II

Vent’anni e uno fu la sua età di sposa,

ma non fui io cui sorrise radiosa.

Ed a ventidue anni la fanciulla

d’un cupo e asprigno infante empì la culla.

Lo crebbe e lo allevò e gli fu vicina

dell’isole vaganti la regina.


Quando May compì quindici anni, la Van Dorn tornò a lavorare in sala macchine e May partì per la scuola. Portò con sé le amiche con cui era cresciuta, quelle che chiamavamo le altre quattro May, ma Ben non mi permise di andare con loro. — Se vuoi mantenere il tuo lavoro e la tua paga, Jason — ringhiò, — bada di lasciar stare mia sorella May. Quando sarà pronta per amare un uomo sceglierà un giovanotto ricco, bello e istruito, non un vecchio sporcaccione che dorme con le sue calze sotto il cuscino. — Questa era una bugia, e glielo urlai in faccia. Ma tutto il resto era vero: il mio amore era sempre lì. Se May avesse avuto cinque anni di più… se in quel momento avesse avuto anche un solo anno di più le avrei rivelato i miei sentimenti prima che partisse. E forse non mi avrebbe risposto un no. Fra noi c’erano trent’anni di differenza, certo, e non ero precisamente bello. Ma lei s’era sempre sentita a suo agio con me, si fidava di me, e non per caso.

Così Ben il Bastardo venne a insozzare la residenza del proprietario, con la sua moglie giallognola e la loro tozza figlia giallognola, Betsy, a cui non ero mai piaciuto. Potete stare certi che la ricambiavo. L’intera famigliola mi ripugnava. Non avevo mai conosciuto la madre di Ben, anche se sapevo chi era: un’impiegata negli uffici di un avvocato, che il commodoro aveva circuito pur di gettare uno sguardo su alcuni documenti che per lui significavano denaro. Lui aveva gettato lo sguardo; lei s’era tenuta il bambino. Ovviamente al commodoro non era passato neppure per la testa di portarla all’altare, visto che lei non aveva il becco d’un quattrino, e al momento del parto era già lontano e dimentico della cosa. Ma devo dire che il commodoro poi riconobbe questo suo figlio. Pagò un assegno mensile per mantenerlo, anche quando tirar fuori i soldi era duro. Lo mandò a scuola e infine gli diede un impiego nella Flotta, anche se non in mare. Tuttavia non volle che avesse il suo nome.

Perciò fu Benjamin (che significa Dono di Dio) Zoll (il cognome della madre) che quel giorno venne a bordo con in tasca il testamento e nel cuore la ferma volontà di regnare sovrano.

Be’, aveva qualcosa di più che la semplice arroganza. Era un uomo dall’animo gretto, ma un accanito lavoratore. Il primo giorno era già attorno allo scafo in tuta da sommozzatore, e nelle saldature dei serbatoi poppieri scoprì alcune fessure che lo resero furibondo. Prima di sera venti addetti alla manutenzione erano stati licenziati. I nuovi assunti rigarono dritto, e devo dire che mettemmo fine a quella che era stata un perdita di migliaia di dollari alla settimana.

Un’isola galleggiante con i generatori a energia termica vive della differenza che c’è fra la temperatura dell’acqua di fondo e quella di superficie. Quest’ultima scalda il fluido di lavoro, un alocarbonato con bassissimo punto d’ebollizione il cui vapore finisce nelle turbine a bassa pressione. Queste producono elettricità, che usiamo per scindere idrogeno dall’acqua ed estrarre azoto dall’aria, vendendo poi sia questi prodotti sia altri derivati. La difficoltà sta nel fatto che l’alocarbonato è un fluido troppo costoso e non lo si può lasciare a contatto dell’aria. Dev’essere condensato e poi riciclato, cosa per cui occorre una bassa temperatura. Il mare ci dà anche questa. Ci sono immense correnti fredde a livello del fondale, raramente a meno di cinquecento metri dalla superficie, così dobbiamo pompare incessantemente. Pompare acqua fredda dalle profondità, pompare il fluido di lavoro nei collettori solari, pompare acque negli impianti elettrolitici dove si produce il gas, pompare il gas nelle navi frigorifero che lo portano via… su ogni cento kilowattore di energia da noi prodotta, novantasette servono per far funzionare gli impianti.

Ma quello scarto del tre per cento basta a farci ricchi, perché una volta ammortizzate le spese di costruzione un’isola galleggiante resta sempre all’attivo.

Ben Zoll non aveva mai lavorato a bordo, così aveva molto da imparare: fece in fretta. Dal commodoro non aveva ereditato il nome, ma le sue capacità organizzative erano le stesse.

Il nome ce l’aveva May. E Ben il Bastardo le lasciò soltanto quello, bloccando le sue azioni con diritto di voto e tenendola fuori dal consiglio d’amministrazione della Flotta.

Non si può dire che le lesinasse il denaro: May ebbe le scuole migliori, istruttori d’equitazione privati, un guardaroba che avrebbe fatto invidia a una principessa. Per Ben non era un sacrificio inviarle assegni da capogiro. Sui cinque continenti miliardi di persone consumavano insaziabilmente l’idrogeno e i prodotti ammoniacali che noi fabbricavamo. Sotto Ben il Bastardo la Compagnia prosperava.

E anch’io, perché le mie cinquanta azioni sul carico mi avevano già reso milionario. Avrei potuto fare a meno di lavorare, comunque preferii restare a bordo della vecchia O.T. Dove sarei stato meglio? Nessuna persona intelligente si sarebbe mischiata ai miliardi d’individui che si affastellavano sui continenti. A terra imperversava la criminalità, e la vita della gente era caotica e stressante. Io m’ero ormai abituato alla tranquillità garantita dalle Leggi del Mare…

E inoltre, ogni tanto May veniva a casa per una visita.

Non si faceva vedere molto spesso, è vero. Ma c’erano le vacanze scolastiche. Ogni volta che aveva qualche giorno a disposizione si sobbarcava le cinque o sei ore di volo che occorrevano per raggiungerci dal Massachusetts all’Arcipelago di Bismarck, o al Mar dei Coralli, o dove altro eravamo. E d’estate restava con noi per varie settimane. Non veniva da sola: con lei tornavano sempre le altre quattro May per rivedere le loro famiglie e riposarsi lontano dalla folla della terraferma. Erano delle bellissime ragazze, capaci di far strage di cuori… e suppongo che questo facessero. C’era Maisie Richardson, bionda, atletica, piena di salute e di vitalità; e poi Ellamay Holliston-Pierce, la figlia del nostro oceanografo, dai grandi occhi azzurri e innocenti, timida e delicata; e la flessuosa Tse-Ling Mei, che divenne una stella del cinema; e May Sue Bancroft, bruna e riflessiva, la più saggia del gruppo. E poi c’era May: la mia May. Era sempre la più bella di tutte. Avevano praticamente la stessa età, May e le altre quattro May, e quando passeggiavano sulla vecchia O.T. nell’aria si spandevano tutti i colori e i profumi della primavera! Diverse com’erano, chi non era attratto dall’una s’innamorava dell’altra, ma ognuna era amabile e fatta per l’amore. Per lo più stavano fra loro, chiacchierando e ridendo delle loro cose, ma scambiavano battute anche con i membri dell’equipaggio, e se un giovanotto si lasciava scappare una parola di troppo erano sempre pronte a perdonarlo con un sorriso.

E poi c’era Betsy.

Betsy Zoll. La cagna figlia di quel bastardo di Ben. Se fosse possibile rimescolare il materiale con cui sono costruite due ragazze, e dare tutta la bellezza e tutte le virtù a una soltanto — diciamo, a May — ciò che resterebbe di quel materiale sarebbe Betsy Zoll. May era limpida come un diamante, Betsy era un pezzo di vetro fangoso. Quando May non era a bordo, Betsy se ne andava in giro atteggiandosi a principessa reale, e ogni tanto aveva una giornata buona in cui sembrava recitare dignitosamente la parte. Ma era un’impressione, e comunque all’ombra di quei cinque diamanti il pezzo di vetro perdeva anche quel poco lustro che aveva. Con lei erano gentili e simpatiche, desiderose di mostrarle che gradivano la sua compagnia, sempre sorridenti. Betsy le invidiava al punto che avrebbe affondato l’isola galleggiante solo per vederle affogare.

E poi venne un Natale in cui Betsy fu tutta sorrisi mielati e trionfanti.

Quando la vidi arrivare compresi che doveva aver girato dappertutto per cercarmi, perché ero giù in sala macchine a controllare cosa c’era di vero nella voce secondo cui occorreva un generatore nuovo. — Ebbene, Jason — disse, irraggiando tanta letizia che m’insospettii, — che farai di bello per Natale?

L’ingegnere e il direttore di macchina erano poco distanti e ci guardavano, parlando a sussurri, anche se nessuno ha bisogno di sussurrare quando le turbine a bassa pressione gli rombano negli orecchi. Le augurai cortesemente buon Natale, poi telefonai al mio ufficio per comunicare dove mi trovavo… più che altro per evitare di parlare con lei; ma stupito vidi che mi restava accanto, e quando appesi ridacchiò. — Dalla settimana prossima questo ti costerà un quarto di dollaro — disse.

Che portava brutte notizie l’avevo capito, naturalmente, ma quella non me l’aspettavo. — Bisognerà pagare per il telefono di bordo?

Lei arricciò le labbra e inclinò la testa. — Oh, sì. Per il telefono, per i tuoi schermi video e per ogni volta che girerai un interruttore — disse, con una luce di compiacimento negli occhietti bruni. — Mio padre dice che è tempo che l’equipaggio paghi l’elettricità che consuma, dice. Cinquanta cents a kilowattora, per cominciare, dice.

— Ma non ha senso!

— I dollari hanno senso — mi corresse lei. — Questa elettricità è nostra, vecchio. E costa denaro. Perché dovremmo regalarla quando la possiamo vendere?

Mi feci indietro perché aveva avvicinato il volto e il suo alito era acido come quello di un cane. Betsy aveva quindici anni, ma la freschezza giovanile in lei non era mai esistita. — Noi non vendiamo elettricità, Betsy: solo quello che produciamo con l’elettricità. Se volessimo venderla dovremmo dedicare più spazio ai processi di conversione, e questo spazio dov’è?

— Ottima domanda, vecchio — disse lei, trionfante. — Mio padre ha già pensato a tutto, naturalmente. Per cominciare, sotto il ponte di prua ci sono migliaia di metri cubi di spazio sprecato. Sposteremo lì un impianto per l’elettrolisi, e al centro resterà più spazio per la produzione di ammoniaca e…

— La residenza del proprietario! — ansimai.

— Vecchio — dichiarò lei, — la gente come noi non può vivere per sempre in stanzucce piene di tubature. Presto avremo finito di costruire un’isola galleggiante dieci volte più grossa di questa: sposteremo la bandiera su un’altra ammiraglia.

Dunque le chiacchiere di bordo non erano soltanto chiacchiere, e la realtà era ancora peggiore. Ma ancora non sapevo quanto peggiore, perché Betsy aveva tenuto per ultimo il vero motivo della sua visita. — Quando May verrà a casa per Natale, vedremo cos’avrà da dire — sbottai, ricordando che sul testamento del commodoro si parlava anche di quegli appartamenti, proprietà privata di May. E con quella frase le diedi il pugnale con cui colpirmi.

— Quando May verrà a casa per Natale — mi parodiò lei con una smorfia sprezzante, — ciò che vedremo è che lei non verrà per niente a casa per Natale. Oh… ma Jason! Non mi dirai che la signorina non ti ha parlato del suo fidanzato, vero? Perché, guarda un po’, si è proprio fidanzata. Con un certo Frank Appermoy. E trascorrerà il Natale con lui, a casa di sua madre.

E May non mi aveva scritto una parola! come Betsy sapeva bene. Senza curarsi di celare la soddisfazione gettò un’eloquente occhiata al suo orologio e assunse un tono ironicamente affettato. — Data la differenza di fuso orario — proclamò, — possiamo presumere che giusto in questo momento stia saltando nel letto del suo amante, con vista sul mare delle Hawaii. Che rospo da ingoiare, eh, vecchio? — volse le spalle e se ne andò, lasciandomi lì come annichilito.

Tornato in ufficio, la prima cosa che feci fu di chiedere tutti i dati di cui disponevamo su Frank Appermoy e il resto della sua parentela. La seconda, mentre aspettavo le informazioni sul monitor, fu di chiamare per visifono May alla villa degli Appermoy sull’isola maggiore delle Hawaii. Sulla costa di Kona erano le dieci di sera, e secondo il maggiordomo che mi rispose Miss May e Padron Frank erano a Luau, e non erano attesi di ritorno prima di due ore. Così lasciai detto che mi chiamassero e mi feci stampare i dati richiesti.

Sapevo già che gli Appermoy erano ricchi. E sapevo anche che ci facevano — o tentavano di farci una certa concorrenza, benché la loro produzione annua di composti azotati e idrogeno fosse inferiore a quella della nostra più piccola isola galleggiante. D’altro canto sfruttavano procedimenti industriali molto diversi.

Il denaro degli Appermoy proveniva però principalmente dalle scorie radioattive. Il vecchio Simon Appermoy non era stato meno astuto e ingegnoso del commodoro. Aveva fatto i suoi piani, quindi aveva firmato contratti con una mezza dozzina di nazioni per lo smaltimento dei rifiuti delle loro centrali elettriche a energia atomica. Subito dopo aveva acquistato due cime montuose che emergevano dal fondale dell’Oceano Pacifico, in coda alla catena delle Hawaii, isole vulcaniche spianate completamente dalle onde milioni di anni fa. Se lo stato sovrano delle Hawaii avesse il diritto di vendere isole a privati è un’altra questione, e se un privato avesse il diritto di riempirle di scorie radioattive è un’altra questione ancora, ma la faccenda dei diritti non preoccupava il vecchio Appermoy… e il motivo lo spiegherò fra poco. Fatto ciò scavò fosse alla sommità delle due piatte e consunte isole, e vi seppellì il materiale radioattivo dopo averlo vetrificato.

Quei contratti per lo smaltimento dei rifiuti sarebbero bastati ad arricchirlo, ma fu solo l’inizio. Il suo successivo era stato il mettersi in concorrenza con noi.

Qualche genio misconosciuto sul libro paga di Appermoy l’aveva informato che tutta quella radioattività, sepolta su cime sommerse a poche centinaia di metri sotto la superficie, avrebbe provocato un surriscaldamento dell’acqua e una conseguente forte corrente ascensionale e la corrente poteva essere sfruttata con turbine azionate ad acqua. Questo fu ciò che Appermoy fece, costruendo un impianto per la produzione di energia elettrica e usandola per ottenere azoto dall’aria e idrogeno con l’elettrolisi. Ma non sfruttò la corrente ascensionale solo per questo, dato che risalendo essa portava alla superficie i detriti organici del fondale accumulatisi in milioni di anni. Se voi vi trovaste quella roba sul pavimento del soggiorno la spazzereste via, disgustati; ma se ve la trovaste nel giardino sarebbe la delizia del vostro cuore, perché è l’humus più ricco del pianeta. E mentre viene alla superficie nutre i microrganismi che nutrono il krill che nutre i pesci. Appermoy ci aveva messo poco a trasformare quei bassi fondali nelle zone più ricche di pesce dell’oceano, e questo gli aveva portato altri soldi nelle tasche. In quanto al genio che suggerì questo progetto, non so quale premio Appermoy gli abbia dato. Molto probabilmente gli ha regalato un paio di scarpe nuove, in solido cemento, e lo ha mandato giù su quei fondali a supervisionare il fango che lentamente risale a galla.

Il sistema funzionava, anche se il principio su cui si basava era quasi l’opposto del nostro. Noi pompavamo su acqua fredda, usandola per far condensare di nuovo il liquido a basso punto d’ebollizione. Appermoy scaldava l’acqua del fondale con i suoi rifiuti radioattivi, per ottenere gli stessi nostri prodotti industriali e inoltre ricavare migliaia di tonnellate al giorno di pesce, che rivendeva sul continente con buon guadagno.

Dunque era una famiglia ricca; ma non certo una famiglia onesta. Il loro impero era fondato sull’inquinamento delle acque oceaniche, ed era nato da denaro ancor più sporco e velenoso. Appermoy se l’era infatti procurato — come il commodoro — con il matrimonio ma, mentre il commodoro aveva sposato una Lady, Appermoy aveva impalmato l’erede di quattro generazioni di capi della Mafia. Non c’è bisogno di dir altro per spiegare come aveva ottenuto i contratti e gli appoggi necessari. E questo spiega anche perché nessuno cercava di scalzarlo dal mercato. Altri avevano acquistato isole sommerse di quel genere, ma non erano riusciti a procurarsi i permessi necessari oppure era accaduto loro qualche incidente.

Se la sua famiglia aveva le mani sporche, mi mancavano però gli elementi per poter dire lo stesso di Frank. Nei dati di cui disponevamo non risultavano peccati di alcun genere, a meno che non si voglia definire peccato la fissazione per il gioco del polo. Comunque non rientrava nelle peculiarità di Ben Zoll, salvo che nella prima. Perché ricco lo era. Ma non si può chiamare istruito uno il cui solo scopo nella vita è di colpire una pallina stando sulla groppa di un cavallo, e certamente non era possibile definirlo bello. Uno dei suoi quadrupedi lo aveva disarcionato, passandogli con gli zoccoli sulla faccia. Dai dati in archivio risultava che non s’era ancora pienamente rimesso, e c’era anche una fotografia che lo confermava. Benché il lato destro del suo volto fosse stato rifatto a nuovo, qualcosa nei lineamenti non tornava. Non dico che sembrasse disgustoso o repellente, però nessuno avrebbe potuto chiamarlo bello… neppure sua madre e tutta la stirpe di mafiosi e criminali da cui discendeva.

E tuttavia la mia May aveva deciso di sposare quell’uomo.

Gli esploratori ci avevano trovato un’ottima corrente fredda su cui operare, a sud delle Filippine, e la stavamo sfruttando bene. Ogni grado in più, nella differenza fra la temperatura di fondo e quella di superficie, assume un gran valore quando si lavora con margini ristretti come i nostri. Così ci trovavamo a migliaia di chilometri ad ovest delle Hawaii e venne buio prima che May e il suo damerino mi chiamassero. Ero seduto sulla mia piccola veranda e fissavo la Croce del Sud, rimpiangendo amaramente di non avere vent’anni di meno, quando il visifono squillò.

Ed eccoli lì sullo schermo, tutti e due. Lui le teneva un braccio attorno alle spalle e mi sorrideva di un distorto — ma non diabolico — sorriso, e May aveva l’aria di scusarsi ma appariva radiosa. — Oh, zio Jason, tutto è successo così in fretta! — esclamò. Era la prima volta in vita sua che mi chiamava zio. — Avrei voluto chiamarti cento volte, ma…

— Non fa niente — mentii.

— Tu verrai al matrimonio, non è vero? Ti prego!

Come se ci fossero dubbi sulla cosa! Ma il giovanotto aggiunse doverosamente la sua preghiera: — Lei è la sola famiglia di May, signore. — Nessuno degli amici di lei mi aveva mai chiamato signore, dovevo ammetterlo. — Mia madre dice che sarà una seconda mamma per lei. Ha sempre desiderato avere una figlia, e Dio sa, signore, quanto io desideri la felicità di May. Perciò non sarebbe giusto che ci sposassimo se lei non fosse qui con noi.

Il reato che avevo commesso era caduto in prescrizione da molti anni, ma non avevo nessuna voglia di rimetter piede sulla terraferma, neppure su un’isola. Specialmente su un’isola di proprietà degli Appermoy. Ma lui bloccò ogni mia obiezione: — Deve venire, signore, perché tutti noi vogliamo che sia lei a condurre la sposa all’altare.

E così gliela condussi all’altare.

La condusse lungo il sentiero fiorito di fronte alla grande villa di South Point, con il Kilauea che fumava quasi dietro la casa. May portava un lei intorno al suo collo vellutato; il prete aveva un microfono fissato al colletto per far sì che i quattrocento invitati udissero ogni parola; e Betsy mi sorrideva odiosamente dalla prima fila di sedie. Ma lo sposo era pallido e zuppo di sudore, perché pochi minuti prima della cerimonia aveva avuto una specie d’attacco di convulsioni. Aveva modi abbastanza piacevoli il giovane Frank Appermoy. Ma io odiavo l’idea di condurre May all’altare per consegnarla a un altro, fosse di modi piacevoli o spiacevoli, fosse ricco o povero, giovane o vecchio. E specialmente a uno che, per quanto ne sapevo, ogni tanto cadeva preda di convulsioni o terribili mal di testa. Desideravo soltanto che lo zoccolo di quel cavallo avesse premuto un po’ più forte.

Non so se furono felici oppure no: suppongo che lo siano stati. L’anno dopo ebbero un bambino, James Reginald Appermoy, e neppure dodici mesi più tardi qualcosa nel cervello lesionato di Frank cedette. La mia May restò dunque vedova all’età di ventidue anni. E quella strega della suocera disse che era stata lei a ucciderlo.

A ventun’anni sull’altare ella sorrise,

ma il lutto all’abito assai presto mise.

La falsa madre la chiamò assassina,

la falsa sorella pregò per la sua rovina.

L’attendeva una vita d’inganni e tradimenti,

dolce sfortunata regina dell’isole vaganti.

May non poteva restare alle Hawaii con la vecchia suocera Appermoy che faceva circolare calunnie scandalose sul suo conto. Ben il Bastardo la invitò a tornare a casa. Non all’isola galleggiante su cui era cresciuta, dove gli alloggi erano stati tolti per far posto ad altri impianti per l’elettrolisi, ma alla residenza costruita sull’ultima e più grande isola di nuova costruzione. Due milioni di tonnellate di stazza! Adesso era davvero possibile definire isole quelle imbarcazioni, e sul ponte di prua la tenuta del proprietario avrebbe ospitato non una ma una dozzina di famiglie numerose. Malgrado questo dapprima Ben dichiarò che per me non c’era posto a bordo, con il solo scopo di costringere May a pregarlo. — Oh, be’ — cedette poi, fingendo un impulso generoso, — almeno si renderà utile cambiando i pannolini al bimbo. Gli troverò una stanza negli alloggi dell’equipaggio.

Negli alloggi dell’equipaggio! Io che amministravo tutte le proprietà personali di May, e che possedevo cinquanta azioni con diritto di voto. Solo un quarto della Flotta era intestato a Ben, mentre May era la proprietaria degli altri tre quarti, e tuttavia questo non ci serviva a molto: Ben aveva dalla sua il testamento, e poteva usare il diritto di voto delle azioni di May finché lei non avrebbe compiuto trent’anni. Io non riuscivo a capacitarmi che il commodoro avesse inserito una clausola così assurda. Ma quando feci una capatina a Reykjavik per consultare un avvocato, al Tribunale del Mare, mi fu detto che non c’era speranza d’impugnare il testamento. Al ritorno raccontai a May una bugìa, preferendo non dirle dov’ero stato e cos’avevo cercato di fare.

Ma la giovane donna non mi domandò niente. In quei primi mesi era totalmente assorbita dal bambino, se lo coccolava, cantava per lui, lo accudiva… e faceva una vita stressante, perché già allora il piccino era la più insopportabile e capricciosa creatura che avessi mai visto. May trascorreva le giornate nel giardino o sul bordo della grande piscina ovale, cinta da palme, con Jimmy Rex che frignava fra le sue braccia o frignava sul suo lettuccio lì accanto. Io ero sempre nei pressi per alleggerirla del lavoro o farle compagnia. E Betsy non mancava mai di comparire, esibendo gioielli e abiti costosi, di cattivo gusto, tallonata dalla piccola corte di avidi e striscianti giovanotti che erano suoi ospiti tutto l’anno. Sempre con un occhio invidioso su May e sul bambino.

Non ci voleva molto a capire ciò che voleva: qualunque cosa May avesse, Betsy gliela invidiava. Aveva perfino desiderato quel superficiale e sofferente Frank Appermoy… e l’aveva avuto, se non altro per il tempo di qualche salto sul suo lussuoso letto, come s’era affrettata a farmi sapere poi. E ora voleva il piccolo Appermoy. Dapprima avevo creduto che desiderasse semplicemente un bambino: non le sarebbe stato difficile farne uno, con tutti quei cicisbei che le stavano attorno. E m’ero detto che a scoraggiarla era stata l’idea che avrebbe dovuto sposare uno di costoro, e soprattutto il pensiero dei disagi della gravidanza e del parto. Ma mi ero sbagliato. Quello che lei voleva era James Reginald Appermoy, con tutte le sue coliche e i suoi strilli. E lo voleva per il solo motivo che lui era di May.

Così per sei o sette mesi May fu la perfetta immagine della giovane madre premurosa, mentre Rex era la perfetta immagine del lattonzolo molesto, opprimente e insopportabile. Poi il bambino fu svezzato, e lei parve tornare a contatto con il mondo. Forse cominciò a capire che era sola. Io ero l’unico vero amico che avesse a bordo. Non per colpa sua: se qualcuno dei circa settemila dipendenti di quell’isola cominciava a diventarle amico, Betsy lo riferiva a Ben e la persona in questione veniva trasferita. Perfino le altre quattro May potevano venire a bordo solo per un paio di giorni alla volta, sobbarcandosi un lungo viaggio in aereo all’andata e al ritorno perché in quel periodo ci trovavamo in pieno oceano. Così non mi meravigliai quando la mia dolce fanciulla prese a cercare un po’ di distrazione molto lontano da lì: un party a New York, una caccia alla volpe in Inghilterra, un po’ di sci in Svizzera, o la stagione teatrale a Tokio o a Parigi. Se stava via pochi giorni lasciava a me il piccolo Jimmy Rex, e io ce la mettevo tutta per essere affettuoso. Se l’assenza era più lunga lo portava con sé, e mi trovavo senza niente da fare e nessuno a cui parlare: anche i miei amici subivano molti e improvvisi trasferimenti. Avrei desiderato un’altra Elsie Van Dorn, o la stessa Elsie, però lei in quel periodo lavorava come motorista sulla vecchia isola galleggiante, e non volevo vederla coinvolta nelle angherie di Ben. Provai perciò con una successione di ragazze raccolte nelle cucine o negli uffici, nessuna delle quali resistette per più di un paio di settimane. Rimandai al loro lavoro quelle che non erano abbastanza robuste e pazienti da sopportare il piccolo demonio, mentre Ben trasferiva regolarmente quelle che invece sarebbero state adatte.

E cominciarono ad arrivarmi delle lettere anonime. Una al mese. Alcune provenivano dall’Australia, altre da Seul o da Città del Capo, ma tutte contenevano lo stesso avvertimento: Se ci tieni alla vita, aiutala. Adesso.

Ma cos’avrei potuto fare?

Non avevo bisogno dello sconosciuto sicario per sentire la necessità di aiutare la mia May. Trovai una scusa per assentarmi di nuovo, e stavolta riuscii a consultare un avvocato migliore, o semplicemente più costoso. Non si limitò a dirmi che il testamento del commodoro non poteva essere impugnato: mi diede due giorni del suo tempo, illustrando le Leggi del Mare e citando casi precedenti. La sua parcella fu superiore a quella del primo avvocato, le sue conclusioni identiche: Ben aveva la legge dalla sua fino al trentesimo compleanno di May.

Fu la sola volta in cui andai sulla terraferma, quell’anno. Avrei voluto seguire May in uno dei suoi viaggi per scoprire se lontano dall’isola galleggiante se la sentisse di parlare più liberamente della questione, oltreché, a dire il vero, per il piacere di starle vicino. Lo avrei fatto, non avrei chiesto di meglio che poterlo fare… se almeno con una parola o con uno sguardo lei mi avesse fatto capire che voleva il mio aiuto. Quella parola non venne mai; lo sguardo, forse.

Era di partenza per New York con il bambino, quel giorno. Io portai in braccio Jimmy Rex fino alla pista dov’era in attesa uno dei jet della Compagnia, e presso la scaletta le diedi i suoi documenti. — A New York per la stagione teatrale! Non sapevo che tu amassi tanto l’opera lirica — dissi, e May mi sorrise.

— Un po’ di cultura non farebbe male neppure a te, Jason, caro — sospirò. Poi tacque, e si volse a guardare pensosamente il mare caldo e immenso. Conoscevo bene quello sguardo. Quasi mi sarei aspettato di vederla mettersi il pollice in bocca, seduta a gambe incrociate su un’aiuola come quand’era bambina, malinconicamente perduta nei silenzi dell’orizzonte lontano. Il pilota aveva terminato i suoi controlli e ci stava guardando con impazienza perché doveva rispettare un orario di volo, ma May restò a fissare l’oceano per dieci minuti buoni. Quando si volse ebbi l’impressione che fosse sul punto di parlarmi.

Non disse nulla. Il suo sguardo si spostò su qualcosa alle mie spalle e cambiò idea. — Arrivederci, allora, caro Jason — disse, e mi baciò. Si fece consegnare il bambino e scomparve nel velivolo.

Mentre indietreggiavo per allontanarmi dal jet inciampai nella persona la cui vista l’aveva azzittita. Era Ben, il fratellastro. Malgrado fosse appena una dozzina d’anni più anziano di May appariva logoro, teso e irritabile. Accanto a lui c’era Betsy, con una smorfia impermalita sul volto.

Il getto d’idrogeno ardente sibilò, spinse nel cielo l’aereo e si fece troppo accecante per consentire agli occhi di seguirlo. Betsy si volse a me. — Eravamo venuti per augurarle buon viaggio — sbottò acidamente, — ma sembra che May non sprechi molta cortesia con la famiglia.

Il velivolo era a un chilometro di quota e continuava a salire. Ben si schermò gli occhi con una mano per seguirne l’allontanamento. — Jason — disse, senza guardarmi, — parliamo un po’ d’affari. Voglio comprare le tue azioni.

— Può anche darsi che tu voglia — annuii, — però io non le vendo.

Mi fissò a occhi socchiusi. Era lo sguardo di chi ha messo a posto alcuni tasselli di un puzzle, ma non abbastanza da farsi un’idea del disegno. — Ti sei divertito nella tua piccola vacanza in Islanda? — chiese.

Non avevo mai dubitato che mi facesse spiare, così non mi presi la briga di rispondere. Lui continuò: — Te le pagherò molto più del loro valore di mercato.

— Per me valgono ancor più di quel che possono valere per te, Ben — dissi, e gli volsi le spalle. Mentre mi allontanavo lo sentii tossire spiacevolmente. Era un uomo malato.

Tornai nel mio alloggio e cominciai a studiare gli inutili documenti legali fornitimi dall’avvocato, ma avevo la testa altrove. Parte dei miei pensieri giravano intorno a May, come sempre; parte di essi riguardava però Ben. Non potevo augurare niente di bene al Bastardo, tuttavia non lo volevo morto. Sapevo chi avrebbe ereditato le sue azioni. E l’avvocato di Reykjavik mi aveva detto che Ben poteva trasmettere a ogni erede l’incarico di guardiano di May… anche se l’erede era più giovane di lei e nonostante l’assurdità della clausola.

Ma non riuscivo a togliermi dalla testa la certezza che May avrebbe voluto dirmi qualcosa prima di partire, così decisi di sapere cosa. Tre giorni più tardi dissi al mio segretario di prendersi una settimana di vacanza, poi presi il volo con lo stesso aereo.

In quel periodo stavamo costeggiando le Filippine, e il jet mi sbarcò a Manila. Da lì un volo orbitale mi portò al grande terminal galleggiante fuori Sandy Hook, quindi presi un elicottero fino al tetto del mio albergo.

La terraferma non mi piace. E non mi piace la folla, con i suoi rumori e i suoi odori: detesto l’atmosfera delle città. Avevo preso un appartamento nello stesso albergo dove alloggiava May, e non avevo intenzione di uscirne che per far visita a lei. Così, appena mi fui lavato e cambiato, uscii in corridoio e l’ascensore mi portò una dozzina di piani più in alto. Bussai alla sua porta. Ad aprirmi venne Tse-Ling Mei. — Zio Jason! — esclamò, sorpresa e felice ma con un filo d’ansia per la mia imprevista comparsa. — Oh, cielo! Entra, ti prego!

Nell’appartamento c’erano le altre quattro May. E c’era anche il piccolo Jimmy Rex, che nella sua stanzetta strillava a più non posso rifiutando di fare il suo sonnellino, ma la mia May non era in albergo.

Le ragazze s’affrettarono a farmi sedere e mi si affollarono attorno, belle e profumate come fiori di campo. — Gradisci un po’ di tè? — chiese Mei, e — Hai mangiato? — s’informò Maisie, e — Quello di cui Jason ha bisogno è un buon drink — fu la diagnosi di May Sue Bancroft, mentre Ellamay Holliston-Pierce esclamò invece: — Oh, per favore, raccontaci le ultime novità della Flotta!

Così chiacchierammo per un po’ e cominciai a rilassarmi, anche se m’infastidiva vedere che le ragazze sembravano non avere idea di quando May sarebbe rientrata. Poi May Sue Bancroft gemette: — Oh, all’inferno! — Ci voltammo a guardare cosa succedeva. Sulla soglia del soggiorno c’era Jimmy Rex, scappato in qualche modo dal suo lettuccio e venuto non tanto a curiosare quanto a darci dei dispiaceri: in una mano teneva il pannolino asciutto che s’era levato, e con l’altra si stava aiutando, deliberatamente, a orinare sul costoso tappeto Aubusson. Capite ora che imprevedibile estrazione a sorte sia il mettere al mondo un figlio? Se ci fosse andata bene avrebbe preso da sua madre; ma perfino se avesse preso dal padre non sarebbe stato nulla di peggio che uno sciocco. Invece, nella caotica lotteria dei geni e dei cromosomi lui aveva estratto l’anima della sua nonna materna, quella cagna perversa, e ancora non sapevo fino a che punto mi avrebbe fatto soffrire.

Quel che fece quel giorno, comunque, fu di rovinare l’umore a tutti quanti. Mi alzai per andarmene. Tse-Ling Mei aveva agguantato il piccolo mostro, mentre Maisie tentava di rimettergli il pannolino ed Ellamay era corsa nel bagno in cerca di una spugna per salvare il tappeto. May Sue Bancroft invece disse: — Ti accompagno giù al tassì, ma lo sguardo di lei mi azzittì all’istante.

Così ci avviammo in corridoio tenendoci per mano ed entrammo in ascensore — cosa che mi fece salire il cuore in bocca perché non ero più abituato alle discese ad alta velocità — poi lasciai che lei mi guidasse nell’atrio verso un’uscita sul retro. In strada mi fece girare in fretta un angolo, si guardò attorno con misteriosa cautela e fermò un tassì. Io ero vestito per il clima caldo delle Filippine, mentre a New York eravamo in novembre, e anche May Sue non indossava molto. Disturbato dagli odori, dalla ressa dell’albergo e dai troppi rumori l’avevo lasciata parlare a ruota libera fino in strada, e in tono indifferente lei m’aveva informato che Tse-Ling Mei aveva avuto una parte importante in un film, che Maisie stava per sposarsi, che Ellamay aveva messo su un ospedale non so dove, nel Jersey o nell’Indiana, e che lei era tornata all’università per prendere la laurea in legge. Ma appena mi ebbe ficcato nel tassì mise dentro la testa per baciarmi un orecchio. E quello che mi diede non fu un bacio: sussurrò un indirizzo e un numero, quindi si volse e s’allontanò subito senza voltarsi indietro.

Ormai ero abbastanza insospettito per non fermarmi a quelle semplici precauzioni, cosicché un po’ più avanti scesi dal tassì, camminai cinque minuti malgrado il freddo e ne presi un altro in una viuzza secondaria. Poco più tardi ero sul posto.

L’indirizzo corrispondeva a un alberghetto vecchio e scalcinato; il numero era quello di una camera da poco prezzo all’ultimo piano. Nel corridoio stagnava il puzzo della marijuana misto a quello di calzini sporchi e di sudore. Bussai, e la porta mi venne aperta da un individuo sulla quarantina, scalzo, con la camicia sbottonata e i pantaloni tirati su ma ancora mezzo aperti sul davanti. Malgrado ciò aveva un aspetto sobrio e posato, elegante, non il tipo d’uomo che uno si aspetterebbe di trovare in un pollaio frequentato dalle prostitute e dai loro clienti.

E dietro di lui, distesa su un letto sfatto e con indosso soltanto la sottoveste, c’era la mia May. Sul volto aveva un’espressione sbigottita e spaventata.

— Non è come puoi pensare, zio Jason — disse in fretta a me. E all’uomo: — Svelto! Fallo entrare e chiudi!

Lui non esitò un istante. Mi afferrò per un gomito, con forza sorprendente per la sua esile corporatura, e mi tirò in camera. Poi mise fuori la testa, controllò il corridoio e chiuse la porta. Si volse a osservarmi.

— Mi chiamo Jefferson Ormondo — disse. — Lavoro in banca, ramo investimenti. Spiacente che ci abbia trovati così, ma le finestre sono inchiodate e non è possibile spegnere questo maledetto impianto di riscaldamento. Ben Zoll ha orecchi dappertutto. Capisce? — Nel parlare si riabbottonava; sedette a infilarsi le scarpe e disse: — Scendo a dare un’occhiata nell’atrio per accertarmi che non sia stato seguito. May le spiegherà in che termini sta la situazione. — Uscì, lasciandomi in quella squallida stanza con la mia dolce May seduta sul letto, davanti a una situazione che parlava da sola.

— Stiamo cercando di eliminare il controllo di Ben sulle mie proprietà — mormorò lei, alzandosi.

— Questo non è possibile… — balbettai. Ma ciò che la mia faccia stava dicendo era: Questo non è bello da parte tua, May. Gettarti in un’impresa simile senza il mio aiuto! E fu alla mia faccia che lei rispose.

— Jason, caro, io non ho segreti per te. È una cosa che non posso fare senza di te.

— I migliori avvocati di Reykjavik mi hanno già detto che non c’è speranza — le riferii. — Il testamento di tuo padre è inattaccabile.

— Anche se fosse stato falsificato, Jason?

La fissai, esterrefatto.

— Falsificato — ripeté, annuendo. — Non completamente: soltanto le date. Mio padre aveva stabilito che la tutela finanziaria terminasse al mio ventesimo compleanno, ma Ben è riuscito a corrompere qualcuno e ha fatto aggiungere dieci anni alla scadenza.

Stava intavolando un argomento su cui non ero certo ansioso di rivelarle la mia esperienza. Non sapevo — e non seppi mai — se il commodoro le avesse parlato del favore che gli avevo fatto. Lei comunque non sfiorò quel tasto e proseguì: — Questa è una frode, Jason, è un reato per cui qualcuno dovrà essere condannato. Ma in quanto a provarlo… è molto difficile. Non ho mai potuto parlarne con te. Ben ha sempre piazzato microfoni dappertutto e ha i suoi agenti. Inoltre — disse, mettendomi una mano su un braccio, — sa che sei molto più esperto di me e ti ha fatto sorvegliare strettamente.

Borbottai: — Non devi giustificarti di niente con me, May. — Però le chiesi ugualmente spiegazioni. A quanto mi disse, quell’ometto smilzo e mezzo calvo, Ormondo, lavorava per la banca che amministrava e reinvestiva i capitali di Ben, e gli era parso che ci fosse qualcosa di strano nei suoi documenti. Per dirne una, il testamento avrebbe dovuto comparire registrato in più luoghi, non solo nella memoria del computer della banca. Ma la banca del commodoro era stata assorbita da un’altra, le cui registrazioni non erano più disponibili; inoltre l’archivio dov’era custodito il testamento originale era andato distrutto con la perdita di tutta la documentazione.

Ormondo era giunto a sospettare che dietro a questi fatti ci fosse un tentativo di truffa. Non aveva potuto provarlo, ma gli era venuta la curiosità d’indagare oltre e s’era accorto che le cose da scoprire non mancavano.

Ben stava mungendo ben bene la Flotta. Aveva costituito una sua corporazione, la quale acquistava l’idrogeno dalle isole galleggianti, e un’altra che rivendeva i prodotti ammoniacali sul continente, e una terza che affittava alla Flotta piloti e servizi esplorativi per la ricerca di acque fredde a minore profondità. Anche la Compagnia che ci metteva a disposizione aerei e idrovolanti era finita nelle sue mani. Tutto ciò che la Flotta acquistava veniva a costarle un po’ di più; tutto ciò che vendeva le fruttava un po’ di meno: la differenza scivolava in conti bancari intestati a Ben.

Con questi elementi Ormondo s’era recato a un party a cui era stata invitata May, le si era fatto presentare e le aveva sussurrato le sue conclusioni in un orecchio.

Da quel giorno, per quasi un anno, i due avevano cercato di mettere insieme una documentazione e interrogato gente che poteva conoscere certi retroscena. Qualche voce sulla loro attività doveva essere sicuramente giunta a Ben; ma Ormondo era un uomo prudente.

Erano riusciti a farsi un quadro quasi completo della faccenda.

— Il nostro prossimo passo, Jason — mi disse, — era quello di mettere al corrente te; stavo quasi per chiederti di venire con me. Sono contenta che tu abbia deciso di non aspettare che ti parlassimo.

— Naturalmente farò tutto quello che vorrai — la tranquillizzai.

Lei sorrise e mi accarezzò una spalla. — Ne ero certa, caro Jason. C’è anche un’altra cosa.

Mi accorsi che era imbarazzata. Si morse le belle labbra, esitò, e i suoi occhi indugiarono sulle scadenti stampe marinaresche appese alle pareti scrostate come se contemplasse l’oceano. Poi sospirò: — Ho bisogno di un marito, Jason.

Quella frase mi colse impreparato. — Un marito?

— Devo avere un uomo al mio fianco, per me stessa, e anche per sostenere questa battaglia che sarà dura. E soprattutto ho bisogno di un padre per Jimmy Rex. Lui ha diritto di avere un padre, Jason. Non un giovanotto sciocco, ma un uomo adulto, saggio, gentile e sensibile. Non m’importa che sia più vecchio di me; ciò che conta è che sia qualcuno di cui io possa fidarmi, e che possa amare con tutto il mio cuore.

Per anni e anni avevo sognato di sentirle dire quelle parole, e l’emozione mi mozzò il fiato. — Oh, mia cara, tu mi dai una grande gioia! — esclamai, prendendola dolcemente per le spalle… e confuso la vidi sbarrare gli occhi con espressione stupefatta.

La battaglia fu davvero molto dura. Per molti mesi tutti noi trascorremmo più tempo in Islanda che a casa nostra. Già in se stesso, questo fu un prezzo piuttosto alto per me. Comunque i tribunali che amministrano le Leggi del Mare si trovano in Islanda, e il fatto che sia un’isola piacevole e piena di piscine calde non fece che acutizzare in me la nostalgia per i ben più riposanti panorami dei mari del sud.

Ma vincemmo; non del tutto, però vincemmo. E Ben il Bastardo sarebbe potuto finire benissimo in prigione se la sua malattia non lo avesse condotto in ospedale. Per sua sfortuna non ne uscì vivo.

Così fu Betsy a dover sgombrare la residenza, e non suo padre, anche se non perse certo tutto. Provare che il testamento era stato falsificato ci fu impossibile. La lotta che facemmo nei tribunali fu lunga e senza esclusione di colpi e tre dei nostri testimoni scomparvero, tuttavia la documentazione delle compagnie create da Ben andò in mano al giudice. La tutela finanziaria venne annullata. Ogni contratto firmato da Ben fu invalidato. La Flotta venne divisa in due. Metà delle isole galleggianti andarono a Betsy; il resto, inclusa metà del capitale di Ben, a May. E Betsy cominciò a darsi da fare con ciò che le era rimasto… ma noi eravamo infine abbastanza soddisfatti. Tornammo a stabilire la residenza sulla prima vecchia isola galleggiante, la mettemmo in tranquilla navigazione nello Stretto di Malacca, e come Dio volle la figlia del commodoro tornò ad essere l’indiscussa regina delle isole vaganti. Tutti erano felici nel vederla di nuovo lì a bordo, con il suo bambino…

E con suo marito. Che non ero io.

La natura aveva fatto di May la più gentile delle fanciulle. Ma per quanto fosse comprensiva non dimenticò l’imbecillità di cui avevo dato prova fraintendendo le sue parole, quando aveva cercato di dirmi che desiderava sposare Jefferson Ormondo.

Загрузка...