Bisogna prendere il toro per le corna
Non è da escludersi che Gea fosse venuta a sapere della parata.
Era assurdo, ovviamente, dar la colpa di tutti i mali del mondo al maligno intervento di Gea, ma la pioggia battente che infradiciò la grande parata lungo tutto il suo passaggio per le vie di Bellinzona rientrava fra quel genere di scherzetti che sarebbero piaciuti a lei. Non che il maltempo avesse raffreddato l'entusiasmo dei cittadini; pareva che tutti gli abitanti di Bellinzona si fossero appostati a un angolo di strada o affacciati a una finestra per assistere alla sfilata delle truppe. Le quali, naturalmente, odiavano l'intera operazione, non diversamente da come tutti i soldati hanno odiato ogni genere di sfilata sin da quando esistono eserciti e guerre. Gli stivali fecero presto ad inzupparsi, e la corazza in cuoio temprato, non ancora domata dal sudore, dall'olio e dall'uso, si trasformò in una sorta di Vergine di Norimberga in formato ridotto.
Ma l'esercito riuscì ugualmente ad arrivare in fondo. Poi fu costretto a sorbirsi la traversata d'un lago Moira particolarmente tempestoso, e un certo numero di soldati, com'era prevedibile, dovette fare i conti col proprio stomaco non meno sconvolto. Sbarcarono sulla sponda occidentale del Moira in un mare di fango, e lì trovarono ad aspettarli un migliaio di voluminosi carri merci, metà dei quali erano già impantanati fino agli assali.
Il Commissariato Militare — un gruppo distaccato di personale non combattente che si era dedicato a raccogliere l'equipaggiamento e addestrare gli autisti sulla strada di Dione — era divenuto esperto nella cura e nel maneggio degli unici animali da tiro esistenti su Gea. Si trattava di bestie chiamate Jeep, originarie di Meti, le quali fino a poco tempo prima non avevano neppure un nome, tranne che in canto titanide. Cirocco ne aveva fatte radunare millecinquecento, che in breve tempo e senza eccessive difficoltà erano state rese avvezze a portare i finimenti. Le Jeep erano pacifici bovini onnivori, plasmati sulla falsariga di quei primigenii antenati dei rinoceronti ampiamente diffusi, in epoche preistoriche, nei tenitori della futura Persia, e provvisti di una mole che li faceva svettare ad un'altezza quasi doppia rispetto ai moderni elefanti. Le Jeep, comunque, non erano affatto così grandi. Avevano artigli da orso, testa di cammello, e zampe anteriori due volte più lunghe di quelle posteriori. Il che conferiva loro un'andatura piuttosto buffa. Divoravano tutto quel che gli capitava a portata di fauci. Con qualche Jeep al giro, lo smaltimento dei rifiuti cessava di essere un problema. Il loro peggior difetto consisteva in una certa tendenza ad inciampare nei propri piedi e a rovesciare i carri al traino. Per contro erano animali puliti, mandavano un odore discretamente gradevole e si affezionavano a chi li trattava bene.
Molti dei loro istruttori avevano imparato ad apprezzarli.
E poi erano capaci di trainare carichi mostruosi su lunghe distanze accontentandosi di un poco d'acqua. In cima alle spalle portavano grandi gobbe flosce, in cui s'immagazzinava grasso in previsione d'eventuali quaresime.
In men che non si dica, le Jeep misero in movimento la colonna.
…e, proprio mentre l'esercito prendeva a inoltrarsi in Giapeto, le nubi rotearono via e incominciò a spirare una brezza tiepida. In breve l'aria divenne tersa e la strada si asciugò. Lo sguardo poteva ora spingersi facilmente fino a Mnemosine. E parve tutto sommato una splendida giornata, per mettersi in viaggio… qualunque cosa si acquattasse ad attenderli alla fine della strada.
Il vento sferzava i vessilli dai vivaci colori inalberati alla testa di ciascuna Legione, Coorte e Compagnia. Gli stendardi recavano numeri o lettere, ma non altri simboli. E in cima al corteo non c'erano bandiere. Le avevano fatto una quantità di pressioni per indurla ad adottare una bandiera rappresentativa di Bellinzona, ma Cirocco aveva resistito ad oltranza. S'era adattata a fare il Sindaco, aveva accettato la necessità di arruolare, addestrare, equipaggiare un esercito e condurlo in battaglia… ma le bandiere, quelle proprio no. Lasciatelo a Gea, il piacere d'innalzare la sua bandiera e di combattere per essa.
La chiara luce di Giapeto traeva corruschi bagliori dalle corazze degli ufficiali. L'aria era colma degli scricchiolii delle ruote di legno, degli schiocchi degli stivali di cuoio, dei caratteristici richiami strombazzanti emessi dalle Jeep, vivaci ed eccitate come non mai.
Le legioni umane marciavano compatte. Fra l'una e l'altra di esse avanzavano contingenti di cinquanta titanidi trainanti i propri carri, che parevano più solidi e meglio costruiti — ed erano senza dubbio molto più belli — dei corrispondenti veicoli umani. I titanidi, quantunque già piuttosto policromi per natura, avevano indossato i loro più ricchi ornamenti, e addobbato i carri e se stessi con ghirlande di fiori sgargianti. Non portavano bandiere. Erano circa un migliaio, suddivisi in gruppi di combattimento, e sarebbe stato arduo stabilire se costituissero una più temibile forza loro oppure i quasi trentamila umani.
A completamento di queste truppe regolari, v'erano esploratori titanidi che precedevano di lontano la colonna tenendosi a una ventina di chilometri su entrambi i lati. Essi sarebbero stati in grado di scoprire qualunque genere d'imboscata. L'unico pericolo, in questo primo giorno, poteva venire dall'aria. Alcuni soldati non facevano altro che scrutare il cielo sereno, augurandosi che tornassero le nubi.
Alla testa delle Coorti marciavano i Maggiori. Ciascuna Legione era guidata da un Colonnello, a piedi anche lui. Tre titanidi di temperamento insolitamente tollerante erano stati convinti a scarrozzare i Generali alla testa delle rispettive Divisioni. Ai titanidi, comunque, la cosa non andava a genio per nulla; conoscevano appena i Generali in questione, e non erano avvezzi a consentire, a qualsivoglia umano che non fosse un caro amico, di star loro a cavalcioni. Badavano quindi a far sì che quella passeggiata risultasse, per i cavalieri, la più disagevole possibile. E i Generali ribollivano di bile. Ma non a causa dei brutali sobbalzi cui li sottoponeva la burrascosa cavalcata — nessuno di loro conosceva infatti la prodigiosa dolcezza dell'incedere titanide — bensì per il
solo fatto che risultava impossibile, stando a cavalcioni di quelle creature, vedere al di là delle loro ampie schiene. Il decoro impediva peraltro agli alti ufficiali di accondiscendere alla funzionale sistemazione che Cirocco aveva scoperto e adottato da tempo immemorabile: cavalcare rivolti all'indietro. La funzione fondamentale di quei destrieri, dopotutto, consisteva nel porre i Generali al disopra dei comuni militi appiedati. Essi sopportavano dunque gli scossoni e la mancanza di visibilità, e si sforzavano di apparire il più dignitosi possibile.
Alla testa della colonna, a diverse centinaia di metri dalla Centounesima Divisione, avanzavano nove individui. Davanti, in groppa a Cornamusa, procedeva Cirocco, nel solito disadorno abbigliamento nero completo di cappello. Dietro di lei, in ordine sparso, venivano Conal su Rocky, Robin su Serpentone… e Nova su Virginale. Valiha andava invece trotterellando priva di cavaliere.
Nessuno di loro aveva molto da dire. C'era in giro un'atmosfera tutt'altro che allegra. Quello sarebbe stato l'unico giorno in cui Conal avrebbe cavalcato insieme all'esercito, quindi Rocky e Serpentone facevano in modo che lui e Robin si trovassero spesso affiancati. Comunque, qualunque cosa avessero da dirsi, evidentemente era già stata detta. Dopo il primo bivacco, Conal si sarebbe diretto agli altipiani settentrionali per prendere il comando dell'aviazione.
Su richiesta di Nova, Virginale si manteneva arretrata rispetto agli altri due. La giovane strega ex burocrate — aveva rassegnato le dimissioni dopo una furibonda lite con Cirocco, ed era stata sostituita con qualcuno della fazione di Trini — non voleva rubare a sua madre, e all'amante di sua madre, neanche un minuto del poco tempo che avrebbero potuto trascorrere insieme. Fra la strega e la titanide si era ormai stabilito un nuovo e più maturo rapporto. Non che Nova fosse ancora perfetta, secondo l'opinione di Virginale, ma comunque stava andando nella giusta direzione. Gliel'aveva detto già diverse volte, ed ogni volta ne avevano riso con maggior gusto. Virginale, dal canto suo, si vergognava del comportamento tenuto verso la ragazza. La severa reprimenda impartitale dalla sua retromadre non appena era venuta a sapere di quella loro scenata, le bruciava ancora.
Di tanto in tanto Nova allungava una mano alla cintura per tastare la sacchettina magica che le pendeva al fianco. Era magnificamente ricamata con l'antico simbolo dello Yin-Yang, e conteneva la polvere antizombi da lei stessa casualmente scoperta, la quale doveva per legge essere portata indosso, ininterrottamente, da ogni cittadino di Bellinzona. Quelle borsette erano ben presto divenute amuleti portafortuna buoni per tutte le occasioni. La sua le era stata regalata da una timida ragazza coreana di nome Li, che con l'inglese aveva ancora un sacco di problemi… ma il linguaggio universale dell'amore lo parlava davvero con grande proprietà. Il loro commiato era stato un vortice di sensualità. Nova non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto ad ignorare, per tanto tempo, una creatura di tale bellezza e sensibilità, la quale aveva lavorato nel suo stesso Ufficio Statistico. Che fosse amore? si chiedeva Nova. Chissà. Ancora troppo presto per dirlo. Ma Li era già qualcuno cui scrivere a casa, qualcuno su cui fare affidamento per trovare, al ritorno, il focolare acceso e le lenzuola di bucato.
E in testa alla colonna, impettita e solitaria, perfettamente consapevole che l'intero esercito poteva vederla stagliarsi laggiù e sentirsi osservato da lei, avanzava Cirocco Jones, tenendo segreti i propri piani.
I Generali l'avevano avvertita che come primo giorno di cammino era troppo lungo, per delle truppe non temprate. Il campo era stato approntato, ben all'interno di Giapeto, un ettoriv prima, con tende che sarebbero state smontate e aggiunte al carico dei carri merci.
Cirocco lo sapeva benissimo che il campo era troppo distante, dal momento che ciò rientrava in un suo preciso intento di ulteriore decimazione.
Condusse quindi le sue truppe in una marcia spietata attraverso il crescente calore e l'immutabile luce di Giapeto. Gli uomini incominciarono a perdere i sensi. Man mano che ciò accadeva, venivano caricati sui carri. Quando finalmente il campo fu raggiunto, gran parte dell'esercito versava in uno stato di completo sfinimento. Anche non pochi ufficiali erano crollati, strada facendo.
— Ecco il programma per i prossimi riv — disse al suo stato maggiore, riunito d'urgenza prima che avesse la possibilità di guadagnare la mensa. — I soldati svenuti, o comunque infortunati a séguito della marcia odierna, rimarranno qui. Costruiranno su quest'area il Campo Ponto, utilizzando materiali disponibili in loco. Conserveranno le proprie armi e il resto dell'equipaggiamento personale, ma i carri verranno con noi. Ponto verrà fortificato, e in esso saranno permanentemente di stanza due delle Coorti di una Legione. Le tre rimanenti Coorti si attesteranno in analoghi ma più piccoli avamposti a nord, a sud e ad est. Il compito di questi distaccamenti consisterà nell'ampliare la sede stradale e mantenerla percorribile, oltre che rallentare con azioni di disturbo l'avanzata del nemico nel caso di un attacco proveniente da Iperione. Saranno al comando del Generale della Terza Divisione con base in Bellinzona. Inviategli un messaggero per informarlo della cosa. E requisite tutti i carri necessari a riportare indietro i malati più gravi, quelli che si son buscati più di un semplice sfinimento. Tutto chiaro?
Nessuno ebbe la forza di mettersi a discutere con lei.
Quattrocentocinquanta chilometri ad occidente, e ad una profondità di cinque chilometri, Nasu strisciò attraverso le tenebre sinché non giunse ad una lunga, angusta galleria che mandava davvero un pessimo odore.
Lei conosceva bene quei luoghi, e li odiava, nel suo freddo e massiccio cervello da rettile. Non avrebbe voluto entrare in quella galleria. Era un luogo di sofferenza. Ne aveva un vago ricordo, sotto Giapeto appena un chiloriv prima, ed altre volte in passato.
La saggiò in un saettar di lingua, e sentì il sapore dell'odio. A quasi un chilometro di distanza, grandi spire della sua parte mediana si contorsero fra l'indecisione e l'impazienza di andare. La sua coda, a dire il vero, incominciò a strisciar via. Ci voleva un po' di tempo, prima che gl'impulsi emanati dalla massa di materia grigia che fungeva da cervello giungessero alle estreme propaggini del corpo, alle quali capitava sempre più spesso di non andare d'accordo con il quartier generale.
L'immenso conflitto corporeo provocò uno zampillar di acidi all'interno della mostruosa cavità digerente, il che già di per sé sarebbe stato abbastanza doloroso, ma la secrezione gastrica diede oltretutto il via a un gigantesco trambusto che le fece rigonfiar qua e là scompostamente i fianchi. Il motivo era semplice: aveva di recente divorato settantotto di quelle torpide, cieche ed elefantiache creature dette Bitorzoloni, diffuse laggiù per le tenebrose profondità e piuttosto restìe a crepare. Ne aveva in corpo, vive, ancora ventisei, e l'acido non piaceva loro più di quanto piacesse a Nasu.
Acido. Iperione. La cosa Robin. Va' in Iperione. Acido. Robin.
Questi concetti fluttuarono attraverso il suo cervello come apparizioni fugaci e sconnesse cento, duecento volte, e alla fine si fissarono di nuovo in un quadro coerente. Doveva andare in Iperione. Là doveva incontrare la Robin caldoprotettiva. Doveva entrare nella galleria, dove c'era l'acido.
Una volta in movimento, Nasu era inarrestabile. Sfrecciò lungo il tunnel come il peggior incubo freudiano della storia.
Incontrò l'acido molto più avanti di quanto si aspettasse. E a quel punto, di fermarsi non se ne parlava neanche. S'immerse di schianto nel liquido e lo solcò tracciandovi una titanica scia. Teneva gli occhi strettamente serrati, ma quando fece la sua precipitosa irruzione nel sancta sanctorum di Crono, indefettibile alleato di Gea, le palpebre semitrasparenti le consentirono ugualmente di guardarsi attorno.
Crono urlò la sua rabbia, la sua umiliazione, la sua pena. Ma ciò non rallentò l'irrefrenabile moto del serpente. Delle tre gallerie che si dipartivano dalla sala, Nasu scelse la più orientale, e v'infilò d'impeto la testa. In quel momento, l'estremità della sua coda si trovava giusto entro il ramo occidentale del tunnel.
Faceva un male del diavolo. Era in questo modo che s'era ridotta a divenire tutta bianca. Presto avrebbe di nuovo mutato pelle, e la situazione sarebbe migliorata, ma solo un po'. Anche le palpebre venivano erose dall'acido. Avrebbero finito per ricrescere, ma il dolore sarebbe stato intenso.
E laggiù in fondo, naturalmente, la parte del suo corpo ancora immersa continuava a gridare la propria sofferenza, ma i segnali erano lenti ad arrivare. S'inoltrò con immutato slancio nella cavernosa oscurità del labirintico Crono orientale, e continuò a procedere finché non ebbe la certezza d'essere del tutto fuori dalla zona protetta. Prese quindi a contorcersi convulsamente, mandando immense spire del proprio corpo ad urtare con violenza contro le rocce. I ventisei Bitorzoloni superstiti passarono velocemente a miglior vita. Chi si fosse in quel momento trovato, sul bordo interno di Gea, a traversare la verticale di un tal sotterraneo sconvolgimento, avrebbe potuto sentire la terra tremare.
Ma il patimento l'accompagnò ancora a lungo. Nasu si raggomitolò in una stretta sfera con la testa da qualche parte vicino al centro, e attese la guarigione.
Solo un'altra volta ancora, pensò.
Crono era incazzato come una iena. Quand'uno è signore e padrone di un territorio esteso per centomila chilometri quadrati — senza contare le innumerevoli caverne disseminate nel sottosuolo, nonché lo spazio aereo sovrastante — e riceve forse una visita ogni dieci miriariv, e persino quella con scarsissimo entusiasmò… be', come fa uno a non seccarsi quando un strafottuto rettile da incubo gli fa irruzione dentro casa che pare un direttissimo coi freni rotti e il guidatore sbronzo?… Ciò non faceva altro che confermare le sue più amare constatazioni. Quella stramaledetta ruota stava andando a ramengo. Non funzionava più nulla. E tutti se ne approfittavano.
Egli si era mantenuto fedele a Gea per millenni… ma che dico, per eoni! Quand'era venuto fuori tutto quel casino con Oceano, chi aveva sostenuto Gea al mille per cento? Crono, ecco chi. E quando il polverone s'era posato e il vecchio Giapeto, rimpiattato nel suo covo, sfregandosi un paio d'inesistenti mani simile a una spia comunista da fumetto s'era messo a sussurrargli all'orecchio paroline dolci ed insinuanti, l'aveva forse ascoltato, lui? Assolutamente no. Crono era in diretta comunicazione col cielo, e Gea dominava dal suo trono, e tutto andava per il meglio, dentro la Grande Ruota.
E quando quella schizofrenica di Mnemosine aveva dato in escandescenze e poi era venuta per così dire a frignargli sulle ginocchia, oooh diodiodio, perché quel pidocchioso vermaccio delle sabbie gli stava mandando in maravalle tutte le sue fetenti foreste, aveva fors'egli smarrito la sua fede in Gea? Neanche per sogno.
E anche quando la Grandèa gli aveva appioppato quella scellerata cagna fellona d'una Cirocco Jones dicendogli che da quel momento era la Maga e che lui doveva essere carino con lei, aveva forse fatto storie? No di certo, non il buon vecchio Crono. Ma gli era stato proprio bene quando la fedifraga Jones…
Si ritrasse all'istante da siffatta meditazione. Gea era bensì malandata, chiunque indubitabilmente se ne avvedeva, ma certi pensieri era meglio lasciarli inespressi. Non si può mai sapere chi può starti ad ascoltare…
Comunque stavolta era troppo. Troppo perdavvero.
E non c'è neanche da dire che non se ne fosse avveduto per tempo. Tant'è vero che aveva fatto istanza già da undici miriariv! Uno virgola cinque megalitri di acido cloridrico al novantanove per cento, ecco tutto quel che gli serviva per mantenere colmo il suo serbatoio. C'è questa cosa, le aveva detto. Tipo serpente, ma spaventosamente grosso. Non è roba mia. Magari è roba tua. Però scorrazza da queste parti, ed è passato qui dentro da me già due volte, e quel fottutone diventa ogni volta più grosso. E non solo, ma il livello cronicamente basso dell'acido sta provocando l'essiccamento delle mie sinapsi superiori. E mi fa stare continuamente male…
Ma lei non gli aveva creduto. Roba mia nemmeno, gli aveva replicato. Lascia correre. E Giapeto, che ti sgraffigna il tuo HC1, e io non posso farci un cavolo di nulla. Quindi sta' zitto e lasciami tornare ai miei film.
E va bene.
Stavolta, però, era maledettamente deciso a fare rapporto. Chiamò dunque Gea. Ma si ritrovò in linea, come sempre più spesso accadeva, con la sua nuova assistente. La loro conversazione non si svolse a parole, ma a volerne trasporre almeno in parte il gusto peculiare si potrebbe far ricorso alla seguente trascrizione:
— Pronto? Qui Cinematografica Geana.
— Vorrei parlare con Gea, per favore.
— Dolente, ma Gea è agli Studi.
— D'accordo, allora mi metta in linea con Pandemonio. È importante.
— Chi devo annunziare, signore?
— Crono.
— Pardon? Come si scrive?
— Crono, dannazione! Il Sovrano della regione di Gea — un dodicesimo esatto, per inciso, della complessiva area territoriale estesa lungo il bordo — nota appunto come Crono.
— Oh, sì, ovviamente. Allora si scrive Ci, Acca, Erre, O…
— Crono! Crono! Mi faccia parlare immediatamente con Gea!
— Spiacente, signore, ma Gea è in sala proiezione. Spartacus, se non erro. Dovrebbe proprio vederlo, sa? Uno dei migliori film epici d'ambientazione romana che mai siano…
— Vorrebbe limitarsi a passare la comunicazione?
— Impossibile. Ascolti, se mi lascia il suo numero la farò richiamare quanto prima.
— Ma si tratta di un'emergenza! Gea dev'essere informata senza indugio, perché quell'affare si stava guardacaso dirigendo giustappunto dalla parte di Pandemonio. …E poi lei deve avercelo già, il mio numero.
— …ah, sì, eccolo qui. Era scivolato dietro… dunque, vediamo, è ancora il…
— L'avverto che riferirò a Gea l'intera conversazione.
— Faccia un po' come le pare.
Clic.
Più tardi, Crono ritentò. Beccò di nuovo quella saccente d'una segretaria, la quale gli disse che Gea era in riunione coi direttori di produzione, e non la si poteva assolutamente disturbare.
Benissimo. Che andasse a farsi fottere, allora.
Da quando si trovava "ospite" a Tara, per diverso tempo Chris non era riuscito a procurarsi una bottiglia di birra degna di questo nome. Ce n'era, sì, un certo tipo disponibile agli spacci per chi poteva dimostrare di avere terminato il proprio turno di lavoro, ma era roba piuttosto mediocre, e a Chris non andava giù.
Adesso, invece, nei frigoriferi di Tara non mancava mai birra di ottima qualità. Faceva caldo. Adam non pareva nemmeno accorgersene, e a Chris non è che desse poi un gran fastidio, ma una o due birre fresche erano proprio quel che ci voleva, dopo un'interminabile giornata trascorsa a cercare di distogliere l'attenzione di Adam dagli onnipresenti televisori senza peraltro dar troppo nell'occhio.
Sì, due o tre birre erano proprio quel che gli ci voleva.
Era difficile non riconoscere che tutti quei giochi li inventava più che altro per impedire al Bambino di seguire i programmi televisivi. Se non ci fosse stata la TV, avrebbe ugualmente trascorso molte ore in compagnia di Adam… ma sarebbe anche stato ben disposto a lasciarlo giocare da solo un po' più spesso. Così come stavano le cose, invece, aveva persino paura di passare troppo tempo insieme a suo figlio. Stava diventando sempre più difficile catturare il suo interesse. Adam si stancava spesso sia dei giochi sia dei giocattoli. E ogni tanto, quand'era giù di corda più del solito, Chris aveva l'impressione che Adam accettasse la sua compagnia solo per far piacere a lui.
Pensieri proprio da paranoico, caro Chris. Vedrai che tre o quattro birre ti faranno passare l'umor nero.
Ma la cosa peggiore, il fatto più spaventoso…
A volte gli capitava di fermarsi appena in tempo prima di prenderlo a schiaffi, quel marmocchio.
Trascorreva praticamente ogni ora di veglia accanto al Bambino, e faceva tutto il possibile per partecipare attivamente a ogni momento della sua giornata. Ma un essere umano adulto può tollerare solo una dose limitata d'interessi infantili, di linguaggio infantile, di giochi infantili, di sciocche risatine infantili… Chris aveva una grande capacità di sopportazione, però c'è un limite a tutto. Spasimava dalla voglia di una compagnia intelligente… no, no, no: non era quello il termine giusto, non era quello per niente. Bruciava dalla voglia di una compagnia adulta. Ecco.
Di conseguenza, quando Adam era addormentato e lui si sentiva così tremendamente solo, quattro o cinque birre erano il toccasana per recare sollievo ai suoi nervi scossi.
Aveva bisogno di vedersi, di sentirsi attorno persone adulte. E tutto quello che incontrava era un vispo, intelligente, delizioso frugoletto di due anni… e Amparo, e Sushi. C'erano donne di servizio che andavano e venivano cambiando continuamente, e non rivolgevano mai a Chris neanche una parola. Probabilmente avevano avuto ordine da Gea di trattarlo come una specie di uomo invisibile. Solo Amparo e Sushi erano fisse. Avevano tutt'e due fatto da balia al piccino nei primi tempi dopo il suo arrivo a Tara. Amparo dava l'idea di essere una donna sveglia, tuttavia non conosceva l'inglese e non le interessava minimamente apprenderlo. Chris era riuscito a mettere insieme, riesumandolo dalla memoria, quel po' di traballante spagnolo che gli bastava a comunicare con lei, ma insomma rimaneva una questione piuttosto penosa.
Quanto a Sushi…
Chissà come si chiamava, in realtà. Comunque era un'idiota. Poteva essere anche stata un supergenio, prima di sbarcare su Gea, ma purtroppo la padrona di casa aveva pensato bene di giocarle uno dei suoi scherzi di cattivo gusto. E lei ne portava il marchio in fronte: un gonfiore sottopelle, in foggia di croce rovesciata. Quando Chris aveva finalmente capito che la mente di Sushi era davvero vuota come il suo sguardo, un giorno le aveva toccato quel rigonfiamento, ed era rimasto sbalordito nel vederla cadere a terra e torcersi scompostamente come fosse in preda agli spasimi di un accesso convulsivo. Dopo più attento esame — e qualche imbarazzato esperimento compiuto vincendo la ripugnanza — era giunto alla conclusione che non si trattava di normali convulsioni, bensì della risposta all'applicazione di un principio vecchio come il mondo. Il principio del piacere. Gea aveva inserito nel cranio di Sushi un qualcosa di simile a Spione, collegandolo, appunto, ai centri nervosi del piacere. E Sushi avrebbe fatto qualunque cosa, pur di procurarsi una di quelle scosse. A maneggiarsi da sola non ne ricavava nulla. Bisognava che lo facesse qualcun altro. Pareva averne bisogno almeno tre volte al giorno. Se non riusciva a farsi toccare da Chris, allora andava a strofinarsi gattoni addosso all'ignaro Adam, il quale trovava assai divertente vedere Sushi contorcersi sul pavimento e gemere e masturbarsi.
Chris era quindi costretto, nel corso di ciascun periodo di veglia, a soddisfare Sushi diverse volte.
Meno male che dopo, almeno, poteva scolarsi cinque o sei birre, per mandare giù la nausea.
La chiamavano Sushi per una ragione semplicissima. Si nutriva esclusivamente di pesce crudo. Non le importava nemmeno che fosse fresco. Alle squame non ci faceva caso, e anche le teste non le davano alcun fastidio.
Aveva un alito orribile.
A Chris occorse un po' per afferrare il nesso. Il fatto di mangiare solo pesce, in effetti, era frutto di un riflesso condizionato. Pàppati un pesce, e goditi una scossa. E, naturalmente, non c'era voluto molto per indurla a non mangiare altro.
Ormai i programmi TV erano interattivi al cinquanta per cento. E adesso anche Chris vi faceva la sua apparizione, sebbene non avesse mai avuto l'onore di trovarsi davanti alle cineprese di Gea. All'inizio, non diversamente da molti altri aspetti di Tara, era parsa una trovata innocua. S'era visto la prima volta in un film di Gianni e Pinotto, nei panni di quest'ultimo. L'accorta regìa aveva apportato al personaggio pochi ma azzeccati cambiamenti, cosicché, pur basso e tarchiato, era possibile riconoscervi Chris senza esitazione. La voce, ad esempio, risultava un'efficace via di mezzo fra quella di entrambi. Adam ci si era divertito un mondo, e anche Chris, di tanto in tanto, non aveva potuto fare a meno di lasciarsi sfuggire un sorriso. Pinotto era indiscutibilmente un somaraccio, ma con una grossa dose di simpatia. Avrebbe potuto andare peggio.
E infatti peggiorò.
Dopo Abbott e Costello vennero Laurei e Hardy. Gea era Ollio, e Chris faceva Stanlio. Chris esaminò i film con attenzione, soppesando i pro e i contro. I due comici, nonostante tutto, apparivano evidentemente amici per la pelle. E questo gli diede qualche preoccupazione. Stanlio faceva a prima vista la figura di un imbecille, ma si trattava, in realtà, di un personaggio decisamente più complesso. Quanto a Ollio era uno sbruffone, gli capitavano ogni sorta d'incidenti grotteschi ed umilianti… ma era la sua personalità, in fin dei conti, a risultare dominante. Gea ne stava macchinando senza dubbio una delle sue.
Successivamente, Chris cominciò ad apparire in alcuni ruoli alquanto discutibili. Non nei panni del cattivo puro e semplice, bensì di personaggi in qualche modo più ambigui e vagamente repellenti. Una di quelle interpretazioni, presente in un film di cui non riuscì poi a rammentare il titolo, lo mostrava nell'atto di percuotere Gea. Egli si accorse che il Bambino ne rimaneva turbato, anche se non fece alcun commento. Adam si mostrava già capace di tracciare un confine tra realtà e fantasia… ma per lui rimaneva ancora una separazione un po' confusa. Gea era quella meravigliosa, divertente, grande grande, benevola signora che si avvicinava a una finestra al terzo piano di Tara e gli porgeva bellissimi giocattoli. Perché mai Chris avrebbe dovuto picchiarla? Non gl'importava nulla della trama, né del fatto che Chris, un nanerottolo di appena due metri e dieci, come avversario faceva ridere, di fronte a quella Marilyn di quindici metri.
Ormai Chris era sicuro che alla lunga avrebbe vinto Gea. Incarico stupendo e gratificante, come no, che l'avessero adibito a coscienza di Adam, ma la voce della televisione era sempre stata più forte di quella della coscienza di un bambino… la quale fra l'altro nemmeno esisteva, finché qualcuno non si prendeva la briga di coltivarla. Le probabilità giocavano tutte a suo sfavore.
Era passato un anno. Cirocco gli aveva detto che ce ne sarebbero potuti volere anche due, prima del suo ritorno.
E Chris era quasi certo che allora sarebbe stato troppo tardi.
L'avrebbe rallegrato notevolmente, sapere che Cirocco ed il suo esercito erano già in marcia verso Iperione. Ma Gea non aveva ritenuto opportuno rivelarglielo, ed egli non aveva altro modo di esserne informato. Certo, un indizio gli sarebbe potuto anche venire dalla TV locale. Adam dormiva, e Chris se ne stava stravaccato davanti a un apparecchio. Programmavano il Napoleone del 1995 in versione inalterata, e sullo schermo si vedevano immensi eserciti marciare verso Waterloo.
Ma, a quel punto, Chris era ormai troppo ubriaco per farci caso.
Il secondo giorno di marcia registrò ancora più svenimenti del primo, sebbene il tragitto fosse più breve.
Cirocco aveva previsto anche questo. A molti, evidentemente, era parsa una facile scorciatoia per il congedo anticipato. I medici ebbero quindi ordine di esaminare ciascun caso con grande attenzione, e di rimandare a casa solo i pazienti davvero meritevoli di cure. Ne risultarono sedici. Tutti gli altri, quando fu levato il campo, dovettero rimettersi lo zaino in spalla e continuare la loro marcia attraverso Giapeto.
Varcarono i due piccoli, anonimi fiumi che nascendo dai Monti Tiche scorrevano verso sud per andare a gettarsi nel gran mare di Ponto, perla di Giapeto. Le strutture di collegamento fra le opposte rive risultarono in buone condizioni. Il terreno non presentava difficoltà. Cirocco era certa che Giapeto, nemico di Gea, non avrebbe in alcun modo ostacolato il loro passaggio attraverso i suoi tenitori. I problemi sarebbero cominciati entrando in Crono.
Per diversi "giorni" l'esercito continuò ad accamparsi lungo le rive del ridente mare. Il tempo si manteneva caldo e sereno. Man mano che i soldati andavano abituandosi al ritmo di marcia, Cirocco fece gradualmente allungare il passo. Ma senza forzare troppo. Li voleva temprati, non esausti, quando fossero giunti al dunque.
Alla confluenza del Plutone con l'Ofione, nelle vicinanze dei confini di Crono, Cirocco ordinò ai suoi Generali di procedere ad una cernita nell'ambito della guarnigione situata sull'estrema linea di difesa occidentale. Ma stavolta non le interessavano i più deboli, tutt'altro. Voleva i veterani, gli uomini e le donne più decisi e resistenti. Avrebbero dovuto impiantare una postazione fortificata subito ad ovest del guado sul Plutone e a nord dell'Ofione. Per l'attraversamento del grande fiume si sarebbero serviti di canoe titanidi. Li aspettava inoltre un servizio di pattugliamento in direzione nord e sud, da compiere rapidamente, con equipaggiamento leggero. La loro posizione non sarebbe stata certo difendibile a oltranza contro un assalto risoluto, ma non era questo lo scopo dell'insediamento. Confidava infatti che in caso di attacco quelle truppe sarebbero state in grado d'inviare messaggeri a Bellinzona, ritardando nel contempo gli aggressori con azioni di guerriglia onde dar modo alla città di organizzarsi per resistere all'offensiva.
Questo genere di operazioni la deprimeva. Quasi tutto quel che aveva fatto finora in Giapeto consisteva in preparativi in vista di una sconfitta. E poi, se all'Aviazione di Bellinzona fosse avanzato anche un solo aereo, questo avamposto, coi suoi veloci messaggeri, si sarebbe rivelato superfluo. Persino la Libellula più lenta poteva volare di qui a Bellinzona in venti minuti e dare l'allarme.
Ma l'Aviazione avrebbe potuto anche non farcela a traversare Crono.
E naturalmente, se fosse stato il suo esercito ad uscire vittorioso dall'imminente conflitto, da Iperione non sarebbero giunti contingenti nemici, bensì i suoi stessi soldati, insieme a profughi e prigionieri di guerra provenienti da Pandemonio.
Ma era suo dovere dedicare alla città ogni immaginabile precauzione. In fondo l'aveva pur costretta, con le buone e con le cattive, con la schiettezza e col raggiro, non certo a buttare semplicemente allo sbaraglio una manciata di fanti scalcagnati, bensì a concretizzare una sostanziosa forza combattente devota alla causa e determinata nelle sue motivazioni.
Cirocco sapeva che, al momento opportuno, queste truppe avrebbero combattuto.
La Circum-Gea aveva traversato l'Ofione in un punto situato proprio sull'invisibile confine fra Giapeto e Crono.
Ai tempi in cui Gaby era impegnata nella costruzione della strada, i ponti sull'Ofione avevano rappresentato le imprese più ardue. Nelle regioni pianeggianti il fiume si distendeva assai ampio e piuttosto profondo, mentre i luoghi in cui il suo corso si faceva precipitoso giacevano immancabilmente nel cuore d'impervie montagne. Di conseguenza, Gaby aveva cercato di ridurre al minimo tali attraversamenti.
Di alcuni, però, non s'era potuto fare a meno. Come ad esempio in questo caso. Non esisteva alcun itinerario davvero agevole, attraverso Crono, ma il percorso settentrionale risultava comunque cinque volte più arduo di quello meridionale. Si era dunque resa indispensabile la realizzazione di un grande ponte.
Gl'ingegneri di Cirocco, che avevano perlustrato il tragitto fino a Mnemosine ed eseguito ogni possibile riparazione al tracciato stradale ed ai ponti sia sul territorio di Giapeto sia, in minor misura, su quello di Crono, avevano riferito che per il ponte sull'Ofione non c'era nulla da fare. L'intera campata sud era crollata. Le squadre di Gaby, quasi settant'anni prima, avevano dovuto sudare cinque anni per costruirlo. Non esisteva alcun modo di ripararlo in tempo per la marcia su Pandemonio.
L'esercito si accampò dunque sulla riva settentrionale, e diede il via alla costruzione di centinaia di zattere. Si trattava di un lavoro lento e difficoltoso, stante la circostanza che in quella zona di Crono crescevano pochi alberi grandi a sufficienza per fornire il legname necessario.
Mentre l'operazione procedeva, Cirocco e i suoi Generali scrutavano il cielo con ansia. Si attendevano un attacco in Crono o in Iperione: forse in entrambe le regioni, se la prima battaglia non fosse risultata decisiva. E l'esercito, diviso dal corso del grande fiume e sparpagliato su vulnerabilissime chiatte, sarebbe risultato un bersaglio ideale, durante l'attraversamento dell'Ofione.
Cirocco aveva illustrato il proprio ragionamento a Conal, ai suoi piloti e ai Generali, poco prima che avessero inizio le operazioni. Ricorrendo all'analogia col quadrante di un orologio, aveva tracciato una mappa delle dodici regioni di Gea disponendole in un grande cerchio con origine in Crio, ad ore dodici.
— In questo modo troviamo Iperione, il nostro obiettivo, qui, a ore due — aveva spiegato, scrivendo il nome sul foglio. — Sul cavo centrale d'Iperione ha base la Seconda Aerobrigata Cacciabombardieri dell'Aviazione Geana. Proprio accanto, a ore tre, si trova Oceano. Non esiste una Terza Aerobrigata: Gea non detiene alcun controllo su Oceano. — E aveva vergato una grande X accanto al nome Oceano. — La Quarta, con base in Mnemosine, fu spazzata via da un'esplosione poco più di un anno fa. Secondo i miei informatori, non è mai stata rimpiazzata. — E giù un'altra X. — La Sesta, proveniente da Giapeto e responsabile dell'incursione su Bellinzona, l'abbiamo distrutta noi. Non c'è una Settima, in Dione, per lo stesso motivo attribuibile a Oceano. La successiva unità operativa la troviamo qui, in Meti, ed è l'Ottava. — Tracciate le ultime due X, aveva fatto un passo indietro per ammirare l'opera.
— Come potete constatare, Crono viene a situarsi nel bel mezzo di un'ampia smagliatura nella rete delle forze aeree geane. Da Meti, ad ore otto, giro giro fino ad Iperione, ad ore due, troviamo invece ben sette squadriglie di bombardieri in pieno assetto di combattimento. Meti è sotto stretta osservazione. Nel caso che un attacco dovesse originarsi di lì, ne otterremmo via radio congruo preavviso. Lo stesso dicasi per Iperione. Ma se ci piombasse addosso la Quinta mentre siamo in Crono, il periodo di preallarme sarebbe estremamente breve. Ho cercato di elaborare la previsione d'un paio di possibili piani d'intervento nemici. Supponiamo che l'attacco muova dall'Ottava con base in Meti. Gli ci vuole un certo tempo, per giungere qui, e noi abbiamo così modo di prepararci. La tattica più logica da parte di Gea, ritengo, dovrebbe dunque consistere nell'inviare innanzitutto la squadriglia di Crono per coglierci di sorpresa ed immobilizzarci. Al tempo stesso decollerebbe l'Ottava, o la Seconda, o magari partirebbero entrambe, giungendoci addosso al momento giusto per dare man forte alla Quinta. Seconda ipotesi: Gea ci lascia attraversare Crono indisturbati. Sinceramente preferirei essere piuttosto attaccata qui. Perché se Gea aspetta finché non siamo giunti in Iperione, a quel punto può fare intervenire tutte le squadriglie… Febe, Crio, Rea, Iperione, Crono, forse persino Teti… pressoché simultaneamente, e con preavviso, per noi, ridottissimo o nullo.
Avevano tutti gravemente, attentamente sottoposto al vaglio della propria riflessione il grande orologio geano disegnato da Cirocco. Erano state avanzate non poche proposte, alcune delle quali provviste di una certa validità. V'era stato consenso sul fatto che la scelta più accorta, per Gea, avrebbe dovuto basarsi sull'attesa del loro arrivo in Iperione, immediatamente accolto da uno schiacciante intervento in forze.
Cirocco si era dichiarata d'accordo… malinconicamente meditando che, con ogni probabilità, Gea avrebbe fatto esattamente il contrario. Al di là d'ogni logica, ciò che Cirocco paventava era proprio un attacco nel cuore dell'ostile notte di Crono.
Il Luftmörder di Teti non aveva la minima idea di rappresentare il caposquadriglia della Decima Aerobrigata Cacciabombardieri dell'Aviazione Militare Geana. Non si trattava, infatti, di una designazione attribuitagli da Gea. Egli sapeva unicamente di essere il comandante della squadriglia. Era, inoltre, vagamente consapevole dell'esistenza di altre squadriglie, ma ciò lo lasciava del tutto indifferente. Conosceva perfettamente modalità e fini della propria missione, e non aveva da spartire proprio nulla, con gli altri Luftmörder. Tale possibilità esulava totalmente dal suo orizzonte. Era lui, il caposquadriglia.
Aveva ricevuto una serie di Ordini. Essi implicavano la necessità di effettuare rifornimento presso basi al comando di altri Luftmörder. Tale concetto gli risultava sgradevole, ma gli Ordini erano Ordini.
Sapeva dell'esistenza di un esercito, attualmente in marcia attraverso Crono.
Sapeva che, ad un certo punto, gli sarebbe giunto Ordine di attaccare quell'esercito.
Sapeva che nel cielo volavano nemici. Ciò non gli causava alcun timore.
L'intera situazione gli donava un vivo senso di appagamento.
In pratica, l'unica fastidiosa macchiolina nell'altrimenti perfetto quadro della sua esistenza era costituita dagli angeli che avevano ultimamente preso a frequentare la zona.
Giungevano a volare assai vicino, cinguettando bizzarramente. Ce n'erano di verdi e di rossi. Egli nutriva per costoro un sovrano disprezzo. I loro corpi mollicci avrebbero rappresentato spassosi bersagli, per i suoi cavedani e per i suoi crotali… ma non v'erano Ordini in tal senso. Egli disdegnava gli angeli. Così insignificante appariva, la loro potenza. Talmente inefficienti risultavano, come macchine volanti.
S'erano dati a costruire nidi che, analogamente alla sua stessa collocazione, pendevano dal cavo. Ne aveva tre proprio sotto di sé, grandi strutture rigonfie che parevano fatte di fango e paglia. Li considerava sgradevoli, a vedersi.
Quattro, ce n'erano stati. Aveva sganciato un cavedano contr'uno di essi, per saggiarne la resistenza. S'era sfrantumato come un palloncino in cartariso. Le piume verdi e rosse che se n'erano sparpagliate nel vento tutt'intorno, e le rauche strida terrorizzate dei superstiti, l'avevano divertito.
Si era, tuttavia, astenuto da altri tiri.
Attendeva l'inizio della sua missione.
Conal avrebbe voluto guidare un'incursione contro la base di stanza in Crono. Aveva portato, a sostegno di tale proposta, dettagliate e convincenti argomentazioni, finché a Cirocco non era rimasto altro da fare che metterlo a parte del suo piano segretissimo, davvero un progetto o la va o la spacca. Non sarebbe stato altrimenti possibile convincerlo a rimanersene buono mentre Robin — senza dimenticare tutti gli altri amici suoi, naturalmente — arrancava inerme sotto l'orrenda minaccia di quei mostri assetati di sangue appollaiati sul loro abominevole cavo.
Quand'ebbe ascoltato il piano si dichiarò, pur con molte esitazioni, d'accordo. Robin sarebbe stata comunque in pericolo, ma purtroppo non c'era modo di mettersi al coperto da ogni rischio.
— Bisogna per forza agire così, Conal — aveva ribadito Cirocco. — Temo che un attacco portato alla base di Crono farebbe affluire rinforzi da tutta la ruota, impedendoci un'azione di sorpresa. Un loro intervento massiccio potrebbe spazzar via te e i tuoi piloti, dopo di che noi rimarremmo completamente esposti alle loro incursioni per tutto il tragitto verso Iperione.
Quindi Conal se ne stava ora in meditabonda attesa dentro la sua base, ben occultata sugli altipiani settentrionali di Giapeto. Le ore si trascinavano con lentezza esasperante. Non gli riusciva di prendere sonno. Non si allontanava mai oltre duecento metri dal suo aereo, rifornito di tutto punto e sempre pronto alla partenza.
Gli altri piloti giocavano a carte, si raccontavano barzellette, cercavano comunque di passare il tempo in qualche modo. Si trattava in prevalenza di uomini e donne che avevano già pilotato velivoli militari sulla Terra. Conal non aveva granché in comune, con loro. Gente istruita, per lo più. Lo guardavano dall'alto in basso, risentiti del fatto che Cirocco avesse piazzato lui, al comando… ma ciò non impediva loro di ammirare la sua straordinaria abilità aviatoria. Un talento naturale, dicevano. Il che era vero. Ma il motivo essenziale che li induceva a prestargli ascolto, era che lui aveva collezionato più ore di volo, su Gea, di tutti quanti loro messi insieme. Era lui, che conosceva a menadito le particolari condizioni ambientali di Gea; era lui che sapeva perfettamente fin dove potesse spingersi la resistenza dei tenaci, piccoli aeroplani, in situazioni di alta pressione e bassa gravità; era lui che comprendeva appieno le tempeste di Coriolis, la cui complessa dinamica lasciava tanto interdetti gran parte degli altri piloti.
Quindi lo sopportavano, e imparavano da lui.
Ogni ora di veglia, Conal la trascorreva incollato al ricetrans.
La base manteneva un rigoroso silenzio radio. Si sperava che Gea ne ignorasse l'ubicazione, e si sospettava che le bombe volanti fossero in grado d'intercettare le trasmissioni elettromagnetiche. Ci si limitava dunque ad ascoltare gli osservatori avanzati presenti in Meti, e le concise comunicazioni provenienti dall'esercito in marcia.
E, alla fine, l'allarme arrivò.
— Banditi ad ore otto — annunciò la radio. — …sei, sette… ecco l'ottavo, nove… e con Capoccione fanno dieci.
Gli equipaggi decollarono con fulminea rapidità. Conal era già in volo ancor prima che giungesse il resto del messaggio.
— Scendono dritti verso terra. Non li vedo più. Stazione uno chiude. Avanti stazioni due e tre.
La stazione uno trasmetteva dagli altipiani meridionali di Meti. Disponeva del più potente telescopio di tutta Gea — requisito, al pari di numerosi altri aggeggi tecnologicamente avanzati, negl'incredibili scantinati di Chris — e lo teneva costantemente puntato sul cavo centrale di Meti.
La due e la tre erano situate ad ovest e ad est del cavo. Qualunque rotta avesse preso l'Ottava, Conal l'avrebbe presto saputo. Si aspettava che volgesse ad est, verso Bellinzona e l'esercito. Ma era sempre possibile che si trattasse di un trucco o di una manovra diversiva.
Di una cosa, comunque, era piuttosto sicuro. La Quinta Aerobrigata stava scendendo in direzione di Crono, e non aveva da fare molta strada.
— Rapporto da stazione tre. Tutti e dieci i banditi in vista. Diretti ad… est, limitatamente alla portata del nostro radar.
Appena scattato l'allarme erano decollate tre squadriglie di cinque unità ciascuna. Conal preferiva non pensare a quanto pochi fossero gli aerei di riserva.
— Qui Grancàn — disse Conal. — Caposquadriglia tre, dirigere ad est ed eseguire piano tre.
— Roger, Grancàn.
— E buona fortuna.
— Roger — giunse laconica la risposta. Conal sapeva che ne avrebbero avuto bisogno. L'Ottava avrebbe senza dubbio continuato in direzione est il più a lungo possibile, prima di rivelare la sua meta finale virando nettamente a sinistra per Bellinzona oppure proseguendo verso Crono e l'esercito. Comunque andasse, sarebbe stata intercettata ed impegnata dalla Terza Squadriglia, in svantaggio numerico per uno a due.
Guardò i cinque aerei staccarsi dalla formazione, con precisione ed eleganza degne di un'esibizione acrobatica. Ma purtroppo si trattava di ben altro.
Stavano volando verso sud. Ora diede ordine di virare ad est. Le Squadriglie uno e due si sarebbero prima separate, per poi convergere sull'esercito da nord e da sud.
Proprio mentre stavano completando la manovra, gli giunse via radio il messaggio che attendeva con timore.
— Qui Roccaforte. Stiamo subendo un attacco aereo. Assenza di truppe terrestri. Si ritiene che gli attaccanti siano la Quinta di Crono, ma impossibile conferma per ora. — Si udì il frastuono di un'esplosione. — Forza ragazzi, movetevi! Qui ci stanno facendo a brandelli!
Al primo allarme della stazione uno, l'esercito mise in moto il suo piano difensivo, per modesto che fosse.
Varcato l'Ofione si erano spinti all'interno di Crono, attraverso un territorio leggermente ondulato che li lasciava spaventosamente esposti dall'aria. Stavano adesso inoltrandosi in un'angusta lingua di terreno erboso, che si andava gradualmente assottigliando sinché non sarebbe stata infine obliterata dalla concomitante presenza a meridione della giungla, e a settentrione del mare di Vesta.
Non possedevano alcuna reale capacità offensiva. Non esisteva nulla, nel loro arsenale, con cui potessero minimamente sperare di colpire una bomba volante. Erano stati fatti alcuni tentativi per convertire l'armamento aereo rendendolo utilizzabile anche da terra… con risultati a dir poco disastrosi. Cirocco aveva ordinato di lasciar perdere, ben consapevole di avere già sprecato fin troppe delle ridotte scorte dell'Aviazione in quella narcisistica bravata su Pandemonio. Ora l'avrebbe scontata, e il suo esercito insieme a lei.
Bellinzona aveva di recente iniziato la produzione di polvere da sparo e nitroglicerina. La polvere, sotto forma di grandi razzi, era andata all'esercito, ma quasi tutta la nitro, in versione dinamite, era stata dirottata verso uno scopo che Cirocco aveva tenuto rigorosamente segreto, facendo montare su tutte le furie i suoi Generali. Ma anche se costoro avessero potuto disporre di quella dinamite, non gli sarebbe servita a granché per contrastare un attacco aereo. I razzi, pur muniti di testata esplosiva, sarebbero serviti più che altro da diversivo… nella speranza che cavedani e crotali li individuassero come fonti di luce e calore e se ne facessero attrarre.
I cosiddetti falò erano stati approntati in ossequio al medesimo concetto. Parecchie dozzine di carri non contenevano altro che legname asciutto e cherosene. All'annuncio dell'attacco, tali carri vennero allontanati anteriormente, posteriormente, e sui due lati della colonna, fin dove si riuscì a farli arrivare prima che fosse avvistata la squadriglia nemica, e poi gli venne dato fuoco. Si confidava che, nelle tenebre fitte della notte di Crono, quelle vive concentrazioni luminose avrebbero indotto gli attaccanti ad erroneamente valutare le reali dimensioni dell'esercito, fornendo loro, nel contempo, bersagli facili ed assolutamente sacrificabili.
Il nucleo principale dell'esercito spense tutte le luci e si sparpagliò, ed ogni soldato si mise di lena al lavoro col suo personale Attrezzo da Trincea. … volgarmente detto pala o badile: qualcosa che dalle tecnologie avanzate non aveva ricevuto sostanziali migliorie. Un fante delle Argonne l'avrebbe saputo usare all'istante. Il terreno era coriaceo, ma è davvero straordinario con quanta rapidità uno sia capace di scavare quando incomincia a sentirsi piovere addosso le bombe.
Cirocco si ritrovò nell'atto di compiere un gesto che sorprese lei per prima. Mentre i puntolini biancazzurri che erano le belve della Quinta Aerobrigata Cacciabombardieri si davano a sorvolare in cerchio il suo esercito, prendendo posizione per compiere le loro micidiali incursioni, Cirocco tornò di corsa sui propri passi lungo la strada, gridando e agitando la spada.
— State giù! Mettetevi al coperto! State giù, state giù! Fra poco arriva la nostra aviazione! Tenete giù quelle testacce maledette!
Vide il primo, mortale fiore color arancio sbocciare davanti a sé, da un lato, ancora piuttosto lontano, poi venne d'improvviso abbrancata per un braccio, sollevata di peso e scaraventata sull'ampia groppa di Cornamusa. Vi si posò in piedi, e subito afferrò il titanide per le spalle e gli berciò in un orecchio.
— Vai al riparo, stupido bastardo!
— Ci vado quando ci vai anche tu — le rispose Cornamusa.
Continuarono dunque a precipitarsi come ossessi giù per la carreggiata lasciando le truppe a bocca aperta per lo stupore, agitando forsennatamente le spade, sbraitando avvertimenti del tutto superflui mentre il mondo incominciava a tuonare, a tremare, a bruciare sotto il martellamento della feroce Quinta Aerobrigata. Lo sapeva che era una follia. Non s'era mai capacitata di come potessero, i comandanti, mettersi a fare stupidaggini del genere, e non aveva per nulla chiaro in mente fin dove avrebbe potuto spingersi. Non s'illudeva certo di essere refrattaria a bombe e proiettili, e non credeva affatto che l'impeto temerario, la forza scatenata della sua personalità potessero in qualche modo proteggerla… teoria, questa, che aveva davvero visto propugnare in alcuni dei più fantasiosi trattati di arte militare.
Sapeva solo che non era giusto, filare subito a rimpiattarsi da qualche parte. Meglio, piuttosto, correre il rischio di restare uccisa. Bisognava che i suoi soldati la vedessero, che sentissero che non aveva paura… anche se, in effetti, stava tremando con tale violenza che la spada quasi le sfuggì di mano. Non c'era altro modo di convincerli a rischiare la propria vita, visto che era lei a domandarglielo.
Dio, pensò. Mirabil cosa, l'andare a guerreggiar…
La maggior parte dei titanidi adottarono la linea di condotta che Cirocco e i suoi Generali s'erano trovati d'accordo nel consigliare loro come la cosa più logica da fare. Gli ci sarebbe voluta un'eternità, a scavare trincee grandi abbastanza da proteggere quei loro spropositati corpaccioni. Il loro maggior vantaggio stava nella velocità.
E quindi scapparono via come il vento.
Si disseminarono in tutte le direzioni, allontanandosi il più possibile dalla zona nevralgica dell'azione, e guardarono, ammutoliti dall'orrore, la diabolica bellezza della battaglia dispiegarsi nell'aria e sulla terra.
I razzi terra-aria, rifulgenti d'un rosso brillante, s'innalzavano sibilando dai carri pirotecnici lasciandosi dietro una scia di faville arancioni, e concludevano le proprie traiettorie in innocue esplosioni. Prorompendo come stormi d'uccelli incandescenti da sotto le ali delle bombe volanti, cavedani e crotali tracciavano fiammeggianti strie rosse blu verdi in terrificante crescendo d'accelerazione, e strillando in gaudiosa setedisangue si precipitavano con impeto suicida ad affondare nel ventre dei carrifalò, o si gettavano in caccia dei pirorazzi, oppure, sin troppo di frequente, non si facevano ingannare, e preferivano sfrecciare a bassissima quota irrorando di fuoco liquido il terreno butterato. Gli aeromorfi non erano di per sé individuabili che tramite i biancazzurri gas di scarico. Le bombe, invece, rimanevano completamente invisibili finché non giungevano al suolo… dopo di che facevano apparire insignificante tutto il resto.
Alcuni titanidi, sconvolti oltre ogni dire ed incapaci di assistere inerti, fecero per slanciarsi nel folto della carneficina, ma vennero trattenuti da compagni più assennati.
Solo i guaritori titanidi non correvano da nessuna parte. Esattamente come i medici umani, facevano quello che, in guerra, i dottori hanno sempre fatto. Raccoglievano i feriti, cercavano di alleviarne le sofferenze… e morivano al loro fianco.
— Oh, Grande Madre!, se mi concederai d'uscirne viva, mai più mi staccherò dal mio computer!, mai più, te lo giuro!, mai più, mai più, mai più…
Nova non si rendeva conto di urlare. Se ne stava tutta raggomitolata dentro un fosso che le pareva profondo non più di mezzo centimetro, spalla a spalla con due fantaccini mai visti né conosciuti.
Il fossato, in verità, era appena un tantinino più profondo di mezzo centimetro, e in un momento di relativa calma si arrampicarono fuori tutti e tre mettendosi a scavare come matti. Poi il mostro eseguì un altro passaggio, e loro si riammucchiarono alla rinfusa dentro la buca, in una confusione di gomiti piantati nelle costole, stivali, spade per fortuna inguainate, elmetti di sghimbescio, e il fetore della paura. Tenendo gli scudi protesi di piatto verso l'alto a protezione, sentivano zolle di terra scrosciare sul bronzo con sordo tamburellìo.
Scoppiò una bomba a poca distanza. Nova pensò che forse sarebbe rimasta sorda per sempre. Nelle sue orecchie, comunque, per un bel po' non ci fu altro che un sibilo ronzante. Frammenti di metallo bollente commisti a terriccio fumigante fecero di tutto per penetrare nel loro misero rifugio.
— Mai più, mai più, mai più…
Conal rifletteva, con parte della sua mente, che gli aggressori partiti da Meti si erano diretti a settentrione, verso Bellinzona. E in quell'angolo di pensiero si disperava per la Terza Squadriglia, tanto inferiore in numero rispetto al nemico.
Ma con tutto il resto della sua consapevolezza era concentrato sul sipario di tenebra che gli si parava dinnanzi e di minuto in minuto s'andava progressivamente, spaventosamente illuminando. Lui e i suoi uomini poterono vedere la battaglia molto prima di giungere sul luogo ov'essa infuriava.
Poi affrontarono il nemico, e non rimase tempo per pensare ad altro che a combattere e rimanere in volo.
Conal dovette lasciare al computer ampia facoltà d'intervento. Troppi segnali si accavallavano sul monitor, troppa confusione, troppo buio regnavano intorno. Si piegò, virò, incominciò a prendere di mira qualcosa che pareva promettente… e venne scavalcato dal centro di controllo del tiro, che aveva identificato nell'obiettivo un velivolo amico. Poi riuscì ad abbattere una bomba volante. L'intero scontro durò meno di tre secondi. Non si curò di osservare il rottame precipitare nella notte, ma impegnò immediatamente l'aereo in una virata a dieci g per dirigersi verso il prossimo bersaglio favorevole.
Gli pareva proprio una battaglia senza mordente. Anche se si rendeva ben conto che doveva avere fatto tutta un'altra impressione a chi l'aveva vissuta e subita laggiù a terra, durante i venti minuti che le sue squadriglie avevano impiegato per giungere in zona. Ma quando finalmente erano arrivate, la Quinta Aerobrigata aveva già stupidamente sprecato molto del suo potenziale offensivo aria-aria. I cannoncini erano a corto di bioproiettili. Agli aeromorfi avanzava qualche bomba, e ciò rendeva più soddisfacente abbatterli, perché almeno si esibivano in una deflagrazione decisamente più robusta, quando venivano colpiti dai missili di Conal. Ed ogni esplosione in aria significava un frammento di morte in meno per quelli laggiù dentro le trincee.
Alla fine rimase solo il Luftmörder. Conal e due dei suoi piloti lo aggredirono da tergo. Il primo colpo gli portò via gran parte dell'ala sinistra. Una Zanzara gli si avvicinò al punto che parve quasi volerglisi agilmente posare sugli ugelli di coda, poi gli lanciò un missile, e tutti loro rallentarono e lo guardarono precipitare. L'aria era piena di fumo, ed una spaventosa quantità d'incendi punteggiavano il terreno sottostante.
— Qui è Grancàn che chiama Roccaforte.
La lunga pausa che seguì, a Conal non piacque per niente. Ma pensò che qualcuno poteva anche avere perso la sua radio…
— Grancàn, qui è Roccaforte. Non vedo altri nemici.
— Esatto. Sono tutti morti. La Quinta Aerobrigata non esiste più. Non ho ancora notizie dalla mia Terza Squadriglia, ma so che hanno affrontato l'Ottava da qualche parte sopra Dione, e voi laggiù potete respirare almeno per mezzo riv, prima che giungano eventuali scampati.
— Roger, Grancàn. Continueremo a scavare.
Conal stava ora procedendo lentissimo, appena sopra la velocità di stallo, mentre i computer provvedevano a rimettere in formazione la Prima e Seconda Squadriglia. Guardandosi attorno, vide un vuoto nella sua stessa Squadriglia, la Prima, e un altro vuoto nella Seconda. Osservando poi lo schermo notò un segnale d'emergenza, fisso a terra, nelle vicinanze di Vesta. Inviò allora uno dei suoi piloti ad effettuare una ricognizione e verificare se c'era un superstite.
Due aerei perduti. Un pilota perduto, forse due. Altri due aerei con danni minori.
Si accorse di essere sudato fradicio. Mise l'aereo in completo automatismo, si lasciò andare contro lo schienale, e restò lì qualche minuto a tremare. Poi si asciugò il sudore dal viso.
— Grancàn, Grancàn, qui Squadriglia Tre.
Conal riconobbe la voce. Si trattava di Graziana Gomez, il pilota più giovane e meno esperto della Terza.
— Ti ricevo, Gomez.
— Grancàn, la Terza Squadriglia ha impegnato il nemico dieci chilometri a sud della Baia Piperita. Dieci aeromobili intercettati, e dieci distrutti. Uno è riuscito a raggiungere Bellinzona, e l'ho abbattuto poco fa. Ha fatto in tempo a sganciare sulla città tre, forse quattro bombe.
Traspariva qualcosa, dalla sua voce, che mise Conal in agitazione.
— Gomez, dov'è il tuo caposquadriglia?
— Conal… il caposquadriglia sono io. In effetti… io sono tutto quel che resta della Terza Squadriglia. — Nel finale di frase la voce le venne meno, e la radio di Conal rimase muta.
— Graziana, torna alla base di Giapeto Nord, e atterra lì.
Vi fu una lunga pausa. Quando la donna riprese a parlare, la sua voce era sotto controllo.
— Non posso, Grancàn. L'aereo è alquanto danneggiato. Però credo che potrebb'essere recuperabile. Cercherò di farlo scendere sul terreno di gioco vicino ai campi di lavoro. Credo di poter…
— Negativo, Gomez. — Conal sapeva perfettamente cosa stava pensando quella là. I piloti si trovavano abbastanza facilmente, ma gli aerei erano merce rara. Quella proporzione l'offendeva.
— Be'… allora vedrò di compiere un ammaraggio di fortuna vicino ai moli, dove l'acqua non è troppo profonda. Poi si può tirarlo fuori e…
— Ascoltami bene, Gomez, adesso tu dirigi quell'affare verso Moira, e quando sei esattamente sopra il pezzo di terra più grande e pianeggiante che riesci a trovare ti butti fuori, chiaro?
— Grancàn, credo di poter…
— Buttati, Gomez! È un ordine!
— Roger, Conal.
Più tardi, quando si cominciò a fare un po' di bilanci, Conal venne a sapere che Gomez era riuscita a riportare felicemente l'aereo a terra. Ma era morta un'ora dopo, di emorragia, per le tremende ferite da shrapnel di cui non gli aveva detto nulla.
Nova si rese conto, pian piano, che la situazione pareva essersi calmata.
Sollevò un poco la testa. Vide fiamme levarsi alte nella notte. Udì qualcuno gemere lì nei pressi. E qualcuno urlare. Si mosse con circospezione, appoggiandosi sui gomiti, si raddrizzò l'elmetto, e si ritrovò faccia a faccia con uno dei suoi compagni di trincea. Lui le rivolse un gran sorriso ebete. Lei lo ricambiò con una sciocca risatina che istintivamente le sgorgò di gola. Grande Madre, eran cose da farsi, in quello sfacelo? Eppure continuò per un bel pezzo senza riuscire a smettere, e l'uomo rise insieme a lei, felice di esser vivo. Poi si volsero entrambi all'altro soldato rifugiatosi nella trincea, per condividere con lui la loro gioia.
Ma c'era un forellino, sotto il braccio sinistro di quell'uomo, e un foro più grande gli marchiava il centro del torace. Per molto tempo Nova rimase lì, tenendo stretto a sé quel corpo insanguinato, e non le riuscì di versare nemmeno una lacrima, e pensare che aveva una gran voglia di piangere.
Sebbene non si fossero scambiata una sola parola, avevano scavato insieme come bestie forsennate, s'erano rannicchiati stretti stretti nelle tenebre violentate di fiamme, tremando, condividendo il fragile calore dei loro corpi terrorizzati… E lei non se n'era neppure accorta, quando il tepore della vita era inarrestabilmente sgorgato fuori di lui in un émpito scarlatto.
Cirocco e Cornamusa erano stati scaraventati al suolo dall'onda d'urto di un'esplosione che non li aveva mancati poi di tanto. Sebbene praticamente illesi, avevano deciso di restarsene giù. A tutto c'è un limite.
Ora Cirocco andava movendosi a grandi passi per il campo di battaglia, zoppicando lievemente. Le orecchie continuavano a fischiarle. Sul lato destro del volto, capelli e sopracciglio apparivano strinati. Un po' di sangue le macchiava la mano destra.
Non trascurò neanche gli angoli più lontani. C'erano numerosi morti e feriti, ma anche gente che si occupava di loro. I sergenti sbraitavano ordini come se fosse in corso nient'altro che una normale esercitazione sul percorso ad ostacoli. L'aria era ovunque satura di polvere. Molte trincee apparivano già profonde due metri e mezzo. Non vide nessuno con le mani in mano. La Quinta Aerobrigata li aveva convinti tutti.
L'ospedale da campo consisteva in un'enorme tenda eretta per quanto possibile lontano dalle trincee. Cirocco era rimasta a lungo incerta sull'opportunità o meno di contrassegnarla con una grande croce bianca. E alla fine aveva deciso per il no. Gea si era attribuita la parte del cattivo. Niente di più facile, quindi, che avesse detto alle sue bombe volanti di andare proprio in cerca di croci bianche.
Entrò nella cabina radio e afferrò il microfono.
— Grancàn, sei sempre lassù?
— Di qui non mi muovo. Capitano, hai visto Robin?
— Non ho informazioni in merito, Grancàn.
— …Capisco. Scusa. Non te l'avrei dovuto chiedere.
Cirocco diede uno sguardo in giro, e constatò che nessuno la stava tenendo d'occhio.
— Conal, appena saprò qualcosa ti avvertirò.
— Grazie. E adesso che si fa?
Ne discussero, usando termini in codice che Gea e le sue truppe, anche se avessero intercettato la comunicazione, non avrebbero compreso.
Nessuno, oltre Conal, conosceva i piani di Cirocco a proposito dell'Aviazione Geana.
— Io credo — disse Conal — che se proprio vuoi farlo, dovresti farlo il più presto possibile.
— Son d'accordo. Dacci tempo… altri due riv per attestarci in trincea meglio che possiamo. Torna coi tuoi a Giapeto, riarmatevi e rifornitevi. Io intanto vedrò di parlarne ai Generali.
Durante quasi tutta la battaglia, Robin se n'era rimasta semisepolta sotto il cadavere di un titanide.
Aveva scavato una buca insieme ad altri quattro, poi erano incominciate a venir giù le bombe… e il povero titanide era stramazzato proprio sul bordo della fossa. Il suo corpo era scivolato dentro lentamente, coprendo Robin solo in parte. Probabilmente le aveva salvato la vita. Quando fu tutto finito, e lei poté a fatica trascinarsi fuori, vide la quantità di micidiali schegge che l'enorme carcassa aveva assorbito e fermato. Uno dei suoi compagni di trincea s'era beccato in una gamba un grosso frammento di metallo, ma gli altri erano incolumi.
Riuscì a intercettare Cirocco che si affrettava verso la tenda dei Generali, ed ebbero tempo per un breve abbraccio.
La presenza di Robin e Nova costituiva, in una simile contingenza, una vera stranezza, e Robin ne era acutamente consapevole. Loro due, a differenza di tutti gli altri, non erano armate. Non avevano compiti specifici. Nova non faceva nemmeno più parte del governo cittadino. In una guerra normale, interamente combattuta applicando i princìpi della tattica e della strategia a grandi masse di soldati ed aerei, Robin sarebbe rimasta senza dubbio a casa. Ma la sua presenza qui era necessaria.
Il guaio stava nel fatto che non le riusciva di spiegarlo a nessuno, il perché. Non lo capiva del tutto neanche lei.
E adesso quindi se ne andava errando fra morti e feriti, moribondi e mutilati, in cerca di sua figlia. Pochi altri, come lei, vagavano senza meta, recando però in volto i chiari segni della psicosi traumatica. Robin era scossa, ma ancora padrona di sé stessa. Era venuta a patti con la propria paura già da vent'anni, quando per la prima volta s'era permessa di assaggiarne il morso.
Aveva provato un grande spavento, nel corso dell'attacco, s'era sentita sconvolta e addolorata per le vittime di quella ferocia, ma adesso che il peggio era passato avvertiva solo una profonda ripugnanza per l'atrocità dell'aggressione… e timore per la sorte di sua figlia.
La trovò che stava scavando una trincea. Dovette chiamarla tre volte, prima che Nova alzasse il capo. Poi, col labbro inferiore che le tremava convulsamente, la giovane si arrampicò fuori dalla fossa, gettandosi fra le braccia di sua madre.
Robin sentì le lacrime, lacrime di gioia, scorrerle sul volto. E, come sempre, pensò a quanto dovesse parer buffa, così abbracciata ad una figlia che era quasi trenta centimetri più alta di lei. Nova piangeva a dirotto.
— Oh, Madre — diceva fra i singhiozzi. — Voglio andare a casa.
Cirocco dispiegò sul tavolo traballante la sua mappa a quadrante di orologio. Un Capitano sorresse a illuminarla una lampada da campo mentre lei ci tracciava altre due X.
— L'Aviazione Geana ha perduto anche le Aerobrigate di Crono e Meti. Ciò significa che quest'intera metà della ruota, con noi proprio in mezzo, non contiene più alcuna forza aerea nemica. Il pericolo più vicino, per noi, attualmente è quassù in Iperione, mentre Bellinzona rimane tuttora sotto la minaccia dell'Aerobrigata di Tea. Vediamo un po', a questo punto voi cosa fareste, al posto di Gea?
Il Generale Due esaminò attentamente il disegno, quindi parlò.
— Ormai dovrebbe averlo capito, che le nostre squadriglie sono più forti delle sue.
— Però non credo che conosca tutta la nostra forza — replicò Cirocco.
— Meglio così. Ciò potrebbe indurla ad attendere. Un attacco contro Bellinzona proveniente da Tea rientra nel novero delle possibilità, ma se è vero che il suo obiettivo primario è l'esercito…
— Lo è.
— …Be', allora… se l'Aerobrigata d'Iperione prendesse il volo, verremmo a saperlo con notevole preavviso, vero? A quanto ci si dice, in Iperione disponiamo di ottime spie.
— Esatto.
— Se io fossi nei suoi panni — intervenne il Generale Otto — incomincerei a concentrare i miei aerei. Sposterei il gruppo d'Iperione nella base vuota di Mnemosine, ad esempio, ammesso che sia utilizzabile.
— Non lo è.
— Benissimo. D'altra parte quel gruppo non può neanche arrivare alla base di Crono, in quanto verrebbe attaccato dalla nostra Aviazione. Quindi gli direi di mantenere la posizione. Però sposterei l'Aerobrigata di Tea alla base di Meti. Giapeto è fuori questione per lo stesso motivo di Crono. Quante bombe volanti può ospitare ogni singola base?
— Questo non lo so.
— Hmm… Be', ammesso che in ogni base possa atterrare più di un'Aerobrigata, io incomincerei a richiamare quelle più lontane presso le basi più vicine. Febe, Crio, Teti, le porterei in Meti e in Iperione. …E neanche il loro raggio d'azione conosciamo, vero?
— Con sicurezza no. Attualmente dovremmo trovarci, ritengo, sul limite estremo del campo d'intervento del gruppo d'Iperione. Però ci avvicineremo. Pensavo che avrebbe potuto scatenarcelo addosso proprio ora, mentre ancora ci stiamo riorganizzando, e trasferire al suo posto il gruppo di Rea. Ma ormai credo invece che per il momento non farà proprio un bel nulla. E finora i fatti mi han dato ragione. — Indicò la mappa. — Dobbiamo difendere l'esercito, la città… e la base di Mnemosine. La base di Giapeto, invece, è sacrificabile… e in effetti ho dato ordine di farla saltare, se tentassero d'impadronirsene.
— E perché mai dovrebbero fare un tentativo del genere?
— Perché fra un poco avranno molta fame… Dunque: propongo un attacco di sorpresa. Se funzionasse, potrebbe darci un'assoluta superiorità aerea.
Osservò, sui loro volti, l'effetto di quella magica frase. Per due secoli, in tutti i grandi conflitti, quelle parole avevano rappresentato la chiave della vittoria.
Il suo Stato Maggiore, naturalmente, bruciava dalla voglia di sapere come pensava di riuscirci. E lei glielo disse.
— Ha inizio l'Operazione Mordiefuggi. Ha inizio l'Operazione Mordiefuggi.
Appollaiati sui cavi centrali da Iperione a Mnemosine, i Sovràngeli di Dione che s'affollavano tutt'intorno alle piccole radio presero a ciangottare in gran concitazione.
Il demonìrico aveva promesso che le radio avrebbero parlato, e… Granruota!, non s'era forse inverato il vaticinio? I Sovra avevan fatto crocchio estasiati sin da quando le prime arcane vocincòdice s'eran levate dagl'ingegnosi marchingegni. Nominando esotici barbarismi come Grancàn, evocando vertiginosi lirismi come Roccaforte, menzionando metalliche Squadriglie, Luftmörder, e un tizio di nome Roger, le radio s'erano trasformate in una gran fonte di spasso, per i Sovra, che traevano spunto dai misteriosi messaggi per coniare giocose rime di botta e risposta.
— Mio Grancàn, sei tu in posizione?
— Intromissione.
— Inquisizione.
— Farfarello e gnomettino.
— Chiappa qua 'l mio coniglino.
Sollazzo e riso a volontà.
Il demonìrico e l'evanescente sua compagna avevano spiegato loro che cosa volesse dire mordiefuggi, e i Sovra ne erano rimasti affascinati. Non per la missione in sé, cui già s'erano impegnati, bensì per il nomincòdice e il tiro mancino che esso comportava. I Sovra palesavano, talvolta, un senso dell'umorismo piuttosto pesante.
Da interi chiloriv si preparavano all'azione. Non era stato piacevole. Detestavano il puzzo del cherosene. Ma avrebbero accettato questo ed altro, per il Dèmone.
E adesso la radio aveva pronunziato la fatidica frasincòdice. Il piano andava eseguito all'istante, ond'esso potesse avere simultaneamente luogo in tutta Gea. Ogn'indugio avrebbe comportato gravi rischi, per i Sovra. Su questo punto Gaby s'era mostrata assolutamente categorica.
— Oh, qual dinamite vi sarà stata… — flautò uno di loro.
— Mazzo di Crisantemi! — ansimò un altro, un pizzico in anticipo.
— Acquazzoni di fiorelloni…
— Apprestiamo gran copia d'unguenti lenitivi — qualcuno si preoccupò.
— Qualche perdita è da mettere pur in conto — ricordò un altro a mo' d'incitamento, riferendosi al vile attacco perpetrato su quel povero nido in Teti.
— La spada è un'arma a doppio taglio.
— Brillante sfoggio d'oratoria, e non certo vanagloria.
— Pronti in regìa?
E si distaccarono dal cavo, tuffandosi verso il nido di vipere minacciosamente abbarbicato più giù.
Il Luftmörder rimase solo marginalmente consapevole degli angeli finché non si avvicinarono a meno di cinquanta metri. C'era stato ultimamente un tal viavai, di quelle creature, che il suo apparato percettivo le aveva semplicemente eliminate dal proprio orizzonte, come un radar intelligente che provveda a cancellare le semplici tracce d'innocui volatili.
Ed eccoli d'un tratto, cinguettanti e cicalanti, mescolarsi alla sua squadriglia, sfrontati al punto d'avvicinarsi fino a toccare i suoi sudditi aeromorfi. Ne vide uno porre qualcosa sul fianco d'una bomba volante. Udì un nonsoché rotolare acciottolando giù per l'ugello di scarico di un'altra bomba.
Senz'altro indugio si proiettò allora stridendo egli stesso in aria, cadde sino a raggiungere la velocità di accensione, e attivò tutti e quattro i possenti propulsori. Dietro di lui, l'intera squadriglia prese a sganciarsi per stargli appresso…
Una bomba volante esplose. La mignatta appiccicatale sul fianco scavò uno squarcio sino alla camera di combustione, e l'aeromorfo sbandò fuori controllo e precipitò in vorticosa rotazione, tracciando una scia di fumo e di fiamme.
Un'altra non fece neanche in tempo ad allontanarsi dalla base. Non appena accese il motore, la carica di dinamite depositata nel postcombustore deflagrò, sventrandola in mille pezzi che svanirono fluttuando verso il suolo.
Il Luftmörder eseguì una strettissima virata e prese a risalire. Non provava odio, ma solo un travolgente, insopprimibile impulso a polverizzare ogni angelo esistente su Gea.
Per un certo tempo ci s'impegnò a fondo. Lanciò alcuni crotali, riuscendo a mettere a segno un colpo contro un angelo in volo. Spedì un missile a far centro sul loro nido. A giudicare dai risultati dell'esplosione, doveva già essere vuoto.
Dopo di che, gli angeli si rivelarono bersagli praticamente irraggiungibili. Osservò i suoi subalterni attorcersi nell'aria in infiniti, inutili serpeggiamenti. Entro pochi minuti non si vide più in giro nemmeno un angelo. Erano tutti volati a rifugiarsi sul cavo, strisciando all'interno di angusti anfratti. Vano sarebbe stato tentare di colpirli, e poi avrebbe potuto mettere in pericolo…
La sua concentrazione era stata così intensa, che solamente adesso si rese conto che la base era in fiamme. Impetuosi getti di carburante traboccavano dal punto di attracco ch'egli aveva poco prima abbandonato, riversandosi a colare lungo il fianco del cavo. L'incendio, lo sapeva, non si sarebbe estinto sin quando la Sorgente, di qualunque cosa si trattasse, non fosse giunta, essa per prima, ad esaurirsi.
Clic. Il suo cervello fece scattare quell'informazione al proprio posto, e attorno ad essa elaborò una nuova tattica.
Egli non possedeva alcuna capacità di spegnere incendi. E non aveva conoscenza di alcun'altra creatura geana attrezzata per raggiungere e combattere una così impetuosa ed inaccessibile vampa. Di conseguenza, la base era perduta. Di conseguenza, egli doveva difendere la base superiore. Prese a salire…
Presto dovette constatare che anche quella base era in fiamme.
Clic. Altra informazione immagazzinata.
Chiamò la sua squadriglia, ordinando che gli si disponessero attorno in formazione. C'era una base, in Tea. Per il momento li avrebbe condotti là. Trasmise via radio a Gea una precisa e succinta descrizione dello scontro, e attese i Suoi Ordini, fiducioso che un trasferimento a Tea fosse la sola soluzione logica.
Non era affatto preoccupato.
Nelle ultime sei regioni di Gea che ospitavano forze aeree, Luftmörder e bombe volanti si distaccarono in volo dalle basi in fiamme. La Squadriglia di Teti fu quella che se la cavò con le perdite minori: soltanto due bombe volanti. Crio perse tre bombe e il Luftmörder, mentre i superstiti rimasero a girovagare senza meta attorno al cavo in fiamme, incapaci di decidere dove andare. Iperione fu il più colpito, con ben sei delle nove bombe volanti distrutte o gravemente danneggiate nel corso del primo attacco.
I Sovràngeli di Dione conobbero morti e feriti, come ben sapevano che sarebbe accaduto. Entro pochi decariv, dopo aver serbato a sufficienza in cuore, con amorevole cura, il ricordo delle povere vittime, si sarebbero riuniti per compiangerle.
Nel frattempo, rimossero dalla propria mente il pensiero delle perdite subite.
Era stato, senza dubbio, uno scherzo delizioso.
— Grancàn, tutte le basi in fiamme. Ripeto, tutte. Superstiti in volo. Grande confusione al momento.
Conal inghiottì a fatica. Stava pensando che prima o poi si sarebbero riorganizzati, e che qualcuno sarebbe arrivato fin lì. Molti, forse.
Ascoltò Cirocco snocciolare in dettaglio l'elenco delle batoste inflitte al nemico, le andò sommando via via mentalmente, e alla fine confrontò la rimanenza con le forze a sua disposizione. Pur tenendo conto di variabili incerte o ignote, come il loro massimo raggio d'azione e l'eventuale esistenza di stazioni di rifornimento non distrutte dai Sovra, ne veniva fuori un quadro tutto sommato abbastanza confortante.
I superstiti di Rea e Iperione si sarebbero senza dubbio diretti verso Crono, guardando all'esercito come unico possibile obiettivo. I suoi piloti li avrebbero attesi in Mnemosine, dove forse sarebbe stato possibile, sebbene Conal non ci contasse molto, tender loro un'imboscata.
I rimasugli di Crio avrebbero potuto prendere una direzione qualsiasi… anche se, supponendo corrette le stime circa l'autonomia di volo dei contingenti nemici, non sarebbero riusciti comunque a combinare granché.
La Squadriglia di Tea avrebbe probabilmente potuto spingersi fino a Crono. Anche Teti sarebbe stata in grado di farcela. Febe no, però poteva sempre attaccare Bellinzona.
Dal punto di vista tattico, il gran vantaggio di Conal stava nel fatto che avrebbe potuto affrontare i diversi gruppi separatamente. Gli appariva infatti del tutto improbabile che i nuclei più vicini rimanessero inattivi ad orbitare in zona, sprecando carburante, nell'attesa di essere raggiunti dagli sbandati.
Tanto per cominciare, non riteneva che la mente dei Luftmörder funzionasse a quel modo. Quei mostri parevano invece fissarsi su un obiettivo e spingersi senza esitazioni fino al suicidio, pur di acchiapparlo e distruggerlo.
Schierò dunque i piloti in base a tale principio.
I Suoi Ordini giunsero. Il Luftmörder aveva opinato correttamente… ma fino a un certo punto. Si era aspettato che come bersaglio gli venisse assegnata la città. Ma gli Ordini, pervenuti tramite il Luftmörder di Tea, erano concisi ed espliciti. Lui e la sua Squadriglia dovevano volare fino a Crono e attaccare l'esercito. Egli avrebbe dovuto combattere sinché non fossero rimasti né un solo aereo nemico in aria né una sola bomba da sganciare sull'esercito. Solamente allora avrebbe potuto prendere in considerazione la possibilità d'una propria ulteriore sopravvivenza.
Tali disposizioni non costituirono una sorpresa, per lui. L'ultima parte di esse, per lo meno. Certe cose non avrebbero neppure avuto bisogno di esser dette, in quanto rientravano nelle Direttive Primarie. Quel che invece stentava ad inserirsi opportunamente nel suo computer tattico, era qualcosa cui negli Ordini non si faceva alcun cenno: la necessità di effettuare rifornimento presso la base di Tea.
Egli pervenne dunque tanto vicino a disobbedire agli Ordini quanto poteva farlo un Luftmörder. Decise che, nell'approssimarsi alla base di Tea, avrebbe chiesto il permesso di rifornirsi. Ciò non avrebbe potuto in alcun modo configurarsi come disobbedienza. Tale decisione appariva soddisfacente sott'ogni punto di vista.
Poi raggiunse il cavo centrale di Tea, e vide che la base era in fiamme. Ciò spiegava tutto.
Neppure stavolta si preoccupò. Proseguì verso Crono a tutta velocità.
Il Quinto e Sesto gruppo delle forze aeree di Conal attendevano nell'ombra radar del cavo di Mnemosine. Quando sopraggiunsero i superstiti della Seconda Aerobrigata d'Iperione, diretti a pieno regime verso Crono e l'esercito, quattrocento chilometri più ad ovest, i minuscoli velivoli piombarono loro addosso come falchi vertiginosamente calanti sulla preda, e li ridussero a brandelli.
Il Luftmörder d'Iperione, prima di morire, fece in tempo ad avvertire la squadriglia di Rea circa la trappola esistente in Mnemosine. Sarebbe giunta entro una ventina di minuti.
Il Secondo e Quarto gruppo dell'Aviazione di Bellinzona tentarono un agguato analogo in Dione, ma dovettero attendere di avere la certezza che il nemico non si stesse dirigendo sulla città. La squadriglia di Tea poté così godere di un margine di reazione un po' più ampio, e diede buona prova delle sue capacità. Conal, tornato alla base di Giapeto e pronto a correre in aiuto con la Prima squadra, sentì morire tre dei suoi piloti, mentre un quarto fu costretto a paracadutarsi. Fra le vittime figurava un capopattuglia, quindi diede ordine che i sei aerei superstiti della Seconda e della Quarta si riunissero in una sola squadra e rientrassero a Giapeto per fare rifornimento.
Decollò quindi per Dione alla testa del Primo gruppo, cinque degli undici aerei che gli rimanevano su tutto il fronte orientale.
Gli aeromorfi della squadriglia di Teti avrebbero pressoché certamente attaccato Bellinzona. Sarebbe stata una follia, per loro, tentare di spingersi fino a Crono.
La Prima squadriglia, proveniente da Rea, era già quasi a corto di carburante, quando incontrò il Sesto e Settimo gruppo di Conal. Il Settimo constava, in effetti, di due soli aerei, il cui compito era consistito nel rimanere a guardia della base di Mnemosine mentre gli altri attaccavano la squadriglia d'Iperione. Al momento il Quinto gruppo era impegnato nei rifornimenti, e non sarebbe stato di aiuto. Inoltre esisteva ancora la possibilità di un'ultima ondata in arrivo da Crio, e la base andava difesa.
La squadriglia di Tea incominciò a lanciare missili già da gran distanza. Nugoli di crotali giunsero sfrecciando da ovest ancor prima che lo stormo apparisse alla vista.
Si rivelò una tattica efficace. Tre aerei di Bellinzona furono colpiti ed abbattuti. Due dei piloti riuscirono a lanciarsi col paracadute, atterrando incolumi sulle sabbie. Poi ebbe inizio il combattimento ravvicinato, ed entro dieci minuti il cielo era sgombro di aeromobili nemici.
Gli uomini del distaccamento di Mnemosine non lo sapevano ancora, ma per loro la guerra era finita.
In Crio, le bombe volanti superstiti continuavano a torneare sopra i rottami in fiamme del loro Luftmörder. Di tanto in tanto, una di esse lanciava un cavedano a cacciarsi nel relitto, come sperando di riportarlo in vita.
Con strida strazianti, veri funebri lamenti, rimasero a vegliare le spoglie mortali del loro condottiero sconfitto finché, una dopo l'altra, terminato il carburante precipitarono.
Il Luftmörder di Febe e il suo corteggio di bombe volanti giunsero a sorvolare Meti, constatando che, come in Teti e Tea, un gigantesco incendio stava distruggendo la base collocata sul cavo centrale.
Il Luftmörder era alle prese con un problema tattico. Aveva avuto ordine di attaccare l'Esercito di Bellinzona in Crono, distante duemila chilometri. Ma egli possedeva un'autonomia di milleottocento chilometri.
Se avesse risalito il raggio di Febe e traversato il mozzo, ridiscendendo poi lungo il raggio di Crono, sapeva che non avrebbe avuto problemi del genere. A parte il fatto che sarebbe stata un'eccellente azione di sorpresa.
Ma aveva fatto conto di ottenere carburante in Meti. Nessuno aveva provveduto ad informarlo che lungo il tragitto non vi sarebbero state soste di rifornimento, e fra le Direttive Primarie era compreso l'obbligo di procedere lungo il bordo per il compimento di qualunque missione, salvo diverse istruzioni. Tale Ordine doveva avere qualcosa a che fare con certe iniziative per la lotta ai rumori molesti nella zona del mozzo. Notoriamente, lassù ci stava Gea — o quanto meno una parte di lei — e poteva darsi benissimo che il rombo dei Luftmörder le desse il mal di testa.
Non esistevano tuttavia termini come disperazione o impossibilità, nel vocabolario del Luftmörder. Concluso l'attraversamento di Meti entrò in Dione… dove vide le carcasse in fiamme di coloro i quali l'avevano preceduto… indefettibilmente e supernamente fiducioso che la sua missione sarebbe stata condotta a termine. Le sue bombe volanti, provviste ciascuna di un solo motore, avevano un'autonomia di duemilacento chilometri. Esse sarebbero giunte a destinazione, e avrebbero combattuto.
Nel cielo di Giapeto diede l'addio all'ultima stilla di carburante, e si trovò di fronte a un dilemma.
Le bombe volanti non erano intelligenti. E limitato era il repertorio di ordini cui sapevano obbedire. "Seguitemi", "Attaccare", "Prepararsi al bombardamento", "Adottare azione difensiva", "Affrontare il nemico"… cose del genere. Cercò nell'elenco. Non esisteva un ordine come "Proseguite senza di me".
Problema davvero interessante. Non cessò un istante di riflettervi mentre, planando come un grande aliante, inesorabilmente digradava verso il suolo, accompagnato dal cupo ruggito delle fedeli truppe che gli tenevan dietro scaglionate in linea.
Giunto a circa due metri da terra, per la prima volta in vita sua un dubbio lo trafisse. Forse la missione non verrà compiuta, pensò, poi avvenne l'impatto, e il suo gran corpo s'abbracciò alla madregèa rovinosamente avvoltolandosi in un gigantesco sfracellamento.
Tallonandolo prone, le bombe volanti s'abbatterono al suolo una dopo l'altra.
Di lassù, la Seconda squadra dell'Aviazione di Bellinzona sgranava tanto d'occhi, incredula.
Circa venti minuti prima del totale autoannientamento dell'Undicesima Aerobrigata di Febe, agghiacciato d'orrore, Conal aveva visto la Decima di Teti ignorare Bellinzona e sfrecciare in direzione ovest.
Lui e gli altri piloti della Prima squadra s'erano occultati nei pressi del cavo centrale di Dione, in perfetto appostamento per tendere un'imboscata alla Decima e distruggerla. Ma ora il nemico s'era preso su di loro un bel vantaggio, e le altre sue squadre, alla base per rifornimento, avevano ancor meno possibilità di piombargli addosso. Impartì ordini al drappello, e passarono rapidamente a velocità supersonica. Certo, così facendo non avrebbero potuto disporre di molto carburante, quando fossero arrivati ad impegnarsi nel combattimento ravvicinato. Digitò, con mano tremante, il codice di chiamata dell'esercito.
— Roccaforte, qui Grancàn.
— Vai Grancàn.
— Rocca… Cirocco, la Decima è passata oltre Dione. Ho paura che potreste averla su di voi fra pochi minuti.
— Siamo perfettamente pronti ad accoglierla.
— Capitano… mi dispiace. Ho commesso un errore di valutazione. Ero convinto che avrebbero…
— Conal, non t'angustiare. Pensavamo di dover subire ancóra, come minimo, l'incursione di tre squadriglie, mentre finora non se n'è vista nemmeno l'ombra.
— Già, ma c'è ancora Crio, di cui non ho notizie, e Febe, ch'è stata individuata a venti minuti da noi.
— Crio è distrutta, Conal. Quanto a Febe… m'ha detto un uccellino che tra un po' saranno nei guai fino al collo, e senza che voi dobbiate far nulla. Di' ai tuoi di restare alla larga, di non affrontarli, di tener gli occhi bene aperti e riferire quello che vedranno.
— …be', se proprio sei sicura…
— Sono sicura. Adesso fate quel che potete con Teti, mentr'io corro a raccomandare a tutti quanti di tener giù la testa. — Roger, Roccaforte.
Il Luftmörder era consapevole dei nemici che gli si stavano avvicinando in coda. Erano sbucati fuori dal nulla, e l'avrebbero raggiunto prima che lui e la sua squadriglia potessero impegnare gli avversari in Crono.
Poc'anzi egli aveva provato un sopraffacente desiderio di volgere a nord verso quel succoso, inerme obiettivo ch'era Bellinzona. La città l'aveva attratto come una calamita. Sì, egli voleva virare a nord…
Ma poi ecco apparire quei minuscoli, insignificanti aerei, ed egli aveva compreso che se n'erano rimasti acquattati in agguato, attendendo lui e i suoi sudditi al varco. Gea era grande. Gea era buona. Gea era saggia, e senza dubbio aveva saputo ch'egli sarebbe andato a cacciarsi in una trappola, se avesse volato a settentrione.
Supremamente fiducioso, continuò dunque la sua corsa in direzione Crono.
Quando la pattuglia nemica giunse a portata di missile, il Luftmörder diede ordine a quattro delle sue sette bombe volanti di far rotta indietro ed ingaggiar battaglia. Le comandate uscirono rapidamente di formazione. Egli proseguì la propria rotta, e tramite i retrosensi radar le osservò morire, una dopo l'altra. Ne trasse la medesima emozione di un tiratore di fucile che veda quattro suoi proiettili mancare il bersaglio. Fastidio, certo, per aver fallito il colpo, ma non un pensiero per la sorte dei proiettili.
Poi constatò che uno dei cinque aerei nemici stava precipitando. E, ancor meglio, tre dei superstiti risultavano ora assai attardati, avendo sprecato tempo e carburante per abbattere le quattro bombe. Solamente uno degl'inseguitori pareva conservare ancora la possibilità di raggiungere lui, e i resti della sua squadriglia, prima che essi giungessero a diffondere morte sull'esercito.
Dopo un attimo d'esitazione, stornò un'altra bomba volante allo scopo di rallentare quell'aereo. Non s'illudeva certo che essa fosse in grado di abbatterlo.
La bomba si slanciò sull'attaccante con impetuoso assalto frontale… e lo mancò. Prese quindi a virare, ma ormai era destinata ad essere raggiunta dagli altri tre inseguitori. E intanto il più vicino continuava ad avanzare.
Clic. Così sia. Ormai era quasi in Crono. Quell'aereo alle sue spalle avrebbe potuto neutralizzare uno, al massimo due dei residui aeromorfi cadetti. Non certo tutti e tre. Pur se lo stesso Luftmörder fosse stato abbattuto, le bombe volanti avevano i loro Ordini. Avrebbero attaccato sino ad esaurimento del carburante, quindi si sarebbero precipitate, in picchiata kamikaze, sul più ampio bersàglio disponibile.
Proprio come in un'esibizione acrobatica, si disse Conal, mentre attraverso il parabrezza vedeva la bomba volante ingigantire puntandogli direttamente addosso. Gli aerei si sarebbero diretti uno contro l'altro, e lo spettatore avrebbe pensato che non ce l'avrebbero assolutamente fatta ad evitare la catastrofe, ma poi, all'ultimissimo istante, uno di loro sarebbe sgusciato da una parte e uno dall'altra, e si sarebbero mancati per un palmo di mano.
Con la piccola differenza che, durante un'esibizione acrobatica, gli aerei non si sparano reciprocamente. Strie luminose si dipartivano dalla bomba in avvicinamento, sfiorandolo su entrambi i lati. Conal sentì due colpi trapassargli le ali, ma non si voltò a guardare.
Data la velocità a cui stavano viaggiando, dal momento in cui avvistò l'attaccante al momento in cui eseguì la manovra non dovettero trascorrere più d'un paio di secondi. Un'ora, gli parvero. Quello ingrandiva… ingrandiva… e Conal aspettava… aspettava… poi virò, con tale subitanea brutalità che perse i sensi.
Questione di pochi attimi. Quando risollevò la testa, si ritrovò ancora in volo, e quasi sulle tracce degli ultimi tre, sebbene fossero abbastanza distanti. Laggiù, lontano, alle sue spalle, l'attaccante era impegnato in un sibilante dietrofront, ma pensò che di quello poteva anche scordarsene: ormai non l'avrebbe più raggiunto.
Eseguì, guardingo, una rapida serie di verifiche essenziali. L'aereo non risultò danneggiato seriamente. Il cannoncino incastonato nell'ala destra non funzionava più, e alcuni comandi parevano rispondere con una certa lentezza, ma decise che sostanzialmente la baracca avrebbe retto. Continuò l'inseguimento, portandosi a ridosso dei tre aeromorfi.
A volte dava quasi l'impressione d'esser troppo facile. Abbatté in men che non si dica una delle bombe volanti, la quale neppure cercò di schivare il colpo. Quindi puntò dritto sul Luftmörder, che tuttavia deviò fulmineo verso l'alto eludendo quel primo attacco. Gli rimase sotto le grinfie l'ultima bomba volante, la quale non tentò neppure lei alcuna azione evasiva.
L'idea di perder tempo gli riusciva quasi odiosa, ma fornì comunque al computer una traccia di massima, il computer a sua volta impartì istruzioni a un missile, e il missile sfrecciò subito via andandosi a sprofondare nell'ugello di scarico della bomba volante.
Conal alzò lo sguardo e scorse il Luftmörder. Virò in quella direzione, lanciò un altro missile… ed immediatamente cambiò di nuovo rotta con ancora maggior decisione, vedendo un crotalo precipitarglisi addosso. Nonostante la brusca virata, quello riuscì a colpirgli l'estremità dell'ala sinistra ed esplose, strappandogliene quasi un metro.
La piccola Libellula sbandò fuori controllo, mentre Conal veniva proiettato violentemente contro le cinture. Perse trecento metri di quota con impressionante rapidità, mentre le ali trasparenti gemevano, sollecitate allo spasimo, nella ricerca lacerante di una conformazione che riuscisse a controbilanciare il danno. Finalmente — quattro, forse cinque secondi dopo — Conal ebbe la certezza che la Libellula era in grado di continuare il volo, quantunque con diminuite prestazioni.
Reindividuò il Luftmörder e lo controllò con occhio clinico. Aveva perduto uno dei quattro propulsori, e dallo squarcio fuoriusciva una scia di fumo nero, anche se il mostro pareva non risentirne. Stava discendendo, e Conal comprese che tale manovra adombrava uno scopo preciso, in quanto proprio di fronte, non troppo distanti, già si scorgevano disseminati punti di luce che tradivano la posizione dell'esercito.
Manovrò quindi per portarglisi in coda e in posizione dominante.
Con la massima precisione lo centrò nel dispositivo di puntamento, e ordinò al computer di spedirlo all'inferno.
Non accadde nulla.
Passò, imprecando, al controllo manuale, e cercò di sparargli col cannoncino alare ancora utilizzabile.
Nulla neppure stavolta.
Il computer pareva funzionare, ma non trasmetteva più agli armamenti neppure il più semplice comando.
Urlando tutta la sua rabbia, Conal continuò ad avvicinarsi.
Il Luftmörder non provava alcun senso di turbamento.
Si trovava nell'impossibilità di chiudere l'afflusso di cherosene al motore mancante, quindi l'incendio innescatosi in quel punto non si sarebbe spento, e ciò gli causava un certo disagio fisico, ma il dolore non l'avrebbe distolto dalla sua missione. Un rapido controllo del consumo gli confermò che non stava perdendo più carburante di quanto ne avrebbe utilizzato se il motore fosse rimasto al suo posto. Ce l'avrebbe fatta.
Sì, ce l'avrebbe fatta, bastava solo che quel piccolo…
Ma dove era andato a cacciarsi? L'aveva avuto sul radar solo un momento prima. Stava perdendo quota. L'avrebbe visto, se fosse precipitato. Scandagliò lo spazio tutt'intorno a sé con impulsi radar e prospezione ottica, ma non riuscì a trovarlo.
Finalmente, incominciò a preoccuparsi.
Conal si trovava dieci metri sotto il Luftmörder.
Aveva quasi l'impressione che allungando una mano sarebbe arrivato a toccare la sua mole gigantesca. Cavedani e crotali vi stavano aggrappati a sciami, contorcendosi di frenetica impazienza nel vento trascinante della corsa.
Vide i bordi d'uscita delle grandi ali piegarsi a morder l'aria, e dovette agire rapidamente abbassando gl'ipersostentatori posteriori, altrimenti si sarebbe ritrovato in pochi attimi a sopravanzare il mostro.
Il Luftmörder stava rallentando. Si preparava al bombardamento. Voleva agire con precisione, sganciare il maggior numero di bombe nel cprso di un solo passaggio. Sapeva, probabilmente, che a terra non esistevano né cannoni né fucili né pistole in grado di danneggiarlo.
Pistole?
Conal aveva pensato di speronarlo. Se il Luftmörder non avesse rallentato, sarebbe stata, in effetti, l'unica manovra possibile.
Alzò gli occhi a esaminare con più attenzione il ventre della bestia. Appariva, per quanto era lungo, tutto costellato d'increspature simili a sfinteri. Ecco, da dove uscivano le bombe. Avrebbe dovuto immaginarselo. Chissà quel sistema come solleticava il senso dell'umorismo di Gea…
Fece saltare il tettuccio. Il vento lo colpì con la violenza di un pugno. Per fortuna sia lui che la feroce creatura continuavano a rallentare, e un po' alla volta la situazione andò migliorando. Frugò nella tuta antiproiettile e ne estrasse la pistola da segnalazioni. Il vento si portò via il primo colpo scaraventandolo a sinistra del Luftmörder, tanto che mancò del tutto la fusoliera. Gliene restavano altri due. E se la bestia avesse incominciato a virare? Meglio non pensarci. Prese di nuovo la mira, cercando di tener conto della deviazione che il vento avrebbe impartito alla traiettoria. Vide il minuscolo razzo andarsi ad infilzare — in quella che, sorprendentemente, gli parve cedevole carne — a pochi centimetri da uno degli sfinteri. Era una carica di magnesio, così luminosa da non potersi guardare.
Conal picchiò decisamente, virò, e lo stesso fece il Luftmörder. Udì provenire dalla creatura un suono lacerante, come un urlo di rabbia e d'agonia, alzò il capo, ed il suo sguardo si scontrò per un attimo con l'abominevole, crudele fissità di un occhio che lo guatava attraverso la protezione trasparente di uno schermo similplastica. L'occhio parve volerlo fulminare con una vampata di odio assoluto, poi il Luftmörder, le viscere in fiamme, sbandò impotente alla deriva.
Conal pensò alle bombe e ai missili e ai vapori di cherosene che dovevano saturare il leviatano morente, e impartì alla sua Libellula la virata più brusca cui ebbe fegato d'arrischiarsi.
Poi fu, per lui, come trovarsi coinvolto nei festeggiamenti del Capodanno cinese. Nugoli di frammenti incandescenti lo attorniarono disperdendosi in mille rivoli di fuoco. La Libellula venne squassata dal susseguirsi di molteplici onde d'urto, schiaffeggiata da sciami di schegge crepitanti, inghiottita per un attimo dall'abbacinante sudario di fiamme vomitato da una bomba scaraventata ad esploderle un po' troppo vicino…
Aere tranquillo e zeffiri sereni l'accolsero all'uscita dalla nube.
…Ma la Libellula era in frenetica trasformazione.
Si plasmava e riplasmava mutando geometrie una conformazione dopo l'altra, rallentando, dando inizio ad un lento, progressivo, inesorabile sbandamento a babordo. Da qualche parte, nell'ampia sua gamma di possibili strutture aerodinamiche, doveva pur esserci una configurazione atta a renderle il volo ancora possibile…
Ma non c'era.
Mi spiace, parve volesse dire al suo pilota l'intrepido aeroplanino, mentre capovolgendosi prendeva a precipitare come un sasso.
Conal si proiettò fuori senza esitazione, fece sbocciare il paracadute, vide il relitto in fiamme del Luftmörder fracassarsi al suolo mancando d'un centinaio di metri le propaggini dell'esercito.
E pensare che qualcuno aveva voluto convincerlo che nella vita vera le cose non vanno mai a finir bene come succede nei fumetti…
Poi guardò in su, ed ebbe modo di constatare che il suo fido paracadute sfoggiava senza pudore un bellissimo sbrano. Pimpante e gasato com'era, non se ne diede il minimissimo pensiero. Sopravviverò pure a questo, si disse, rivolgendo alla sorte un gran sorriso.
E sopravvisse.
Quando cercò di rimettersi in piedi, però, dovette cacciare un grand'urlo di dolore. Era riuscito a fratturarsi una caviglia.
— E chi mai ce l'ha avuto il tempo di far pratica co' 'st'aggeggi? — spiegò a quei bravi ragazzi della squadra di soccorso.
Avrebbe potuto essere andata diversamente.
Gea non disponeva di molti consiglieri militari, ma di qualcuno sì, e allorché giunsero i primi rapporti sulla sconfitta delle forze aeree di Crono e Meti, uno di costoro andò a cercarla e le riferì in merito. Le raccomandò, in tale circostanza, che venisse prontamente disposto il richiamo delle unità attualmente di stanza nelle zone più remote della Ruota, organizzandone altresì lo schieramento su posizioni più favorevoli allo scatenamento di un attacco in massa. Era unanimemente riconosciuto che si trattava del modo più efficace di affrontare i piccoli, infidi aerei di Bellinzona.
Gea stava assistendo alla proiezione di Guerra e Pace, nella versione integrale della Mosfilm. Convenne che si trattava probabilmente di una buona idea, e ordinò che la si relazionasse di nuovo al termine del film, quando avrebbe avuto agio di rifletterci un po'.
Ma all'uscir finalmente di sala, mentre ancora stordita ammiccava in piena luce, fu informata che tutte le sue basi aeree erano state distrutte, e che la sua Aviazione si trovava ormai ad un passo dal completo annientamento.
Tali cattive nuove suscitarono, sul suo faccione, uno stizzoso aggrottar di sopracciglia.
— Vedete un po' se vi riesce di scovare quella copia di Tattica e Strategia della Guerra Aerea — fu tutto quel che disse ai suoi consiglieri, e rientrò, senz'altro indugio, in sala proiezione.
Si contarono i morti, i loro corpi martoriati furono pietosamente composti in attesa dell'ultimo atto. Poco più di seicento umani, ventidue titanidi. Le misere spoglie vennero quindi accatastate assieme a cumuli di legna da ardere, e infine si appiccò il fuoco, mentre tutte le Divisioni, sull'attenti, rendevano gli onori.
I feriti ricevettero ogni possibile cura. Millecinquecento umani e trentacinque titanidi, molti dei quali in condizioni preoccupanti. I meno gravi furono caricati su alcuni carri ed avviati, sotto scorta di tre Coorti, verso la città.
Un'intera Legione di morti e feriti, dunque, più un'altra mezza Legione che non avrebbe proseguito l'avanzata verso Iperione. Perdite analoghe avevano proporzionalmente interessato i titanidi. Si trattava insomma, a tutti gli effetti, di un'ulteriore decimazione.
Le cose sarebbero potute anche andare molto peggio. Tutti continuavano a ripeterselo. Ma nessuno si azzardò a dar voce a questo pensiero, intanto che il rogo funebre levava alte lingue di fiamma nella notte, o mentre uno sventurato campionario di superstiti accecati, ustionati, squartati, mutilati, veniva pian piano issato sui carri.
Con la spietata logica della guerra, Cirocco sapeva che non sarebbe potuta andar meglio neppure ad averne programmato ogni istante.
L'Aviazione aveva subito perdite molto più gravi dell'esercito, sia in uomini che in mezzi, ma, in compenso, le forze aeree geane non esistevano più. E i superstiti erano veri eroi. Il racconto delle loro strenue gesta si sarebbe perpetuato a lungo, nei bar di Bellinzona.
L'esercito era sì duramente provato, ma ora probabilmente più forte di quanto non fosse mai stato. Aveva orribilmente e definitivamente ricevuto, nel sangue, il suo battesimo del fuoco. I soldati avevano visto morire i loro compagni. Ne attribuivano la colpa a Gea, e la odiavano. Avevano assaggiato il gusto acre della paura. Ormai erano veterani.
I Generali capivano bene che era meglio non tirare in ballo simili argomenti, con Cirocco. Non avevano dimenticato la sorte toccata all'ex collega che aveva parlato di "perdite accettabili". Però sapevano tutti quanti che era la verità, e sapevano pure che Cirocco se ne rendeva perfettamente conto.
Difficilmente sarebbe potuta andar meglio di così.
Cirocco era talmente felice che aveva voglia di vomitare.
Il solo elemento in grado di renderle la situazione seppur lievemente tollerabile era il fatto che, sino allora, i suoi soldati avevano dovuto scontrarsi unicamente con dei mostri. Lei poteva quindi accettare, ed anche approvare, quell'odio, quel sanguinario spirito di vendetta, che tanto le sarebbero ripugnati se fossero stati rivolti verso un altro gruppo di umani. Fino a quel momento il suo esercito aveva, indiscutibilmente, combattuto il male.
Ma in Iperione, una volta giunti alle porte di Pandemonio, tutto poteva cambiare. Se i piani elaborati per affrontare Gea non avessero funzionato, quella gente si sarebbe trovata ben presto a dover volgere le armi contro altri esseri umani.
Una ristretta cerchia di costoro aveva scelto volontariamente di risiedere in quel luogo, ed era malvagia al pari di Gea. Ma gran parte degl'individui confinati entro Pandemonio erano stati scaraventati in quel malefico calderone non meno accidentalmente di quanto gli abitanti di Bellinzona fossero stati riversati in Dione. Con la stessa spietata imparzialità di un gioco d'azzardo. E Gea usava comunque un mazzo truccato.
Cirocco si ritrovò ad innalzare mute invocazioni a Santa Gaby. Ti prego, non lasciare ch'io cada in errore. Ti prego, non lasciare che questo esercito… l'esercito che ho accettato di radunare solo perché tu m'hai promesso che avremmo potuto salvare Adam senza mai costringere i nostri fratelli umani a scannarsi l'un l'altro in una sporca guerra… sì, ti prego, non permettere che essi imparino a godere nel provocare la morte dei loro simili.
Un altro pensiero l'aiutava ad andare avanti. Se fosse morta, e l'esercito avesse dovuto combattere, sarebbe in ogni caso stato meglio, per gli esseri umani coinvolti nel conflitto, fare una fine cruenta, piuttosto che vivere in schiavitù.
L'esercito riprese la marcia a tappe forzate.
Quando la strada incominciò ad essere inghiottita dalla giungla, il gruppo dei titanidi si portò in testa.
Ora c'è da osservare che, a proposito dei titanidi, era serpeggiato qualche mormorio di malcontento. Non basato sulla logica, ma si sa, certe reazioni, con la logica, non hanno mai granché da spartire. Non importava che i soldati, immobilizzati al suolo, non avessero avuto nulla con cui replicare efficacemente ai colpi degli attaccanti… anzi, diciamo pure che in realtà non avevano affatto combattuto. E non importava che, fosse stato minimamente possibile, anche gli umani se la sarebbero filata dal campo di battaglia. Il semplice fatto era che i titanidi avevano alzato gli zoccoli, mentre gli umani erano rimasti lì in mezzo a beccarsi le pallottole e le bombe.
Ma ci pensò la giungla, a dare uno scrollone a questa latente ostilità.
Era lento e difficile avanzare attraverso la giungla. Percorrendo l'interminabile, cupa, opprimente galleria di fogliame, gli uomini superavano gruppi di esausti, sanguinanti titanidi accovacciati sui bordi del sentiero. Seduti accanto a loro, i soldati della Legione che aveva in precedenza marciato all'avanguardia. Allorché la carovana aveva terminato di passare, Legione e titanidi si accodavano in retroguardia. Ciò accadeva all'incirca ogni due riv.
Quando una Legione veniva a trovarsi in testa, si rendeva conto di come funzionasse la cosa. Un gruppo di cinquanta titanidi si faceva strada a colpi di lama nel fitto della vegetazione con la rapidità e l'energia di una gigantesca, inarrestabile sega circolare. Era uno spettacolo che incuteva timore. Piccole, feroci creature tutte zanne e artigli li aggredivano senza un attimo di tregua. Piante velenose graffiavano le loro tenaci pelli multicolori. Non ci voleva molto a capire che, se a spianare la strada vi fossero stati degli esseri umani, l'esercito avrebbe avanzato a circa un decimo della sua velocità attuale, e solo a prezzo di pesanti perdite.
Risultava comunque abbastanza dura anche per chi godeva il momentaneo beneficio di trovarsi in mezzo alla colonna, con tutte quelle bestiacce che ad ogni momento saltavano fuori dalla boscaglia. Fra le truppe si era diffuso un certo nervosismo. C'era chi moriva così, all'improvviso, senza ragione apparente, vittima di veleni che agivano per semplice contatto.
Quando si accampavano, la giungla si richiudeva su di loro serrandoli in un abbraccio micidiale. Creature demoniache, più adatte a popolare incubi da tossicomani che ad infestare la vita reale, scaturivano brancolando dalle tenebre ed emergevano per breve tempo alla luce, talmente formidabili da opporsi a quattro o cinque titanidi.
Due volte, dovettero fare il campo. Nessuno dormì molto.
Come se tutto ciò non bastasse, esisteva poi un altro motivo di tensione costante. S'era sparsa la voce che un nuovo attacco in forze avrebbe potuto essere sferrato contro di loro mentre ancora si trovavano in Crono, notoriamente alleato di Gea. Nessuno conosceva la natura di tali ipotetici nemici, ma, da quello che s'era visto sarebbe stata certo una cosa spaventosa…
Tuttavia, per un qualche motivo, Crono non attaccò. L'esercito uscì dall'altra parte della giungla, e tutti trassero un gran sospiro di sollievo… tutti, tranne cinquantadue titanidi e sedici umani, che non avrebbero respirato mai più.
Si accamparono assai più confortevolmente in riva all'Orione, sul limitare del gran deserto di Mnemosine, non lungi dal punto in cui il fiume s'immergeva nel sottosuolo, percorrendo poi duecento chilometri prima di tornare in superficie.
Cirocco li lasciò riposare, riprendersi dalle fatiche e dalle emozioni della giungla, e raccogliere le forze di cui avrebbero avuto bisogno per attraversare il deserto. Si organizzarono incontri di calcio. Uomini e donne poterono appartarsi nelle tende coniugali, e dimenticare per un poco le loro paure.
Tutti i recipienti disponibili furono riempiti fino all'orlo. Non avrebbero incontrato oasi né sorgenti, non vi sarebbe stata da attingere una sola stilla d'acqua finché non avessero raggiunto le nevi di Oceano.
Universalmente condiviso era il sacro timore nei confronti del verme delle sabbie.
Molte storie si narravano sul suo conto, sebbene fra gli umani di Gea soltanto Cirocco potesse dire d'averlo veduto.
Era lungo dieci chilometri e aveva una bocca larga duecento metri, dicevano alcuni. Era assetato di sangue umano, secondo altri. Amava rimanersene sepolto nelle profondità sabbiose, ove poteva muoversi più rapido di quanto non corresse un titanide, per poi prorompere d'improvviso in superficie a divorare interi eserciti.
Be'… più o meno.
Parecchi narratori, diciamolo pure, avevano in mente l'immane creatura apparsa in un film di tanti anni prima, uno dei preferiti di Gea. Anzi, le era piaciuto a tal punto da costruirla, quella bestia, lasciandola poi libera di scorrazzare in Mnemosine: regione che, stando alle leggende titanidi, aveva brillato un tempo come il Gioiello della Ruota.
In verità c'era molto di più, e molto di meno.
Durante l'attraversamento del deserto ebbero la ventura d'imbattersi, verso metà strada, in una delle immense spire del verme. L'animale era lungo, in effetti, trecento chilometri, con un diametro di quattro. Preferiva, sì, mantenersi sotto la superficie, ma dove il substrato roccioso era profondo meno di quattro chilometri non aveva scelta, e anse del suo corpo sconfinato divenivano visibili già a grande distanza. Intento da sempre a triturare le rocce gradualmente riducendole in sabbia sempre più fina, viveva nutrendosi dei minerali che in qualche modo ne estraeva.
Quanto alla sua velocità…
Trecento chilometri di sabbia creano un'enorme quantità di attrito. Il verme delle sabbie era composto di giganteschi segmenti anulari, lungo ciascuno un centinaio di metri. Accadeva, in pratica, che uno dei segmenti visibili si spingeva, con uno strattone, avanti di sei o sette metri, poi il segmento successivo seguiva l'esempio di quello precedente, quindi era la volta di una terza sezione, e così via. Due o tre minuti dopo la procedura si ripeteva daccapo, e ciascun segmento avanzava di altri sei o sette metri.
Tanto grande fu il sollievo provato dai soldati nel constatare che il mitico verme delle sabbie, pur imponente e formidabile, era del tutto innocuo, da dare il via a una bizzarra moda che Cirocco non fece nulla per ostacolare. L'esercito incominciò a coprire la creatura di scritte d'ogni genere.
Man mano che ciascuna Legione transitava accanto ai due o tre chilometri di verme visibili in superficie, i comandanti accordavano una breve sosta, e tutti si affollavano accanto al fianco dell'animale per non rinunziare al piacere di scrivere la loro sulla più grande parete vivente che avessero mai veduto, ma anche per ridere dei messaggi lasciati da chi li aveva preceduti. Si notava una certa sentimentale predilezione per i nomi di persona e di città. "Marian Pappadapolis, Giakarta". "Carl Kingsley, Buenos Aires". "Fahd Fong, GRANDE Stato Libero del Texas!"
Si poteva incidere la sorprendentemente morbida cotenna dell'animale con la spada od il coltello; tanto a lui non gliene fregava niente lo stesso.
Si trovavano poesie: "O voi, che al gran verme in su i coglioni, scrivendo andate fanfaluche e strafalcioni…"
Comunicazioni urgenti: "Sammy, telefona a casa!"
Pubblicità: "Ore liete? Cercate di George, Quinta Legione, Tenda Dodici."
Critiche: "Sonja Kolskaya cià le pulci!"
Filosofia: "Esercito fottuto!"
Suggerimenti utili: "Vaffartelometterinculo!"
E patriottismo: "MORTE A GEA!!!!!"
Quest'ultimo messaggio lo si ritrovava ripetuto in lungo e in largo per tutta la spira. C'erano poi toccanti elogi funebri in memoria di amici caduti, nostalgici lamenti per la casa lontana comuni ai soldati di tutti i tempi e di tutti i paesi, ed anche un frammento di storia: "Kilroy è stato qui."
Cirocco pensava che l'incontro col verme delle sabbie poteva considerarsi una vera fortuna. L'esercito aveva un gran bisogno di qualche diversivo. La traversata di Mnemosine si stava rivelando, per quegli uomini, un'esperienza infernale.
La temperatura toccava agevolmente i sessanta gradi, e di rado scendeva sotto i quarantacinque. Il fatto che il tasso di umidità fosse assai modesto rendeva un poco più tollerabile quel tormento, ma nient'altro soccorreva ad alleviare i disagi delle truppe. Non c'era neppure la notte, a portare sollievo, né una provvidenziale brezzolina che trascorresse a mitigare l'alito delle sabbie roventi.
Affrontare il deserto geano richiedeva strategie alquanto diverse da quelle efficacemente adottabili, ad esempio, nel Sahara. La luce solare scendeva giù fiacca come tè allungato. Non era in grado di abbronzare e tanto meno scottare chicchessia. Quindi nessuno indossava cappelli né indumenti protettivi di alcun genere. Molti, anzi, preferivano addirittura spogliarsi nudi, in modo che il sudore potesse evaporare il più in fretta possibile. Altri portavano invece abiti leggerissimi, per evitare che i liquidi corporei si disperdessero troppo rapidamente.
Nessuno dei due sistemi serviva a granché. E poi avevano abbastanza acqua da poter compiere l'intera traversata senza ricorrere al razionamento, quindi Cirocco lasciò che ciascuno si regolasse come preferiva. Il problema, semmai, era non rovinarsi i piedi e riuscire a prender sonno, ogni tanto.
Vennero riesumati e distribuiti in giro certi vecchi aggeggi portati da Dione. Assomigliavano a racchette da neve, ed erano fatti di robuste canne intrecciate. Ci voleva una certa pratica per camminare con quegli affari ai piedi, ma ne valeva la pena. Tutto il calore, in effetti, proveniva dal basso, risalendo attraverso la sabbia, che in certi punti era talmente bollente da poterci cuocer sopra il rancio. Calzando le racchette, il peso del corpo veniva distribuito su una superficie più ampia, e quindi non si affondava più. Anzi, di solito si riusciva persino ad evitare che le suole stesse degli stivali venissero a contatto col terreno.
Anche i titanidi avevano le loro racchette da sabbia, in versione superrinforzata. Ma le Jeep, poverine, se la passavano decisamente malaccio, e non facevano altro che elevare strazianti barriti.
Accamparsi era un vero incubo.
La gente dormiva in piedi, appoggiandosi ai carri. Molti preferivano approntare giacigli di fortuna accatastando quel che di più adatto gli capitava a tiro… tende ripiegate, indumenti, qualunque cosa si prestasse a fornire un po' d'isolamento… e poi ci si stipavano sopra esausti, risvegliandosi poi di soprassalto boccheggianti, fradici di sudore, angosciosamente attanagliati da incubi in cui sognavano di bruciare.
Meglio era, invece, dormire durante la marcia. I soldati lo facevano a rotazione, arrampicandosi in cima ai carri e racimolando qualche ora di sonno finché non li andavano a svegliare quelli del turno successivo. Ma c'era sempre chi si addormentava nel camminare, stramazzando a terra e ribalzando su con un urlo.
Si verificarono casi di sfinimento e disidratazione. L'Aviazione faceva la spola, provvedendo a trasportare i casi più gravi direttamente sul confine di Oceano. Ciò nonostante si ebbero anche dei morti, sebbene non tanti quanti Cirocco aveva temuto.
Giunti alla zona crepuscolare fra Mnemosine ed Oceano, sui bordi del tiepido lago entro cui l'Ofione riemergeva dal suo viaggio nelle viscere di Gea, Cirocco accordò una breve sosta, durante la quale gli uomini poterono finalmente riposare sdraiandosi sulla nuda terra. Quindi, forzando il passo, condusse l'esercito sulle rive del più grande mare di Gea, esteso ad occupare il sessanta per cento dell'intera regione di Oceano e chiamato anch'esso, semplicemente, Oceano.
Le sue acque erano fresche. Lungo il litorale cresceva una striscia di vegetazione. Le affrante Legioni si liberarono di quel poco che avevano ancora indosso, e s'immersero nel mare. Lanciando grida gioiose, le Jeep corsero anch'esse a diguazzar tra i flutti. I titanidi si spinsero a nuotare al largo, bizzarramente somiglianti, con quel loro torso umano a pelo d'acqua, ad altrettanti inverosimili mostri di Loch Ness.
Ancora una volta Cirocco riunì i suoi Generali, per discutere come regolarsi con gli uomini troppo indeboliti dalla traversata di Mnemosine. Cercò di tener loro celati i propri timori, e le parve di non esserci riuscita. Oceano rappresentava per lei una grande incognita. Lo aveva percorso numerose volte, e sempre sperimentando una paura profonda. Si trattava di una reazione difficile da motivare, visto che nulla di particolarmente grave le era mai accaduto in quella regione. Ma Gaby si era sempre rifiutata di parlarne, e ciò la preoccupava.
Fu dunque deciso che i militari giudicati dal corpo sanitario troppo debilitati per sobbarcarsi la traversata di Oceano avrebbero dovuto attestarsi lì, sulla sponda occidentale. Nessuno sarebbe rimasto a proteggerli. In caso di attacco, dovevano cavarsela da sé.
Cirocco fece veder loro cosa mangiare e cosa evitare, quindi, dopo aver rimandato la partenza il più a lungo possibile, s'inoltrò col suo esercito in Oceano.
I carri viaggiavano leggeri come non mai. Le particolari attrezzature utilizzate durante la marcia nella giungla erano state abbandonate sul confine occidentale del deserto. Il materiale da deserto era a sua volta rimasto a far compagnia ai convalescenti sul limite orientale. In Oceano non c'era bisogno di portarsi dietro scorte d'acqua, e l'equipaggiamento invernale, scarrozzato per tanto tempo e tanta strada in attesa di trovare un impiego, adesso era tutt'uno con le truppe in marcia. Ammesso che le Jeep apprezzassero il diminuito fardello, non lo davano comunque a vedere.
Il cammino attraverso Oceano li condusse lungo la sponda meridionale del mare, oltre il punto in cui il grande mantello di ghiaccio incominciava a formarsi, e fin sul ciglio di uno dei tre immensi ghiacciai che si protendevano dagli altipiani meridionali. In quella zona lo strato ghiacciato era spesso più di cento metri, quindi perfettamente in grado di sopportare il peso dell'intero esercito con un ampio margine di sicurezza.
In Oceano, proprio come in Mnemosine, la Circum-Gea non si era mai spinta. Sarebbe stato folle cercar di mantenere in quelle zone ingrate un tracciato permanente. Il tragitto più agevole passava attraverso il mare solidificato. Sebbene esso non fosse perfettamente livellato — la pressione dei ghiacciai provocava infatti gigantesche fratture, sospingendo immensi lastroni a sollevarsi, incrociarsi e accavallarsi caoticamente — era purtuttavia possibile seguirvi un percorso ragionevolmente pianeggiante. Ora che gli angeli avevano usato tutta la dinamite di cui avrebbero mai avuto bisogno, i superstiti aerei di Conal, con voli regolari, di quella roba ne portavano a tonnellate, e gli esploratori se ne servivano per aprire la Strada all'esercito in modo rapido ed efficace.
Mentre procedevano nel lucore notturno di Oceano, marciando verso il loro primo accampamento, scorsero una figura ben nota ingigantire da est. Era Finefischio, il cui comportamento sconfinava ancora una volta nell'inesplicabile. Gli aerostati avevano l'abitudine di traversare Oceano mantenendosi sempre ad alta quota: eppure eccolo scendere ed avvicinarsi, come se in quel luogo lo attendesse un improrogabile appuntamento.
Si fermò ad una certa distanza dall'esercito, e dal suo ventre incominciò a cadere quella che di laggiù pareva una polvere sottile. Continuò per un bel pezzo. A tratti si poteva udire il formidabile, inquietante muggito, simile al suono di una sirena da nebbia, prodotto dalle sue valvole nello scaricare l'eccesso d'idrogeno. Anche così, mentre la polvere continuava a cadere egli andò gradualmente guadagnando quota.
Quand'ebbe terminato riprese verso est, e allontanatosi di qualche chilometro scaricò un diluvio d'acqua di zavorra che si gelò in nevischio prima di giungere al suolo.
Il carico si rivelò legna da ardere. Giaceva sparpagliata su tutta la zona che Cirocco aveva scelto per insediarvi il campo, tagliata già a misura per adattarsi ai bruciatori che sarebbero stati installati nelle tende. Era asciutta, e una volta accesa si scoprì che quasi non faceva fumo.
Cirocco ordinò agli ufficiali di spargere fra le truppe la voce che quella legna era un regalo dei titanidi d'Iperione. La già alta opinione di cui i titanidi ampiamente godevano fra i veterani della giungla salì senza sforzo di un altro gradino allorché le truppe affamate si gettarono voracemente a sbafare i loro pasti fumanti, e quando le schiere assonnate gioiosamente s'infilarono fra le coltri nel confortevole abbraccio delle tende riscaldate.
Fu durante il loro secondo accampamento in Oceano, che Gaby tornò a visitare Cirocco.
Cirocco si trovava dentro la sua tenda. S'era messa comoda, allungando i piedi verso il fuoco sistemato dentro un recipiente simile ad un grosso fusto da olio. Nella tenda c'era una branda. E lei pensava che magari avrebbe potuto anche concedersi un sonnellino. Quant'era che non dormiva? Dai tempi di Crono, più o meno. Il fatto è che difficilmente gliene capitava l'occasione.
Però sentiva di averne bisogno. Quindi si stiracchiò a dovere, sbadigliò, chiuse gli occhi… e Gaby si materializzò oltre il lembo d'ingresso della tenda. Cirocco ne avvertì la presenza, e si tirò su a sedere. Non ebbe neppure il tempo di riflettere. Gaby la prese per mano, traendola con decisione verso l'uscita.
— Andiamo — le disse. — Debbo mostrarti qualcosa d'importante.
Sortirono assieme, immergendosi in un turbinìo di neve.
Non si poteva chiamarla una bufera. Non era nemmeno una vera tormenta. Ma a dieci gradi sotto zero, risulta sgradevole anche la brezza più lieve. Le due sentinelle di guardia fuori della tenda erano sveglie e attente, volgevano le spalle al loro falò in modo da non esserne abbagliate… eppure non videro Gaby né Cirocco. Il loro sguardo le attraversò senza soffermarsi.
Il che, pensò Cirocco, era abbastanza naturale, trattandosi di un sogno.
Arrancarono nella neve avvicinandosi a un'altra tenda, e Gaby condusse Cirocco al suo interno. C'erano due brandine, entrambe occupate. In una era coricata Robin, addormentata. Conal si mise a sedere sull'altra, stropicciandosi gli occhi.
— Capitano? Ma chi…
A quanto pareva, Conal riusciva a vedere Gaby senza alcuna difficoltà. Evidentemente anche lui stava sognando.
— Chi è? — domandò.
— Sono Gaby Plauget — disse Gaby.
A quel punto Cirocco non poté fare a meno di ammirare la reazione di Conal. Egli rimase un po' lì a fissare Gaby, senza fiatare, chiaramente intento a conciliare la realtà con le infinite storie che aveva sentito narrare da quando era su Gea. L'idea di avere accanto uno spettro non sembrava turbarlo granché. Infine annuì.
— Sarebbe lei la tua spia… vero, Capitano?
— Proprio vero, Conal. Ottima definizione.
— Me l'immaginavo che non poteva essere nessun altro. — Fece l'atto di alzarsi in piedi, trasalì, poi ruotò le gambe di lato in modo da potersi tirar su con la stampella.
Con quella caviglia rotta avrebbero dovuto rispedirlo in città, e lui s'era preparato a metter su un bordello del diavolo se qualcuno si fosse azzardato a proporre una cosa del genere. Ma non ce n'era stato bisogno. A Cirocco, invalido o no, lui serviva in Iperione. E siccome a scarrozzarlo ci pensava Rocky, non si trattava poi di un gran problema.
Comunque era stata davvero una brutta frattura. A parere dei guaritori titanidi, Conal avrebbe continuato a zoppicare per molto tempo. Forse per tutta la vita.
Gaby gli s'inginocchiò davanti. Aprì, senza sforzo apparente, la voluminosa ingessatura, imponendo quindi le mani sulla caviglia nuda. Strinse forte per un mezzo secondo. Conal boccheggiò, poi fece una faccia sorpresa. Si levò in piedi, e con la massima disinvoltura portò il peso del corpo a gravare sul piede infortunato.
— Miracoli, due per un diecino — disse Gaby.
— Bisognerà che prima o poi paghi il mio debito — commentò Conal. — Ma ringraziarti… — E scoppiò a ridere.
— Cosa c'è?
— Be', ringraziarti mi sembra davvero un po'… — Si strinse nelle spalle, mentre la bocca gli si contraeva in un sorriso sciocco. Aveva un'aria indecisa. — Qual è il secondo miracolo?
— Vedrete. Prendetemi per mano, ragazzi.
L'esperienza del volo parve scombussolare Conal molto più degli spettri e delle magiche guarigioni. Cirocco lo sentiva battere i denti.
— Dài, coraggio, Conal — cercò di rincuorarlo Gaby. — Dopo quel giochetto che hai fatto col Luftmörder, questa per te dovrebb'essere una passeggiatina da nulla, no?
Conal non rispose. Cirocco si limitò a sopportare pazientemente. Certo, non le piaceva affatto doversi trovare in situazioni che sfuggivano al suo controllo, ma durante quei sogni la cosa non sembrava avere mai troppa importanza.
Poi comprese di aver fatto i conti senza l'oste. Quando si rese conto di dov'erano diretti, desiderò ardentemente poter tornare indietro.
— Finora hai avuto fiducia, in me — le disse Gaby in tono gentile. — Cerca di fidarti ancora un po'. Non c'è proprio nulla di cui tu debba aver paura.
— Sì, lo so, però…
— Però non hai potuto fare a meno di provare un timore irrazionale tutte le volte che ti sei trovata a traversare Oceano, e ti sei sempre guardata bene dallo spingerti a meno di cento chilometri dal cavo centrale. Oceano è il nemico, questo continua a ripeterti la tua mente. Oceano è il Male. Be', son vent'anni, ormai, che hai capito che è Gea, ad essere malvagia. Quindi cosa c'entra Oceano?
— …Non lo so. Molte volte son partita per andare a guardare quel bastardo dritto in faccia… e continuo a vedermi davanti il Ringmaster fatto a brandelli dai suoi tentacoli…
— E a sentirti nelle orecchie quella storia assurda che ci propinò Gea su nel mozzo… — Gaby fece una pausa, poi riprese a parlare imitando la voce di una bambina petulante — …di' come la povera, incompresa Gea, nulla lasciò intentato, onestamente, e desiderava solo essere amica dell'umanità, ed accoglierci a braccia aperte… ma purtroppo quel folle, traditore, ribelle, bastardo d'un Oceano si mise di mezzo e… oh, voi tapini, qual terribile esperienza v'incolse, ma non per colpa mia, capite, fu Oceano, un tempo lontano parte anch'egli, sì, del mio titanico cervello, ma ormai semidio egli stesso, ahimè, e proprio nessun controllo m'è rimasto, sul quel vile farabutto…
Tacque, Gaby; e Cirocco riconobbe il sapore di dubbi che tante volte l'avevano assalita.
— Non sono certo così sciocca da non averci pensato anche da me — replicò. — Ma resta il fatto che non me la sono davvero mai sentita.
— Spione c'entra parecchio, in questo tuo blocco — continuò Gaby. — Anche dopo che te ne sei liberata, ti ha lasciato in testa un po' della sua immondizia.
Cirocco rabbrividì.
— Scusa. Credo d'avere usato una metafora piuttosto infelice. Ma ora basta, con le metafore. Ora andiamo ad affrontare la realtà.
Presero terra nei pressi del cavo centrale, proprio sul margine esterno della foresta di trèfoli, e proseguirono inoltrandovisi a piedi.
Man mano che si avvicinavano al centro, l'aria si andava facendo più calda. Né Conal né Cirocco avevano con sé una lampada, ma Gaby pareva disporre di una qualche sorgente di luce che le fluiva dinnanzi come una pioggia di dardeggianti raggidiluna, o come i riflessi generati dalle mille sfaccettature speculari di un lampadario da discoteca. Sufficiente per guardarsi attorno… anche se non c'era nulla da vedere. Cirocco aveva visitato la base di molti cavi, e si era sempre imbattuta, là sotto, nei relitti dei secoli. Scheletri di animali morti da lungo tempo, precipitate spoglie di nidi appartenuti a cieche creature volanti, raggrinziti rimasugli delle guaine che s'increspavano a desquamarsi dai trèfoli ciondolando giù per poche ore o interi millenni… persino vecchie scatole di cartone e involucri di plastica orfani dei loro tramezzini e lattine accartocciate risalenti ai giorni in cui Gea s'era trovata ad essere un'attrazione turistica, con torme d'umani che discendevano su zattere l'Ofione o s'accampavano nelle foreste di trèfoli. Foreste che ospitavano complesse ecologie notturne solitamente celate alla vista, ma della cui esistenza erano prova le deiezioni animali ed i frammenti vegetali caduti al suolo dall'alto d'invisibili interstizi.
Nulla di nulla, al contrario, in Oceano. Pareva che un'agguerrita squadra delle pulizie fosse passata solo poche ore prima a spazzare, spolverare, lucidare… Il terreno aveva la consistenza e l'aspetto del linoleum.
Ormai i timori di Cirocco erano solo un vago ricordo. E ripensandoci le sembrava persino assurdo, adesso, di avere avuto paura. Quelle sue fantastiche scorribande con Gaby le aveva sempre vissute in un piacevole statonirico di seminarcosi. Sapeva che in esse nulla di male poteva accaderle. Anche visti in retrospettiva, quei sogni non le trasmettevano la benché minima sollecitazione ansiosa. Procedeva ora dunque ricolma dell'ormai ben nota sensazione di tranquilla aspettativa. Le pareva, in un certo qual modo, d'esser come una bimba che cammini a fianco di sua madre lungo un viottolo sinuoso in mezzo al bosco. Esperienza interessante, sì, non tale tuttavia da suscitarle intense emozioni. Nuove cose l'avrebbero attesa dietro ogni svolta, mai niente però di pauroso. Il gusto dolce dell'attesa le blandiva il petto, e nessun pungolo importuno impelleva a sollecitarle il passo.
Condivideva anche, per tramiti e riflessi difficili a descrivere, un'eco delle emozioni che traversavano Conal. Neppure lui provava timore, ma solo una gran curiosità, tanto che Gaby si vedeva costretta a richiamarlo di continuo per evitare che si slanciasse innanzi a loro. Era, per completare la similitudine, come un ragazzo di città che il bosco non l'avesse mai veduto: ad ogni svolta del sentiero, per lui, una nuova meraviglia.
In un punto che Cirocco sapeva — senza poter dire di dove le venisse tale certezza — essere il centro esatto del cavo, scorsero una luce. Avvicinandosi, videro che accanto a quel chiarore sedeva un uomo. Gli giunsero a pochi passi, e si fermarono. L'uomo alzò il capo a guardarli.
Lo si sarebbe detto Robinson Crusoe, o Rip Van Winkle. Aveva capelli e barba lunghi e grigi. Mescolati a quell'arruffata profusione di peli s'intravvedevano oggetti estranei, come ramoscelli e frammenti simili a lische di pesce. Una lunga chiazza scura gli scendeva lungo la barba partendo dal mento. Era tutto incrostato di sudiciume. Portava ancora i medesimi indumenti che Cirocco ricordava di avergli veduto indosso, vent'anni prima, quel giorno che a Titantown, nella sala mescita della Gata Encantada, costui aveva strisciato piagnucolando sul pavimento in mezzo alla segatura e allo sterco titanide. Dire che i suoi vestiti erano cenci sbrindellati non rendeva loro piena giustizia: si trattava, in effetti, del più decrepito insieme di articoli d'abbigliamento che a Cirocco fosse mai capitato di vedere. Larghi squarci nel tessuto logoro mostravano generose porzioni di pelle, una pelle vizza, consunta, tesa allo spasimo sulle ossa, e ogni centimetro della quale recava cicatrici di tutte le dimensioni. Il suo viso era vecchio, ma non allo stesso modo del viso di Calvin. Avrebbe potuto essere la faccia d'un vagabondo barbone sessantenne. Una delle orbite oculari era vuota.
— Ciao, Gene — lo salutò Gaby in tono pacato.
— Come tu stai, Gaby? — domandò Gene, con voce sorprendentemente vigorosa.
— Io sto bene. — Si rivolse a Conal. — Conal, ti voglio presentare Eugene Springfield, già componente dell'equipaggio del vascello interplanetario Ringmaster. Gene, questo è Conal Ray, tuo pro-pronipote. Ha fatto un lungo viaggio, per poterti conoscere.
— Sedeteve quàe — li invitò Gene senza esitare. — Tanto 'n ho mica d'anda' da nessuna parte.
Si sedettero. Conal non staccava lo sguardo di dosso al vetusto congiunto, l'uomo che aveva creduto morto e per vendicare il quale era venuto su Gea.
La prima cosa che Cirocco notò dopo un'occhiata più attenta a Gene, fu un rigonfiamento che gli spiccava sulla fronte stempiata. La pelle, in quel punto, appariva intatta. Ma la sagoma cranica risultava deformata, come se dall'interno sporgesse un mezzo pompelmo.
L'ubicazione della protuberanza la diceva lunga. Cirocco stupì, al pensiero della pressione che quella cosa doveva esercitare sui lobi frontali di Gene.
Diede un'occhiata attorno. Non c'era molto, da vedere. Il fuoco scaturiva da una spaccatura nel terreno. Fermo e luminoso, nelle tenebre senza vento.
Da una parte un mucchio di paglia, probabilmente il giaciglio di Gene. Più in là, riflessi baluginavano da un immoto stagno largo una ventina di metri. Accanto a Gene un grande secchio zincato con dentro un po' d'acqua.
Ecco tutto. Si riconosceva, a breve distanza, l'ingresso alla scalinata che sprofondava a raggiungere la reggia di Oceano.
— Sei rimasto qui per tutto questo tempo, Gene? — gli chiese Cirocco.
— Eh, sì, mai mosso de quìe — confermò lui. — Fino da quella vorta là che Gaby me tagliò via le palle in Teti… — Diede una sbirciata a Gaby, uscendosene in una risatina stridula. No, pensò Cirocco, non era esatto definirla una risata. Non ne aveva la sostanza. Era semplicemente un suono uscito dalla gola di un vecchio. Lui continuò a gorgogliare così mentre occhieggiava Cirocco, poi Conal, infine di nuovo Gaby. — 'n é che sei venuta a domandamme scusa, vero no?
— No — rispose Gaby.
— Io però mica ce contavo, sai. E comunque 'n importa. Me so' ricresciute, ve', propio come la prima vorta che me l'hai tagliate… — Ed emise di nuovo quel suono chioccio che assomigliava a una risata.
— Ma qui cos'è che mangi? — gli chiese Conal.
Gene lo guatò con sospetto, quindi affondò dentro il secchio una manaccia nodosa, che subito ne riemerse stringendo un cieco animaletto grigio in preda a scomposti contorcimenti.
— Le cuoci su quel fuoco? — domandò a sua volta Gaby.
— Còcele? — trasecolò Gene. Scrutò la sgraziata bestiola che gli si sdivincolava fra le dita, poi guardò il fuoco, quindi tornò alla preda, mentre una sconvolgente congettura gl'impennava le irsute sopracciglia. Infine allargò la bocca in un gran sorriso, esibendo una terremotata chiostra di neri monconi. — Vacca, questa sì cch'è 'na pensata! Tanto so' ppoco toste… Da fatte casca' li denti, so'! L'acchiappo 'n quela pozza laggiù. Diavolacci sdrucchiolosi che 'n son altro! — Riponderò l'anguilla, aggrottò le sopracciglia dando l'impressione di non riuscire a capacitarsi di come avesse fatto ad arrivargli in mano, quindi la riscaraventò senza tanti complimenti dentro il secchio.
— Insomma, che ci fai qua sotto? insisté Conal.
Gene gli dardeggiò un'occhiata obliqua, ma non parve neppure vederlo. Si grattò la testa — Cirocco trasalì nell'osservare quanto profondamente le sue dita affondassero nella protuberanza frontale — e borbottò qualcosa fra sé. Sembrava non essere più consapevole della loro presenza.
— Gaby — bisbigliò Cirocco. — Ma come mai… quel modo di parlare, non è…
— Zotico? Bizzarro? Colloquiale? — Un angolo delle labbra le s'incurvò in un sorriso amarognolo. — Curioso, eh, per uno laureato ad Harvard, un niuiorchese in forza alla NASA… è questo che vuoi dire? Rocky, Gene è il più infelice figlio di puttana che sia mai vissuto. Quella là gli ha giocato certi scherzetti, che al confronto quelle che ha fatto a noi paiono simpatiche birichinate. Guardagli la testa. Avanti, devi solo guardargliela.
Sin dal momento del loro arrivo, a onor del vero, Cirocco non aveva quasi fatto altro.
Ora, però, si sentì afferrare anche da un'impellente coazione a toccarla, quella testa. Resisté per quanto le riuscì, poi si alzò, andò ad inginocchiarglisi dinnanzi, e gli appoggiò sulla fronte il palmo della mano. Ne ricavò un'impressione di morbida cedevolezza. Sottopelle, qualcosa si moveva pigramente.
Pensò che avrebbe dovuto sentirsi nauseata, però non lo era. Fissò la propria mano come se appartenesse a qualcun altro, e avvertì il potere che in essa si andava accumulando. Gene alzò lentamente le mani, le strinse attorno all'avambraccio di lei, ma non fece alcun tentativo per allontanarla. Cirocco percepì chiaramente la sua inquietudine. E provò l'assurdo impulso — assai vicino a un cedimento isterico — di gridargli — Guarisci!
Poi si ritrovò a stringere qualcosa di umido che si contorceva ed emanava un fetore nauseabondo. Lo esaminò con calma, freddamente. Era tutto coperto di sangue, così come la mano che lo impugnava. Mostrava una notevole somiglianza con Spione, ma era rigonfio, grottescamente obeso, con due occhi roteanti che parevano due acini d'uva sbucciati. Emetteva un suono gracidante.
— Figlio di puttana — mormorava Gene. — Figlio di puttana. Figlio di puttana.
Cirocco udì Conal allontanarsi incespicando, poi lo sentì vomitare nel buio. Rimase immobile, concentrata sulla preda. Sapeva, inspiegabile consapevolezza, di non dover distogliere assolutamente gli occhi dalla creatura gracidante. Accanto a lei Gaby si stava esibendo in uno dei suoi giochi di prestigio. Ma invece di un coniglio o di una colomba evocò dal nulla, con gesto elegante…
…un recipiente cilindrico di spesso vetro nero. Cirocco ci ficcò dentro quella mostruosità, e avvitò stretto il coperchio.
Solo allora volse lo sguardo su Gene. Lui si stava palpando la fronte, che pur recando impresse le impronte sanguinolente lasciate dalle dita di Cirocco appariva intatta. La pelle, non più tesa, ciondolava, ma non v'erano tracce di ferite o cicatrici.
— Figlio di puttana — ripeté Gene.
— Come Spione? — domandò Cirocco. Adesso ch'era tutto finito, si sentiva addosso un languore prossimo allo svenimento.
— No — rispose Gaby. — Simili, ma non uguali. Spione si limitava ad ascoltare, e riferire. — Si picchiettò con le dita sulla fronte. — Il mio ascoltava e basta. — Prese in mano il recipiente nero. — Ma questo, era ciò che nel gergo dello spionaggio si chiama una talpa. Scavava in profondità, rimescolando le carte. Ogni volta che poteva, faceva in modo, senza mai uscire allo scoperto, che accadessero certe cose. Stupri, per esempio, e guerre, e sabotaggi… Finché la vita intera di Gene non si ridusse ad una serie di risposte alle pressioni di quel mostriciattolo. Povero Gene, nient'altro che un burattino nelle mani di Gea.
— Anche… lassù, sul cavo?
Perplessità circa l'atteggiamento di quell'uomo le avevano nutrite, tanti anni prima, già poco dopo il naufragio del Ringmaster, quando Gene aveva tentato, in diretta violazione delle procedure di Primo Contatto previste dai regolamenti delle Nazioni Unite, di suggerire ai titanidi l'uso di nuove armi nella loro guerra contro gli angeli. A quel tempo, tuttavia, s'erano indotte a sottovalutare le implicazioni di tale comportamento, ritenendolo unicamente dettato dal desiderio di aiutare i titanidi.
Non avevano quindi esitato a portarlo insieme a loro nella lunga scalata al cavo in direzione mozzo. Ma, durante l'ascesa, era accaduto che Gene aveva stordito Gaby, violentandola e lasciandola come morta. Poi aveva violentato anche Cirocco, e le avrebbe uccise entrambe, non fosse stato per un pizzico di fortuna ed un agile gioco di gambe.
Gaby era senz'altro intenzionata a castrarlo hic et nunc, ma Cirocco non glielo aveva consentito. Decisione della quale non si era mai pentita, pur se nel corso dei settantacinque anni successivi Gene aveva provocato infiniti fastidi, dando anche il via agli eventi sfociati nella morte di Gaby. Aveva rimpianto molte volte di non averlo ucciso, questo sì.
Comunque avevano dovuto constatare che Gene era un osso piuttosto duro. Gaby una volta gli aveva tagliato la gola, abbandonandolo per morto.
Ma lui era sopravvissuto.
In un certo senso aveva finito per diventare come Spione. Quando Cirocco voleva qualcosa da Spione, per indurlo a collaborare era costretta a torturarlo. E, nel corso degli anni, ogni volta che Gaby aveva incontrato Gene gli aveva portato via qualcosa… un orecchio, qualche dito, un testicolo. Gene era sempre immancabilmente guarito, solo che, a differenza di Cirocco e Gaby, gli erano rimaste le cicatrici.
— No, sul cavo no — rispose Gaby. — Non direttamente, intendo. Non è che quella cosa lo costringesse fisicamente. Però gli sussurrava paroline molto convincenti. E Gene si è ritrovato con una personalità schizofrenica. Ecco… credo che una certa propensione alla violenza ce l'avesse già, altrimenti, almeno all'inizio, quella cosa non sarebbe riuscita, da sola, a spingerlo in tale direzione. Poi, col passare del tempo, quel che Gene poteva pensare o non pensare, volere o non volere, non ha più avuto la minima importanza. In un certo senso, Gene se n'era andato. Sì, da questo punto di vista, il Gene che conoscevamo è morto ormai da parecchi anni.
Gaby sospirò, scosse la testa, quindi continuò.
— E ti dirò che ora mi sento persino imbarazzata a stargli qui davanti. Perché vedi, se c'è un vero miracolo, in questa storia, è proprio in lui, nella tenacia con cui ha resistito per tutto questo tempo. Anche il solo fatto d'esser venuto qui… nell'unico luogo di tutta la ruota in cui Gea non guarda mai… Lei i suoi rapporti dalla talpa li riceve ancora, però finge che provengano da qualche altro luogo.
— E perché?
— Perché? Perché è pazza. E… anche per un altro motivo che vedrai fra poco.
Ricomparve Conal, ancora pallido in viso.
— Ma che cosa gli ha fatto? — domandò, con voce controllata e al tempo stesso veemente.
Cirocco credette per un attimo che intendesse riferirsi a quel che aveva fatto lei. Ma Conal si rivolgeva a Gaby, e Gaby gli spiegò la natura e il senso e la durata della condizione di schiavitù cui Gea aveva condannato il suo avo. Conal ascoltò attento, in silenzio.
— Anche Calvin? — domandò a un tratto Cirocco.
— Sì, anche lui aveva il suo. Ma Finefischio se ne accorse e lo uccise quasi immediatamente. Non so com'abbia fatto. Finefischio non s'è mai preso la briga di raccontarcelo… e un po' gliene faccio una colpa, anche se mi rendo conto che le faccende umane non gl'interessano un bel nulla. — Fece una spallucciata. — Comunque è proprio a causa dell'uccisione del suo parassita, che adesso Calvin sta morendo.
— Chi è Calvin? — volle sapere Conal.
— Ricordi il tuo fumetto? — rispose Cirocco. — Be', lui era quello di pelle nera.
— Anche lui è ancora vivo?
— Sì. — Cirocco tornò a rivolgersi a Gaby. — E di Bill che mi sai dire?
— Dopo essere rientrato sulla Terra abbandonò la NASA e iniziò a lavorare come agente di Gea. Tutto alla luce del sole, però svolgeva anche attività clandestine. Credo che il suo parassita fosse come quello di Gene, ma non ne sono certa. Inutile che mi chiedi di Aprile o Agosto. Ignoro completamente che cosa ne abbia fatto Gea.
— Però sono tante le cose che sai, non è vero? Adesso potresti rivelarmi qualcosaltro?
— Sapìvo io, ah, che ciavìo quissù — se ne uscì Gene all'improvviso. Tutti si volsero a guardarlo.
— Gni piacìa 'r pescio — proseguì, gesticolando verso il secchio. — Lu' gni s'arvestìa le belle trippe cor pescio, a lu'. M'a me mica m'arimanìa guasi gnente der magna' — si lamentò battendosi col pugno sul petto macilento. — Io però ciò sapìo che lu' stav'accassù. A pisciamme 'nta capoccia, lu' — concluse Gene sottolineando il concetto con la sua risatina gloglottante.
— Ma tu lo sai, Gene, chi te ce l'aveva messo? — domandò Gaby.
— Gea.
— E che ne pensi?
— Vor di' ch'avìa a fallo. — Richiocciolò, scotendo la testa. — Però ce so' stato nu poc'a pensa', caggiù. Nu poc'a pensa', essì.
Gaby parlò a Cirocco come se Gene non fosse in grado di ascoltare. E forse era proprio così.
— La parlata villereccia è un regalino d'addio escogitato da Gea. Ricordi la questione delle analogie cinematografiche di cui ti ho parlato? Ecco, lei voleva tirarne fuori un caratterista, un comico, una spalla brillante… roba del genere. Umorismo popolaresco e rozzo, insomma.
— Che idea simpatica… — fremette Conal.
— Sì, da morire dal ridere — convenne Gaby. — Gea è sempre stata divertente più o meno quanto un cancro al retto.
— Me so' cecato da 'n occhia — affermò Gene con la solita risatina. — Ce stav'a pensa' forte, io. Forte da schianta'. E chell'occhia m'ha schioppato fora, pàh! Nu male bùggero che 'n ve dico. Me ciaprovai pur'a rinfilalla. — Ridacchiò ancora. — Gomunque ma ricresce, eh. Vassemp'a finì cusì. Confa vorta che m'arsegai 'na mana, p'aprova' de smette de pensa', eppoi m'ha rispuntata pura chella. — Parve restare qualche istante a meditarci, e poi — Fa male, pensa' — concluse.
— Pensato a qualcosa, Gene? — domandò Gaby.
Lui la sbirciò col suo unico occhio.
— E ce credo — rispose, dopo un attimo d'esitazione. — Pensa' che quarcos'avìa fa'. Che quarchedun'avìa… avìa da caccialle 'r lume da l'occhie, ecco che! — proclamò, rivolgendo loro uno sguardo provocatorio.
— Un modo potrebbe anch'esserci, Gene — disse Gaby.
L'unico occhio gli si ridusse a una fessura dardeggiante sospetto.
— Nu' baggiana' 'r vecchio Gene, Gaby. — Prese un'aria che pareva d'imbarazzo, ridacchiò, fece spallucce, e la guardò come l'avrebbe guardata un cane che si fosse accorto d'avere sporcato dove non doveva.
— Ma te si' Ggaby daperdaéro? Ciavìa 'na voglia de venitt'a trova', sa'? Pe' dditte che… diobòno, ca me dispiacìa daperdaéro d'ave'… -Fece una faccia ancor più imbarazzata. — …d'avett'amazzato.
— Ormai è acqua passata, Gene — disse Gaby.
La risata di Gene risonò aperta e spontanea forse per la prima volta.
— Acqua passata? Chest'è bbona. Bisogna da di' che… — Volse attorno, nell'oscurità, uno sguardo confuso. Poi, faticosamente, parve avere riafferrato l'esile filo che lo univa al presente.
— Qualcosa forse c'è, che tu puoi fare — disse Gaby. — A Gea.
— A Gea?
— Ma sarà pericoloso. Voglio essere sincera, con te. Potresti anche lasciarci la pelle.
Gene la osservò con grande attenzione. Cirocco si domandò se avesse davvero compreso. Poi vide una lacrima scendergli lungo la guancia scarna e butterata.
— Vo' di'… che poderìa smette de pensa'?…
Gaby li condusse giù nella tana di Oceano ricorrendo allo stesso genere di obnubilante teletrasporto usato nel sogno precedente. Quando Cirocco si riebbe dal leggero stato confusionale si guardò attorno, ed ebbe la netta impressione di essere già stata in quel luogo.
Ma non era così. Esisteva solo una notevole somiglianza col sepolcro di Dione. E l'unica, sostanziale differenza, consisteva in un gran tubo verdognolo, scaturente dalle rovine del cervello che un tempo era stato Oceano e proiettato in verticale a scomparire nelle tenebre sovrastanti. Prima che il tubo raggiungesse il livello del pavimento si divideva in due parti, dirette una ad est e una ad ovest. Cirocco cercò di ricatturare l'immagine che quella scena le suggeriva, e alla fine ci riuscì. Modesti appartamenti in vecchie case popolari, lampadine nude a penzoloni dai soffitti, con le prolunghe per arrivare al tostapane e al televisore.
Il fossato, profondo, era completamente asciutto. Da lungo tempo, ormai, la vita aveva abbandonato quel luogo. Cirocco si rivolse a Gaby.
— Che cosa è accaduto, quaggiù?
— Forse non lo sapremo mai con precisione. È una conoscenza che in parte risiede ancora nella mente di Gea, e in parte è andata perduta per sempre. Accadde migliaia di anni orsono, come lei stessa ci ha raccontato. Solo che i cervelli non sono mai stati entità separate. Io credo che Oceano… morì, semplicemente. E Gea non riuscì a rassegnarsi. L'analogia in termini umani può essere spinta fino a un certo punto, dopo di che diventa insufficiente. Ma non ho altro modo per cercare di farti capire. Gea si sentì tradita. Rifiutò di credere in qualcosa di così assurdo come la morte di Oceano. Avvenne dunque che la sua mente subì una scissione, lei creò quaggiù questo nervo, con un troncone collegato al cervello d'Iperione e l'altro a quello di Mnemosine, e… divenne Oceano. E questa parte di lei era un'autentica carogna. Si verificò, in effetti, un qualche genere di scontro fisico, ma non certo drammatico e apocalittico come ce lo descrisse lei. In fondo era sempre e comunque Gea che discuteva con se stessa. E quando parli ad uno qualunque dei cervelli regionali, ti rivolgi né più né meno che ad un frammento della personalità di Gea. E anche adesso continua a scindersi. Lei ha… non posso rivelarti ogni cosa, ancora, ma devi sapere che Gea ha elaborato un… sistema per fare andare avanti le cose. Quella donna di quindici metri contro la quale ti appresti a combattere fa parte del sistema. Anche tu ne fai parte. E io pure, sebbene nel mio caso sia successo accidentalmente. Altro non posso dirti. Poi Gaby si rivolse a Gene.
— Se ti chiedo di fare certe cose, le farai? Te ne ricorderai? Se saprai che queste cose faranno male a Gea?…
L'occhio di Gene sfavillò.
— Oh, sì! Gene se n'arricorda. Gene glie farà male, a Gea.
Gaby sospirò.
— Allora anche l'ultima tessera è al suo posto.
Gaby li lasciò ai margini del campo, all'interno comunque del perimetro di guardia, in modo che non si creassero malintesi. Presero a camminare in direzione della luce.
Conal incespicò. Cirocco si protese a sorreggerlo, e si accorse che stava piangendo. Esitò qualche istante, pensando a quale potesse essere il modo migliore per aiutarlo, poi lo abbracciò. Lui continuò un poco a piangere a dirotto, poi rapidamente si ricompose, distaccandosi imbarazzato dall'abbraccio di Cirocco.
— Ti senti meglio?
— Grazie. È solo che m'è tornato in mente… quello ch'ero venuto a combinare quassù… a te.
— Non fare lo sciocco. Mica è stata colpa tua. Nemmeno io le sapevo molte delle cose che abbiamo sentito poco fa.
— Poveretto. Povero disgraziato figlio di puttana.
— Quando ti sveglierai ti sentirai meglio.
Lui le rivolse un'occhiata strana, quindi le strinse forte la mano, e si allontanò verso la sua tenda.
Anche Cirocco si diresse verso la sua. Le sentinelle le intimarono l'altolà, poi la riconobbero e la salutarono. Non parvero trovare nulla di strano nel fatto che lei fosse riuscita a sgattaiolare fuori della tenda eludendo la loro sorveglianza.
Chissà come ci resterebbero, se dessero un'occhiata dentro, pensò Cirocco. Sospirò, e sollevò il lembo che chiudeva l'ingresso, preparandosi ad affrontare un rituale che aveva già compiuto due volte, ma che ancora la faceva sentire a disagio.
La cuccetta era vuota. Nessun'altra Cirocco la occupava.
Rimase qualche tempo ferma lì in piedi a rifletterci, poi si sedette sulla branda, e ci pensò ancora un po'. Alla fine decise che non aveva senso cercare di svegliarsi, visto che non stava dormendo.
Diede uno sguardo all'orologio, vide che si avvicinava l'ora della partenza, e senz'altro indugio lasciò di nuovo la tenda per andare ad impartire le necessarie disposizioni.
L'esercito entrò in Iperione.
Con quel tempo sereno, il loro obiettivo era stato in vista fin dalla metà di Mnemosine. Sarebbe stato piuttosto difficile non accorgersi dell'immenso cavo verticale che puntava dritto al cuore di Pandemonio. E adesso, mentre marciavano attraverso le dolci ondulazioni collinari dell'Iperione sudoccidentale, a tratti riuscivano persino a scorgere la cerchia di mura che abbracciava lo Studio.
Il ponte sul fiume Urania era uno dei pochi rimasti in piedi lungo l'intera Circum-Gea. Gl'ingegneri di Cirocco lo esaminarono accuratamente, prima in cerca d'eventuali trappole esplosive, e poi per verificarne la resistenza strutturale. Le riferirono che era pienamente affidabile, ma lei preferì ugualmente prendere qualche precauzione, distanziando ampiamente i carri e facendo marciare le truppe fuori passo. Il ponte resisté.
A unire le due sponde del Calliope ci aveva pensato Gea, facendo costruire una diga in terra. Lo sbarramento aveva finalità idroelettriche, e serviva turbine che, secondo il metro umano, potevano essere considerate di modeste dimensioni.
L'Aviazione trasportò altra dinamite, e dopo che l'esercito ebbe attraversato la diga, Cirocco la fece saltare. Stettero tutti a guardare mentre un'ampia breccia irregolare si apriva nel fianco della costruzione, ed elevarono alte acclamazioni intanto che le acque del lago si aprivano rapinosamente la strada completando, in men che non si dica, l'opera di abbattimento. Con la diga se ne andarono anche le turbine. L'intero impianto era praticamente incustodito, a parte la presenza di sei tecnici Fabbri Ferrai, che parvero rimanere del tutto indifferenti di fronte alla distruzione della loro opera d'ingegneria.
Cirocco non avrebbe saputo dire se ciò fosse di buono o cattivo auspicio. Mantenne, tutt'intorno all'esercito, un accurato servizio di pattugliamento pronto a rilevare eventuali movimenti di truppe geane, ma la situazione si mantenne assolutamente tranquilla.
Da un bel po', Gea guardava quasi esclusivamente film di guerra.
La corrente andò via in un momento che peggio di quello non l'avrebbe potuto scegliere. Era in proiezione l'ultima bobina del Ponte sul Fiume Kwai. In un crescendo di tensione si stava preparando uno dei più grandi e più costosi finali di tutti i tempi. Si sentiva il piccolo ciuf-ciuf giapponese affrontare la curva, e sembrava che all'eroe gli fosse andato di volta il cervello, perché stava aiutando i musi gialli a trovare le bombe collegate al ponte, e…
Alec Guinness, pensava Gea con irritazione. Quasi un presagio. Ma lei, naturalmente, non credeva nei presagi…
Poi andò via la corrente. Una remota, indistinta parte della sua mente conosceva la causa di quell'interruzione, ma lei non aveva alcuna voglia di starci a pensare. Tutta quella storia era stata un gran divertimento, all'inizio, ma ormai ne era sempre più annoiata ogni giorno che passava.
A dire il vero, persino i film le stavano venendo in uggia. E poi era stufa di quel monellaccio capriccioso di un Adam, era stanca di quel fetente ubriacone di un Chris… e, soprattutto, non ne poteva più di stare ad aspettare che Cirocco Jones si decidesse a farsi avanti.
Non credeva, oltretutto, che a spiaccicare sotto un piede quella cagna insolente avrebbe avuto poi tutta la gran soddisfazione che si era ripromessa…
Restò lì a rimuginarci invelenita, mentre intorno un fuggi fuggi d'inservienti provvedeva ad attivare il generatore d'emergenza, e a portare un alimentatore da collegare al proiettore per fargli finire la bobina, e… insomma, tutte le piccole noiose incombenze tecniche spettanti al piccolo squallido servitorame in tuta e cacciavite. Non lo sapevano che lei era una grande attrice?
Riuscirono finalmente a rimettere in funzione tutta la baracca. Il proiettore sferragliò volenteroso per un quindici secondi o giù di lì, poi s'inchiodò, e la fornace della lampada fuse un bel buco proprio in mezzo alla pellicola.
Quand'è troppo è troppo.
Squartò il proiezionista, poi si precipitò come una furia nella piena luce dell'esterno per vedere se l'esercito di Cirocco era già arrivato.
Piantarono le tende dell'ultimo accampamento a soli dieci chilometri da Pandemonio. Una passeggiata, in pratica. E su Gea, ovviamente, un Generale non aveva neanche da preoccuparsi di scegliere l'ora migliore per l'attacco.
C'erano da fare due cose.
Convocò Nova, Virginale, Conal, Rocky, Robin, Serpentone, Valiha e Cornamusa, tutti insieme, nella grande tenda che ospitava il Comando. Nessun altro era presente. Persino alle sentinelle di guardia all'esterno era stato ordinato di tenersi distanti cinquanta metri.
Li fronteggiò, guardandoli bene in faccia uno dopo l'altro. Era più che soddisfatta di quello che vedeva, ma assolutamente disgustata al pensiero di quello che avrebbe dovuto dire.
— Robin — esordì. — Non ti ho mentito. Però non ti ho nemmeno detto tutta la verità. Nasu ha forse una probabilità su mille, di riuscire a sconfiggere Gea.
Robin distolse lo sguardo. Poi, lentamente, annuì.
— Credo di averlo sempre saputo.
— Anche se riuscisse ad uccidere questa Gea… e mi riferisco alla gigantesca mostruosità presente ora in Pandemonio, non certo alla vera Gea, con cui Nasu non potrebbe comunque mai misurarsi… be', non servirebbe a nulla. In effetti, mi aspetto che sia Gea ad uccidere Nasu.
— Nasu non è più il mio demone, Capitano — replicò Robin. Ricondusse lo sguardo su Cirocco, e i suoi occhi erario colmi di lacrime. — Voglio dire, non posso mica più portarmela dietro in un sacchetto di tela, no?
— No. Però sarei ancora in tempo a fermarla, se vuoi. Potremmo procedere anche senza di lei.
Robin scosse la testa, raddrizzò le spalle.
— Fai quel che credi giusto, Capitano.
Stavolta fu Cirocco ad abbassare gli occhi.
— Magari fossero sempre le scelte giuste. Ma neppur'io, tante volte, capisco bene… — Risollevò lo sguardo a scrutare i presenti. — A voi qui ho rivelato più che a chiunque altro. Adesso vi fornirò ulteriori elementi di comprensione. Nemmeno a questo punto, però, vi dirò tutto… Io stessa non ho completamente chiaro il quadro della situazione. Ma c'è una sola possibilità, e non posso lasciarmela sfuggire. Nova.
La giovane strega, colta alla sprovvista, trasalì ansimando. Cirocco le rivolse un sorriso stanco.
— No, tranquilla, nessun ribaltamento inatteso dell'ultimo minuto. Il fatto è che sto cercando di chiarire la mia posizione con tutti voi, e tu sei l'unica ad aver veduto Calvin. Te lo ricordi?
Nova annuì.
— Sta morendo. La sua malattia potrebbe anch'essere curabile, da parte dei guaritori titanidi… ma non lo sappiamo con certezza, perché lui si rifiuta di farsi visitare. Era un medico, però, quindi può anche darsi che l'abbia capito da sé, di essere incurabile. Ad ogni modo, vuol fare qualcosa per noi, e nel farlo morirà. Ecco perché quel giorno siamo andate a trovarlo. Per vedere se era disposto a collaborare. E lui ha detto di sì.
— Il giorno che presi la sbronza — ricordò Nova con un sorriso malinconico.
— Conal. Tu hai visto Gene. Quindi ti sarai formato un'idea delle sue capacità. Quel che Gaby gli ha detto di fare… be', probabilmente non riuscirà a farlo nel modo giusto. È molto facile che ci lasci la pelle. Gaby e io ne siamo quasi certe.
Per qualche attimo Conal rimase a guardarsi gli stivali, poi alzò la testa ad incontrare gli occhi di Cirocco.
— Non ho mai visto nessuno pronto più di lui a morire. Credo che per lui la morte sarebbe una grazia immensa… e credo pure che sappia benissimo quel che sta facendo.
Cirocco provò un senso di gratitudine. Conal riusciva a non deluderla mai. Trasse un respiro profondo, e ricacciò indietro le lacrime.
— Virginale, Valiha, Serpentone, Cor…
Cornamusa venne avanti, e con gesto delicato pose una mano sulla spalla di Cirocco.
— Capitano, poiché stiamo vivendo questo momento di sincerità assoluta, vorrei dirti che noi abbiamo già compreso quale…
— No — insisté Cirocco scansando la mano di Cornamusa. — Lasciami parlare. Lo sapevate tutti, che in questo scontro Chris potrebbe morire. Vi dissi che salvare Adam rappresentava il mio obiettivo primario. Vi ho mentito. La sua salvezza è il mio secondo obiettivo. Non ho parole per esprimere quanto essa mi stia a cuore… tuttavia, se questa battaglia dovesse concludersi con la mia morte, con la morte di Adam e anche con la distruzione di Gea, sarebbe pur sempre una vittoria.
Cornamusa non replicò. Si fece avanti Valiha.
— Ne abbiamo discusso fra noi — disse. — Obbedendo alle norme di sicurezza che ci hai chiesto di osservare, non abbiamo informato gli altri della nostra razza. Siamo quindi noi soli quattro a prendere questa decisione, e ce ne assumiamo tutto il peso. Ma sentiamo che la nostra razza sarebbe d'accordo con noi. Viene un tempo in cui bisogna rischiare il tutto per tutto, pur di sconfiggere il male.
Cirocco scosse la testa.
— Mi auguro proprio che tu abbia ragione. Esiste una forte probabilità che pur se io e Adam e Gea rimarremo uccisi, la meravigliosa razza titanide — che, ti giuro, amo più della mia stessa razza — possa ugualmente sopravvivere. Ma se Adam e io verremo uccisi, e Gea sopravviverà, voi sarete condannati. Ecco, quindi, la mia vera priorità assoluta: che la cosa chiamata Gea venga cancellata dall'universo.
— Siamo con te in quest'impresa — disse Cornamusa. — La responsabilità di salvare Adam rimarrà affidata a noi… — Fece un ampio gesto ad includere l'intero gruppo. — …noi sette, appartenenti a due diverse razze, ma uniti dall'amore. Così sia ciò che dev'essere.
— Così sia ciò che dev'essere — cantarono i titanidi.
— La vita di Adam è adesso nelle nostre mani. È un pensiero che puoi allontanare dalla tua mente. Ci hai detto cosa dobbiamo fare, e noi lo faremo al meglio delle nostre capacità. Dimenticatene, dunque, ed abbi fiducia in noi… e fai quello che devi fare.
— Per sempre tu sarai la nostra Maga — dichiarò Serpentone — poi cantò la stessa frase con voce squillante e decisa. Gli altri titanidi si unirono a fargli eco.
Cirocco aveva una gran voglia di piangere, ma riuscì a trattenersi. Tornò a guardarli in volto.
— Potrebb'essere l'ultima volta che c'incontriamo — disse.
— Se così fosse, teneramente, per il resto del suo tempo, chi rimarrà serberà in cuore il ricordo dei caduti — intonò Virginale.
Cirocco si fece loro accanto, e per ciascuno vi fu un bacio. Poi li lasciò andare per la loro strada. Aveva creduto d'essersi sgravata d'ogni stilla di pianto, là a Tuxedo, ma, quand'essi l'ebbero lasciata, scoprì d'avere ancora in serbo qualche lacrima.
Trascorse del tempo, prima che fosse in grado di convocare i Generali.
Quando furon tutti seduti attorno al tavolo di comando, Cirocco li osservò uno dopo l'altro, e provò un pizzico di vergogna per quel suo vezzo di pensare sempre a loro definendoli col numero della Divisione che ciascuno comandava. Era un'abitudine irresistibilmente scaturitale dal suo disgusto per tutto quanto sapeva di militaresco. Ma questi, ormai, erano compagni d'avventura. Le erano stati accanto assistendola nel migliore dei modi, e adesso doveva far loro davvero una bella sorpresa, e insomma era giunto il momento di smetterla una volta per tutte, con quella storia dei numeri.
Li fissò, dunque, uno per uno, imprimendoseli bene in mente.
Park Suk Chi: un piccolo coreano sulla cinquantina, comandante della Seconda Divisione.
Nadaba Shalom: una donna di quarant'anni, dalla pelle delicata, imperturbabile, spina dorsale dell'Ottava.
Daegal Kurosawa: una mescolanza razziale di giapponese, svedese e swazi, comandante della Centouno.
Avevano fatto tutti e tre la carriera militare, sulla Terra, senza però avanzare oltre il grado di Tenente. Ai loro ordini, adesso, obbediva gente che era giunta più in alto, ma nessun ex Generale. Per un certo periodo, a Bellinzona, la scoperta di un ex-Generale aveva immancabilmente rappresentato occasione d'eccezionali festeggiamenti. La gente si riuniva in gran folla, legava il disgraziato sopra una bella catasta di legne, e appiccava il fuoco. A Bellinzona, il rogo dei Generali era stato l'unico sport locale.
Allorché Cirocco aveva preso il potere, già da qualche tempo non si verificavano più linciaggi. Ciò nonostante era stato difficile, all'inizio, convincere qualcuno ad accettare quel grado, e per un poco i Generali erano stati chiamati "Cesari". Poi, man mano che la gente si abituava all'idea che quei Generali non avevano armi nucleari con cui baloccarsi, era di nuovo tornato in uso il termine convenzionale.
— Park. Shalom. Kurosawa. — Fece un cenno col capo a ciascuno di loro, ed essi risposero al gesto con aria un po' dubbiosa.
— Innanzitutto… non costruiremo torri d'assedio.
Rimasero sorpresi, ma fecero del loro meglio per non mostrarlo. Fino a poco tempo prima, uno di loro le avrebbe domandato se progettava un attacco frontale attraverso i ponti, e un altro le avrebbe chiesto se non aveva pensato a prenderli per fame. Ora non più. Ora si limitavano ad ascoltare.
— Ciò che sta per accadere qui sarà un po' come una grande parata. Assomiglierà da un lato a una sfilata carnevalesca, e dall'altro ad una spettacolare rappresentazione su schermo panoramico. Sarà un film di mostri. Sarà come una di quelle grandiose esibizioni all'aperto dell'Ouverture 1812, con tanto di cannoni. Sarà il 4 Luglio e il Cinco de Mayo. Quello che invece non sarà, amici miei, è proprio una guerra.
Per un po' nessuno fece commenti. Alla fine parlò Kurosawa.
— Ma, insomma… che cosa sarà?
— Ve lo spiegherò fra un minuto. Ma prima… se quello che sto per descrivervi non andrà per il verso giusto, io morirò. E voi dovrete cavarvela senza di me. Non sono così sciocca da pensare di potervi dare ordini dall'aldilà. Le vostre decisioni dovrete prenderle da soli. — Si rivolse a Park. — Tu sarai comandante in capo dell'esercito. È in mio potere farlo, quindi ti promuovo da questo momento Generale a due stellette. Secondo le leggi di Bellinzona, anche con questo grado rimarrai soggetto al Sindaco di Bellinzona, quando verrà rieletto, ma sul campo di battaglia deterrai autorità pressoché assoluta.
Percorse di nuovo i loro volti, a uno a uno, osservandoli attentamente. Anche se i Generali cercavano di non far trasparire i propri pensieri, lei aveva un'idea piuttosto precisa della direzione che dovevano aver preso. Tre divisioni al fronte, una a Bellinzona. Se Park avesse deciso di muovere alla conquista della città, nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Lei l'aveva scelto appunto perché lo riteneva il meno propenso a cedere a tentazioni di dominio, il meno orientato all'instaurazione della legge marziale. Si rendeva tuttavia ben conto di avere, organizzando quell'esercito, potenzialmente creato un mostro. Se solo si fosse resa praticabile una strada diversa…
Ma Gea aveva voluto una guerra, e bisognava almeno darle l'illusione che guerra fosse. Era indispensabile distrarre la sua attenzione, e con meno di un esercito non sarebbe stato possibile.
— Prima di venire agli ordini del giorno, desidero che prestiate orecchio al mio illuminato parere circa la situazione che dovrete affrontare se verrò uccisa. Poi ne farete quel che vi parrà più opportuno. Il mio primo e fondamentale suggerimento è il seguente: ritiratevi.
Attese commenti, ma non ve ne furono.
— Potreste riuscire ad aprire una breccia nel muro, ne sono certa. E una volta dentro, rispetto alle forze messe in campo da Gea sareste superiori in tutto, tranne che nel numero. Subireste gravi perdite… e finireste per essere sconfitti. Se Gea decidesse d'inseguirvi, sarebbe un incubo quale mai avete immaginato. La sua furia si abbatterebbe sulle vostre truppe. Gea non dorme mai. Gea non si stanca mai. All'inizio riuscirebbe forse ad ucciderne pochi, dei vostri uomini, ma la fatica e la disperazione s'impadronirebbero rapidamente dei superstiti, e Gea proseguirebbe inarrestabile nella sua opera di sterminio con sempre maggiore efficacia. Potrebbe arrivare a distruggere anche un'intera Legione al giorno, e in breve tempo sareste spazzati via completamente. Ed è per questo che, se muoio, dovreste cominciare a ritirarvi immediatamente. Una volta giunti in Oceano sareste al sicuro, per qualche tempo, poiché non credo che lei porrà piede in quella regione.
Si accorse di essere riuscita a spaventarne almeno due, dei suoi Generali. Quanto a Park, si era limitato a stringere le palpebre, e Cirocco non riusciva a immaginare quali pensieri potessero agitarsi dietro quella maschera di tesa concentrazione.
— Se sopravvive… — incominciò Park. I suoi occhi si ridussero a due fessure ancora più sottili. — Finirà per arrivare a Bellinzona.
— Credo che sarebbe inevitabile.
— E in tal caso che dovremmo fare? — domandò Shalom.
Cirocco si strinse nelle spalle.
— Non ne ho la più pallida idea. Magari potreste anche riuscire a mettere insieme in frett'e furia un'arma capace di distruggerla. Me lo auguro per voi. — Brandì un pollice in direzione delle invisibili mura di Pandemonio. — Ma forse la miglior linea di condotta che potreste adottare consisterebbe nel sottomettervi a lei come quei poveri disgraziati là dentro. Prostrarvi davanti a Gea e dirle quant'è grande e magnifica e quanto v'è piaciuta la sua ultima pellicola. Andare a vedere i suoi film tre volte al giorno come schiavi obbedienti e ringraziare d'esser vivi. Insomma, non ve lo so proprio dire se sia meglio morire in piedi o vivere in ginocchio.
— Io, personalmente, preferirei morire — dichiarò Park in tono pacato. — Ma questo è un argomento del tutto secondario. Apprezzo senza riserve la tua disamina di tali ipotetiche circostanze. Ma adesso potresti dirci, per favore, che cosa facciamo oggi?
Guarda un po' come si ringalluzzisce uno con quella stelletta in più…, pensò Cirocco. Si chinò in avanti, poggiando i gomiti sul tavolo e cercando di atteggiarsi alla massima serietà. Si sentiva come un imbonitore da piazza sul punto di lanciarsi nei suoi sproloqui.
— Nessuno di voi ha mai sentito parlare di una cosa chiamata corrida?
Scendendo giù per la scaletta a pioli Chris abbandonò la sommità del muro. Si era trattenuto lassù in cima per diversi riv, in un punto subito ad ovest dell'Ingresso Universal, ad osservare in distanza le truppe di Cirocco.
Inizialmente era rimasto impressionato. Gli era parso un sacco di gente. Tramite un telescopio montato s'una torretta di osservazione era riuscito a distinguere la forma e le dimensioni dei carri, il genere d'uniformi indossato dai soldati, e il modo rapido ed efficiente in cui tutti si movevano.
Più a lungo guardava, però, e meno sicuro si sentiva. Fece quindi del suo meglio per giungere ad una stima di quanti soldati ci fossero davvero là fuori. Rifece i conti più e più volte, ed anche il numero massimo che gliene risultò era inferiore alle sue aspettative. Anche i titanidi erano meno di quanto avesse sperato.
Chris non era rimasto completamente ozioso. Mentre le notizie sull'approssimarsi di un esercito correvano rapidissime di bocca in bocca suscitando fermento tra gli abitanti di Pandemonio, egli se n'era andato in giro per vedere un po' di valutare le forze nemiche. Aveva cercato di farlo senza dare troppo nell'occhio… anche se dubitava che a Gea gliene importasse davvero qualcosa. In effetti la padrona di casa non faceva alcun tentativo di nascondere a Chris, o a chiunque altro, le attività che si svolgevano a Pandemonio. Anzi, spesso si vantava apertamente di possedere centomila combattenti.
Chris era giunto alla conclusione che si trattava della verità… ma una verità ingannevole. All'interno delle mura viveva davvero tutta quella gente, e tutti avrebbero combattuto. Ma Chris dava per scontato che l'esercito di Cirocco sapesse combattere sul serio, mentre le truppe di Gea gli davano l'impressione di essere state addestrate unicamente ad aspettare che le cineprese fossero pronte, a dipingersi in faccia espressioni bellicose durante gli assalti, ad urlare, e ad assumere atteggiamenti d'intrepida risolutezza.
C'erano, comunque, alcune cose che avrebbe desiderato poter riferire a Cirocco. Una spia non serve a granché, se non è capace di far uscire le informazioni dal paese avversario. Questa riflessione gli fece venir voglia di una birra…
Scosse la testa con violenza. Era assolutamente deciso a rimanere sobrio finché la battaglia non fosse terminata. Se si fosse presentata l'occasione propizia, doveva farsi trovare pronto… Ma l'avrebbe riconosciuta, all'occorrenza? Di troppe cose era all'oscuro. Il che gli fece venir voglia di una birra…
Maledetta sete.
Ecco che arriva Gea camminando a grandi passi lungo il muro. Se n'era andata contornando a più riprese il vallo, verificando lo schieramento delle truppe, ordinando spostamenti di unità a destra e a manca, ammazzando di fatica i suoi uomini ancor prima che il combattimento avesse inizio.
— Ehi, Chris! — lo chiamò. Lui si voltò a guardarla a naso in su. Gea fece un ampio gesto in direzione nord, verso la zona dove l'esercito di Cirocco si stava radunando. — Allora, che ne dici? Davvero graziosi, non trovi?
— Ti faranno un culo così, Gea — le vaticinò Chris.
Torcendosi dal gran ridere, lei scavalcò il globo della Universal e proseguì il suo giro. Chris si era accorto di star sempre più assumendo il ruolo di un giullare di corte, comica figura cui era consentito profferire impunemente ingiurie sanguinose. Ma tale facoltà non migliorava in nulla il suo stato d'animo, e ormai non riusciva quasi più nemmeno a divertirlo.
Diavolo, se almeno ci fosse stato il modo di passare due parole a Cirocco…
Bisognava dirglielo, che Gea disponeva di cannoni.
Ma forse lo sapeva già, e lui si preoccupava inutilmente. E poi non erano neppure granché, come cannoni. Chris aveva assistito alle prove di tiro… da distanza di sicurezza, dopo che uno dei primi modelli era scoppiato ammazzando sedici persone.
Come portata ne avevano poca, e anche la precisione lasciava alquanto a desiderare. Ma i Fabbri Ferrai se n'erano usciti di recente con un nuovo tipo di proiettili esplosivi, capaci di sparpagliare violentemente migliaia di chiodi in un ampio raggio. Sarebbero stati un vero probiema, se Cirocco avesse deciso di prendere d'assalto la muraglia.
Poi c'erano i calderoni pieni d'olio bollente, ma quelli, di sicuro, Cirocco se li aspettava. Così come senza dubbio sapeva che Gea avrebbe schierato gruppi di arcieri…
Altra brutta notizia: Gea disponeva di fucili. Temperata da una notizia decisamente migliore: in giro ce n'erano ancora pochi, e si trattava di primitive armi a pietra focaia che a ricaricarle ci voleva un'eternità, senza contare che ti scoppiavano sul muso anche più spesso dei cannoni. I fortunati detentori avevano una fifa birbona a sparare con quelle trappole diaboliche.
Chris si domandava cosa fosse peggio: se imbracciare un'arma che poteva esplodere amputandoti le mani… oppure andare in battaglia con un'arma finta.
C'era rimasto parecchio male, qualche tempo prima, al vedere un reggimento di baldi militi gagliardamente agghindati di moderne, leggerissime armature a tutto corpo, e muniti di fucili laser con tanto di massicci gruppi d'alimentazione portati a spalle. Non c'era dubbio che una compagnia di uomini equipaggiati a quel modo avrebbe potuto agevolmente massacrare un'intera legione romana.
Poi uno di quei soldati l'aveva incontrato a mensa, e a tre metri di distanza il trucco aveva mostrato la corda. I fucili laser erano solo modelli di legno e vetro. Gli zaini portabatterie nient'altro che involucri vuoti. La corazza un'insignificante copertura di volgarissima plastica.
Chris prese ad incamminarsi per rientrare a Tara. Strada facendo dovette più volte farsi da parte per lasciare il passo a drappelli di soldati al piccolo trotto.
Incontrò uno squadrone di cavalleggeri, montati sulle bestie che Gea utilizzava per le sue epopee western. Portavano sciabole vere, ma i loro revolver a sei colpi erano solo approssimative copie in legno intagliato. Gli capitò anche di scoprire che molti cavalli erano stati addestrati ad obbedire a un segnale particolare, in séguito al quale, al momento opportuno, sarebbero stramazzati al suolo fingendo di essere stati colpiti. Ah, come avrebbe voluto poter comunicare a Cirocco quel segnale!…
Più in là marciava una legione romana, tutta uno splendore di scudi ottonati e corazze tirate a lucido e mantelli scarlatti. La seguiva marciando a passo d'oca un reggimento di camicie brune naziste, le quali a loro volta erano tallonate da un dinoccolato drappellone di truppe d'assalto in tenuta da Star Wars. Prima di arrivare a Tara vide anche i Ghurka di Gunga Din, i fanti di Niente di nuovo sul fronte occidentale, i soldati confederati di Via col Vento, e poi Unni, Mongoli, Boeri, Nordisti, Giubbe Rosse, Apache, Zulù… e persino Troiani.
Di Pandemonio si poteva pensare tutto il male possibile, però bisognava ammettere che la sezione costumi era formidabile.
Giunse infine a salire le ampie scalinate del palazzo padronale, e trovò Adam che seduto sul pavimento in marmo di una delle immense stanze giocava col suo trenino. Era una vera meraviglia, tutto d'argento e adorno di pietre preziose troppo grandi perché Adam potesse inghiottirle nel caso fosse riuscito a staccarle… e Adam era bravissimo a tirar via ogni sorta di oggetti dalla loro sede naturale, sebbene non cercasse più di mangiare cose che non fossero commestibili. Agganciate le carrozze alla locomotiva, il Bambino filò via a precipizio rimanendo ginocchioni, e strillando ciuf-ciuf ciuf-ciuf ciuf-ciuf fece avanzare il convoglio a vigorosi strattoni coi vagoni che scarrocciavano follemente di qua e di là.
Vide Chris, e con un gridolino di gioia scaraventò il suo inestimabile giocattolo contro un muro, ammaccando malamente il malleabile metallo… che, come Chris sapeva, sarebbe stato perfettamente riparato durante il prossimo periodo di sonno.
— Voglio volàe, papà!
Allora Chris andò da lui e lo sollevò e lo fece sfrecciare rombando per aria come un aeroplano, mentre Adam levava un uragano di risatine. Poi si mise il bimbo a cavalcioni e lo portò a un balcone del secondo piano. Guardarono lontano, verso settentrione.
Gea continuava a percorrere a grandi passi la muraglia. Dopo essersi spinta fino all'Ingresso Goldwin stava ora ritornando all'Ingresso Universal, il più vicino al luogo dove Cirocco aveva concentrato le sue truppe. Era uno dei tre Ingressi preferiti da Adam: egli prediligeva, nell'ordine, il Topolino in cima all'Ingresso Disney, il grande leone di pietra dell'Ingresso MGM, e il globo sovrastante l'Ingresso Universal. Adam puntò una manina ad indicare.
— C'è Gea! — trillò, contento ed orgoglioso come ogni volta che scorgeva a gran distanza la sua mole gigantesca. — Fammi scéndee, papà — ordinò, e Chris lo mise giù.
Adam corse al telescopio. Tara disponeva di un centinaio di ottimi telescopi, installati un po' dovunque precisamente a quello scopo. Adam li trattava in maniera piuttosto rude, né più né meno come faceva con tutti gli altri giocattoli, ma ad ogni suo risveglio le lenti fracassate risultavano debitamente sostituite, le sudicie impronte lasciate dalle sue piccole dita impazienti erano state ripulite, e le canne di ottone abbagliavano con il loro scintillìo.
Ormai li sapeva manovrare a puntino. Svelto svelto brandeggiò qua e là lo strumento, e in men che non si dica riuscì ad individuare Gea. Chris andò a un altro telescopio, in modo da poter vedere anche lui ciò che vedeva Adam.
Gea stava sbraitando ordini alle truppe ammassate all'interno della muraglia, sbracciandosi ad indicare in varie direzioni. Poi, con i pugni piantati sui fianchi, si volse a guardare verso l'esterno. Chris lanciò un'occhiata al Bambino, e vide che spostava leggermente il telescopio puntandolo, più oltre, sul meraviglioso spettacolo dei campi d'Iperione, dove l'esercito stava sciamando come un denso tappeto di formiche brulicanti. Adam tese la mano ad indicare.
— Cos'è quello, papà?
— Quella là, caro il mio giovanottello, è Cirocco Jones col suo esercito.
Evidentemente impressionato, Adam rimise l'occhio al telescopio. Forse pensava di poter dare uno sguardo a Jones in persona. Negli ultimi tempi l'aveva vista spesso in film come I mangiatori di cervelli, Cirocco Jones contro Dracula e Il Mostro della Laguna Nera. Alcune di quelle pellicole erano originali prodotti della cinematografia terrestre, con Cirocco nella parte del mostro e con l'aggiunta di qualche scena in cui la si vedeva trasformarsi, da un alquanto minaccioso seppur perfettamente riconoscibile Capitan Jones, nell'intercambiabile ma immancabilmente disastroso flagello in puro lattice di gomma impegnato a radere al suolo Tokyo questa settimana. Ma per la maggior parte erano film di nuovo conio, con tanto di contrassegno Made in Pandemonio e attribuiti, come produzione e regìa, a "Gea, Grande e Possente". In alcune scene Gea utilizzava un convincente sosia di Cirocco, mentre in altre si serviva di trucchi computerizzati. La qualità non era un granché, però bisogna riconoscere che Gea non badava a spese. Da chiacchiere orecchiate in sala mensa, Chris aveva capito che un bel po' degli sbudellamenti, delle amputazioni, delle decapitazioni e defenestrazioni cui era dato assistere in quei film di mostri, non erano abili trucchi, e facevano del tutto a meno di manichini e cascatori. Spesso e volentieri, per ottenere l'effetto desiderato, Gea trovava assai più facile consumare un po' di comparse.
Difficile dire che impressione provocassero, su Adam, film di quel genere. Di solito si trattava di storie a sfondo palesemente moralistico, nelle quali Cirocco faceva sempre la parte del malvagio e finiva regolarmente ammazzata per la gioia degli spettatori. Tuttavia, Chris ricordava che tanto Dracula quanto Frankenstein, classici cattivi dello schermo, in genere esercitavano sui ragazzi un certo fascino. E Adam pareva reagire appunto a quel modo, entrando in agitazione ogni volta che Cirocco appariva sul piccolo schermo.
Ma forse anche questo rientrava nei piani di Gea. Forse lei voleva che Adam s'identificasse col cattivo, anche se costui aveva le fattezze di Cirocco Jones.
Come se non bastasse, c'era poi la versione computermodificata di King Kong.
Di quei vecchi film, Chris non ne aveva in precedenza mai veduto neanche uno, ma, tanto tempo prima, Cirocco gli aveva accennato la trama proprio di quello, quando lui s'era quasi messo in testa di andare ai bastioni settentrionali di Febe per compiere l'eroico tentativo di scannare la pelosa creatura ricreata da Gea.
La versione diffusa dalla TV di Pandemonio risultava un po' rimaneggiata. Gea faceva la parte di Kong, e Cirocco quella di Carl Denham. Fay Wray compariva a malapena. Kong/Gea non la minacciava mai in alcun modo; tutto quel che faceva, consisteva nel proteggere innocenti cittadini dai pericoli cui li esponeva Denham coi suoi grossolani ed inconsulti tentativi di uccidere Kong. Alla fine, spietatamente braccata fin sulla vetta di un altissimo grattacielo, orribilmente ferita dai minuscoli biplani, Gea precipitava. Chris ricordava bene l'ultima, classica frase dell'originale: "Come sempre, la bella ha ucciso la bestia." In questa versione, invece, Cirocco/Denham concludeva dichiarando: "E adesso il mondo è mio!"
Era impossibile pensare a Kong senza gettare un'occhiata di disgusto giù, verso la Strada Maestra a Ventiquattro Carati. Non molto distante dal punto in cui essa terminava alle porte di Tara, giaceva una grossa palla nera con un paio d'orecchie a sventola. Era la testa di Kong. Ogni volta che Chris le giungeva accanto, due occhi dolenti lo guardavano passare.
— Papà, e ora che succede?
Quelle parole ricondussero Chris al presente. Era la domanda preferita di Adam. Quando assisteva a un film in televisione, nei momenti in cui la tensione narrativa si faceva più palpabile, il bimbo, tutto vibrante d'attesa e di timore, correva con lo sguardo a suo padre e gli domandava cosa stesse per succedere.
E adesso che cosa accadrà?
È quello che ci chiediamo tutti, pensò Chris.
— Credo che ci sarà una guerra, Adam.
— Accidenti! — esclamò Adam, e si rincollò al telescopio.
L'attacco a Pandemonio ebbe inizio due decariv dopo che l'esercito di Bellinzona ebbe piantato le tende dell'ultimo accampamento. Prese le mosse da un'esecuzione, da parte dei trecento membri della Fanfara Titanide dell'Esercito di Bellinzona, de La Campana della Libertà di John Philip Sousa.
Gea, dalla sommità del suo muro di pietra, aveva osservato la banda riunirsi, aveva visto i lucidi ottoni fare la loro comparsa e scintillare nella chiara luce d'Iperione, aveva ascoltato le due battute della frase di apertura. Poi aveva trasalito in un soprassalto di gioia.
— Ma è… Monty Python! — aveva esclamato.
Poi rimase lì a guardare, pietrificata dallo stupore. Chissà come, Cirocco aveva addestrato, o persuaso, o indotto i titanidi a marciare. Essi avevano sempre adorato quel particolare genere di musica che viene solitamente scritto per scandire le marce, ma erano piuttosto negati per muoversi al passo in formazione. Avevano, infatti, la radicata abitudine di caracollare a caso in ampie figurazioni di danza… pur mantenendosi rigorosamente a tempo, come guidati da un metronomo, con la ritmata precisione della marcia. E adesso, invece, eccoli là che procedevano al passo, impeccabilmente allineati e coperti, e spassandosela come solo i titanidi sapevano fare. Uno spettacolo da restare a bocc'aperta.
La Campana della Libertà, una delle prime marce dovute al fervido genio di Sousa, era stata adottata come sigla musicale da una compagnia di attori comici, e tornava assai familiare a Gea, che l'aveva incontrata in molte pellicole e videonastri. Ben presto se ne fece coinvolgere totalmente, e andò marciando lei pure avanti e indietro lungo l'invalicabile muraglia pietrosa, berciando imprecazioni all'indirizzo delle sue neghittose truppe finché non si decisero ad entrare in formazione mettendosi anche loro a marciare su e giù insieme a lei.
Mantenendosi a ragionevole distanza dal fossato che circondava la muraglia, i titanidi presero ad avanzare in senso antiorario attorno a Pandemonio, diretti verso l'Ingresso United Artists. Conclusero La Campana della Libertà e, senza interruzione, attaccarono Colonel Bogey. Ricordando la brutta incavolatura che s'era presa qualche tempo prima in proiezione, Gea si accigliò per un istante, ma fece anche presto a rasserenarsi, soprattutto quando metà dei titanidi lasciarono gli strumenti e incominciarono a fischiettare l'irresistibile ritornello.
Poi eseguirono Settantasei Tromboni. Anche molti dei brani successivi parvero, in un modo o nell'altro, rimandare a qualche film.
Mentre le note della banda svanivano in lontananza, Gea tornò a guardare verso nord, dove una figura nerovestita avanzava, isolata, precedendo di una cinquantina di metri un gruppo di trecento titanidi. Dietro di essi, marciando in formazione perfetta, venivano le Legioni. Solamente gli ufficiali in comando, alla testa di ciascuna schiera di soldati, sfoggiavano uniformi impreziosite da rifiniture in ottone lucidato, e a Gea venne da pensare che Cirocco avrebbe anche potuto essere un po' meno spilorcia… Ma quel poco ottone che si vedeva in giro era talmente lustro da abbagliare, e poi bisognava comunque ammettere che i semplici fanti, pur privi di sgargianti ammennicoli, apparivano freschi, vigili, capaci e pronti a tutto.
Da nordovest, nel frattempo, si stava avvicinando un aerostato. Anche lontano venti chilometri era facile constatare che si trattava di Finefischio.
Le schiere in campo continuarono ad avanzare, mentre l'aerostato si approssimò sino a una distanza di cinque chilometri e un'altitudine di tre. Lì giunto si fermò, rotando poi lentamente la sua mole sconfinata per volgere un fianco a Gea e a Pandemonio.
Alcuni umani si portarono rapidamente accanto a Cirocco. Non avevano l'aspetto di soldati. Le sistemarono qualcosa davanti. Quindi un guizzante arabesco di luci sfarfallò sul fianco di Finefischio, andando ad amalgamarsi in una struttura riproducente il volto di Cirocco. Gea pensò ch'era un truccaccio di tutto rispetto. Non sapeva che gli aerostati potessero fare cose del genere.
— Gea! — scaturì dall'aerostato in un boato la voce di Cirocco.
— Ti ascolto, Dèmone! — gridò Gea di rimando. La sua voce non aveva alcun bisogno di venire amplificata con artifizi tecnici. La si sarebbe sentita, così com'era, fino a Titantown.
— Gea, sono qui giunta alla testa di un potente esercito, votato al rovesciamento del tuo regime scellerato. Ma preferiremmo non essere costretti a muoverti battaglia. Ti domandiamo pertanto di deporre le armi arrendendoti pacificamente. Non ti sarà fatto alcun male. Risparmia a te stessa l'umiliazione di una definitiva e totale disfatta. Abbassa i ponti levatoi che danno accesso a Pandemonio. Saremo comunque noi, i vincitori.
Gea si domandò, per un fuggevole istante, cos'avrebbe fatto quella stupida cagna se lei si fosse arresa sul serio. Chissà se Cirocco aveva portato un paio di manette abbastanza grandi… Riflessione passeggera. Nessun patteggiamento. Sarebbe stato uno scontro all'ultimo sangue.
— Lo credo bene che tu non voglia ingaggiar battaglia! — replicò Gea in tono di scherno. — Sarete sterminati tutti, fino all'ultimo soldato. Le mie truppe marceranno su Bellinzona e annienteranno i pochi illusi che avranno osato rimanerti fedeli. Arrenditi tu, Cirocco!
Siffatta replica non parve di certo aver causato a Cirocco alcuna sorpresa. Sopravvenne una lunga pausa, poi, d'un tratto, si udì una fulminea serie di esplosioni a ripetizione, che provocarono parecchia agitazione entro la cinta muraria di Pandemonio. La gente guardò in su, e vide l'Aviazione di Bellinzona, tutti e dodici gli aerei ancora utilizzabili, recuperare vertiginosamente quota dopo una picchiata a pieno regime. Tutto quel che avevano lanciato su Pandemonio, comunque, consisteva in una bella bordata d'esplosioni supersoniche.
Gli aerei, ch'erano giunti seguendo una rotta da levante a ponente, affrontarono una cabrata mozzafiato, al culmine della quale eseguirono una strabiliante manovra di rovesciamento che li portò a sfrecciare allineati, con le punte delle ali che quasi si toccavano. Poi cominciarono ad emettere, con impulsi ih rapidissima sequenza, compatte nuvolette di fumo. Altro passaggio supersonico, nuova serie d'esplosioni. E intanto le nuvolette si componevano in parole.
— Popolo di Pandemonio — ruggì dal fianco di Finefischio la gigantesca effigie di Cirocco… mentre gli aerei tracciavano POPOLO DI PANDEMONIO attraverso l'incontaminato cielo di Gea.
Gea era rimasta a bocc'aperta. Esibizione impressionante, non c'è che dire. Gli aerei riguadagnarono quota, ed entro pochi istanti furono in posizione per un altro passaggio.
— Getta via le tue catene — incitò stentorea Cirocco. GETTA VIA LE TUE CATENE. Nuova cabrata, nuova virata, e ancóra in formazione…
Manovre altamente computerizzate, si capisce. I riflessi umani non sarebbero stati abbastanza rapidi, a velocità supersonica, da disseminare con la dovuta prontezza tutte quelle nuvolette di fumo in disegni precisi. Ai piloti si richiedeva solamente di mantenere i velivoli perfettamente allineati. Non appena una frase era stata tracciata, le parole venivano spazzate via dalle violente correnti d'aria provocate dal passaggio degli aerei, cosicché il cielo tornava limpido e pronto ad accogliere la frase successiva.
— Rifiuta sottomissione a Gea… abbassa i ponti levatoi… fuggi sulle colline… troverai protezione…
Gea decise che la cosa era andata avanti abbastanza. Impartì quindi l'ordine che si desse inizio al suo spettacolo. In pochi attimi il cielo si riempì d'un putiferio di rutilanti fuochi artificiali, il cui scopo era distrarre l'attenzione della gente dai suggerimenti sovversivi della cagna in nero. Diede disposizione, in particolare, che molti degli artifizi pirotecnici fossero lanciati in direzione del grande aerostato. Impossibile raggiungerlo, ovviamente, ma non sarebbe stato male scuotergli un pochettino i nervi.
Certo che la presenza di Finefischio era una cosa davvero strana, pensava Gea. Aveva saputo, sì, del suo intervento a Bellinzona, ma fra il sentirselo dire e il vederlo coi propri occhi c'era una bella differenza. Un aerostato provvisto del normale istinto di sopravvivenza non avrebbe mai accettato di spartire il medesimo tratto di cielo con quegli aeroplanini sputafuoco. Una semplice castagnola sparata nella sua direzione sarebbe di norma dovuta bastare a mandarlo in fuga verso Rea con tutta la velocità consentitagli dalle smisurate pinne dorsali… figuriamoci quindi quella specie di spettacolare contraerea policroma con cui Gea stava abbagliando il cielo. Ma Finefischio pareva non farci caso.
Sia lo sfarzo pirotecnico sia la provocatoria aeroscrittura durarono poco. Esibizioni simboliche entrambe, rifletteva Gea. Da quel punto di vista, Cirocco si stava comportando davvero bene. Chissà se avrebbe giostrato altrettanto bene in combattimento?…
Fu allora che il terreno prese a muoversi sotto i suoi piedi.
Soltanto uno dei Generali aveva capito di cosa stesse parlando Cirocco quando aveva fatto riferimento a quella cosa chiamata corrida. E neanche lui ne aveva mai vista una.
Cirocco pensava di essere l'ultimo essere umano vivente ad avere assistito di persona a una vera corrida. Sua madre l'aveva portata a vederne una quando lei era ancora una bambina piccola, poco prima che quel genere di spettacolo venisse dichiarato fuorilegge anche in Spagna, l'unico paese che ancora lo consentisse.
La madre di Cirocco era dell'opinione che fosse pedagogicamente errato tener nascoste a un figlio tutte le brutture e le brutalità del mondo. Disapprovava la tauromachia — atteggiamento sostanzialmente ideologico, analogo a quello su cui s'era basato il movimento per la salvezza delle balene tanto in auge alcuni decenni prima — ma riteneva che potesse costituire un'esperienza educativa. Cirocco era una figlia di guerra, nata da una violenza carnale, e sua madre, donna tenace e indipendente, era sempre stata un poco strana, dopo quel periodo trascorso nel campo di prigionia arabo.
Era uno dei ricordi più vividi che le rimanessero della sua infanzia.
Esistono pochi spettacoli altrettanto pittoreschi. Non per niente il costume del matador viene chiamato traje de luces.
Aveva osservato affascinata mentre quegli uomini a cavallo si facevano dappresso al poderoso animale trafiggendogli il dorso con le loro picche acuminate. Ricordava il sangue scarlatto grondare giù per i fianchi del toro. Quando il matador aveva finalmente fatto la sua comparsa, il temibile avversario era ormai ridotto in condizioni pietose: stordito, disorientato, e abbastanza inferocito da precipitarsi addosso a qualunque cosa si movesse.
Quel piccolo fetente d'un torero s'era dunque portato avanti. Con sbalorditiva arroganza aveva fatto dell'animale il suo trastullo, ingannandolo un passo dopo l'altro sull'ondeggiare ipnotico dell'inafferrabile muleta, giungendo al punto di mostrargli presuntuosamente le spalle mentre la disgraziata bestia s'inchiodava ottenebrata dal dolore, incapace di comprendere perché il mondo le si fosse rivoltato contro in maniera così grottesca. Cirocco non voleva aver nulla a che fare con quella ebete razzumaglia. Odiava quella turba vociante. Desiderava vedere il toro squartare il toreador dai coglioni fino al mento, e avrebbe esultato quando le sue budella merdose gli si fossero riversate dal ventre a fumare sotto il torrido sole di Spagna.
Ma non andò così. Vinse il cattivo. La piccola carogna pustolosa fronteggiò il possente toro agonizzante e gl'immerse la spada dentro il cuore. Poi avanzò tutta tronfia ed impettita a raccogliere il fragoroso consenso degli spalti, e se Cirocco avesse avuto un fucile e la capacità di usarlo, quella laggiù sarebbe stata una piccola carogna morta. Invece, aveva solo vomitato.
E adesso, ironia della sorte, si preparava a fare lei da matador.
C'erano un paio di cose da tenere ben presenti, ond'evitare che lo schifo di sé la sommergesse. Primo, Gea non era affatto un qualunque toro tontolone. Gea non era smarrita, non era innocente e non era stupida. Secondo, Cirocco non stava combattendo per sport. A una disamina spassionata della situazione, sarebbe risultato evidente che il vantaggio stava quasi tutto dalla parte di Gea.
Uno spettatore digiuno di tauromachia potrebbe ritenere, a prima vista, che sia appunto il toro a trovarsi in posizione di superiorità. Ma in séguito ad una valutazione meno superficiale, osservando i preparativi e mettendo a confronto il cervello del toro con quello del suo carnefice, ci si rende conto facilmente che solo il matador più rimbecillito corre sul serio qualche rischio. In effetti, il torero scende in campo a ricamare la sua elegante esibizione quando la bestia è già un pezzo avanti, l'ammazza, e fa credere a tutti d'aver compiuto chissà quale gloriosa impresa mentre invece si è solo reso protagonista d'una vigliacca mistificazione.
Il principio, comunque, restava il medesimo. Cirocco aveva intenzione di mantenere la sua avversaria distratta, ansiosa, sempre concentrata sulla muleta scarlatta, incapace di comprendere perché mai le sue corna non riuscissero ad arrivare a segno… per poi infilzarla con la spada al momento che Gea fosse stata mentalmente ed emotivamente esausta.
Allora. La prima parte dello spettacolo era filata via liscia come da copione. Le frasi nel cielo, la musica roboante. Gea aveva dato anche lei una mano coi suoi fuochi d'artificio.
— Ricorda — le aveva detto Gaby l'ultima volta che s'erano incontrate — Sotto molti aspetti, Gea è mentalmente regredita a un'età di circa cinque anni. Le piace tutto ciò che è spettacolo. Ecco, innanzitutto, perché i film l'attraggono tanto. Ed è sostanzialmente per questo motivo, diociaiùti, che è giunta a scatenare la guerra. Imbandiscile dunque uno spettacolo coi fiocchi, Rocky, che al resto ci penso io. Ma non dimenticare, nemmeno per un istante, che solo una parte di Gea è infantile. Con ogni altra sua stilla di coscienza lei starà sul chi vive, pronta a parare un eventuale tiro mancino. Però ignora dove possa nascondersi il trabocchetto, e non sospetta che noi si sappia tutto quello che in realtà sappiamo. In entrambi gli attacchi che condurrai contro di lei, dunque, dovrà avere l'impressione che stai facendo sul serio.
Tenendo ben chiaro in mente tutto ciò, Cirocco fe' cenno agli operatori di togliersi di mezzo, mosse avanti di qualche passo, incrociò le braccia sul petto, ed evocò Nasu.
Sotto Gea il terreno s'inarcò repentinamente. Lei barcollò, indietreggiando di qualche metro e agitando le braccia, poi si volse, e impietrita dallo sbalordimento guardò la sua via Maestra a Ventiquattro Carati letteralmente esplodere.
Fu un'esplosione che si sviluppò come un'onda di marea, sfrecciando in catastrofico rigonfiamento da un punto a metà strada con Tara fino al punto posto esattamente sotto i suoi piedi. Mattoni d'oro massiccio e zolle di terra schizzarono in ogni direzione… e un'ansa gigantesca d'ignota natura scaturì ad avvinghiarlesi attorno a una caviglia.
Venne scaraventata al suolo, e si trovò a guardare in su con occhi sbarrati mentre Nasu, biancoperlacea nella sua veste di squame, s'impennava trecento metri sopra di lei.
Monty Anaconda, pensò Gea, e prese a ruzzolare inarrestabilmente.
Chris e Adam osservavano la scena dal terrazzo di Tara.
— King Kong! — strillò Adam.
Chris gli rivolse un'occhiata inquieta. Sembrava che il Bambino ci si divertisse proprio come a guardare un film…
Il serpente avvolse fulmineo le sue immense spire attorno a Gea. E Gea rotolava. Rotolò così selvaggiamente e così rapidamente che giunse a demolire tre teatri di posa, prima di riuscire a rimettersi in piedi. Nel rotolare spiaccicò centinaia di comparse. Quelli che la videro rialzarsi, a stento credettero ai propri occhi. Di lei erano rimasti visibili soltanto i piedi e parte di una gamba.
Poi un braccio ce la fece a liberarsi.
Si udì il rumore di ossa che si stritolavano. Nessuno pensò che a frantumarsi fosse il serpente. Incombendo alto su di lei, il cacciatore fissava impassibile la sua vittima. Molto tempo era trascorso, dall'ultima volta che aveva attaccato una preda altrettanto soddisfacente. Che noia, i Bitorzoloni. Nemmeno scappavano.
Poi fu libero anche l'altro braccio. Le mani si protesero brancolanti, trovarono una spira, e incominciarono a tirarla.
I serpenti sono completamente privi di mimica facciale. Tutto quello che possono fare è spalancare le fauci, battere le palpebre, e saettare la lingua. Nasu cominciò a sbatacchiare la coda.
Gea, ancora accecata, si mosse barcollando verso la muraglia. La urtò, sembrò pensare che era una buona idea, e indietreggiò per andarci a sbattere di nuovo. I tre metri di vetta crollarono. Ancóra un urto.
Qualche spira di Nasu si allentò. Adesso si vedeva la parte superiore del cranio di Gea. Altri suoni di sgretolamento. Le ossa di Gea, nello spezzarsi, avevano fatto il rumore di sequoie che si schiantino rasoterra. Le ossa di Nasu, più flessibili, schioccavano invece come assicelle cinque per dieci.
Le mani di Gea cominciarono ad annaspare in cerca della testa del serpente. Nasu scattò, guizzò, e strinse ancora più forte. Un'intera foresta di sequoie si abbatté sotto la terribile pressione.
Adesso Gea s'era portata in cima alla muraglia, e strappava da sé l'anguiforme viluppo dieci metri alla volta. Gli ammassi squamosi che disvelleva dal proprio corpo, piombavano inerti.
Nasu disserrò la bocca. Ormai non poteva far altro.
Gea cadde di schianto all'indietro, il globo dell'Universal venne sbatacchiato giù dal suo supporto rotante e se ne andò rotolando lungo la muraglia. Con un altro titanico sforzo lei si rimise in piedi… e giunse infine ad afferrare la testa del serpente. Prese a divaricarne le mascelle, e continuò con furia inarrestabile finché…
La testa di Nasu si squarciò. Allora Gea la martellò ripetutamente contro la parete pietrosa fino a ridurla a un'informe poltiglia. Ristette, stordita e senza fiato, con in mano la testa del serpente morto. Quindi la scagliò, seguita da un centinaio di metri di spire, al di là della cinta, ove cadde entro il fossato. Conversero a frotte gli squali, dando inizio immediatamente ad un frenetico banchetto.
Gea era… fiaccata. Nemmeno una delle sue articolazioni pareva indenne. La testa aveva l'aspetto di un cocomero schiacciato, la schiena si arcuava in una serie di curve spaventose simili ai tornanti di una strada alpina.
Poi cominciò a contorcersi. Tirò un braccio su di scatto, e qualcosa tornò schioccando al suo posto. Dimenò i fianchi, suscitando un altro fragoroso scricchiolìo. Si premette in faccia con le palme delle mani, risistemando le ossa nelle sedi più opportune. E così, grado a grado, si rimise tutta quanta in sesto, finché non tornò, integra e immacolata, a giganteggiare sulla muraglia, lanciando sguardi furibondi alla volta di Cirocco che a braccia conserte ancóra attendeva, immobile ed impassibile.
— Razza di merdoso scherzo carognone, sfranta cagna pidocchiosa del tuddìo! — le berciò. Dopodiché saltò giù dentro il vallo sbraitando ordini ai custodi dell'Ingresso.
— Aprite questa porta! Abbassate il ponte! Vado fuori a prenderla!
Uno dei suoi consiglieri militari s'azzardò ad accennare mezza sillaba. Ne rimediò un calcione che spedì il suo cadavere sfracassato ad atterrare dieci miglia più in là, in pieno territorio Warner. L'addetto ai marchingegni, nel frattempo, smanovellava già freneticamente per spalancare il varco.
Gea pose piede sul ponte levatoio non appena quello incominciò ad abbassarsi. Sotto il suo peso la carrucola si mise a girare tanto in fretta che il cavo fumò e prese fuoco. Poi la Grandèa percorse a grandi passi il ponte immettendosi nella via d'accesso al settore Universal. Era fuori del cerchio magico.
Chris andò pescando dentro il frigorifero che troneggiava accanto alla sua poltrona — Gea era stata davvero gentile a fornirgli tutti i frigoriferi e tutte le birre che gli necessitavano: ovunque lui si trovasse, gli bastavano pochi passi per metter le grinfie s'una birra ghiacciata — tirò fuori una bottiglia e la stappò. Il combattimento col ciclopico serpente era stato terrificante, all'inizio. Però, man mano che andava avanti, aveva finito per somigliare sempre più a certe scene tipiche delle centinaia di film di mostri che s'era dovuto sorbire da un anno a questa parte. Inverosimile. Preordinata. Si sapeva già che sarebbe stata la donna ad ammazzare il serpente, e infatti così era andata.
La birra stava incominciando a mandargli in giro per la testa un piacevole brusìo. Adam sedeva in silenzio sul pavimento e continuava a guardar fuori, incantato, attraverso le colonnine del balcone. Un film come quello non l'aveva davvero visto mai! Ogni tanto saltava su e correva al telescopio per osservare meglio.
Chris non s'era mai sentito tanto derelitto. Ma gli ordini di Cirocco erano stati assolutamente espliciti. Doveva rimanersene tranquillo e tener duro finché lei non fosse tornata a liberarli. E va bene, adesso Cirocco era laggiù, nient'altro che una macchiolina scura alla testa di un esercito di dubbia utilità. E lui che avrebbe dovuto fare, uscirsene tranquillamente dall'Ingresso Universal eludendo la sorveglianza di Gea mentr'era impegnata a darsele col serpente? Non pareva una scelta molto sensata, e Chris non aveva sentito alcuna voglia di provarci.
"Qualcuno verrà a cercarti" gli aveva detto Cirocco.
Magari fosse venuto davvero qualcuno…
Gaby gli batté gentilmente sulla spalla.
Chris lasciò cadere la bottiglia di birra, che andò a frantumarsi sul marmo del terrazzo. Tutto quello spicinìo suscitò l'ilarità di Adam, a cui tornò in mente la scena di un film coi Tre Stooges.
— Chris, sei in te? — gli domandò fissandolo con occhio clinico.
— Quanto basta.
— Allora ascolta bene quel che devi fare.
E in due minuti glielo disse. Non era troppo complicato, ma faceva tremare i polsi. Un anno intero rinchiuso qui, pensò Chris. Un anno intero senza nient'altro da fare che imparare a parlare come un bambino. E adesso mi tocca fare il supereroe…
Sentiva che fra un attimo si sarebbe messo a frignare, quindi accennò alla svelta sì sì scrollando il capo.
E Gaby non c'era più.
Corse da Adam, lo prese in braccio, inalberò il sorriso più serafico che gli riuscì di evocare dal suo cuore strapazzato.
— E adesso si v'a fare una bella passeggiata — gli disse.
— Non voglio! Voglio vedée Gea che fancóa bòtte!
— Dopo torniamo a vedere Gea, va bene? Ma ora andiamo, e ti prometto che ti diverti anche di più.
Adam fece una faccina dubbiosa, ma se ne stette tranquillo mentre Chris scendeva le scale a precipizio, passando accanto alle sagome addormentate di Amparo e Sushi e tutto il resto della servitù. Sortì da Tara per la porta di servizio, inoltrandosi nella foresta di trèfoli che iniziava subito dietro il palazzo.
Gea si fermò nel bel mezzo della via. Provava la sensazione che qualcosa non quadrasse.
La sua mente era ridotta a una congerie di frammenti, ma ci aveva fatto l'abitudine, e sapeva come regolarsi. Una sempre più alta percentuale di lei era andata gradualmente concentrandosi in quel corpo. Mentre combatteva contro il serpente non era stata capace di pensare quasi a nient'altro. Lo stesso era accaduto allorché aveva focalizzato le proprie energie nel risanare quel complesso ricettacolo.
Ma adesso stava accadendo qualcosaltro. Questione di pochi istanti, e avrebbe saputo. L'ampia fronte si corrugò nel rimuginìo del pensiero.
Poi si levarono delle grida. Allo stesso tempo, il secondo gruppo di titanidi, organizzato in una banda con trombe e tamburi, diede il via ad una esecuzione eccezionalmente fragorosa, e incominciò a marciare verso est. A questo punto Cirocco era rimasta sola, quasi un chilometro più avanti del suo esercito.
Dunque, vediamo. Ormai il primo gruppo di titanidi doveva trovarsi in prossimità dell'Ingresso Disney. Questo secondo gruppo si andava dirigendo dalla parte opposta, verso il Goldwin… Non poteva darsi che Cirocco stesse suddividendo le sue forze in vista di un attacco?
Si udirono dodici esplosioni. Alzando lo sguardo, Gea vide sfrecciar via di nuovo i piccolissimi aeroplanini, direzione da ovest a est. Altro fattore da considerare. Gli aerei passarono oltre Finefischio… che, stranamente, le diede l'impressione di essere più corto. E poi pareva che stesse emettendo del fumo, o vapore…
D'un tratto comprese. Finefischio appariva più corto perché le si stava avvicinando. Mentre l'osservava, l'aerostato continuò a correggere la propria rotta sin quando non fu quasi orientato con la prua verso terra. Tonnellate di acqua di zavorra sgorgarono dalle valvole posteriori, e la sua sagoma si accrebbe, si accrebbe, fino a diventare un cerchio immenso che oscurava il cielo, e ancora continuava a ingigantire.
Il "vapore" consisteva in cherubini che sciamavano dagli orifizi superiori, e in una miriade incalcolabile di creature, alcune non più grandi d'un topo, che saltavano giù dai fianchi assicurate a minuscoli paracadute. Era in atto un'evacuazione in piena regola. Uno spettacolo impressionante, accompagnato da un suono terrificante: un acutissimo, lugubre lamento che le fece tremare le ginocchia.
Il grido di morte di un aerostato.
Accanto all'Ingresso Goldwin, nei pressi della sua cappella, Luther se n'era rimasto solo soletto in cima al muro. Appariva evidente che l'avrebbero lasciato fuori dai grandi avvenimenti in corso.
Sapeva che non gli restava molto da vivere. Aveva patito ulteriori ferite per mano del Kollegio dei Kardinali della Papessa Giovanna, e troppo a lungo era stato ignorato da Gea dopo il trionfo di Kali. Ormai poteva dirsi escluso dalla ristretta cerchia dei fedelissimi, e ciò lo addolorava, poiché suo unico desiderio era servire Gea.
Assisté al combattimento col serpente. Vinse Gea, ed egli non provò né piacere né dolore.
Poi vide l'aerostato mettersi in posizione…
E l'infinitesima parte della sua mente tuttora sintonizzata ai pensieri di Gea percepì l'attimo d'incertezza che colse la Grandèa prima ch'Ella volgesse lo sguardo verso il cielo.
Cadde in ginocchio. Mortificò una volta di più la propria carne già tanto martoriata, e pregò.
La mente di Luther era come un autocarro con le ruote quadrate. Si poteva farla muovere, sì, ma solo con grande fatica. A prezzo d'uno sforzo immenso, egli riuscì a sollevare la propria mente in bilico sullo spigolo, poi essa ruzzolò pesantemente dall'altra parte andando a stabilizzarsi in un nuovo concetto. Luther riprese penosamente a spingere.
Dov'è il Bambino? pensò.
Spinta, sollevamento… tum.
L'esercito satanico è interamente là, concentrato a nord. Tum.
E se fosse solamente una manovra diversiva? Tum. E se il vero attacco movesse da tutt'altra direzione?
Una voce, vicinissima, gli bisbigliò all'orecchio. Gli parve la voce di sua moglie. Ma lui non aveva moglie. Era Gea… certo, non poteva che essere Gea.
— Ingresso Fox, direzione sud — disse la voce.
— Ingresso Fox, Ingresso Fox — mormorò Luther. Be' non proprio. La sua bocca era ormai un tale disastro, che un "iièscio òosc, iièscio òosc" fu tutto quel che gli riuscì di barbugliare.
Alla stazione Goldwin, sulla stretta monorotaia che circoscriveva Pandemonio cavalcando la cima della muraglia, attendeva un treno. Luther salì a bordo senza esitare.
Una volta tanto la locomotiva era gagliardamente in pressione. Luther entrò nella cabina del macchinista e tirò completamente a sé la grande leva di metallo. Il treno incominciò a muoversi, acquistando rapidamente velocità.
Chris correva attraverso la foresta di trèfoli. Un bel gioco, per Adam.
— Più fòtte, papà, più fòtte! — lo incitava.
Non si sarebbe visto a un passo, in quel buio pesto, se non fosse stato per una misteriosa luce azzurra che li precedeva fluttuando. Chris poteva solo augurarsi che gli stesse indicando la via, perché senza una guida, ed anche disponendo di una torcia elettrica, in quell'inestricabile labirinto avrebbe smarrito ben presto l'orientamento.
— Pèndilo, papà!
Ci mancherebbe altro, pensò Chris. Se l'acchiappassi chissà che diavolo me ne farei… Spero invece che continui a svolazzarmi cinquanta metri davanti al naso, e cerchiamo piuttosto di non andare a inciampicare in qualcosa, quaggiù in questo sacco di carbone.
Udì provenire, da molto lontano, una pesante, prolungata, rimbombante esplosione.
Vai a capire cosa stava succedendo.
Calvin sedeva piazzato in postazione da bombardiere, proprio sotto la punta estrema della sconfinata struttura di Finefischio. Se ne stava tutto avviluppato in una profusione di sontuosi tessuti, eppure tremava come una foglia. Non si sentiva bene per niente. Non riusciva a liberarsi dal gelo che lo attanagliava. Tutto quel che mangiava pareva che gli tornasse su. E la testa gli faceva male di continuo.
Ignorava la natura del suo male. Probabilmente poteva essere diagnosticato, ma dubitava che fosse curabile. Quel che sapeva con certezza, era che arriva immancabilmente, per un uomo, il momento di farla finita.
Per Calvin, centoventisei anni volevano dire un mucchio di tempo. Vecchio e malato, nel corso della sua esistenza aveva visto la grande ruota girare più d'un milione di volte, e gli bastava.
— Perché non mi fai scendere qui? — domandò Calvin a Finefischio. — Io posso andare anche a piedi. E te sarest'in gamba 'n altri venti o trenta secoli, scommetto.
La risposta gli giunse sotto forma d'uno zufolìo delicato che nulla aveva a che fare con le parole. Esso narrava d'un sodalizio che Calvin sapeva inesprimibile a un altro essere umano. Lui e Finefischio erano maturati insieme, avevano condiviso qualcosa che nessuno di loro due avrebbe mai potuto spiegare a un proprio simile, e adesso erano anche pronti a morire insieme.
— Be', comunque mi sembrava giusto domandartelo — ridacchiò Calvin. Si appoggiò comodo allo schienale, e tirò fuori il sigaro e l'accendino che gli aveva lasciato Gaby. Gli rinacque sulle labbra un riso ironico e sommesso, che stavolta andò a mutarsi in risata aperta.
— Se n'è ricordata — disse. Calvin aveva fumato sigari tanto di quel tempo prima, che lui stesso se n'era quasi dimenticato.
Questo era fresco ed aromatico. Lo annusò, ne morsicò via l'estremità, e fece scattare l'accendino. Aspettò che avesse preso ben bene, tirò una bella boccata. Ah, che buon sapore…
Poi, fatto di nuovo scattare l'accendino, lo tese verso una catasta di panni che gli s'abbarcava sulla destra. Avvertì, dietro di sé, il sibilo potente delle valvole che si aprivano, e una corrente d'aria mista a idrogeno puro fluì ad avvolgerlo impetuosa.
Non fece in tempo a udire il rombo dell'esplosione.
Tutti gli aerostati muoiono per fuoco. È il loro destino. Nient'altro può ucciderli.
Cirocco guardò Finefischio precipitarsi verso Gea, che gravava immobile, come pietrificata, sul grande ponte di legno.
È un atto volontario, si diceva Cirocco. Sono loro, che han deciso così.
Ma quel pensiero non le dava alcun sollievo.
— Tutti a terra! — gridò, volgendo un attimo il capo verso le schiere che attendevano arretrate. — Riparatevi dietro gli scudi! — Tornò a guardare avanti, e il muso di Finefischio era ormai a un centinaio di metri sopra Gea, e continuava implacabilmente a scendere.
Si era domandata se Gea avrebbe tentato la fuga. Gea non fuggì. Mantenne granitica la posizione, e mentre la sconfinata vescica gassosa le piombava addosso sollevò all'ultimo istante un pugno come per colpirla, ma fu avvolta dalle fiamme.
L'incendio nacque sul muso di Finefischio, propagandosi a sferzargli i fianchi con fulminea rapidità. Ne scaturì un boato al di là d'ogni immaginazione. Una corolla di fuoco alta quindici chilometri ruggì a dilaniare il cielo, mentre il corpo dell'aerostato rovinava ad accartocciarsi nel luogo ove Gea l'aveva atteso a pie' fermo. Parve esitare un ultimo battere di ciglia, illusoriamente sorretto da interne sacche gassose non ancora combuste, poi s'accasciò a languire in un grandioso processo di disfacimento. Gli ci volle molto, molto tempo.
Il suo essere più leggero dell'aria non implica che un aerostato non sia pesante. Vuol dire solo che la sua massa è inferiore a quella del volume d'aria che esso sposta. Il volume delle sole celle gassose contenute in Finefischio ammontava a quasi quindici milioni di metri cubi d'idrogeno; una tale quantità di fluido aeriforme, alla pressione di due atmosfere, possiede una massa terrificante.
La metà anteriore di Finefischio parve precipitare a sgretolarsi più o meno nell'area in cui s'era situata Gea. Il resto del suo corpo, non più sorretto dall'idrogeno, crollò lateralmente, abbattendosi in fiamme sullo studio Universal e lungo l'arco occidentale della muraglia. A parte la pietra, tutto il resto incominciò a bruciare.
All'inizio, quando l'ondeggiante pennacchio di fuoco sembrò elevarsi a toccare il cielo, l'ardore della vampa dilagò intensissimo. Cirocco non si mosse, ma dovette con una mano farsi schermo al volto. Sentì strinarsi sfrigolando le punte dei capelli, e immaginò che i vestiti le si stessero carbonizzando. Laggiù, dietro di lei, le sue truppe si accorsero che gli scudi si scaldavano al punto da non potersi toccare… e dire ch'erano un chilometro distanti.
Il furioso rogo d'idrogeno, tuttavia, si esaurì alla svelta. Lo studio Universal continuava ad ardere, ma il calore che ne emanava non era intollerabile.
L'immenso mucchio d'asciutto tessutorganico similtela che era stato Finefischio avrebbe evidentemente continuato a bruciare per qualche tempo. Gli occhi di tutti vi s'appuntavano. Là sotto c'era Gea. Probabilmente s'era immersa nel fossato. Nessuno sapeva quale potesse esserne la profondità.
Trascorsi dieci minuti di assoluta mancanza d'ogni movimento, una parte delle truppe alle spalle di Cirocco cominciò a dare in alte grida. Lei volse attorno un'occhiata. Molti soldati scaraventavano oggetti in aria manifestando il loro giubilo. Osavano sperare che Gea fosse morta. Ma rendendosi conto che Cirocco persisteva nella sua immobilità, si andarono pian piano calmando.
Lei ricondusse lo sguardo su Pandemonio, e osservò il fuoco bruciare.
Nella conflagrazione perirono duecento panaflexi, più di mille arriflexi e innumerevoli bolexi, trascinando con sé nell'oblio inestimabili riprese del combattimento fra Gea e il Serpente Gigante.
L'Operatore Capo prese a reclutare dagli altri studi schiere di fotofauni… ma non ce n'era pressoché bisogno. Quando le fanfare titanidi erano transitate accanto ai vari Ingressi, gran parte dei cinebionti avevano mantenuto le postazioni, limitandosi a girare di malavoglia qualche scena; non pochi però s'eran gettati di gran carriera verso l'Ingresso Universal non appena avevano udito i laceranti suoni che generava il serpente nello sbarbicarsi dal sottosuolo.
Poi, a nord, s'era sprigionata fra cielo e terra l'immane colonna di fuoco.
Sacripante!
Avevano ben gli ordini da rispettare… ma il soverchio rompe il coperchio. Sarebbe stato come chiedere a un bambino affamato di starsene buono lì e non toccar nulla dentro una stanza fatta di cioccolata. Sarebbe equivalso a dire a un'orda selvaggia di paparazzi che, un isolato più in là, la Regina d'Inghilterra stava pomiciando nel bel mezzo della via col più famoso telenovellaro del mondo… però suvvia, gente, per favore, rispettate la loro dignità, d'accordo? Mi raccomando niente foto.
Come propulsi da un sol émpito corale, tutti i bolexi, gli arriflexi e i panaflexi di stanza in Pandemonio fecero rotta ventre a terra, per i più brevi percorsi possibili, in direzione del fuoco.
Risfociando alla luce dalla foresta, di trèfoli, Chris si trovò immerso in una quiete innaturale.
Diede attorno un cauto sguardo, e non vide nessuno. Immaginò che dovessero esser tutti alla muraglia, impegnati nelle operazioni difensive.
Non lungi da lui giaceva l'estremità settentrionale della Viamaestra dell'area Fox. D'impianti, così vicino al cavo, non sorgeva praticamente nulla. C'erano alberi, prati, e qualche arbusto. Lo chiamavano il Parco dei Produttori. Erette in dimensioni doppie del naturale, statue di grandi del passato si fronteggiavano su ciascun lato della via, dall'alto d'imponenti piedistalli che recavano incisi i titoli dei loro film. In fondo alla strada, di spalle a Chris, s'innalzava l'ancor più grandiosa effigie di Irving Thalberg, preminente sui colleghi: Goldwyn, Louis B. Mayer, Jack Warner, Zanuck, De Laurentiis, Ponti, Foreman, Lucas, Zamyatin, Fong, Cohn, Lasker… ce n'erano più di cento, che svanivano giù in lontananza. Raffigurati in positure meditabonde, guardavano in gran parte verso il basso, dimodoché i visitatori del parco, alzando gli occhi, potessero scoprirsi osservati dai grandi della storia del cinema.
Tutto ciò che le statue potevano attualmente ponderare, comunque, era una sede stradale ricoperta di vernice dorata. Pareva che la cosa non li turbasse affatto.
La luce guida era scomparsa. Vai a capire cos'era, pensò Chris, e si disse che comunque doveva esserci di mezzo Gaby.
Evidentemente lei era certa che da questo punto in poi la direzione da prendere gli sarebbe apparsa chiara. Gli aveva detto di affrettarsi, e lì attorno non si vedeva nessuno. Aggirò la statua di Thalberg e prese a correre per la strada.
I produttori lo guardavano in silenzio.
Molto lontano, sulla sinistra, notò il piccolo pennacchio di fumo bianco che annunciava un treno diretto a sud lungo la monorotaia. Lui e Adam ci avevano viaggiato parecchie volte.
Era una delle cose più piacevoli che si potessero fare a Pandemonio.
Chissà se i passeggeri lo sapevano, che all'Universal la linea era interrotta…
A distanza di sicurezza dall'Ingresso Paramount, la banda titanide con trombe e tamburi cessò di sonare, ripose con cura gli strumenti, e diede in un galoppo a spron battuto proseguendo in senso orario.
Sul lato opposto di Pandemonio, la fanfara con gli ottoni fece lo stesso.
Entrambe le manovre furono naturalmente osservate dagli spalti. Ma i titanidi non mossero neanche un passo in direzione degl'Ingressi, e si mantennero prudentemente distanti dalla muraglia, appena oltre la portata dei cannoni.
Gli ordini erano categorici. Resistere e combattere. Difendere il proprio Ingresso. Pertanto, anche se piccoli drappelli corsero lungo la muraglia tentando inutilmente di tener dietro al tonante branco di quattrozampe, per verificare se i suoi componenti non cercassero per caso di traversare il fossato e portarsi all'attacco fra un Ingresso e l'altro, le due azioni ebbero scarsi effetti sulla difesa dello Studio.
La foresta giungeva relativamente vicina all'Ingresso Fox. Questa era una delle considerazioni che avevano guidato la scelta di Gaby.
L'Ingresso era sorvegliato da Gautama e Siddhartha, probabilmente i due Preti meno abili, dal punto di vista del rendimento militare. E anche ciò aveva avuto la sua importanza. Il fatto poi che il Fox si trovasse a centottanta gradi dall'Universal, e quindi alla massima distanza possibile fra due punti all'interno di Pandemonio… be', qui s'era trattato di un pizzico di fortuna. Un poco pensava proprio di meritarsela. E gliene sarebbe servita ancóra, per chiudere la partita senza perdere nessuno dei suoi amici.
D'altra parte, Gautama disponeva purtroppo di due compagnie di pronto intervento armate di fucili a pietra focaia perfettamente funzionanti, mentre Siddhartha aveva un paio di cannoni.
E Luther doveva percorrere un lungo tragitto, per giungere al Fox.
Già da tempo Gaby era all'opera sulla mente in sfacelo di Luther, usando come fondamento l'insoddisfazione che in essa covava. Non c'era modo d'intaccare la sua incrollabile fedeltà a Gea, ma quel minimo di risentimento che aveva sviluppato nei confronti della dea bastava a renderlo meno guardingo del solito. Gaby era quindi riuscita ad allontanarlo dalla sua postazione all'Ingresso Goldwin sussurrandogli due paroline all'orecchio, e adesso Luther era in viaggio. Senza contare che a Gaby rimaneva ancora qualche carta, da giocare.
Luther era un punto debole. Gaby rabbrividiva al pensiero di dover fare così tanto affidamento su di lui. Ma dentro le mura di Pandemonio non poteva direttamente agire di persona. Far addormentare il personale di Tara era più o meno il massimo cui poteva spingersi.
Anche Gene rappresentava un punto debole. Ma che poteva farci? Doveva avere pure lui il suo ruolo da interpretare, in un certo senso se l'era guadagnato… e poi nessun altro poteva fare quel che avrebbe dovuto fare Gene.
Quando i quattro titanidi e i tre umani fecero la loro comparsa, la trovarono ad attenderli sul limitare della foresta. Li accolse salutandoli ciascuno per nome. Notò, sul volto di Robin, i chiari segni di un'emozione violenta, e avrebbe desiderato poter dedicare qualche minuto a parlare con la piccola strega, nei cui confronti nutriva un tenero affetto. Ma il tempo stringeva, e c'era ancora tanto da fare.
Impartì dunque, senza indugio, le opportune istruzioni. Verificò che non avessero dimenticato le armi.
Adesso toccava a loro.
Conal sedeva a cavalcioni di Rocky e guardava il piccolo pennacchio di vapore arrancare attorno al perimetro di Pandemonio. Ignorava di cosa si trattasse. Gaby gli aveva solo detto che, allorquando quel vapore avesse raggiunto un certo segno sulla muraglia, si sarebbero dovuti muovere.
Era rimasto sorpreso, nello scoprire che non temeva affatto per la propria vita. In compenso, provava un terrore assoluto al pensiero che Robin potesse morire.
Erano armati, certo. Ciascun titanide disponeva di una lunga spada e di un fucile con diversi caricatori rapidamente sostituibili. Gli umani portavano pistole. Si erano esercitati tanto con i fucili quanto con le pistole, e avevano scoperto che era loro praticamente impossibile, stando in movimento, riuscire a colpire un qualunque bersaglio sia con gli uni che con le altre, persino dalla relativamente stabile base di appoggio di un'ampia schiena titanide. Però risultavano un pochettino più bravi con le armi piccole. Avevano anche delle corte spade, e si auguravano di non doverle mai usare, visto che non si capiva proprio a cosa sarebbero potute servire se chi le impugnava non si fosse trovato appiedato. Ed essere sbalzati giù da un titanide voleva dire, di solito, che il titanide era gravemente ferito.
Lo sbuffo di vapore giunse al segno convenuto. Conal si sentì stringere forte la mano da un'altra mano ghiaccia, quella di Robin. Si sporse a darle un bacio. Ogni parola parve loro superflua.
I titanidi mossero in campo aperto e si gettarono all'attacco.
Il fuoco andava ormai quasi estinguendosi dagli sterminati resti fumanti del corpo di Finefischio, allorché, frammezzo alle misere spoglie, cominciò ad agitarsi qualcosa.
Sullo sfondo, le fiamme imperversavano ancora con violenza a divorare le facili esche del territorio Universal. L'acqua del fossato era satura di rottami galleggianti. I cadaveri sobbolliti di molti splendidi esemplari da otto metri di Grande Squalo Bianco galleggiavano a panciainsù frammischiati alle macerie raggrinzite dell'aerostato.
Così come durante la strenua lotta con Nasu, toccò a una mano fare per prima la sua comparsa. Poi, lentamente, faticosamente, Gea si trascinò fuori dal caotico ammasso di relitti carbonizzati, e si eresse, con aria stordita, sulla sponda esterna del fossato.
Cirocco raffrenò risolutamente l'insorgere d'una risata. Sentiva che, se non l'avesse soffocata sul nascere, poi non le sarebbe più riuscito di smettere, e quella avrebbe fatto assai presto a mutarsi in un incontrollabile riso isterico. Certo che Gea…
Pareva proprio un personaggio dei cartoni animati alle prese con una delle scenette più classiche: l'antropomorfa bestiola di turno che si ritrova per sua malasorte con in mano una bomba nera, rotonda, cui è attaccata una breve miccia sfrigolante. Il personaggio guarda la bomba, poi dà una seconda occhiata, gli scappan gl'occhi dalle orbite e… BUMMM! Il fumo si dissipa, e ritroviamo il disgraziato immobile nell'identica posizione di prima, con niente in mano ma completamente annerito, i capelli tutti ritti, fili di fumo che gli si arricciolano fuori dalle orecchie… Il personaggio ammicca due volte — in quel nero mascherone non gli si distingue altro che il bianco degli occhi — e stramazza.
Completamente nera a parte gli occhi. Così era ridotta Gea. Ma lei non cadde.
Prese a contorcersi. Era uno spettacolo spaventoso. Stirò il corpo e le membra in tutte le direzioni, e la sua pelle carbonizzata incominciò a spaccarsi. Tese le mani e si chinò a sfregarsi vigorosamente l'addome, le gambe, i piedi. L'epidermide morta attaccò a scrostarsi.
Poi venne via in un sol tòcco gigantesco, come uno di quei pigiamini conigliettiformi che piaccion tanto ai marmocchi. E sotto, tutto uno splendore di candida pelle immacolata, un brilluccichìo di chiome biondomiele… una nuova Gea, intatta. Ristette un istante, più bassa forse di una cinquantina di centimetri, quindi s'incamminò verso Cirocco.
— È l'ora, Gene.
— Lo so ch'è l'ora — rispose. — Porcavacca, ma non m'avevi detto…
Smise di trafficare e diede un'occhiata attorno. Gaby non c'era mica. Gli pareva d'averla sentita, ma proprio sicuro non era. Una spallucciata, e si ridedicò al congegno che teneva sulle ginocchia.
Stava seduto sopra una grande cassa etichettata DINAMITE: FABBRICATA IN BELLINZONA. La quale a sua volta poggiava sul gran ganglio nervoso che protendeva le sue braccia verdognole dal morto cuore di Oceano. Tutt'intorno a lui s'ammucchiavano diverse casse consimili.
Quel che reggeva in grembo era un temporizzatore. Gli era parso d'aver capito, come farlo funzionare. Dunque: aggancia quest'affare qua a quell'aggeggio là, carica il trappolino che staddietro quest'altr'arnese qui, e poi…
Niente. Non ticchettava. Non faceva nulla.
Stando ai patti avrebbe dovuto collegare quell'ammennicolo e poi darsela a gambe di laggiussótto correndo come il vento. Ma lui non aveva fatto nessun conto di filarsela, e allora quando Gaby gli aveva dato il via aveva aspettato un bel po' di tempo, prima di mettersi al lavoro. Ora però pareva proprio che quel trabiccolo non volesse saperne di funzionare né di riffa né di raffa perché lu' ciaéva già provato a collegarlo in tutti li modi possibili e 'mmagginabili e 'n era success'un cavolo de gnente.
Singhiozzò la sua delusione.
Cribbio se glie sarebbe piaciuto d'avecce lipperlì 'na bella sleppa de pescio! Roba da non crede, roba da levatte de sentimento, quanto più meglio se saporivano quell'anguillozzi fetosi a scotticchiarli nu poco sur foco… Ma com'ava fatto lu' a nun pensacce pe' gnente?
Stava quasi per fare un salto di sopra ad acchiappare qualche preda, quando si ricordò di quanto avrebbe impiegato per andar su e tornare giù. Bah! Ecco perché aveva aspettato così tanto prima di mettese a zazzica' con quer comesechiama, considerando tutto 'r tempo che glie ce sarebbe vorsuto pe' sali' fin'in cim'a tutti quei scalini…
S'accorse che stava un'altra volta divagando. Rimpasticciò le parti del detonatore, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a metterlo in sesto.
E continuò a pensare che stava dimenticando qualcosa.
Ed era la parte più importante.
Non gli funzionavano i freni, a quel trenìnculo inchiappettato.
Luther stramaledisse energicamente quel troiaio, poi, mentre transitava accanto alla stazione, si buttò giù, ruzzolando rovinosamente.
Si rialzò vacillando. Pezzettini di Luther giacevano disseminati qua e là sul marciapiede. Fortuna che non erano pezzi importanti. Un orecchio, un frammento d'osso cranico, parte di un piede.
Gli restava poco tempo, e lo sapeva.
Guardò il treno allontanarsi sbuffando lungo l'ampia curva. Avrebbe continuato ad andare avanti per sempre, gira e rigira in tondo alla grande ruota di Pandemonio, gira e rigira in tondo alla Grande Madre Gea…
E invece no. La linea era interrotta, perché… tum… Gea s'era battuta contro il grariserpente perché… tum… tum… Cirocco li stava attaccando! E Gea aveva inviato qui proprio lui, Luther, onde compisse un'importante missione!
Adesso il suo cervello stava arrancando avanti mica male, eh sì. Se gira il tempo sufficiente, anche a una ruota quadrata gli si smussano un poco gli spigoli, chiaro. E Luther si sentiva vigile e pronto non meno di com'era sempre stato fin dal giorno… che era morto. Corrugò quel poco di fronte che gli rimaneva, poi, con una spallucciata alle perplessità, si affrettò giù per gli scalini.
Fu affrontato da Gautama. Quel lardoso finocchietto rompipalle dorodorato d'una Gautama, gnaulante chissaché in chissaquale barbara lingua da miscredenti. Luther sguainò la sua croce — la possente Spada del Signore — e lo decapitò di netto.
La qual non uccise Gautama, ovviamente: il fatto, peraltro, che con un calcione ben assestato Luther mandasse la sua testa a rotolare cento metri giù lungo la via, dovette senza dubbio recargli un certo incomodo.
Prese infatti, braccia tese ciecamente innanzi a sé, a brancolare dattorno senza costrutto. Luther neanche lo degnò di un'altra occhiata, tutt'intento com'era a un suo cantante mugolìo e proteso in un volenteroso tentativo d'articolazione labiopalatale, sebbene ormai più non disponesse d'abbastanza bocca per pronunziare gran parte delle ispirate parole che salivano a sgorgargli dal petto.
Ma ora scende un campione in battaglia
Che Dio stesso inviò quale Suo eletto!
Braccio mortai Sua possanza non uguaglia,
Ed essa sarà scudo al nostro petto!
Sugli spalti c'era gente che sparava. Udì il rombo di un cannone. Incedette sicuro sino a raggiungere il portale, e lo spalancò di schianto. Grida laceranti si levarono al suo indirizzo. Non riusciva a comprenderne il senso. Si accostò al marchingegno del ponte levatoio e individuò la leva giusta, tirando la quale…
Tum.
Sto abbassando il ponte levatoio, si disse. Tum.
Perché sto abbassando il ponte levatoio?
Ah… diamine, per aiutare Gea, naturalmente. Per aiutare Gea a…
Entrare? Tum… tum… tum…
Che non fosse mai qualche sorta d'inganno? La sua mano si allontanò di scatto dalla leva.
— No, non v'è alcun inganno, mio diletto Luther — flautò una voce vicinissima al suo orecchio.
Volse il capo, e la vide.
Era Gea, ed era sua moglie, e sua madre, e tutta la maternità e tutta la femminilità e la verginemaria diolabbingloria, con un fascio di spine avviticchiate intorno al cuore e quella santissima espressione a beatificarle il volto (il volto, sì, di quella donna bassina dal bruno incarnato) e le abbacinanti vest'immacolate e l'aureola… l'aureola! Ma sì, veridica visione, l'ammantava una bruciante, avvampante luce che prorompeva dal di lei paradisiaco corpo, il fiammeggiante splendore ch'è sigillo di bontà/sofferenza/morte, e milioni d'angeli si libravano a farle corona sonando le loro trombe celesti (e dire che neppure la conosceva, quella piccola signora bruna)… tum… inganno? Ma come avrebbe potuto trattarsi di un inganno?!
C'era gente, ora, che gli faceva piovere addosso una gragnuola di fendenti. Osservò distrattamente una delle sue braccia cadere sul pavimento di pietra. Ma, o Signore, un altro braccio rimane al Tuo servo per adempiere la Tua Volontà.
Fece un balzo ad abbrancar la leva, la spinse d'impeto in avanti, e precipitò a capofitto dentro le fauci dello sferragliante rotolante maciullante meccanismo mentre tonnellate di ponte levatoio si scardinavano alla loro inerzia abbattendosi a dismembrarlo brano a brano.
La prima morte di Arthur Lundquist era stata orribile. L'ultima, fu gloriosa.
Alcuni fotofauni erano riusciti chissacome a traversare a nuoto il fossato, e adesso ce n'era una dozzina che facevano capannello attorno a Cirocco, la quale attestata a pie' fermo osservava Gea farlesi incontro a lunghi passi baldanzosi.
La gigantesca pseudomonroe incedeva a braccia spalancate, come a voler precludere a Cirocco ogni e qualsivoglia eventuale via di scampo. Veniva avanti simile ad una spaventosa lottatrice professionista, e il suo volto era contorto in una maschera d'odio.
Distava da Cirocco cinquecento metri. Quattrocento. Trecento.
D'un tratto s'immobilizzò, in ascolto, mentre Luther moriva.
Dov'è il Bambino?
Durante la manovra di avvicinamento all'imbocco del ponte scoppiò sopra le loro teste un obice di cannone. Conal sentì qualcosa grandinargli sull'elmetto, avvertì qualcosa pungergli un braccio, udì Robin cacciare un urlo.
La vide che si premeva una mano sulla fronte, scorse del sangue trapelare fra le dita, fece l'atto di spiccare un balzo…
— No! — gli gridò Robin. — Non è nulla!
E comunque non c'era più tempo. Ormai si trovavano sulla passerella, e gli zoccoli dei titanidi tambureggiavano contro lo spesso tavolato. Si avventarono verso il grande varco. Il ponte levatoio era sollevato. Faremmo meglio a rigirare pensò Conal.
Ma, all'ultimissimo istante, il ponte cadde giù di schianto. Con parte della sua consapevolezza Conal notò che Rocky perdeva sangue da numerose ferite. In cima alla muraglia c'era qualcosa che faceva degli strani, secchi rumori scoppiettanti, esalando ondeggianti nuvolette di fumo. Alzando lo sguardo, vide che i difensori li prendevano di mira con dei fucili. Si augurò che a sparare fossero bravi quanto lui.
Varcarono l'arco d'ingresso e lo traversarono in un lampo. Conal non fece in tempo a tirare nemmeno un colpo. Le spade titanidi si misero all'opera senza esitazione, e gli umani che cadevano sotto i loro fendenti erano probabilmente morti ancor prima di accasciarsi a terra. Eppure continuavano a farsi sotto. Conal prese a sparare a tutto quello che si moveva.
Non aveva ancora avuto modo di vedere contro chi stava combattendo, né tanto meno di percepire quei soldati nella loro individualità. Alla fine incominciò a rendersi conto che erano abbigliati in maniera bizzarra. Alcuni indossavano lunghe giubbe, altri bianche armature, altri ancóra policromi calzoncioni grigioverdemarrone ed elmetti simili al suo.
Un uomo urlante corse a gettarglisi contro, evitando d'un pelo l'impatto con la spada di Rocky. Brandiva una sciabola assurdamente lunga. Impossibile dire come facesse anche soltanto a sollevarla, non parliamo poi di vibrarla efficacemente.
Eppure riuscì lo stesso a rotearla con forza colpendo Conal ad una gamba, ed egli, convinto che l'arto gli fosse stato amputato, prese ad elevare una silenziosa prece, in attesa che entro pochi attimi il terribile dolore giungesse a sferzarlo.
Poi guardò giù. La spada si era spezzata fra le grinfie dell'aggressore, che ancora ne impugnava un innocuo mozzicone. Conal vide legno scheggiato. Vide vernice argentea. L'assalitore gettò via il troncone, e un poco di quella vernice gli rimase appiccicata alla mano.
La mente di Conal, confusa, stentava ad afferrare la situazione.
Santiddìo, ma questi qua pensavano che fosse un gioco?
Poi udì gridare Valiha. Si era spinta, indisturbata, molto più addentro degli altri, e aveva incontrato Chris.
— Tornate indietro! — gridava. — Li ho trovati! Tornate indietro!
— Vigliacca! — urlò Cirocco.
Gea si fermò.
— Gea è una fetente, cacasotto, pusillanime FIFONA! Gea è una CODARDA!
La nuda gigantessa, lucida di sudore, si volse lentamente. Aveva incominciato a dirigersi verso la zona Fox, stava andando a riprendersi Adam prima che glielo portassero via, ma… Cirocco ce l'aveva lì a pochi passi, e invece Adam era distante chilometri.
— Torna qui e combatti, cagna vigliacca! Non mi dirai che hai… paura, vero? Gea ha paura, Gea è una fifona, Gea è una troia rognosa!
Gea rimase lì indecisa, tentennante, lacerata fra due impulsi contrastanti: correre da Adam, oppure farla finita una volta per tutte con quell'insetto fastidioso. Lo capiva benissimo che c'era di mezzo qualche tranello. Lo sapeva perfettamente che Cirocco la stava provocando per indurla a tralasciare il Bambino e percorrere i pochi metri che le mancavano per far tacere finalmente quella sua boccaccia oscena. Lo sapeva, come no… ma la cosa che più ferocemente agognava, in tutto lo schifoso miserabile universo, era tornare indietro, certo, adesso, sì, a spiaccicare quell'insopportabile presuntuosa.
Cirocco sputò in direzione di Gea. Poi raccolse un sasso e glielo scagliò con tutte le sue forze. La pietra rimbalzò sulla testa di Gea, lasciandole in fronte un'impronta sanguinante.
Quindi Cirocco sguainò la spada e alta la brandì nella morbida luce d'Iperione, che accarezzò il ferro polito traendone un minaccioso balenìo.
— Dio? Mi fai ridere, Gea. Tu sei solo una maiala. Tua madre era una maiala, tua nonna era una maiala, e la madre di tua nonna si faceva fottere da maiali sifilitici. E io ti sputo in un occhio, e ti piscio in bocca, e ti sfido a venir qui a combattere. Se adesso scappi via, lo sapranno tutti che razza di vigliacca sei!
Lacrime di rabbia sgorgavano copiose dagli occhi di Cirocco.
Nonostante tutto, forse Gea avrebbe ancora deciso di voltarsi dall'altra parte per correre da Adam, ma Cirocco lanciò un urlo raccapricciante… e si gettò all'assalto.
E questo era davvero troppo. Anche Gea incominciò a muoversi.
Verso Cirocco.
— È l'ora, Gene.
— Lo so cch'è ll'ora, Gaby. Me rincresce, sai, che t'ho vio…v-v-vviolentata. Me spiace che t'ho amazzata. Io nun volevo mica…
Le sue mani armeggiavano maldestramente col detonatore che teneva in grembo. Era un meccanismo semplice. Lo sapeva ch'era semplice. Dio che cosa terribile. Non poter ricordare.
Eugene Springfield era stato un pilota. Aveva guidato caccia a reazione e moduli di atterraggio lunare. Fra più di mille candidati avevano scelto lui, per manovrare i veicoli d'esplorazione che il Ringmaster avrebbe portato verso Saturno. E per una semplicissima ragione. Era il migliore.
E adesso ngne riusciva de veni' a capo de 'sto guazzabuglio de fili che un qualunque mongoloide de bombarolo sarebbe stato capace de districa' a occhi chiusi.
Si asciugò le lacrime. Ripigliamo daccapo. Dunque, che aveva detto Gaby?
Tira fuori il…
Sgranò le pupille. La parte più importante, e se l'era quasi scordata! Perdiaccio, 'l cervello gne doveva esse andato a fini' 'n pappa, gne doveva!
Ce l'aveva proprio lì, vicino i piedi. 'l vaso de vetro nero cor tappo de ferro.
Lo prese, lo aprì, scaraventò il coperchio a rimbalzare acciottolando nell'oscurità.
Il grasso parassita rospiforme che per novant'anni gli aveva succhiato il cervello saltò fuori e si appollaiò sul bordo del recipiente. I suoi occhi colsero la situazione, e quasi gli uscirono dalle orbite.
Incominciò ad emettere suoni incoerenti: gracidii, singhiozzi, ànsiti strozzati. Per Gene tutta 'sta manovra non significava un fottuto cavolo de gnente, ma Gaby ava ditto ch'er'importante.
Gea deve vedere, ava ditto Gaby.
— E che te cridivi, d'esse più furbo de me? — bisbigliò Gene, guardando fisso quel mostriciattolo negli orridi occhi iniettati di sangue. — Vabbe', ora sta 'n po' a vede' che te 'nventa 'r vecchio Gene…
Tornò a esaminare il detonatore.
Batteria. Sarebbe 'st'arnese ooua
Fili. Ce ne sta 'n paio, giusto? Questo va de qquàe, e questaltro va ae llàe. Ergo lumedeloggica n'arvène che se 'r coglione che 'n so' antro s'arisic'a tocca' 'sto filo quissùe 'nte 'st'accrocco quiggiùe ne doverebbe d'armedia' 'n arcicasino de…
Gea si raggelò d'orrore allorché, scoperchiatasi la galera, i suoi occhi in Oceano diedero una sbirciata in su e saltarono sul bordo del barattolo e stralunarono al fissarsi sullo spettacolo d'uno scervellato ragazzino intento a giocare con fiammiferi e benzina.
— Gene! — urlò. — Non farlo!
Cirocco si avventò, ricolma d'una furia rossosangue che non s'era mai accorta d'albergare in sé. Scagliandosi sul mostro gl'immerse la spada in un piede.
Allora Gea gridò, e Cirocco si sentì pervadere da un'incredibile sensazione di trionfo… che durò a malapena due secondi. Gea roteò con un guizzo improvviso dell'intero corpo, e Cirocco venne scaraventata via come fosse nient'altro che una formicuzza fastidiosa. La Grandèa s'era dimenticata persino che lei esistesse.
Mentre si rimetteva in piedi vide Gea immobilizzarsi di colpo, portarsi le mani alla testa, alzare lentamente lo sguardo verso il cielo.
— Gaby! — strillò Gea. — Gaby, aspetta! Ascolta, non sono… non sono pronta! Gaby, dobbiamo parlare!
Poi il suolo tremò, mentre Gea si gettava a tutta velocità in direzione del cavo.
Cirocco cadde in ginocchio, e pianse disperatamente. Sentì una mano adagiarlesi sulla spalla, rialzò la testa, si vide accanto tutti e tre i suoi Generali. Miodìo, pensò. Son venuti da me. Non sono scappati.
Tutt'intorno a lei, il suo esercito. In pugno spade sguainate, negli archi frecce incoccate, ma nessuno da colpire, niente a cui tirare. Stettero tutti a guardare, inorriditi e ammutoliti, mentre Gea si dibatteva guadando il fossato, senza smettere un istante di berciare a pieni polmoni.
Non fu certo la muraglia a fermarla. Piegandosi s'un fianco, con una sola devastante spallata si aprì un varco attraverso il massiccio baluardo. Poi sfrecciò tra le fiamme che continuavano a divorare edifici e attrezzature dello studio Universal. Quindi percorse strepitando le sconquassate rovine della Strada Maestra a Ventiquattro Carati.
Alla fine raggiunse il cavo.
Un balzo, e le sue dita guizzarono a piantarsi nell'incredibilmente solido materiale di un trèfolo. Agile come una scimmia, Gea prese ad arrampicarsi.
Si ipotizzò, in séguito, che l'ormai vacillante Grandèa avesse voluto scegliere la via più rapida per giungere al mozzo.
C'era Gaby, lassù, e stava assumendo il controllo, ed era indispensabile che l'incarnazione Gea/Monroe, ora ospitante oltre il novanta per cento dell'entità chiamata Gea, si portasse d'urgenza in quel luogo per dare il via a immediate trattative.
Gea sculettava già a cinquecento metri d'altezza allorché il trèfolo si spezzò rasoterra.
Scattò verso l'alto, inarrestabile e fulmineo come una trappola per topi. Incalcolabili tonnellate di trèfolo s'arricciolarono sferzanti ad annientare l'arrancante apogèa schiacciandola contro l'impenetrabile massa del cavo.
— Tenetevi forte! — gridò Cirocco. — State giù, e tenetevi forte!
Sotto di loro il terreno cedette di schianto, sprofondando di trenta metri.
Mentre tali eventi avevano luogo a livello del suolo, un dramma assai meno apocalittico ma di gran lunga più importante si consumava lontano lassù, nella superna regione nota come Linea Rossa.
L'entità conosciuta col nome di Gea esisteva disseminata, frazionata in una plètora di separati concomitanti nuclei di consapevolezza/volontà. L'entità conosciuta come Gaby attendeva mimetizzata sullo sfondo, in posizione difensiva. Una dopo l'altra, terribili esplosioni devastarono i capisaldi della cerebrorete geana. L'ultima esplosione recise l'importante ganglio nervoso diramantesi dalla tomba di Oceano. E Gaby proruppe dal proprio nascondiglio.
Non v'è modo di spiegare ad un umano, o a un titanide, o ad un aerostato, o a qualsivoglia creatura i cui sensi permangano obnubilati dalla percezione del tempo, che cosa accadde.
Il risultato finale fu semplice, peraltro. La mente di Gea venne distrutta. La mente di Gaby Plauget da New Orleans, Louisiana, si propagò incontrastata attraverso lo spazio non-einsteiniano della Linea Rossa.
Attesero che Valiha, Chris e Adam si unissero a loro. Attesero, mentre centinaia di comparse confinate a Pandemonio li assalivano con spade di legno, di cartone… e, ogni tanto, anche d'acciaio.
— È roba finta! — gridò Nova a Virginale.
— Lo vedo! — le urlò Virginale di rimando. — Non tutta, però!
Fu una cosa orribile. Per quanto ci si sforzasse, era difficile distinguere le armi vere da quelle simulate. E la gente di Pandemonio pareva non conoscere la differenza.
Si ritirarono rapidamente attraverso l'Ingresso Fox. Chris era ferito in modo serio. Valiha aveva un taglio profondo alla zampa posteriore sinistra. Robin riusciva a rimanere in groppa solo con l'aiuto di Serpentone, lui stesso colpito in più punti.
Conal provava un senso di assoluto distacco. Sparava alla gente che lo assaliva, ma non gli sembrava neppure che si trattasse di persone in carne ed ossa.
Appena fuori della cerchia fortificata puntarono difilato verso la foresta, tallonati dalle orde di Pandemonio.
Si fermarono, si volsero a guardare, e videro la Fanfara giungere con perfetto tempismo e incominciare a trucidare i nemici a centinaia.
— Fermi! — gridarono. — Aspettate! Basta! Non sono armati!
Un poco alla volta, mentre espressioni d'attonito orrore si andavano dipingendo sui loro volti, i trecento titanidi moderarono il proprio impeto, si resero conto della situazione, interruppero la strage. Le truppe di Pandemonio vagavano attorno senza meta. Gran parte di quei soldati, a quanto pareva, dovevano essersi riversati fuori al solo scopo di scampare a ciò che avevano pensato fosse un attacco proveniente dall'interno stesso delle mura.
A Conal tornò in mente come li aveva visti correre. Gente inerme, smarrita, che fuggiva precipitosamente sperando di mettersi in salvo al di là di quel varco.
Saltò giù dalla schiena di Rocky e cadde in ginocchio. Rimase lì, stordito e vacillante, combattendo la nausea che minacciava di sommergerlo da un momento all'altro. Sentì un braccio amico posarglisi delicatamente sulle spalle, e si volse per stringerla forte a sé.
Ma era Nova, non Robin, anche lei col volto inondato di lacrime. L'abbracciò, poi corsero entrambi incontro a Robin.
Ebbero appena il tempo di sincerarsi che nessuno aveva subito ferite particolarmente preoccupanti — sebbene più o meno sanguinassero tutti — quando la terra sprofondò sotto di loro.
La grande ruota di Gea continuò a vibrare per venti riv.
I peggiori furono i primi tre o quattro. Durante il catastrofico susseguirsi di scosse iniziali, immediatamente seguite al cedimento del trèfolo, morì molta gente soprattutto a Pandemonio, dove gran parte degli edifici furono rasi al suolo. La violenza dell'impatto provocò un certo numero di feriti gravi anche nell'esercito di Cirocco.
Sotto la sollecitazione della quarta onda di risonanza si spezzò un trèfolo in Teti, e i tre scossoni successivi furono brutti, ma non sconvolgenti come quelli della prima serie.
Alla fine, il mondo s'acquietò. L'intera circonferenza, lungo il bordo, rimase satura per molti chiloriv di particelle di polvere in sospensione, ma la grande ruota aveva trovato un nuovo equilibrio. In alcuni tratti il corso dell'Ofione divenne un po' più rapido, e in altri un po' più lento. Certi laghi s'ingrandirono, certi altri si rimpicciolirono.
Due zone paludose invasero alcune migliaia di ettari, e il deserto di Teti — che, a differenza di Mnemosine, deserto era sempre stato — avanzò di alcuni metri lungo l'intero suo confine.
Per un poco Rocky fu molto occupato dietro le ferite grandi e piccole che s'era buscate la banda dei sette… salita a nove col recupero di Chris e Adam. Non si trattava, in nessun caso, di lesioni particolarmente gravi.
La Fanfara rastrellò duemila prigionieri. Era prevedibile che, dopo un breve assedio, quelli che ancora resistevano asserragliati in Pandemonio si sarebbero arresi per fame.
Sembrava che il piccolo Adam, conservatosi perfettamente incolume, si fosse divertito un mondo a tutta quella baraonda. Per lui era stato proprio come nei film, e un pochettino gli era parso anche di volare… e adesso non vedeva l'ora di godersi il séguito di quella storia emozionante.
Alla testa del suo esercito festante, Cirocco guardava i disgustosi rimasugli della cosa ch'era stata Gea colare lentamente giù per il fianco del cavo.
Lei soltanto, fra tutti, comprendeva perché il cavo fosse riuscito a ucciderla, dopo che Nasu e Finefischio avevano fallito… e si rendeva conto che alcune domande rimanevano ancora senza risposta.
Sentì provenire, da dentro lo zaino, un uggiolìo lamentoso. Lo aprì, e ne estrasse il barattolo che imprigionava Spione.
Il piccolo dèmone stava morendo. Cirocco lo scrollò fuori del recipiente facendoselo cadere nel cavo della mano.
— Potrei avere un goccettino? — le domandò Spione, con voce rotta da un ànsito greve. Cirocco prese la bottiglia. Non perse tempo col contagocce. Versò una dose generosa direttamente sul corpo di Spione, che lappò goloso inghiottendo parecchie sorsate.
Cirocco sapeva che lì, fra le sue mani, rantolava adesso l'ultimo, agonizzante frammento di Gea.
Fin dall'inizio del gioco, Gea era stata perfettamente consapevole che avrebbe anche potuto perdere. Non che se lo fosse aspettato, certo… ma così era andata. Gaby era stata più furba di lei.
E adesso giaceva in palmo a Cirocco. Giustizia ideale, pensò. Eh sì, uno trascorre vent'anni della propria esistenza a progettare in qual modo sbarazzarsi di un traditore, e com'è che va a finire? Che uno si riduce a sputar fuori gli ultimi secondi di vita in pugno, letteralmente, al suo più acerrimo nemico.
La questione delle ultime parole era stata oggetto, da parte di Gea, di alcune riflessioni.
Quand'uno arriva al punto che gli tocca uscire di scena, bisogna almeno che lo faccia con un certo stile, che diamine. E siccome a questo mondo non si sa mai, Gea aveva pensato bene di non farsi cogliere impreparata.
C'erano le classiche frasi dei cartoni animati alla Looney Tunes. Un po' troppo leggerine, data la situazione.
C'era "Rosebud". Troppo pretenziose, troppo oscure.
Alla fine, ritornò ai film di serie B che amava tanto.
— Madre misericordiosa — ansimò rauco Spione. — È questa, dunque, la fine di Gea?
E morì.
E…
Molto prima che le vibrazioni del cataclisma finale si fossero spente, un raggio di luce saettò obliquamente giù dalla volta d'Iperione.
Concentrandosi su Cirocco Jones.
Cirocco si aderse nello slancio delle membra, affisando le pupille al cuore vivo di quella luce. Il suo corpo si librò nell'aria.
E venne assunta, incarnata, in Cielo.