò.

— Per l’amor di Dio, Betsy! — protestai, senza capire se a confondermi le idee era quel che stavo dicendo o quella lingua umida e calda nel mio orecchio. Ero un uomo già oltre la mezz’età, ma non ero ancora morto. Betsy non mi attraeva per niente: non era mai stata graziosa. Però era giovane, abbastanza bene in carne, e doveva essersi versata almeno cento dollari di profumo francese su quell’abito vaporoso e semitrasparente. Cercai di tornare sui binari della conversazione: — Vuoi spiegarmi, per favore, quello che stai cercando di dire?

Lei ebbe un sorriso vago e indietreggiò un tantino… non era per rimettere un po’ di spazio fra noi: voleva solo aspirare l’aria nei polmoni. Per gonfiare il petto. Io finsi di non farci caso. — Jason — ronfò lei, — riesco a pensare meglio quando sono distesa. A letto, con un uomo caldo e simpatico accanto a me.

Non potevo più avere il minimo dubbio che Betsy intendeva aggiungere il mio nome alla lista di quelli dei suoi amanti. E m’imbarazza ammettere che in quel momento m’illusi che fosse davvero per una certa mia avvenenza fisica… o quasi m’illusi. Gracchiai: — Perché stai facendo questo, Betsy?

— Uffa! — s’imbronciò lei. Poi scrollò le spalle. — Perché voglio tutto quello che appartiene a May; ma ti prometto che ne varrà la pena. A letto io sono speciale, Jason. E ti prometto anche — aggiunse, passandomi le braccia intorno al collo, — che in quel grande letto dove dormi, e che era di May, dopo che l’avremo usato come va usato ti dirò tutto ciò che vorrai sapere… e ne resterai davvero affascinato.

Su quella promessa m’ingannò, anche se fu la sola che non mantenne. E quella notte non dormii molto. Quando mi svegliai, il mattino dopo, e ripensai a chi avevo avuto come compagna diletto, lei se n’era andata. Misi i piedi fuori dalle lenzuola, allungai una mano a recuperare il pigiama e mentre ancora mi stupivo su quel che era accaduto sentii l’ululato di un jet. Andai sulla terrazza e lassù, argenteo e veloce nel cielo limpido, c’era l’aereo di Betsy. Aveva avuto quel che era venuta a cercare e se n’era andata.

Ma quella notte non fu la sola in cui mi tolse il sonno. Non potevo togliermi dalla testa le cose che aveva detto o sottinteso, e la peggiore era l’allusione al fatto che la morte di Jeff non era stata accidentale. Dougie era un corrotto, naturalmente. Non avevo mai pensato che fosse anche un assassino, salvo che forse nel mio subconscio; ma ora che Betsy mi aveva messo quella pulce nell’orecchio la cosa mi parve probabile.

Chiamai ancora il capo del servizio di sicurezza, e da quel giorno in poi non restai mai senza un paio di guardiani a portata di voce.

Ma questo proteggeva soltanto me; cosa poteva proteggere la mia May? La logica mi diceva che sarebbe stato insensato per Dougie far del male a May o a Jimmy Rex prima che il bambino ereditasse il patrimonio degli Appermoy. Anzi avrebbe avuto tutto l’interesse a coccolarseli tutti e due, almeno fino alla morte della vecchia.

Tuttavia il puzzo del pesce morto mi sussurrava che c’era qualcosa di sbagliato in questo mio ragionamento. Besty sapeva cosa, ma come c’era da aspettarsi non aveva voluto dirmelo. Così feci eseguire alcune discrete investigazioni.

Non fu necessario attenderne l’esito. Prima che i miei agenti facessero rapporto, una mattina fui svegliato dal tesoriere della Flotta che venne a bussare alla porta per comunicarmi una notizia.

Il pesce morto aveva causato la fine degli Appermoy.

A quanto risultava, il vecchio Appermoy ne aveva fatta una un po’ troppo sporca prima di morire. Il sistema di vetrificare gli scarti radioattivi era sicuro e poco costoso, e per lui non sarebbe valsa la pena di rischiare la galera cercando di risparmiare in quel settore. Ma gli impianti che usava per la vetrificazione avevano avuto un guasto proprio in un periodo critico, e si era visto costretto a liberarsi in fretta del carico di una delle sue navi: ottocento tonnellate di rifiuti altamente radioattivi, senza nessun luogo legittimo in cui sistemarli. Di conseguenza s’era limitato a scaricarli sulla sommità del suo pianoro sommerso, e naturalmente essi avevano cominciato subito a disperdersi in mare.

Appermoy non aveva assassinato l’Oceano Pacifico, troppo vasto anche per la sua criminale efferatezza, ma ne aveva inquinato tre milioni di chilometri quadrati al punto da causare immense morie di pesce. La famiglia della vedova era riuscita a tenere il coperchio sulla pentola — corrompere era un’arte, per la Mafia — finché la meteorologia non li aveva traditi: per un mese intero i venti delle Hawaii avevano soffiato al contrario. Le correnti di superficie ne erano state alterate, ed acque molto radioattive avevano cominciato a lambire le spiagge di Oahu, Maui, e la costa di Kona.

La faccenda era diventata troppo grossa per chi teneva giù il coperchio di quella pentola bollente, e le attività degli Appermoy erano saltate allo scoperto alla prima indagine. La legge li aveva raggiunti, costringendoli a pagare una multa di venti miliardi di dollari, dopo di che varie agenzie governative s’erano lanciate sulle loro altre imprese come segugi affamati. — Io scommetterei — commentò il tesoriere, — che la vecchia Appermoy è riuscita a salvare qualche milione di dollari, qua e là. Ma la bancarotta è stata completa.

E così Jimmy Rex aveva perduto buona parte della sua eredità… e May la sua assicurazione sulla vita.

Dal momento che non credevo più che l’incidente di Jeff fosse stato un incidente, cominciai a temere che qualcosa sarebbe presto accaduto a May e a suo figlio. Cosa potevo fare per impedirlo? Scartai l’uno dopo l’altro molti piani. Avrei potuto mettere Dougie di fronte ai miei sospetti e avvertirlo che sarebbe stato sorvegliato… idea assurda! Non sarebbe stata la paura a tener lontano dai soldi le grinfie di d’Agasto. Avrei potuto avvertire May, spiegarle le mie conclusioni e supplicarla di divorziare. Ma questa era un’altra idea irrealizzabile: se teneva davvero in conto la mia opinione su quell’uomo, in primo luogo non l’avrebbe mai sposato. Il piano migliore era proprio quello che scartai subito dopo averci pensato. Perché sarei stato capace, nella mia rabbia e disperazione, di fare a Dougie quel che temevo volesse fare a May.

Ma non volli cadere così in basso, anche se una premonizione mi diceva che me ne sarei pentito amaramente. E mentre mi rodevo con la tentazione di mettermi in contatto con May, senza saper bene cos’avrei potuto dirle, fu lei a chiamare me. Il suo volto era stanco e la vidi molto tesa, ma tentò di apparire spensierata. — Buone notizie, Jason! — esclamò, benché i suoi stessi occhi la smentissero. — Dougie dice che non dobbiamo più preoccuparci di quelle lettere. Ne è sicuro. È riuscito ad avere delle prove inconfutabili, e te le porterà. — Poi aggiunse, con sforzo evidente: — Ma solo tu devi decidere se la prova è sufficiente, Jay. Io appoggerò la tua decisione, qualunque sia.

E due giorni più tardi, prima dell’alba, il sibilo dell’aereo di Dougie mi strappò dal sonno. Quando fui vestito e scesi non lo trovai però sulla pista d’atterraggio. C’era solo il pilota, con un messaggio per me: Mr. d’Agasto aveva incaricato alcuni inservienti di portare il suo materiale giù al reparto eliminazione-rifiuti. Mr. d’Agasto mi avrebbe atteso là. Mr. d’Agasto mi pregava di raggiungerlo subito.

Mr. d’Agasto era speciale nel darmi sui nervi. Perché il reparto eliminazione-rifiuti? Non era molto più che l’apertura di una fogna… intorno al perimetro dell’isola galleggiante c’era un complesso di attrezzature e non potevamo sbattere i rifiuti nell’acqua che assorbivamo, cosicché c’era un pozzo che usciva dal centro dello scafo. Si trattava di un locale più basso e sudicio della sentina, e nessuno ci andava se poteva farne a meno. Non mi piaceva il fatto che Dougie avesse scelto quel posto, non mi piaceva ricevere ordini da lui… e soprattutto, naturalmente, non mi piaceva Dougie. Ma andai. E per tutto il percorso sul montacarichi, e poi lungo le rumorose sale delle turbine a bassa pressione, non feci che chiedermi se Dougie meditasse di uccidermi e scaraventare il mio cadavere in quel pozzo: ormai lo credevo capace di tutto.

E non avevo dimenticato certe cose che Betsy mi aveva detto quella notte. Niente di utile, sia chiaro; erano soltanto cose che lei credeva sessualmente stimolanti. E le aveva tutte imparate da Dougie. Per metà della nottata non aveva fatto altro che dirmi quanto questa o quest’altra cosa piacevano a Dougie, invitandomi a provarle, insistendo perché facessi come Dougie… ma alcune m’ero rifiutato di farle, e mi sentivo rivoltare al solo pensiero di quello che doveva accadere fra Dougie e May nella loro camera da letto. Così l’idea di vederlo m’era quasi insopportabile. E se aveva progettato di uccidermi… be’, almeno non sarei più stato tormentato da quei pensieri velenosi.

Venne però fuori che non aveva nessun progetto del genere.

Nella stanzetta dell’eliminatore c’era lui solo. L’aria era piena di vapori, perché aveva aperto il portellone del pozzo e pochi metri più in basso ondeggiava l’acqua fetida e calda in cui sboccava la nostra fogna. Dougie aveva un piede poggiato su una lunga cassa da imballaggio, e per combattere il puzzo dello scarico s’era acceso un sigaro. — Chiudi la porta — ordinò.

Feci quello che chiedeva. Dougie dovette accorgersi che ero teso e preoccupato, ed ebbe un sorrisetto. — Non ci vorrà molto — mi rassicurò. — Aiutami ad aprire l’imballaggio.

Mi diedi da fare ubbidendo alle sue istruzioni. Era materiale piuttosto pesante, con due strati di plastica sigillata che ricoprivano quello che risultò essere un cassone metallico lungo un paio di metri. Le cerniere erano chiuse con un lucchetto. — Devo dire che ti prendi cura dei tuoi documenti — ansimai, mentre terminavo di strappare via la plastica.

Lui rise, per un motivo che non potei capire. Gli occorse qualche minuto per tirare via il lucchetto dalle flange e quando aprì il coperchio…

Era il coperchio di una bara.

Dall’interno si sollevò un disgustoso miasma di decomposizione. Il corpo steso nella cassa doveva esser morto da parecchi giorni, ma il vecchio volto rugoso era ancora ben riconoscibile. In vita era appartenuto a Elsie Van Dorn. — Non avrei mai pensato a lei! — ansimai.

— E non dovrai pensarci più — ridacchiò Dougie. — Sei davvero un povero ingenuo, vecchio. Il commodoro non se l’era trovato gratis il suo cane da guardia. Non ho dovuto far altro che spulciare la lista dei suoi lasciti testamentari minori, anche se non è stato facile metterci le mani sopra. — Io chinai il capo, evitando di guardarlo negli occhi. — Una volta risalito a lei è stato facile. Aveva perfino copie delle lettere in una cassetta di sicurezza.

Non fui capace d’aprir bocca. Avevo a mala pena la forza di fissare la povera Elsie, che aveva amato molto la bambina di cui era stata la nutrice e che, alla fine, aveva pagato un prezzo per quell’amore.

— Hai visto abbastanza? Sei convinto? — chiese Dougie, e spinse la cassa nel pozzo. Due metri più in basso l’acqua fetita si aprì con uno spruzzo e la bara scomparve con il suo segreto verso il fondo dell’oceano. — Adesso non hai più nessuna scusa, vecchio — disse Dougie. — E ti ho portato dei documenti che aspettano solo la tua penna. Eccoli qui: firma.

E come già prevedevo, non appena tornò a Miami con le carte firmate, May trasferì a nome di lui tutte le sue azioni. L’avevo supplicata di non farlo, per visifono. E lei, evitando il mio sguardo, aveva risposto: — Sento che… o almeno lo spero, che quando avrà ciò che desidera non vorrà… — E s’era azzittita, scuotendo il capo, rifiutando di dire quel che lui avrebbe fatto in caso contrario. Fu così che Dougie d’Agasto s’incoronò Re delle isole galleggianti.

Quel ch’era letizia divenne dolore

quand’ella sposò dell’inferno il signore.

Da schiava la vita ora aveva venduto

a un traditore sanguinario, a un bruto,

e il suo bacio insozzava le labbra innocenti

dell’afflitta regina dell’isole vaganti.

Le isole artificiali continuavano a incassare denaro, ma all’orizzonte si prospettavano nuvole scure. Sulla terraferma c’erano nuove fonti di energia: metano di profondità da sotto la crosta terrestre. E c’era un grosso satellite in orbita geostazionaria, con generatori solari MHD che spedivano giù energia in forma di microonde. E ogni mese venivano varate nuove grandi isole, nostre, o di Betsy, o di altri. Tutti quanti usavamo tubature lunghe cinque chilometri, sfruttavamo le stesse zone d’oceano e risucchiavamo dagli stessi delta-Ts. Ma a darmi fastidio non era più il relativo affollamento del mare: c’era di peggio. Il grande Oceano Pacifico era pieno di grumi catramosi e di idrocarburi. Non avevo sbagliato sui programmi industriali di Betsy, solo che non mirava alla produzione di benzina. Acquistava carbone scadente dall’Australia, lo pirolizzava per estrarne idrocarburi liquidi, quindi con l’elettrolisi ne ricavava alcol combustibile e gas diversi. Erano prodotti costosi da immagazzinare poiché non richiedevano d’essere trasformati in liquidi, e lei li rivendeva in Australia, in Giappone, in America e in Europa. E lasciava che gli scarti della lavorazione galleggiassero via impestando il mare fino all’orizzonte.

Metà delle altre flotte stavano cominciando a fare la stessa cosa, e Dougie mi convocò per sapere perché non avessi proposto che anche noi ci mettessimo in quel ramo. Erano da poco venuti ad abitare a bordo: lui, May e il ragazzo; questo perché Dougie riteneva sciocco che a May non piacesse stare dov’era morto Jeff. Mi costrinse a stare dieci minuti di fila in piedi davanti alla sua scrivania di tek mentre batteva sulla tastiera di un computer e si studiava i dati, con faccia impassibile e un sigaro che gli si consumava lentamente fra le labbra. Poi si volse a fissarmi. — Ebbene? Puoi spiegarmi perché non esistono neppure i progetti per convertire qualcuna delle nostre isole a questa lavorazione?

L’opinione che Dougie d’Agasto aveva su di me non m’importava un fico secco, ma non volevo che convincesse May che ero un vecchio rimbecillito. — Il mercato è già saturo. Ci sono fin troppe isole galleggianti che vendono questi prodotti — dissi.

— Solo perché noi ci abbiamo pensato troppo tardi!

Scossi il capo. — No. Perché l’idrogeno è un carburante più pulito — osservai, conscio che questo non gli faceva il minimo effetto, — e consente un guadagno alquanto maggiore. — Questo gli fece effetto. — Inoltre questo piccolo boom non durerà neppure abbastanza da ammortizzare il costo degli impianti di pirolisi. Tutto ciò che fa è di trasformare il Pacifico in un altro Lago Michigan. — E infatti c’erano giorni in cui il puzzo portato dal vento mi faceva lacrimare gli occhi.

— Be’ — disse, come se per pura elemosina mi concedesse un’altra possibilità, — lasciamo perdere questa faccenda. Del resto ho altri progetti.

Ma non mi disse quali fossero. Non glielo chiesi. Tuttavia confesso che ero curioso, perché, dando al rettile i meriti del rettile, Dougie non aveva del tutto gettato via il suo tempo studiando l’industria termica e idroelettrica marina alla scuola di Miami. In realtà io sapevo che non studiava proprio niente, salvo un’ora alla settimana dedicata a farsi un’idea della cosa, e dove trascorresse il resto del suo tempo era soltanto una supposizione per me… e anche per May, giacché le piccole rughe comparse attorno agli occhi di lei non era dovute al sole e al golf.

Risultò infine che Dougie aveva scoperto la via più semplice: aveva comprato in blocco la scuola. S’era poi assicurato i servizi dei venti insegnanti più esperti e li aveva mandati in volo alla Flotta. Ne sapeva abbastanza per fare una buona scelta, comunque. Era gente in gamba, e ne conoscevo personalmente un paio. Desmond MacLean aveva lavorato come ingegnere sulla vecchia O.T. del commodoro prima di tornare alla scuola per specializzarsi. Ma anche Desmond non si sarebbe offerto volontariamente al servizio di Dougie senza quell’espediente.

Sempre per dare al rettile quel che è del rettile, devo dire che era un lavoratore. Ci dava dentro non meno di quel che aveva fatto Jefferson Ormondo, anche se non capivo dove trovava il tempo per tutto. Quando la famiglia abitava a bordo lui era dappertutto, controllava gli impianti, parlava con gli uomini, studiava i sistemi automatici. Ma lui e May facevano anche parte del jet-set, e andavano a ricevimenti dovunque sia in mare sia in terra. Teneva May lontana da me tre settimane su quattro. E May non era la sua unica donna. Dougie non aveva perso la sua passione per le avventurette: era di gusti facili e si dava da fare… dopo un po’ anche piuttosto apertamente. E io non potevo perdonargli neppure le sue infedeltà: quale altro uomo al mondo avrebbe voluto di più, se aveva già una donna come May?

Riuscivo a capire ciò che Dougie desiderava. Ogni cosa possibile: voleva tutto. Era cresciuto in una famiglia povera, invidioso dei parenti facoltosi e influenti. Adesso era quasi più ricco di loro… ma quel quasi era la spina nella sua carne. E fin dall’inizio aveva voluto la metà della Flotta appartenente a Betsy per aggiungerla a quella di May. Se sul suo ruolino paga c’erano ora ingegneri di grosso calibro, gli avvocati che aveva messo al lavoro erano dieci volte più numerosi… ma erano numerosi anche quelli di Betsy. Quando s’incontravano, all’uno o all’altro dei vari avvenimenti mondani, scherzavano sui loro tentativi legali di sopraffarsi a vicenda, ma nulla avrebbe dato loro maggiore soddisfazione che prendersi a pugnalate ferocemente.

Una mattina Desmond MacLean venne da me. — Mr. d’Agasto — disse, — mi ha autorizzato a parlartene. Andiamo su in coffa, vuoi? — E si limitò a sogghignare senza dir nulla mentre salivamo con un montacarichi nel piccolo locale per le osservazioni meteorologiche. Dalla balaustra m’indicò con un largo gesto del braccio il panorama sottostante. — Cos’è che vedi qui, Jason? — domandò.

Quel che vedevo era ciò che avevo visto ogni giorno. La grande massa dell’isola galleggiante, estesa per centinaia di metri in ogni direzione, e al di là di essa il mare con una dozzina di navi ormeggiate o in movimento nella foschia.

— Vedo un sacco di sporcizia — dissi.

— Allora sarai contento quando ci vedrai produrre più idrogeno e a buon mercato, no? — disse, allegramente.

Scossi le spalle. — E dove pensi di trovare il delta-Ts?

— Questo è il problema, infatti. — Tornò in cabina, inserì il suo codice nella consolle e fece apparire sullo schermo una mappa dell’Oceano Pacifico. — Qui è dove siamo noi — disse, puntandovi un dito; — al centro di questa zona ovale verde scuro, stesa fra la Nuova Guinea e le Hawaii. In questo momento ci sono quattrocento isole galleggianti che la sfruttano, e ciascuna tira su una media di cento tonnellate d’acqua al secondo. Ciò significa… — Batté i tasti di una calcolatrice, — ottanta miliardi di litri al giorno; trentamila miliardi all’anno. Dunque ogni anno noi muoviamo trenta chilometri cubi d’acqua dal fondo della superficie!

— Ci sono molti più chilometri cubi nel Pacifico — dissi, incapace di credere che le nostre misere pompe cambiassero qualcosa nell’immensa massa di quii’oceano.

— Ma non sono molte le zone di cui possiamo servirci se vogliamo assorbire dalla profondità di cinque chilometri.

— Be’, naturalmente. È per questo che cerchiamo di non stare troppo vicini fra noi… o almeno ci proviamo.

— Ci proviamo — annuì lui — finché possiamo. Ma sia che ci accordiamo per lavorare vicini, sia restando a distanza, non è molta l’acqua a bassa temperatura che possiamo sfruttare. È una questione di semplice aritmetica: quando usiamo acqua di profondità a sei gradi e acqua di superficie a trentadue, abbiamo un delta-Ts di ventisei, ovvero l’optimum per cui sono strutturate le nostre turbine. L’efficienza delle caldaie sale in rapporto al cubo della differenza di temperatura. E in temperature come queste il quoziente termico è di ventisei al cubo… 17.576.

— È un po’ di tempo che non troviamo un delta-Ts di ventisei gradi — ammisi.

— E sarà sempre più difficile trovarne uno finché continuiamo a competere con una fiotta d’isole galleggianti. Stiamo risucchiando su i migliori strati d’acqua fredda, e raffreddiamo quella di superficie. Così per la maggior parte del tempo lavoriamo con un’acqua superficiale di tre gradi inferiore a quel che dovrebbe essere, e con un’acqua di fondo tre gradi più calda. Un delta-Ts di venti, dunque. Quoziente termico: ottomila. E questo significa circa la metà dell’energia che dovremmo avere.

— Significa produrre poco, va bene!

— E andrà ancora peggio — disse lui, ma in tono così spensierato che sbottai, irritato:

— E va bene, sentiamo! Dimmi come pensi di fare a tirare l’asso fuori dalla manica.

— Andremo a maggiore profondità! — dichiarò lui, trionfante. Feci per obiettare ma mi zittì con un gesto e indicò la carta geografica sullo schermo. — Qui ci sono zone inesplorate con una temperatura superficiale di trenta gradi o più. — Con una matita laser tracciò linee rosse attorno ad alcuni tratti di mare. Mi chinai a osservarli e scossi il capo, lui però m’interruppe: — Aspetta un minuto, Jason. Qui ci sono spessi strati d’acqua di profondità a tre gradi. Tre gradi, mi capisci? E guarda… sono sotto una zona larga cinquecento chilometri che noi già conosciamo. Trentatré gradi alla superficie, tre gradi in profondità: un delta-Ts di trenta, che al cubo… immagina il quoziente termico, Jason!

Non avevo bisogno d’immaginare quello che era il sogno di ogni isola galleggiante. — Maledizione, Des — brontolai. — Tu stai parlando di acqua di fondale!

— L’hai detto. A dieci chilometri di profondità, per la più parte.

— Conosco già questa zona — battei un dito sullo schermo. — Quello che non hai fatto apparire nel quadro sono le forti correnti calde a mezza profondità. Tu prova a mandare giù un tubo per l’aspirazione qui dentro e le correnti te lo torceranno come uno spaghetto bagnato!

Lui ghignò soddisfatto. — Giusto — disse, — e sbagliato. Io non sto parlando di tubature flessibili. Sto parlando di tubi d’acciaio, ormeggiati per tutta la lunghezza ad apparati automatici forniti di motori indipendenti che ne mantengano la posizione dinamica. Naturalmente l’alto quoziente termico non si traduce tutto in profitto. Una dannata quantità di energia servirebbe a questo apparato per impedire che le correnti annodino le tubature. E costruirlo costerebbe un bel po’ di quattrini. Ma ho fatto io stesso i progetti e i preventivi: con un quoziente termico di ventisettemila è possibile affrontare l’impresa.

M’era rimasta solo un’altra domanda: — Quando?

— Abbiamo già cominciato, Jason! Sono già partiti i contratti d’acquisto per il materiale e gli equipaggiamenti, e fra due mesi avremo le prime consegne. Mr. d’Agasto ha assunto una quantità di manodopera specializzata, e cominceremo a prenderli a bordo il mese prossimo…

— A bordo? Qui?

Il sorriso di Desmond fu attraversato da un’ombra quando rispose: — Be’, sì. La conversione degli impianti sarà fatta in mare: questo è il progetto di Mr. d’Agasto. A dire il vero penso — aggiuse, con una smorfia, — che avremmo fatto meglio a portare in cantiere le isole una alla volta, magari a Osaka, e fare i lavori nella baia. Gli ho mostrato anche dei preventivi. Sarebbe facile e non troppo costoso… ma il boss è lui, Jason.

Annuii. Era il boss e lo stava dimostrando. Non mi aveva detto una parola… aveva perfino proibito a Desmond di parlarmene finché la cosa non avesse preso inizio. Lui era il capo. E io… io ero una persona ormai superflua.

Vi sono profezie che si avverano da sole; un uomo che pensa d’essere superfluo comincia a diventarlo davvero. La cosa migliore che riuscivo a pensare di me stesso era che stavo procedendo proprio su quella strada, dal vecchio sciocco che ero.

Così sgombrai il campo; me ne andai in Nuova Zelanda.

Avrei potuto altrettanto facilmente scegliere Okinawa o l’Islanda. Sulla Terra non c’era un posto dove qualcuno avesse bisogno di me, o dove io avessi un particolare motivo per andare. Ma pensavo che mi sarebbe piaciuto vedere i geyser prima di morire, cosicché decisi per la Nuova Zelanda. Conoscevo là un paio di persone con cui avevo avuto relazioni abbastanza amichevoli: agenti di navigazione, spedizionieri, e anche un banchiere di nome Sam Abramowitz con cui avevo trattato affari per quarant’anni. Avevo sempre un certo disagio a incontrare Sam perché lo conoscevo già quand’ero un giovanottello nel reparto-dati di una banca, e lui era uno dei pochi a sapere che avevo alterato dei documenti per aiutare il commodoro ai suoi inizi. Allorché sfiorai quell’argomento s’affrettò però a mettermi a mio agio: — Ah, Jason! — borbottò. — Roba di cent’anni fa e di un altro mondo. Là eravamo in America, poi, e tutti e due abbiamo parecchi ricordi che sarà meglio lasciarci alle spalle. — Infatti era stato il banchiere personale di alcuni riciclatori di denaro sporco, finché s’era sentito rivoltare lo stomaco e aveva preferito emigrare. — Dimentichiamo il passato e beviamoci un drink. E domattina ti porterò io a vedere tutti i dannati geyser che vuoi.

Così bighellonai per un mesetto, e poi per altri quindici o venti giorni. I geyser non riuscirono a trattenere il mio interesse tanto a lungo e neppure la Nuova Zelanda, perché una volta visto quel che c’era da vedere era sempre terraferma, per quanto piccola e lontana dalla civiltà. Avevo nostalgia del mare, ma più ancora desideravo che qualcuno mi volesse là sul mare. Così, quando un giorno May mi chiamò per visifono, tenere un tono calmo e casuale mi costò uno sforzo. — Un party? — dissi. — Be’, io non sono un tipo da ricevimenti eleganti, mia cara, lo sai.

— Oh, ti prego, Jason! Verranno anche ie altre May, e con un sacco di loro amici… sarà il più grande party che abbia mai dato.

— Mi piacerebbe vedere le quattro May — ammisi.

— Non tanto quanto a loro piacerebbe rivedere te! Non so neppure se verrebbero, se dicessi loro che tu non ci sarai. E poi, Jason… — c’era una grande dolcezza nella sua voce e nel timido sorriso che mi rivolse. — Io ho tanto sentito la tua mancanza.

Be’, è naturale che andai! Comunque, non ne potevo più delle pecore e dei geyser, e di sentirmi sotto i piedi la terraferma.

May aveva tenuto libere le mie solite stanze, però stavano arrivando moltissimi ospiti, così fui lieto di lasciarle a May Sue Bancroft ed a Tse-Ling Mei, e scesi negli alloggi dell’equipaggio. Neppure lì c’era molto posto. La nuova manodopera era già a bordo per i lavori. Quando vidi le loro facce mi parvero la più triste banda di tipi duri che si potessero prelevare da un penitenziario. Se non avessi saputo che erano specialisti in costruzioni subacquee li avrei presi per picchiatori assoldati dalla Mafia per sedare uno sciopero. Ognuno s’era portato dietro centocinquanta chili di bagaglio personale, ma non credetti neppure un istante che fossero strumenti musicali o libri.

La loro presenza non migliorava ceno il morale sull’isola galleggiante. Dougie aveva tolto seicento persone dai loro appartamenti abituali in modo che i nuovi venuti occupassero una sezione intera da soli. E costoro mangiavano insieme, parlavano insieme e stavano insieme. Il resto della nostra gente era felice di evitarli. Il primo giorno gii agenti della sicurezza ne avevano arrestati due per possesso di droghe pesanti, ma a Dougie questo non importò. Ordinò che le accuse fossero lasciate cadere, e che la sicurezza non mettesse più piede nella sezione occupata dalla nuova manodopera. Non soltanto gli agenti della sicurezza: a tutto l’equipaggio venne detto di tenersi alla larga. E tipi dall’aria minacciosa venuti a bordo con quei lavoratori piantonarono i corridoi per non far passare nessun altro. Tutti i nuovi indossavano uniformi diverse da quelle della nostra gente — rosso scarlatto, con elemetti antiurto — e sembravano più un esercito invasore che qualsiasi altra cosa.

E si comportavano come se lo fossero, anche. Sull’isola galleggiante c’era un’atmosfera pesante che non avevo mai sentito, neppure quando Ben il Bastardo era il nostro padrone: cercai di non farmene influenzare. Vecchio Jason, mi dissi, anche se non avevo superato i sessanta e non ero vecchio per niente. Vecchio mio, tu vedi fantasmi dappertutto e ti preoccupi per niente. Come potrebbero le cose andar peggio di come vanno già? Non potrebbero, mi dissi, per rassicurarmi. Ma a sessant’anni avevo ancora molte cose da imparare.

Andai da May e le dissi che quella gente nuova non mi piaceva. Stava provando alcuni vestiti per il party, con un paio di cameriere che le svolazzavano attorno ammirando sia lei sia gli abiti, e non c’era dubbio che fosse bella come sempre — un po’ più snella, un po’ meno gaia, ma sempre la più bella ragazza del mondo — perciò l’eleganza di quelle vesti le rendeva appena giustizia.

— Non resteranno qui molto, Jason caro — rispose. — Appena avranno istallato le nuove tubature se ne andranno.

— Non vorrei essere quello che li dovrà mandar via dall’isola — borbottai. Per qualche momento lei non mi guardò. Era in piedi davanti alla grande finestra e fissava il mare al di là del giardino, con la stessa espressione malinconica e incantata di quando aveva due anni. Poi disse: — Forse dovresti parlarne a Dougie, non a me. — Aveva ormai piegato se stessa alla decisione di non interferire nel modo in cui l’uomo da lei scelto governava l’impero che lei gli aveva dato. E io dovevo rispettare i suoi desideri.

Così andai a parlare con Dougie. Lui rise e m’invitò ad andare a bermi un drink. Disse che aveva troppo da fare per ascoltare le mie stupidaggini.

Questo fu ciò che disse, e senza dubbio era vero perché ristrutturare gli impianti era un lavoro duro e bisognava organizzare bene il party. Il ricevimento sarebbe servito a dare il pubblico annuncio della cosa che tutti quelli dell’ambiente conoscevano ormai da settimane, ovvero che noi saremmo andati a cercare il freddo alle grandi profondità. Dougie aveva invitato gente della flotta russa e di quella giapponese, un certo numero di nostri più assidui clienti della terraferma, e naturalmente aveva invitato Betsy. Poiché May me lo chiese, fui molto gentile con lei… esattamente come lo fui con il comdandante Tsusnehshow e il vecchio Barone Akagana quando vennero a bordo. La salutai con modi urbani, le offrii un drink, la aiutai a sistemarsi nell’appartamento messo a sua disposizione; poi me ne andai per ricevere le quattro May. Se anche erano un tantino meno giovani dell’ultima volta che le avevo viste, in compenso erano assai più belle e affascinanti. Tse-Ling Mei era una delle stelle del cinema più amate. Maisie Gerstyn, che una volta era Maisie Richardson, aveva portato con sé il suo simpatico marito e i loro due graziosi gemelli. Ci sedemmo tutti sulla veranda del mio vecchio appartamento — dove li avevamo fatti sistemare — e spettegolammo godendo della reciproca compagnia finché il sole fu basso e per loro venne il momento di cambiarsi per il party.

Io non avevo fretta di cambiarmi, né a dire il vero di partecipare al ricevimento. Stavo camminando lentamente verso la stanza in cui avevo lasciato la valigia quando l’interfono chiamò il mio nome. Desmond MacLean desiderava vedermi sul ponte di coperta, e la sua voce suonava strana.

La principale ragione per cui il suo tono m’era sembrato strano era che aveva già bevuto qualche bicchierino di troppo. Non era solo, inoltre. Sedeva a un tavolino, rosso in faccia e con la lingua che gli s’inceppava sulle parole più lunghe, e accanto a lui, che gli teneva testa un drink dopo l’altro, c’era Betsy Zoll. — Tu, grosso idiota! — lo rimproverai. — Non devi venire a giocare in serie A. Non capisci che questa signora ti sta spremendo informazioni riservate?

Lui scosse il capo, ottusamente: — Non è così — borbottò. — Non, umpf, mi capisci? Non è affatto così: è lei che parla.

Non volevo essere paziente con lui… né con Betsy, del resto, che sedeva lì serena e sorridente. Chiamai un medico, gli feci somministrare dell’ossigeno e un paio di caffè forti. — Meglio che tu non partecipi al party — gli dissi, secco, — o farai la disgrazia di questa Flotta. — Lui si strinse nelle spalle, sconsolato. — Maledizione! — esclamai. — Si può sapere che ti prende? Non vedi che stai facendo la parte dello sciocco? E fra l’altro, perché mi hai chiamato?

Si volse a Betsy. — Diglielo tu — mugolò, e si sottomise alle attenzioni del medico che gli premette la maschera a ossigeno sulla faccia.

Mentre MacLean trangugiava caffè e inalava ossigeno puro, cedendo malvolentieri alle mani del medico, Betsy si alzò. Avrei scommesso che aveva bevuto molto più di Desmond, ma il suo solo sintomo era una maggiore cautela nei movimenti, come se il pavimento fosse instabile. E la sua voce era controllatissima. — Quello che gli ho detto, vecchio — disse, — è soltanto una cosa che potresti vedere benissimo da solo. Basterebbe che ti guardassi intorno.

— Dove, di preciso? — chiesi. Lei indicò una finestra.

Ma fuori non c’era da vedere niente che io non sapessi già. In distanza, all’orizzonte, c’era l’ammiraglia di Betsy, un’altra isola della sua flotta e due della nostra… ma sapevo che, per una ragione o per l’altra, negli ultimi giorni ci eravamo avvicinati alquanto a varie isole galleggianti. L’unica altra cosa per qualche verso insolita era la flottiglia di aliscafi e hovercraft che galleggiavano tutto intorno a noi. E la loro presenza era ben spiegabile. Dovevano servire a portare avanti e indietro i nostri ospiti, ovviamente… benché fosse, come riflettei osservandoli meglio, un po’ strano che gli equipaggi di quelle imbarcazioni indossassero tutti la divisa rossa della manodopera appena assunta.

— Non so bene cos’è quello che sto guardando — ammisi, irrigidendomi.

Betsy rise e si volse al medico. — Fuori — ordinò. L’uomo mi guardò, le lanciò un’occhiata offesa e poi uscì. — Sei stato sulla pista d’atterraggio? — chiese Betsy.

— No. Perché avrei dovuto? — Ma mi sporsi a guardare anche in quella direzione. Parcheggiati a lato della pista c’erano dozzine di velivoli, e invece di trasferirli sottocoperta il personale ne stava facendo affluire altri con i montacarichi.

— Vecchio — disse lei, sprezzante, — non puoi vedere quello che non vuoi vedere. Io so da settimane quel che sta succedendo: sono venuta soltanto per esserne sicura.

— Sicura di cosa?

— Ah, Jason, quanto sei sciocco! Non sai riconoscere una forza d’invasione quando ne vedi una?

— Non credo che Dougie abbia bisogno d’invadere l’isola — dissi, fraintendendola, — dal momento che May gli ha dato l’intera Flotta.

— Non la tua Flotta, razza d’idiota… la mia! Vuole rubarmi le mie isole galleggianti!

— Tanto per cominciare, anche tu le hai rubate — dissi testardamente, rifiutando di prenderla alla leggtera. — O lo ha fatto quel bastardo di tuo padre.

Lei mi fissò, sprezzante. — Tutti rubano tutto. In quale altro modo qualcuno può diventare ricco? Come avrebbe potuto far fortuna il commodoro se tu non avessi rubato e imbrogliato per lui? Dio ti aiuti, vecchio, perché sei diventato cieco. Se non vuoi credere a me, chiedilo a questo tuo amico ubriacone. — Scosse il capo, con un sogghigno, e uscì dal ponte.

Desmod aveva quasi recuperato le sue facoltà mentali. Tuttavia gli occorse un po’ di tempo per tirar fuori l’intera storia. Betsy lo aveva ridotto balbettante e stordito, forse con l’aiuto di qualche pillola nelle bevande, e ciò che balbettò fu quello che avrei dovuto arrivare a capire da solo. Desmond aveva esaminato il materiale arrivato per i lavoratori subacquei e trovato che c’erano pompe, tubature, motori… ma anche armi portatili di vario genere, esplosivi, equipaggiamenti da assalto e perfino armi molto peggiori e pericolose. I lavori in corso erano stati una scusa per portare a bordo truppe addestrate. Il party era una scusa anch’esso: soprattutto per avere Betsy fra le mani come ostaggio.

Dio solo sa da quanto tempo Dougie progettava quella follia. Dio solo sa quanta gente di Betsy avesse cercato di corrompere e quali somme avesse speso per acquistare gli armamenti e procurarsi quella truppa. Dio solo sa… ma anch’io avrei dovuto saperlo! Se non me ne fossi andato in Nuova Zelanda per una sciocca ripicca avrei potuto accorgermene e far qualcosa per impedirlo. Ma anche così avrei dovuto capire ugualmente, e da mesi, che Dougie non si sarebbe accontentato della metà di una cosa. Lui voleva tutta la Flotta, non soltanto le isole di May.

Ma avrebbe dovuto capire che una manovra così complessa e in grande stile presentava dei pericoli, e soprattutto che corrompere gli uomini di Betsy significava soltanto spingerli a chiedere a lei una bustarella più sostanziosa. Mentre m’incamminavo verso il ponte di comando di Dougie sentii un rombo di motori, e vidi l’aliscafo di Betsy sollevarsi e filare via veloce sui suoi pattini. Le imbarcazioni armate ne furono colte di sorpresa, o forse gli uomini in tuta rossa non pensarono che lei fosse a bordo, e Dougie restò con le pive nel sacco. Quando entrai in plancia, poco dopo, vidi il volto di lei che gli parlava dallo schermo di un visifono. — Devi disarmare i lanciamissili delle tue barchette — gli stava dicendo. — E rifondermi il costo delle armi che mi hai costretto a comprare: altrimenti le userò.

— Puttana! — ringhiò Dougie, e continuò a sbraitare oscenità nel microfono. Poi passò alle minacce, così insensate che ne restai sbalordito. Anche i suoi uomini dovettero pensare che aveva perso la testa, perché quando ordinò loro di far muovere ugualmente le imbarcazioni da assalto si scambiarono occhiate insoddisfatte. Lui afferrò un altro microfono e gridando diede l’ordine di attaccare.

— L’hai voluto tu! — disse Betsy dallo schermo. — Guarda la tua stupida flotta! — Dougie si volse alla finestra; tutti i suoi ufficiali si girarono a guardare il mare, e anch’io.

Desiderai non averlo fatto.

Non avevo mai visto esplodere un’atomica tascabile prima d’allora. E non fu sulle imbarcazioni armate che accadde. L’isola galleggiante più vicina alla nostra in quella zona del delta-Ts era l’ultima fatta costruire da May: due milioni di tonnellate di stazza, e con la maggior parte delle diecimila persone d’equipaggio ancora a bordo. Era una macchina poderosa, così robusta che avrebbe potuto attraversare un uragano o urtare in un iceberg senza oscillare neppure. Ma una mini esplosione atomica nella sala macchine era troppo anche per un’isola galleggiante.

Per nostra buona sorte la deflagrazione avvenne all’interno delio scafo, in profondità, ma prima che potessi rendermi conto che quell’orrore era una realtà i miei occhi furono abbagliati da un lampo terribile. L’onda d’urto non fu neppure abbastanza forte da frantumare i vetri, pero venne seguita da un vento caldo, violento e maleodorante, che abbatté alcuni alberi nel giardino; quindi ci fu una vibrazione subacquea che scosse lo scafo e vidi avvicinarsi un’onda di marea. Quando la parete d’acqua spumeggiante ci arrivò addosso, devastò i mezzi d’assalto di Dougie facendoli affondare a dozzine e sfracellandoli contro la nostra isola, e una volta che fu passata oltre non ci fu altro. Ma non c’era più neppure l’isola colpita, perché al suo posto restavano soltanto rottami radioattivi a galla in uno specchio di mare sconvolto.

Dougie non ebbe l’intelligenza di capire che aveva perse; probabilmente era convinto, credo, che i suoi mercenari avrebbero fatto di tutto per guadagnarsi la paga. Quando ordinò loro di lanciare i missili dalle postazioni montate a bordo, senza tener conto che anche noi avevamo puntati addosso missili della stessa capacità distruttiva, i suoi uomini fecero né più né meno quello che ogni mercenario avrebbe fatto al loro posto: cambiarono bandiera, e puntandogli i fucili addosso lo dichiararono in arresto. Lui non volle sottomettersi e si gettò addosso a uno di loro per strappargli l’arma di mano. E gli altri spararono, uccidendolo.

I russi e i giapponesi protestarono e sollevarono un gran polverone, ma legalmente avevano le mani legate e non poterono far nulla. Non c’erano leggi efficaci lì, fuori da ogni confine di acque territoriali, e la pace faceva difetto un po’ ovunque anche nel resto del mondo. Quando Betsy tornò a bordo della nostra isola ci venne da conquistatrice, con una quantità di uomini armati che presero subito possesso dei punti chiave. E nel gran locale di plancia ordinò a May di trasferire immediatamente a suo nome la proprietà della Flotta e ogni altro capitale: liquido o investito.

La mia May la fronteggiò con calma, però era scossa e pallida. Si volse a me per cercare un po’ d’appoggio e fu anche peggio, perché con un fucile puntato in un fianco non ero precisamente un’immagine rassicurante. — Il mondo non ti permetterà questo atto di pirateria! — gridò, ma Betsy le rispose con un sogghigno contorto.

— Il mondo ha i suoi guai a cui pensare — disse. — Certo, sono accaduti incidenti spiacevoli ma chi credi che alzerà un dito per aiutare un’assassina?

Io ringhiai un’imprecazione intuendo quello che si proponeva di fare, mentre l’espressione di May mi diceva che ancora era incapace d’immaginare dove poteva spingersi quella strega. — Sappiamo benissimo che hai ammazzato tuo marito — dichiarò Betsy. — Il secondo, almeno… benché il primo sia morto anch’egli in circostanze sospette. — May non si prese la briga di replicare a quella calunnia: la lasciò parlare. E quel che uscì dalla bocca di Betsy era una menzogna solo a metà, perché disse: — Ho la confessione scritta del meccanico che aiutò Dougie d’Agasto a organizzare l’incidente di Jeff, e prove in abbondanza. Ho anche due testimoni che ti hanno sentito complottare con Dougie prima dell’omicidio. — Sorrise di nuovo. — E tutti sanno che tu e Dougie eravate amanti fin da molto prima di decidere che non volevate più Jeff tra i piedi.

Se non mi avessero spinto indietro l’avrei strangolata.

Più tardi, allorché i documenti furono firmati e May se ne andò sotto scorta, Betsy si volse a me. — Bene — disse, accennando ai suoi uomini di lasciarmi le braccia. — Cosa devo farne di te, vecchio?

— Di me non m’importa — sbottai. — Ma guai a te se provi a gettare fango addosso a May: non hai uno straccio di prova che in tribunale starebbe in piedi per un secondo.

— Qui l’unico tribunale che conta sono io. Ma non temere, non subirà alcun processo… per il semplice motivo che non tornerà mai più sulla terraferma. La terrò qui a bordo con me vita natural durante.

Abbassai la testa. — Non essere crudele con lei. Non trattarla male, almeno, — supplicai, disposto anche a strisciare a terra se avesse voluto.

— Perché dovrei trattarla male? Al contrario — si compiacque lei, di buonumore, — lascerò che sia tu il suo carceriere, vecchio… a patto che tu voglia fare con me un accordo conveniente. E poi potrai trattarla con tutti i riguardi che credi.

Fu cosi che si concluse quello che per le nostre vite era stato un periodo di relativa tranquillità.

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