CINEGIORNALE

Era nozione diffusa che la V Guerra Mondiale avesse avuto origine da una Matrice Moletronica difettosa appartenente a un computer per il controllo del tiro, da poco installato a quattro miglia di profondità sotto Cheyenne Mountain, Wyoming.

Un'indagine condusse alfine all'appartamento di Jacob Smith, trentott'anni. Via del Tempio n. 3400, Salt Lake City. Era stato Smith a verificare la MM e a consentirne l'installazione nel Dispositivo Cibernetico Mark XX "Arcangelo" della Western Bioelectric. L'Arcangelo aveva poi rimpiazzato l'obsoleto Mark XIX a difesa dei Territori dei Mormoni Riformati, comunemente noti come "Terre Normanne".

La storiella era apocrifa come quella della mucca della signora O'Leary. Ma venne fatta arrivare all'orecchio di un giovane giornalista zelante al soldo di una delle reti radiotelevisive mondiali, finendo per diventare l'argomento principe di un servizio speciale in TiGiSera, "La Quinta Guerra Mondiale: Terzo Giorno". Il Quinto Giorno Jack Smith salì di nuoyo agli onori della cronaca, perché una turba inferocita lo strascinò fuori dalla centrale di polizia impiccandolo a un lampione in Piazza del Tempio, a meno di trenta metri dalla statua di un altro famoso Smith, circostanza puramente casuale.

Verso il Sedicesimo Giorno i più accreditati conduttori televisivi avevano tirato in ballo gli storici, che passavano il tempo a discutere se l'attuale contenzioso andasse battezzato III o IV o V Guerra Mondiale, oppure IV Guerra Nucleare, o magari I Guerra Interplanetaria.

C'erano buoni motivi per propugnare la designazione interplanetaria, dato che nei primi giorni alcuni insediamenti lunari e marziani s'erano schierati con l'una o con l'altra delle fazioni terrestri, e persino qualche colonia LaGrange cominciava a dar segni di voler impostare una politica estera. Ma al momento che Jack Smith venne impiccato, tutti gli Avamposti s'erano ormai dichiarati neutrali.

Alla fine, la decisione venne presa in un ufficio della Sesta Strada, New York City, Confederazione Capitalista Occidentale, da un analista grafico televisivo. In fascia serale, gl'indici di gradimento circa il numero V erano risultati notevolmente alti. Il V suggeriva un nonsoché d'erotico e poteva passare per l'iniziale di Vittoria, e fu così che andò per V Guerra Mondiale.

Il giorno dopo, la Sesta Strada venne vaporizzata.


Le reti radiotelevisive mondiali ripresero fiato. Verso il Ventinovesimo Giorno eran tutte impegnate a dibattere la seguente questione: Ci siamo? Dove il "ci" stava a indicare l'Olocausto, i Quattro Cavalieri dell'Apocalisse, la Guerra Finale, l'Estinzione dell'Umanità. Era un problema grosso. Nessuno voleva esporsi troppo apertamente in un senso o nell'altro, essendo ancor vivo il ricordo di come s'erano sputtanati tutti quelli che avevano annunciato la fine del mondo allo scoppio della Guerra Fallita. Ma tutte le reti promisero di esser le prime a dare la notizia.

Il fatto che all'origine del conflitto ci fosse una disfunzione tecnica non sorprese nessuno. L'attacco dei Territori Normanni contro l'Impero Birmano era evidentemente frutto di un errore. Nessuno dei due contendenti aveva alcun motivo di risentimento nei confronti dell'altro. Ma poco dopo il guasto della MM nel Wyoming, di ragioni per arrabbiarsi i Birmani ne ebbero un mucchio.

Il satellite Imbeci VI, in orbita ravvicinata attorno alla Terra, entrò in azione da qualche parte nei cieli del Tibet, cinquanta miglia sopra Singapore lanciò un vettore a testata multipla, e quindi incominciò una manovra evasiva. Tutt'e sei le testate termonucleari disseminarono sulla propria scia una serie di bersagli civetta, e vennero precedute da venti testate identiche ma innocue destinate a impegnare l'apparato antimissile e le postazioni laser. Il computer birmano ebbe appena il tempo di dare un'occhiata a quell'orda impetuosa. Stabilì che l'attacco dell'Imbeci VI mirava a distruggere non meno di undici obiettivi terrestri.

All'incirca nel momento in cui il computer giunse a tale conclusione, le testate da dieci megaton esplosero trenta miglia sopra la provincia del Nuovo Galles del Sud. La risultante raffica di radiazioni gamma produsse un impulso elettromagnetico, o IEM, che mandò fuori uso ogni telefono, teleschermo, trasformatore e tosapecore da Woomera a Sydney, e provocò un'inversione di flusso nel sistema fognario di Melbourne.

L'Imperatore di Birmania era un uomo volitivo. I suoi consiglieri gli fecero presente che alla tattica IEM avrebbe fatto seguito un'invasione, se Salt Lake City fosse stata davvero intenzionata a muover guerra. Ma al momento dell'attacco egli si trovava a Melbourne. Non si era affatto divertito.

Due ore dopo, Provo, nell'Utah, era ridotta a un cumulo di macerie radioattive, e la cittagioco di Bonneville non esisteva più.

Ma non finì lì. L'Imperatore non era mai stato capace di distinguere una religione occidentale dall'altra, cosicché per buona misura fece lanciare un missile anche su Milano, negli Stati Vaticani.

Il Concilio dei Papi si riunì a San Pietro. Ma non nella vecchia Basilica, che era stata demolita per far posto a un grande condominio, bensì in quella nuova, eretta in Sicilia, tutta vetro e plastica. Tennero conciliabolo cinque giorni, fintantoché il Paparlante non apparve a proclamare la Bolla Papale, mentre una testata Gabriele cadeva in direzione Bangkok.

Ciò che la Papessa Elena non annunziò, fu un'altra consonante decisione ch'era stata compendiata dal vice-Papa Watanabe.

— Visto che ci accingiamo a colpire l'I.B. — aveva proposto Watanabe — perché non approfittarne per inviare "accidentalmente" un regalino anche a quei fottuti della R.C.B.?

Così, poco dopo che un'esplosione aerea da un megaton ebbe raso al suolo Bangkok, un secondo Gabriele cadde nei sobborghi di Potchefstroom, nella Repubblica Comunista Boera. Il fatto che fosse stato destinato a Johannesburg non parve poi far grande differenza.


La VGM, come finì ben presto per essere abbreviata, si trascinò dunque avanti in un reciproco scambio di convenevoli, dove ognuno rimaneva in attesa che una nazione o l'altra sferrasse quell'attacco totale che, alle fiere di provincia, per carnevale e negli spettacoli pirotecnici è conosciuto come "botto finale". Esso sarebbe arrivato sotto forma di una massiccia ondata di missili diretti contro fortificazioni militari, centri urbani e risorse naturali, e sarebbe stato accompagnato da agenti batteriologici e mortali aggressivi chimici. Nel periodo in cui la guerra ebbe inizio, esistevano cinquantotto nazioni, religioni, partiti politici e altre confraternite in grado di portare un attacco del genere.

E invece le bombe continuarono a cadere al ritmo di circa una alla settimana. Inizialmente parve una sorta di mischia generale, ma in capo a tre mesi le varie alleanze avevano inaspettatamente finito per consolidarsi secondo le classiche linee di tendenza. Le reti radiotele incominciarono a definire gli uni Porci Capitalisti, e gli altri Vermi Comunisti. I Normanni e i Birmani, strano a dirsi anzichenò, si ritrovarono dalla stessa parte, mentre il Vaticano militava sul fronte opposto. Esistevano bensì altri parassiti (e i commentatori avevano denominazioni per tutti quanti) che di tanto in tanto alzavano la cresta per dare un calcio nello stinco a uno dei due giganti. Ma nel complesso la guerra finì ben presto per assomigliare a uno di quegl'incontri di cui i Russi erano stati così appassionati durante la Prima Guerra Atomica. Sbronzi di vodka, si schiaffeggiavano a turno in pieno viso finché uno dei due non finiva al tappeto.

Il record in questo genere di competizione, rimasto imbattuto, fu stabilito nel 1931, quando due compagni se le diedero l'un l'altro per trenta ore.

Al ritmo di una bomba da cinque megaton alla settimana (circa un kiloton al minuto), si calcolava che le riserve nucleari della Terra sarebbero bastate per ottocento anni.


Conal "Il Pungiglione" Ray era un Porco Capitalista. Al pari dei suoi simili, non dedicava molto tempo a riflettere su tale circostanza, ma quando lo faceva amava autodefinirsi Pancetta Canadese.

In qualità di cittadino del Dominion del Canada, la più antica nazione terrestre, Conal non correva alcun rischio di vedersi arruolato, e assai poco di venir vaporizzato. In primo luogo nessuna nazione era davvero impegnata a radunare eserciti. La guerra non era più un lavoro da cani. E poi solamente una bomba era stata sganciata sul Canada. Aveva colpito Edmonton, e la ragione principale per cui Conal se ne accorse fu che gli Oilers da quel momento disertarono i loro impegni agonistici nel Campionato Canadese di Hockey.

Che il Canada fosse stato un tempo nazione assai più estesa, era circostanza che nessuno aveva mai rivelato a Conal… e se qualcuno l'avesse fatto, egli non ne sarebbe rimasto colpito a tal punto da rammentarsene. Il Canada era sopravvissuto arrendendosi. Il primo ad andarsene era stato il Québec, seguito dal British Columbia. Il B.C. faceva parte delle Terre Normanne, l'Ontario era uno stato indipendente, i Maritimes erano stati fagocitati a sud dalla C.C.O., e gran parte del Manitoba inferiore e del Saskatchewan erano proprietà della General Protein, la S.p.A./Stato. Il Canada se n'era rimasto stipato fra le rive occidentali della Baia di Hudson e le colline pedemontane delle Montagne Rocciose. Aveva in Yellowknife la sua capitale. Conal viveva in un sobborgo di Fort Reliance, una cittadina chiamata Artillery Lake. La popolazione di Fort Reliance ammontava a cinque milioni di anime.

Conal era cresciuto con due passioni: giocare a hockey e ascoltare i fumetti. A hockey era una frana, per il semplice fatto d'essere troppo grasso e troppo lento. Nelle partite con ingressi a rotazione di solito era l'ultimo a venir chiamato in campo. Quando giocava lo mettevano sempre in porta, in base al principio che pur difettando egli quanto a rapidità, agli avversari sarebbe risultato comunque difficile tirare a rete aggirando la sua mole.

Il giorno del suo quattordicesimo compleanno un bulletto gli tirò una palla di neve in faccia, e Conal scoprì una nuova passione: il culturismo. Con sorpresa sua e di tutti quanti, in quella disciplina riuscì eccezionalmente bene. All'età di sedici anni avrebbe già potuto aspirare al titolo di Mister Canada. In puro stile Charles Atlas scovò il bulletto e lo infilò a forza dentro un buco nel ghiaccio che ricopriva l'Artillery Lake, dopo di che il bulletto non si fece più vedere in giro.

In lingua celtica, il nome Conal significa "alto e forte". Conal incominciò a pensare che sua madre gli aveva dato il nome giusto, sebbene fosse alto solo un metro e settantadue. E c'era qualcosa, nel retaggio della signora Ray, che, quando Conal ne fu informato, gli diede la quarta grande passione della sua vita.

Fu così che in occasione del suo diciottesimo compleanno, 294° Giorno dall'inizio della Guerra, Conal prese la slitta del mattino per lo spazioporto di Cape Churchill, dove s'imbarcò su un'astronave con destinazione Gea.


A parte un viaggetto a Winnipeg, in vita sua Conal non era mai uscito dal Canada. Stavolta il tragitto sarebbe stato notevolmente più lungo: Gea distava quasi un miliardo di miglia da Artillery Lake. Il prezzo del biglietto era salato, ma George Ray, padre di Conal, non osava più contrastare i desideri di suo figlio. Durante gli ultimi tre anni il ragazzo non aveva fatto altro che mangiare, giocare a hockey e sollevar pesi; sarebbe stato simpatico averlo fuori dai piedi. Un miliardo di miglia davano l'impressione d'esser sufficienti.

Saturno fece un accidente d'impressione, su Conal. Gli anelli parevano tanto solidi da poterci pattinare. Seguì la manovra di attracco della nave all'immensa massa oscura di Gea, poi tirò fuori il suo fumetto più vecchio. "Pattini d'oro". Era la storia di un ragazzo che riceveva un paio di pattini magici da uno stregone malvagio, e di come imparava a usarli. Alla fine il ragazzo, che si chiamava Conal anche lui, riusciva a padroneggiare perfettamente i pattini e spaccava la testa al mago con un calcio formidabile.

Conal tastò le fonobande che contornavano l'ultima tavola, udì il familiare tunk carnoso nell'attimo che i pattini spezzavano il cranio del mago, vide il sangue sgorgare a fiotti e i frammenti di cervello luccicare ripugnanti sulla pagina.

Conal dubitava di poter uccidere la Maga coi suoi pattini, sebbene se li fosse portati appresso. Nella sua mente s'immaginava nell'atto di torcerle il collo a mani nude. In ossequio a un più realistico orientamento, s'era portato anche una pistola.

La sua preda era Cirocco Jones, già Capitano del Vascello Interplanetario Ringmaster, ex Comandante di Stormo degli Angeli, sub rosa Retromadre dei Titanidi, un tempo Grande e Potente ma ormai da un bel pezzo deposta Maga di Gea, ora detta Demonio. Conal aveva intenzione di ficcarla dentro un buco nel ghiaccio.


Gli ci volle un mese per trovare Cirocco Jones. Da un lato perché il Demonio non era affatto impaziente di farsi trovare, benché al momento non stesse fuggendo da nulla in particolare. Dall'altro perché Conal, come molti altri prima di lui, aveva sottovalutato Gea. Sapeva che il Mondo/Dea era grande, ma non aveva trasformato le cifre in una visione chiara di quanto territorio avrebbe dovuto affrontare.

L'avevano anche informato che Jones stava solitamente in compagnia dei titanidi, e che i titanidi normalmente risiedevano nella regione nota come Iperione: di conseguenza concentrò lì le sue ricerche. Quel mese di perlustrazioni gli diede modo di abituarsi al quarto di g presente all'interno di Gea, e ai vertiginosi panorami che si offrivano a chi penetrava in quella colossale cavità. E imparò che, a un umano, nessun titanide avrebbe rivelato nulla del "Capitano", come adesso chiamavano Jones.

I titanidi erano assai più grossi di quel che si fosse aspettato. Quelle creature centauriformi avevano giocato un ruolo importante in molti dei suoi fumetti, ma i disegnatori s'erano prese parecchie libertà nel raffigurarli. Si era immaginato di potergli stare di fronte faccia a faccia, laddove in realtà la loro altezza si aggirava in media sui tre metri. Nei fumetti c'erano titanidi maschi e titanidi femmine, anche se non veniva mai mostrato alcun organo sessuale. Dal vivo sembravano invece tutti femmine, e la loro sessualità era impossibile da comprendere. Infatti possedevano organi maschili o femminili (del tutto umani all'apparenza) fra le zampe anteriori, e organi maschili e anche femminili posteriormente. L'organo maschile anteriore risultava di solito inguainato; la prima volta che ne vide uno, Conal provò un senso d'inadeguatezza che non aveva più sperimentato dai tempi dei primi esercizi coi manubri.


La trovò in un posto chiamato La Gata Encantada, una taverna titanide situata vicino al tronco dell'albero più gigantesco che Conal avesse mai veduto. Quell'albero, in effetti, era il più grande dell'intero Sistema Solare, e sotto di esso e fra i suoi rami si stendeva la più vasta città titanide di Gea, Titantown.

Stava seduta a un tavolo d'angolo, volgendo la schiena alla parete. Insieme a lei sedevano cinque titanidi. Erano impegnati in un complesso gioco che coinvolgeva dadi e scacchi mirabilmente scolpiti. Ciascun giocatore aveva accanto a sé un boccale da tre litri di birra scura. Quello di Cirocco Jones era intatto.

Sembrava piccola, curva nella sua sedia in mezzo ai titanidi, ma in realtà era alta più di un metro e ottanta. Vestiva di nero, compreso un cappello che assomigliava a quello portato da Zorro in uno dei fumetti preferiti di Conal. Le lasciava in ombra gran parte del volto, ma il naso era troppo imponente per restar nascosto. Stringeva tra i denti un sigaro sottile, e una calibro 38 azzurracciaio le spuntava da sotto la cintura dei pantaloni. Aveva la pelle nocciola chiaro, capelli lunghi screziati d'argento.

Si affrettò verso il tavolo, la fronteggiò. Non provava paura: questo era il momento che aveva tanto atteso.

— Tu non sei una maga, Jones — l'apostrofò. — Tu sei una strega.

Credette per un attimo che lei non l'avesse udito, in mezzo allo strepito e al fracasso che saturavano la taverna. Jones rimase assolutamente immobile. Epperò la tensione dell'aura fiammeggiante di cui lui s'ammantava si propagò chissà come a caricare l'aria di elettricità. A poco a poco il rumore s'acquietò. Tutti i titanidi si volsero a guardarlo.

Lentamente, Cirocco Jones alzò la testa. Conal si rese conto che lo stava osservando già da un po': in realtà da prim'ancora che lui si avvicinasse al tavolo. Aveva lo sguardo più duro ch'egli avesse mai veduto, e il più triste. Occhi infossati, luminosi, scuri come carbone. Lo squadrò, senza batter ciglio, dal viso alle braccia nude alla colt cannalunga nella fondina al fianco, pochi centimetri dalla quale indugiava quella mano che si apriva, si chiudeva…

Si tolse il sigaro di bocca e gli mostrò i denti in un ghigno da predatore.

— E tu chi diavolo saresti? — domandò.

— Io sono il Pungiglione — disse Conal. — E sono venuto ad ammazzarti.

— Vuoi che lo prendiamo, Capitano? — chiese uno dei titanidi seduto al tavolo. Con un gesto Cirocco respinse la proposta.

— No, no. Ho l'impressione che si tratti di una questione d'onore — spiegò.

— Proprio così — confermò Conal. Sapeva che la sua voce, quando l'alzava, tendeva a divenire acuta e stridula, perciò si concesse un attimo di pausa per calmare il respiro. Lei non pareva intenzionata a lasciare che fossero quegli animali ad accollarsi il suo sporco lavoro. Sembrava poter essere un degno avversario, dopo tutto. — Quando venisti qui, centinaia d'anni fa, tu…

— Ottantotto — l'interruppe.

— Come?

— Sono arrivata qui ottantotto anni fa. Macché secoli.

Conal non si fece fuorviare.

— Te lo ricordi uno che venne qui insieme a te? Un uomo che si chiamava Eugene Springfield?

— Me lo ricordo benissimo.

— Lo sapevi che era sposato? Lo sapevi che aveva lasciato sulla Terra una moglie e due figli?

— Sì, lo sapevo.

Conal trasse un respiro profondo, ergendosi in tutta la sua statura.

— Ebbene, era il mio trisnonno.

— Sciocchezze.

— Per niente. Io sono suo nipote, e mi trovo qui per vendicare il suo assassinio.

— Signor… Non ho il minimo dubbio che tu abbia commesso un mucchio di balordaggini in vita tua, ma questa sarebbe di sicuro la cosa più idiota che potresti fare.

— Ho percorso miliardi di miglia per trovarti, e adesso dobbiamo vedercela fra noi due.

Mise mano alla fibbia della cintura. Cirocco trasalì quasi impercettibilmente. Conal non ci fece caso: era troppo indaffarato a slacciarsi la cintola e a gettarla sul pavimento insieme alla pistola che ci stava appesa. Aveva provato gusto a portare quel gingillo. L'aveva indossato sin dall'arrivo, non appena s'era accorto di quanti altri umani giravano armati. Pensava che facesse una gran bella differenza rispetto alle retrograde leggi sulle armi da fuoco che vigevano in Canada.

— Ecco fatto — disse. — Lo so che hai centinaia di anni, e so pure che sei capace di batterti senza esclusione di colpi. Bene, sono pronto ad affrontarti. Usciamo fuori di qui, e sistemiamo la cosa lealmente. Un duello all'ultimo sangue.

Cirocco scosse pian piano la testa.

— Ragazzo, non puoi arrivare a centoventitré anni comportandoti sempre lealmente. — Spinse lo sguardo alle spalle di lui, e annuì.

Il titanide che gli si era appostato dietro gli depositò proprio in cima al capo un bel boccale vuoto. Lo spesso vetro andò in frantumi, e Conal crollò giù di schianto addosso a un mucchio d'aranciato sterco titanide.

Cirocco si alzò, ringuainando la sua seconda pistola dentro il bordo superiore dello stivale.

— Vediamo un po' che razza di pidocchio impestato è questo qui.

Era presente una guaritrice titanide. Esaminò la ferita in mezzo ai capelli insanguinati e dichiarò che l'uomo sarebbe probabilmente sopravvissuto. Un altro titanide gli tolse lo zaino che portava sulla schiena e si diede a verificarne minuziosamente il contenuto. Cirocco seguì l'operazione continuando a fumare.

— Che c'è dentro? — domandò.

— Dunque… carnesecca di manzo, una scatola di pillole per la spingarda, un paio di pattini… e una trentina di fumetti.

La risata di Cirocco era musica per i titanidi, che l'ascoltavano così di rado. E insieme a lei rise l'intera compagnia, mentre faceva passare in giro i fumetti. Dopo un poco lì fu tutt'un bisbiglìo di metalliche vocinguettanti e fonoeffetti fumettari.

— Continuate senza di me, gente — disse a quelli seduti al suo tavolo.


Conal riprese i sensi col peggior mal di testa che si fosse mai potuto immaginare. Lo stavano facendo rimbalzare di qua e di là, quindi aprì gli occhi per vedere un po' come stava la faccenda.

E si trovò sospeso a testa in giù proprio sopra un precipizio di due miglia.

Urlare gli trapanava la cervice, ma non riusciva a smettere. Era un acutissimo strillo infantile, pressoché inaudibile. Poi gli venne da vomitare, e per poco non si strozzò.

Era legato con tanto di quel cavo che pareva ce l'avesse avvolto un ragno. L'unica parte del suo corpo provvista ancora d'una certa libertà di movimento rimaneva il collo, e muoverlo gli faceva male, ma lo fece ugualmente, guardandosi attorno a casaccio.

Scoprì d'essere assicurato al dorso di un titanide, con la testa in corrispondenza dello smisurato posteriore del mostro. Il titanide si stava "diosacome" arrampicando su per una parete di roccia verticale. Piegando la testa tutt'all'indietro riusciva a scorgere gli zoccoli posteriori della creatura far presa su sporgenze larghe cinque centimetri. Rimase a guardare ricolmo d'incantato raccapriccio mentre una delle minuscole prominenze si spezzava e una pioggia di pietre strapiombava giù giù giù sino a perdersi oltre ogni vista.

— Quel bastardo mi ha vomitato sulla coda — disse il titanide.

— Ah sì? — replicò un'altra voce ch'egli riconobbe per quella di Cirocco Jones.

Dunque il Demonio era lì da qualche parte, non lungi dai suoi piedi!

Pensò d'essere sul punto d'impazzire. Urlò, li supplicò, ma non risposero. Era impossibile che quell'essere fosse in grado per propria virtù d'inerpicarsi su per una simile pendenza, eppure lo stava facendo con in groppa sia Conal che Cirocco, e spedito per di più quasi quanto avrebbe potuto esserlo Conal camminando in piano.

Ma che razza di animale era mai, quel titanide?

Lo portarono dentro una caverna a metà strapiombo. Nulla più di un buco nella roccia, tre metri d'altezza per circa altrettanta larghezza, e profondo una dozzina. Non esisteva nessun sentiero di alcun tipo che vi conducesse.

Fu scaricato a terra ancora impaniato nel suo bozzolo di fune. Cirocco armeggiò per tirarlo su a sedere.

— Fra poco dovrai rispondere a qualche domanda — lo avvertì.

— Ti dirò tutto.

— Ci puoi proprio scommettere. — Gli ghignò di nuovo, poi lo colpì in pieno volto con la canna della sua stessa pistola. Conal era sul punto di protestare, quando lei lo colpì ancora.


Cirocco dovette colpirlo quattro volte, prima d'esser certa che fosse fuori combattimento. Avrebbe voluto dargliele col calcio dell'arma, ma in tal modo si sarebbe puntata la canna addosso, e non era certo arrivata all'età di centoventitré anni facendo simili fesserie.

— Non avrebbe dovuto chiamarmi strega — osservò.

— Non dirlo a me — ribatté Cornamusa. — Io l'avrei ammazzato laggiù alla Gata.

— Già. — Si sedette sui talloni, e lasciò che le spalle le s'incurvassero. — Ti dirò, a volte mi chiedo cosa ci sia di tanto bello ad arrivare a centoventiquattro.

Il titanide non fece commenti. Stava liberando Conal dal viluppo di legami e intanto lo spogliava. Da troppi anni frequentava la Maga per non conoscerne gli umori.

Il fondo della caverna era di ghiaccio. In una giornata calda come quella, un rivolo d'acqua scorreva sul pavimento roccioso. Cirocco s'inginocchiò accanto a una pozza. Si spruzzò un po' d'acqua sul viso, poi bevve un sorso. Era gelata.

Cirocco aveva trascorso molte notti, in quel luogo, quando le cose andavano male giù sul bordo della Ruota. C'erano una pila di coperte e diverse balle di paglia. C'erano anche due secchi di legno: uno da usare come latrina, e l'altro per attingere l'acqua da bere. Un'amaca era sospesa fra due grossi chiodi conficcati nella roccia. L'unica altra comodità consisteva in una vecchia bacinella di latta per lavarci i panni. Quando doveva trattenersi a lungo, Cirocco tendeva una corda davanti all'ingresso della caverna per asciugare il bucato approfittando delle correnti ascensionali.

— Toh, ce n'era sfuggito uno — disse Cornamusa.

— Uno cosa?

Il titanide le lanciò un fumetto che se n'era rimasto inzeppato nella tasca posteriore dei calzoni di Conal. Lei lo acchiappò al volo, poi rimase un po' a guardar trafficare Cornamusa. Dal pavimento della caverna spuntava un grosso palo. Conal il forzuto, completamente nudo, c'era stato legato in posizione seduta, mentre le sue caviglie apparivano fissate ad altri due paletti distanti circa un metro. Era una posizione totalmente inerme. Cornamusa stava legando al palo la testa di Conal, avvolgendogli una larga cinghia di cuoio attorno alla fronte.

Il volto del giovane era un disastro. Tutto incrostato di sangue rappreso, col naso e gli zigomi fratturati… anche se Cirocco riteneva che la mascella fosse ancora a posto. La bocca era gonfia, gli occhi ridotti a due strette fessure.

Lei sospirò, e guardò il fumetto spiegazzato. La copertina proclamava "La Maga di Gea", e mostrava la sua vecchia nave, il Ringmaster, negli spasimi dell'agonia. Anche dopo tanto tempo, una raffigurazione come quella continuava a causarle dispiacere.

Si trattava di un libro a senso unico, nel quale tutti i personaggi possedevano già un nome che non poteva essere modificato dall'acquirente. La maggior parte dei libri di Conal risultavano invece predisposti per l'attribuzione del proprio nome all'eroe.

Erano personaggi familiari. C'era Cirocco Jones, e Gene, e Bill, e Calvin, e le sorelle Polo, e Cornamusa il Giovane, e Maestrocantore.

E, naturalmente, qualcun altro.

Cirocco chiuse il libro e inghiottì per liberarsi dal bruciore che le ristagnava in fondo alla gola. Poi si sdraiò sull'amaca e incominciò a esaminarlo attentamente.

— Hai davvero intenzione di leggerti quell'affare? — chiese Cornamusa.

— Non si può leggere. Non ci sono le parole. — A dire il vero Cirocco non aveva mai veduto un libro come "La Maga di Gea", ma ne capiva il principio di funzionamento. I colori avvampavano o lampeggiavano o scintillavano, e al tocco davano una sensazione di umido. Immersi nell'inchiostro c'erano microscopici frammenti di fumetto. Quando si toccava una tavola, i personaggi in essa presenti pronunciavano le loro frasi. Effetti sonori avevano sostituito i vecchi suoni onomatopeici a stampa, tipo zing, pow, wamm e le urla di vario genere.

Il dialogo era anche peggio di come si era espresso Conal a La Gata, e lei si limitò a guardare le figure. La vicenda era abbastanza facile da seguire.

E, a grandi linee, era persino accurata.

Vide la sua astronave avvicinarsi a Saturno. Ecco la scoperta di Gea, una nera ruota orbitante di milletrecento chilometri. Poi la nave veniva distrutta, e l'equipaggio riemergeva all'interno del planetoide dopo un periodo di sogni bizzarri. Facevano un viaggio su una specie di dirigibile, si costruivano un'imbarcazione, discendevano il fiume Ofione, incontravano i titanidi. Cirocco era misteriosamente in grado di cantare la loro lingua. Il gruppo veniva coinvolto nella guerra contro gli Angeli.

I personaggi fottevano molto più di quanto lei non ricordasse. C'erano scene assai sensuali fra Cirocco e Gaby Plauget, e anche fra Cirocco e Gene Springfield. L'ultima era inventata di sana pianta, e la prima era fuori sequenza.

Ognuno di loro era armato fino ai denti. Portavano più armi di un intero battaglione di mercenari. Tutti gli uomini erano rigonfi di muscoli, anche peggio di Conal Ray, e tutte le donne avevano mammelle grosse come cocomeri che continuavano a prorompere dalle striminzite strisce di cuoio cui era affidato il compito di contenerle. Il gruppo incontrava mostruose creature che Cirocco non aveva neanche mai sentito nominare, e si lasciava alle spalle nient'altro che sanguinolenti grumi di carne.

A un certo punto la cosa si faceva interessante.

Vide Gaby, Gene e se stessa arrampicarsi su per i giganteschi cavi che portavano al mozzo di Gea, a un'altezza di seicento chilometri. A un certo punto loro tre si accampavano, e cominciava l'inghippo. Sembrava instaurarsi un triangolo erotico, con Cirocco implicata con tutti e due i suoi compagni. Lei e Gaby parlottavano accanto al fuoco dell'accampamento scambiandosi frasi d'imperituro amore, roba come "Oh, Dio, Gaby, mi piacciono le tue mani sulla mia umida passera bollente!".

La mattina dopo — sebbene Cirocco ricordasse che il viaggio era durato molto più a lungo — durante la loro udienza presso la grande Dea Gea, a Gene veniva offerto il posto di Mago. Egli chinava umilmente la testa in segno di accettazione, e Cirocco lo afferrava per i capelli, gli tirava indietro la testa e gli squarciava la gola da un orecchio all'altro. Il sangue traboccava sulla pagina, e lei con un calcio si toglieva sdegnosamente dai piedi la testa di Gene. Gea — che era molto più schifosa di come Cirocco se la ricordava — nominava Cirocco Maga, con Gaby come perfida assistente.

C'era un sacco di altra roba. Cirocco sospirò e chiuse il libro.

— La sai una cosa? — disse. — Può anche darsi che sia sincero.

— È quello che pensavo.

— Potrebbe semplicemente essere uno sciocco.

— Be', lo sai anche tu qual è la punizione per la stupidità.

— Già. — Buttò via il fumetto, raccolse uno dei secchi di legno e gettò dieci litri di acqua gelata in faccia a Conal.


Egli riprese i sensi lentamente. Si sentiva scuotere e pizzicare, ma erano sensazioni lontane. Non ricordava neppure la propria identità.

Alla fine si rese conto di essere nudo, e prigioniero oltre ogni speranza di fuga. Le sue gambe erano divaricate e non poteva muoverle. Non riuscì a veder nulla finché Jones non gli sollevò a forza una delle palpebre incrostate di sangue. Questo gli causò dolore. Una cinghia gl'immobilizzava la testa, e anche quella gli faceva male. In effetti, sentiva male dappertutto.

Proprio davanti a sé aveva Jones, seduta sopra un secchio rovesciato. Gli occhi di lei erano scuri e profondi come non mai, mentre lo esaminava freddamente. A un certo punto non ce la fece più a sopportarli.

— Mi vuoi torturare? — Le parole gli uscirono confuse.

— Sì.

— Quando?

— Quando mi racconti una bugia.

I suoi pensieri si muovevano torpidi come colla, ma qualcosa nel modo in cui lei lo guardava lo stimolò a trarne un'espressione compiuta.

— Come farai a sapere se ti sto mentendo? — le chiese.

— Questa è la parte più difficile — riconobbe.

Impugnò un coltello, glielo rigirò davanti al viso. Poi gli appoggiò delicatamente il filo della lama sopra il piede, e pian piano tirò verso sé. Non vi fu dolore, ma apparve una linea di sangue. Lei sollevò il coltello, e attese.

— Affilato — azzardò lui. — Molto affilato.

Lei annuì, e posò il coltello.

Poi si tolse il sigaro di bocca, scrollò via un po' di cenere, e soffiò sulla punta finché quella non avvampò con violenta intensità. Portò l'estremità incandescente a circa mezzo centimetro dal piede.

Sulla pelle incominciò a formarsi una vescica, e stavolta lui se ne accorse: non era per niente come con il coltello.

— Sì — disse Conal. — Sì, sì, ho capito!

— No, invece, ancora non hai capito. — E continuò inflessibile.

Lui cercò di muovere il piede entro i legami che lo immobilizzavano, ma apparve da dietro la mano del titanide ad afferrarlo saldamente. Conal si morse le labbra, distolse lo sguardo; ma non poté fare a meno di tornare a guardare. Cominciò a urlare, e continuò a farlo per un tempo interminabile, e il dolore non accennò mai a diminuire.

Anche quando lei ritrasse la sua mano — dopo cinque, dieci minuti? — il dolore rimase. Conal singhiozzò disperatamente, a lungo.

E ancora i suoi occhi andarono a fissarsi laggiù. La pelle era carbonizzata in un'area di quasi due centimetri di diametro. Poi guardò la donna, e vide che di nuovo lo stava fissando, impassibile non meno d'una pietra. Egli la odiava. Non aveva mai odiato niente e nessuno come adesso odiava lei.

— È durato venti secondi — annunciò Jones.

Pianse, quando si rese conto che lei era sincera. Cercò di annuire, voleva assicurarle che aveva capito il senso di quella prova, che venti secondi erano un tempo davvero breve, ma non riuscì a controllare la propria voce. Lei aspettò.

— C'è un'altra cosa che devi comprendere — gli disse poi. — Il piede è abbastanza sensibile, ma non è assolutamente la parte più sensibile del tuo corpo. — Egli trattenne il respiro, mentre lei portava rapidamente la punta del sigaro ad avvampare accanto al suo naso, appena il tempo di fargli avvertire il calore. Poi Jones fece scorrere lentamente un'unghia dal mento giù giù fino all'inguine di Conal. Egli provò una lieve sensazione di calore in ogni punto di quel percorso, e quando la mano di lei si arrestò, udito e odorato gli dissero che dei peli si stavano strinando.

Quando lei allontanò la propria mano senza avergli causato scottature laggiù in basso, accadde una cosa straordinaria. Conal cessò di odiarla. Gli dispiacque sentire che il suo odio se ne andava. In fondo, non gli era rimasto altro. Era nudo, e provava dolore dappertutto, e lei si preparava a fargli ancora più male. Sarebbe stata una gran bella cosa, avere un po' di odio cui aggrapparsi.

Lei si rimise il sigaro in bocca e lo strinse fra i denti.

— Allora — gli disse. — Che razza di accordo avresti combinato con Gea?

E Conal ricominciò a gridare.

Durò un'eternità. Il brutto era che dire la verità non poteva servire a salvarlo. Jones pensava che lui fosse una cosa, mentre in realtà era tutt'altro.

Lo bruciò altre due volte. Ma non appoggiò la punta del sigaro nel mezzo della chiazza carbonizzata, dove i nervi erano morti, bensì sui bordi gonfi e infiammati, dove i nervi erano vivi e urlanti. Dopo la seconda volta, egli si concentrò con tutto il suo essere nel compito di raccontarle qualunque cosa lei volesse sentirsi dire.

— Se non hai visto Gea, allora chi? Hai visto Luther?

— Sì, sì, era Luther.

— E invece no, non era Luther. Chi era? Chi ti ha mandato a uccidermi?

— Era Luther, lo giuro, era Luther!

— Luther è un Sacerdote?

— …Sì?

— Descrivilo. Che aspetto ha?

Non ne aveva la più pallida idea, ma era riuscito a imparare molto sugli occhi di lei. Quegli occhi erano tutt'altro che inespressivi. Ci si poteva legger dentro un milione di cose, e nessuno al mondo conosceva meglio di lui gli occhi di Cirocco Jones. Vide in essi i mutamenti che significavano tortura e fetore di carne bruciata, e dunque incominciò a parlare. A metà della descrizione si rese conto che stava tracciando i connotati del malvagio stregone di "Pattini d'oro", ma continuò a parlare finché lei non gli mollò un ceffone.

— Tu non hai mai visto Luther — constatò Jones. — Insomma, dimmi chi era. Era Kali? Blessed Foster? Billy Sunday? San Torquemada?

— Sì! — gridò Conal. — Tutti quanti — aggiunse debolmente.

Jones scosse la testa, e Conal udì, come da grande distanza, levarsi un gemito prolungato. Ora lei l'avrebbe fatto, lo leggeva nei suoi occhi.

— Ragazzo mio — disse Jones con aria afflitta — mi hai mentito, e ti avevo avvertito di non provarci. — Si tolse il sigaro di bocca, ci soffiò sopra ancora una volta, e lo protese verso l'inguine di lui.

Gli occhi quasi gli schizzarono dalle orbite, nel tentativo di seguire quella traiettoria. E quando il dolore arrivò, fu terribile proprio come si era aspettato che dovesse essere.


Ebbero difficoltà a richiamarlo in vita, perché lui avrebbe preferito rimanere morto. Non c'era dolore, nella morte, non c'era dolore…

Ma alla fine riprese i sensi, in compagnia di tutto il tormento che gli era ormai familiare. Fu sorpreso nel constatare che non gli faceva male… laggiù. Non poteva neppure indursi a pensare il nome del posto dove lei l'aveva bruciato.

E ancora stava lì a fissarlo.

— Conal — gli disse. — Te lo chiedo un'altra volta. Chi sei, che intenzioni hai, e perché hai cercato di uccidermi?

Le raccontò ogni cosa, tornando daccapo a dirle la verità. Soffriva enormemente, e sapeva che lei l'avrebbe torturato ancora. Ma non aveva più desiderio di vivere. Altro dolore lo attendeva, però in fondo a quella strada avrebbe trovato requie.

Jones raccattò il coltello. Conal gemette nel vederlo, e cercò di ritrarsi, senza che i suoi sforzi sortissero, al solito, alcun esito.

Lei tagliò la corda che gli legava il piede sinistro al piolo. Al tempo stesso, il titanide sciolse la cinghia che gli fasciava la fronte annodandosi al palo. La testa gli cadde in avanti, il mento andò a urtare contro il petto, e lui tenne gli occhi strettamente chiusi. Ma alla fine dovette guardare.

Quel che vide era un miracolo. Un poco di pelo pubico appariva sbruciacchiato, ma il pene, raggrinzito di paura, era intatto. Sul pavimento roccioso accanto a esso, dentro una pozza, roteava pian piano un frammento di ghiaccio.

— Non mi hai fatto male — dichiarò.

Jones parve sorpresa. — Che vuoi dire? Ti ho bruciato tre volte.

— No, intendevo dire che non mi hai fatto male. - E accennò col mento.

— Oh, be'… — Strano ma vero, lei sembrava imbarazzata. Conal incominciò ad accarezzare l'ipotesi di rimanere vivo. Inaspettatamente, la trovò una prospettiva allettante.

— Non me la sentivo di fare una cosa del genere — ammise Jones. Conal pensò che, anche se non se la sentiva, riusciva comunque a fingere molto bene. — Son capace di uccidere in modo pulito — continuò lei. — Ma detesto infliggere il dolore. E, nello stato in cui eri, sapevo bene che non saresti riuscito a distinguere il caldo dal freddo.

Era la prima volta che Jones si avvicinava a motivare le proprie azioni. Conal aveva paura di rivolgerle domande, ma qualcosa bisognava pure che facesse.

— E allora perché mi hai torturato? — domandò, e immediatamente si rese conto di essersi lasciato sfuggire la domanda sbagliata. Per la prima volta le balenò negli occhi l'ira, e Conal quasi morì di spavento, in quanto di tutte le cose che aveva scorto in quegli occhi, nulla era così terrificante come la sua collera.

— Perché sei uno sciocco. — S'interruppe, e fu come se due porte gemelle si fossero richiuse su di una ruggente fornace; i suoi occhi erano tornati a essere freddi e scuri, ma barbagli al color rosso covavano al fondo di quelle pozze tenebrose.

— Sei andato a sbattere contro un nido di calabroni, e dopo ti meravigli se quelli ti hanno punto. Hai osato avvicinarti al più vecchio, al più maligno, al più paranoico essere umano del sistema solare, annunciandogli che avevi intenzione di ucciderlo, e poi ti aspettavi che quello si comportasse secondo le regole dei tuoi fumetti. L'unico motivo per il quale non sei già morto, è il mio ordine permanente che qualunque essere all'apparenza umano dev'essere lasciato in vita fin quando non abbia avuto modo d'interrogarlo.

— Non credevi che io fossi umano?

— Di certo non potevo darlo per scontato. Avresti potuto essere un nuovo genere di Prete, oppure una qualche trappola di tipo assolutamente diverso. Caro mio, noi quassù non ci fermiamo mai alle apparenze, noi…

S'interruppe, si alzò in piedi, si girò dall'altra parte. Quando tornò a rivolgerglisi, aveva quasi un'aria di scusa.

— Basta così — disse. — Non ha senso farti delle prediche. Come sei vissuto finora, sono affari tuoi. È solo che, quando vedo la stupidità, mi viene sempre voglia di correggerla. Ci pensi tu, Cornamusa?

— Stai tranquilla — rispose la voce alle spalle di Conal. Egli sentì che i legami venivano sciolti; ogni centimetro di corda che abbandonava il suo corpo gli causava patimento, ma era bellissimo lo stesso. Jones gli si riaccovacciò dinnanzi, lo sguardo fisso a terra.

— A te la scelta — gli disse. — Abbiamo del veleno abbastanza indolore, e che agisce in fretta. Oppure potrei tirarti una pallottola in testa. O magari puoi saltare giù da te, se preferisci arrivarci in quel modo.

Dal tono di voce pareva che gli stesse domandando se preferiva torta di ciliegie, frittelle o gelato.

— Arrivare dove? — s'informò Conal. Gli occhi di lei tornarono a fissarlo, ed egli vi scorse una leggera delusione. Doveva aver fatto un'altra domanda sciocca.

— Alla morte.

— Ma… ma io non voglio morire.

— Quasi nessuno lo vuole.

— Siamo a corto di veleno, Capitano — annunciò il titanide. Poi sollevò Conal come se fosse una bambola di pezza, e mosse verso l'imboccatura della caverna. Conal non era al meglio della forma. Si sentiva ben lungi dal possedere la forza di cui poteva normalmente disporre. Lottò per liberarsi, e più si avvicinava all'orlo più acquistava vigore, ma non gli servì a nulla. Il titanide lo dominava facilmente.

— Aspetta! — gridò. — Aspetta! Non hai bisogno di uccidermi!

Il titanide lo depose, in piedi, proprio sul ciglio del precipizio, e lo tenne fermo mentre Jones gli puntava alla tempia la bocca della pistola e alzava il cane.

— Vuoi la pallottola oppure no?

— Lasciami andare! — gridò. — Non ti darò più fastidio!

Il titanide lo lasciò andare, ed egli ne fu colto così di sorpresa che barcollò scompostamente sull'orlo del baratro, per un pelo non precipitò, cadde in ginocchio, poi finì ventre a terra, e rimase aggrappato alla roccia gelida coi piedi che gli sporgevano oltre il bordo.

Loro attendevano, tre metri più in là. Lentamente, cautamente, si rimise in ginocchio, accoccolandosi quindi sui calcagni.

— Per piacere, non mi uccidere.

— Devo farlo, Conal. Ti consiglio di alzarti in piedi e di andartene spontaneamente. Se vuoi pregare o roba del genere, ti lascerò il tempo necessario.

— No, non voglio pregare, e non mi voglio nemmeno alzare. Tanto non fa nessuna differenza, vero?

— Me l'immaginavo che sarebbe finita così. — Sollevò la pistola.

— Aspetta! Aspetta, per favore, dimmi almeno perché…

— È il tuo ultimo desiderio?

— Credo di sì. Io… io sono uno sciocco. Tu sei infinitamente più furba di me, e puoi schiacciarmi come un… ma perché devi per forza ammazzarmi? Te lo giuro, non mi vedrai mai più.

Jones abbassò l'arma.

— Ci sono un paio di motivi — spiegò. — Finché ti tengo una pistola puntata addosso, non sei altro che un innocuo imbecille. Ma la fortuna potrebbe girare dalla tua, e non c'è nulla che mi faccia tanta paura quanto un imbecille fortunato. E poi, se tu avessi fatto a me quello che io ho appena fatto a te, ti verrei a cercare e stai sicuro che ti troverei, anche se dovessi impiegarci tutta la vita.

— Ma io non ti verrò a cercare — replicò. — Te lo giuro. Te lo giuro.

— Conal, ci sono forse cinque umani alla cui parola io credo. Per quale motivo dovresti essere tu il sesto?

— Perché capisco di avere meritato quello che mi è successo, e poi perché ho solamente diciott'anni, e ho commesso uno stupido errore, e non voglio che mai più, mai più tu debba adirarti con me. Farò qualunque cosa. Qualunque cosa. Sarò tuo schiavo finché vivrò. Farò tutto quello che mi chiederai di fare. — Tacque, e sentì sin nel fondo dell'animo che quel che aveva appena detto era la pura verità. Ricordò anche quanto poco gli avesse giovato essere sincero, alcune ore prima. Eppure doveva esserci un modo per dimostrarle che quella era la verità… Finalmente lo trovò. Un giuramento solenne.

— Lo giuro sul segno della croce! — proclamò, e attese.

La pallottola non arrivò. Aprì gli occhi, e vide Jones e il titanide che stavano lì a scrutarsi. Alla fine il titanide scrollò le spalle, e annuì.

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