E accadde tutto in quel giorno, quello tra tutti i giorni, anche se Jenkins non avrebbe saputo dire in quale giorno…
Mentre Jenkins stava attraversando il prato, il Muro era crollato rovinosamente…
Jenkins sedeva sulla veranda della Casa dei Webster, e ricordava quel giorno lontano, molto lontano, nel quale l’uomo venuto da Ginevra aveva fatto ritorno alla Casa dei Webster, per dire a un cagnolino che anche Jenkins faceva parte della famiglia, era un Webster. E quello era stato un giorno d’orgoglio per lui, si stava ripetendo per la miliardesima volta Jenkins, un giorno d’orgoglio…
Jenkins stava attraversando il prato per unirsi ai piccoli topi di campo, per diventare uno di loro, per correre un poco insieme a loro nelle gallerie che avevano scavato tra l’erba. Lo faceva spesso, anche se non si trattava di una grande soddisfazione: i topolini erano creature stupide, che non capivano né si curavano di nulla; c’era però un certo calore in loro, una quieta sicurezza, un confortante senso di benessere… quiete e sicurezza, perché essi vivevano soli nel piccolo mondo del prato, e non c’era alcun pericolo, non c’era alcuna minaccia. Non era rimasto niente che potesse costituire una minaccia per loro. Perché erano rimasti loro soltanto… con l’unica compagnia dei pochi insetti e dei vermi che costituivano il loro cibo.
In passato Jenkins si era domandato più volte per quale motivo i topi fossero rimasti là, soli, mentre tutti gli altri animali avevano seguito i Cani in uno dei mondi delle ombre. Anche loro avrebbero potuto partire, naturalmente. I Cani li avrebbero portati con loro, ma in loro non c’era stato alcun desiderio di partire. Forse i topolini erano stati contenti, allora, del posto in cui si trovavano; o forse in loro c’era stato un senso della casa troppo radicato per permetter loro di partire.
I topi e me, pensava Jenkins. Perché anche lui avrebbe potuto partire. Avrebbe potuto partire anche adesso, se lo avesse voluto. In qualsiasi momento, avrebbe potuto partire. Ma, come i topi, lui non era partito, era rimasto. Lui non poteva lasciare la Casa dei Webster. Senza di essa, gli sarebbe mancata più della metà di se stesso.
Così lui era rimasto, e la Casa dei Webster sorgeva ancora. Anche se non ci sarebbe più stata, pensò Jenkins, se non fosse stato per lui. L’aveva conservata pulita e in ordine; l’aveva riparata tante volte. Quando aveva visto che una delle pietre cominciava a sgretolarsi, ne aveva scelto un’altra, e l’aveva modellata amorevolmente, e l’aveva sistemata con ogni cura al posto della vecchia; e se per qualche tempo era sembrata troppo nuova e troppo recente, come un’ospite aliena per l’antica casa, il tempo aveva messo rimedio a questo… ci avevano pensato il vento e il sole e le stagioni, e il lento operare del muschio e dei licheni.
Jenkins aveva falciato l’erba del prato ed era stato un fedele giardiniere per i cespugli e le aiuole fiorite. La siepe era sempre regolare e perfetta. Non c’era mai un granello di polvere sui mobili, i pavimenti e le finestre erano immacolati… la casa era ancora in piedi. Era ancora in condizioni abbastanza buone, si diceva Jenkins con soddisfazione, per alloggiare un webster, se ne fosse venuto uno. Anche se non c’era speranza che questo accadesse. I webster che erano andati su Giove non erano più webster, e quelli di Ginevra stavano ancora dormendo… se, in effetti, Ginevra e i webster che la città ospitava esistevano ancora.
Perché le Formiche erano ormai padrone del mondo. Avevano fatto del mondo una sola, immensa costruzione, o almeno lui presumeva questo, poiché non poteva esserne realmente sicuro. Ma per quello che lui sapeva, entro la portata dei suoi sensi di robot (ed erano sensi molto acuti, e giungevano lontano), non c’era niente nel mondo, all’infuori dell’immenso, insensato edificio che le Formiche avevano costruito. Anche se non era del tutto onesto definirlo insensato, pensava Jenkins. Era impossibile sapere a quale scopo esso potesse servire. Era impossibile sapere quale scopo le Formiche avessero nella loro mente.
Le Formiche avevano racchiuso il mondo intero in un solo, grande edificio, ma si erano fermate sulla soglia della Casa dei Webster, e anche il motivo di questa loro esclusione era imperscrutabile. Le Formiche avevano costruito tutt’intorno alla Casa, facendo della Casa dei Webster e degli acri di terreno libero che la circondavano una specie di cortile aperto all’interno della Costruzione… un circolo di dieci chilometri, che aveva al centro la collina sulla quale la Casa dei Webster sorgeva ancora.
Jenkins camminava sul prato, sotto i raggi del sole autunnale, facendo molta attenzione a dove posava i piedi, per timore di fare del male ai topi. Perché lui era solo, a parte i topi, e questo era ben poco, perché i topi non erano gran cosa per alleviare la solitudine. I webster se ne erano andati, e così pure i Cani e gli altri animali. Anche i robot se ne erano andati, perché alcuni erano scomparsi già da molto tempo nei recessi della Costruzione, per aiutare le Formiche a portare a compimento il loro progetto, e gli altri erano partiti per le stelle. Ormai, pensava Jenkins, quei robot dovevano avere raggiunto la loro destinazione. Erano partiti tutti ormai da molto, moltissimo tempo, e in quel giorno Jenkins si domandava, per la prima volta dopo molte ère, quanto tempo fosse realmente passato. E aveva scoperto di non saperlo, e ora non lo avrebbe più potuto sapere, perché c’era stato quel remoto, remotissimo momento nel quale lui aveva cancellato dalla sua mente il senso del tempo. Aveva deliberatamente deciso di non tenere più conto dello scorrere del tempo, perché da come era il mondo allora, il tempo non aveva più alcun significato. Soltanto più tardi egli aveva compreso che l’obiettivo vero di quella sua decisione era stato la ricerca dell’oblio. Ma si era sbagliato. Cancellando il tempo, non aveva trovato l’oblio; ricordava ancora, ma disordinatamente, in sequenze disorganizzate e vacillanti e fuggevoli e ancora più vive e reali di quanto fossero state un giorno.
Lui e i topi, pensava. E le Formiche, naturalmente. Ma le Formiche non contavano, in realtà, perché lui non aveva alcun contatto con loro. Malgrado i suoi sensi più acuti e le nuove capacità sensoriali inserite nel corpo che gli era stato donato per un lontano compleanno (e che non era più nuovo, ormai), quel dono dei Cani di tanto, tantissimo tempo prima, lui non era mai riuscito ad attraversare la barriera costituita dal Muro del grande edificio delle Formiche per scoprire che cosa stesse accadendo là. E aveva tentato, oh sì, aveva tentato con tutte le sue forze.
Camminando sul prato, l’ultimo prato rimasto, Jenkins ricordava il giorno nel quale gli ultimi Cani erano partiti. Essi erano rimasti molto più a lungo di quanto la normale fedeltà e l’affetto avrebbero potuto giustificare. E, anche se li aveva rimproverati amorevolmente, per avere fatto questo, il ricordo suscitava sempre in lui un senso di calore.
Lui era stato là, seduto al sole, sulla veranda dell’antica casa, quando i Cani erano venuti lentamente, in fila, su per la collina, e si erano messi in fila davanti a lui, come un grupetto di bambini colti in fallo.
«Ce ne andiamo, Jenkins,» aveva detto il primo. «Il nostro mondo si fa sempre più piccolo. Non c’è più spazio per correre.»
Jenkins aveva annuito, perché se l’era aspettato da molto tempo. Si era domandato solo per quale motivo non fosse accaduto prima.
«E tu, Jenkins?» aveva domandato il primo Cane.
Jenkins aveva scosso il capo.
«Io devo restare,» era stata la sua risposta. «Questo è il mio posto. Io devo restare qui, con i webster.»
«Ma qui non ci sono webster.»
«Sì, invece,» aveva detto Jenkins. «Non per voi, forse. Ma per me sì. Per me, essi vivono ancora nelle pietre stesse della Casa dei Webster. Vivono negli alberi e nelle pendici della collina. Questo è il tetto che ha dato loro riparo; questa è la terra sulla quale hanno camminato. Ed essi non potranno mai andarsene.»
Aveva capito che quelle parole dovevano apparire molto stupide, ma i Cani non le avevano trovate stupide, apparentemente. Gli era sembrato che essi capissero. Erano passati molti e molti secoli, ma ancora sembravano capire.
Lui aveva detto che i webster erano ancora là, e in quel momento era stato vero. Ma camminando sul prato egli si domandava se questo fosse stato ancora vero oggi. Quanto tempo era passato, dall’ultima volta in cui lui aveva udito dei passi scendere giù per la scala? Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui si erano udite delle voci nel grande salone illuminato dalle fiamme scoppiettanti del focolare, e poi, quando lui aveva guardato, non aveva visto nessuno?
E in quel momento, mentre Jenkins camminava con i suoi pensieri e i suoi ricordi nel tiepido sole d’autunno, una grande spaccatura apparve d’un tratto nel muro esterno della Costruzione delle Formiche, a due, tre chilometri di distanza. La spaccatura cominciò ad allargarsi, scendendo serpentina dalla sommità, minacciosa, mentre altre screpolature si formavano intorno a essa, un reticolato bizzarro che pareva sorgere dal nulla. Numerosi pezzi del materiale che formava il Muro si staccarono, intorno alla spaccatura, e precipitarono rovinosamente al suolo, rotolando e rimbalzando sul prato. E poi, d’un tratto, il Muro, da entrambi i lati della spaccatura, parve distaccarsi, e precipitò al suolo. Una gran nube di polvere si sollevò nell’aria, e Jenkins rimase là, immobile, fissando quell’enorme buco nel Muro.
Oltre il buco nel Muro, il mastodontico edificio si levava come una catena montuosa rotonda, con i suoi picchi aguzzi che svettavano qua e là sopra il gigantesco altopiano della Costruzione.
La breccia era vuota e aperta nel muro, e non accadde altro. Non apparvero torrenti di formiche, né robot affannosamente impegnati nel lavoro di riparazione. Pareva quasi, pensò Jenkins, che le formiche non se ne fossero accorte, o, pur accorgendosene, non si curassero del fatto che dopo tanto tempo la loro Costruzione stesse cominciando a crollare; come se la prima breccia apparsa nel Muro fosse stata per le Formiche un evento privo di significato.
Era accaduto qualcosa, pensò Jenkins, con un’ombra di stupore. Finalmente, in quel mondo webster, si era verificato un evento.
Jenkins avanzò, dirigendosi verso il buco nel Muro, senza fretta, perché quanto era accaduto non pareva esigere fretta. La polvere si stava posando lentamente sul terreno, e di quando in quando altri pezzi del Muro si staccavano e cadevano. Jenkins arrivò nel punto in cui si era verificato il crollo, e, scalando la montagnola di macerie, entrò infine nella Costruzione.
All’interno la luce non era intensa come all’esterno, ma il chiarore del sole filtrava attraverso quello che si poteva considerare il soffitto della Costruzione. Perché la Costruzione, almeno in quella sezione, non era divisa in diversi piani, ma era aperta fino alla sommità, un grande abisso di spazio aperto che saliva fino alle torri più alte.
Una volta entrato, Jenkins si fermò, sbalordito, perché a prima vista gli era sembrato che la Costruzione fosse vuota. Poi vide che non era così, perché, anche se la maggior parte della Costruzione poteva essere vuota, il pavimento era pieno di asperità, e quelle asperità, notò Jenkins, erano costituite da innumerevoli formicai dalle dimensioni mostruose, e in cima a ogni formicaio sorgeva uno strano ornamento fatto di metallo che scintillava e riverberava nella luce soffusa che filtrava dal soffitto. Le collinette erano intersecate, qua e là, da quelle che parevano strade in miniatura, ma erano tutte, senza distinzione, in cattive condizioni e interrotte, con diverse sezioni, spazzate via dalle frane in miniatura che segnavano come cicatrici il pendio di ogni formicaio. Qua e là si vedevano spuntare dei comignoli, ma da essi non usciva fumo; alcuni erano crollati, e altri erano inclinati e vacillavano vistosamente.
Non c’era alcun segno delle Formiche.
Degli angusti corridoi dividevano i formicai, e, muovendosi con prudenza, Jenkins li attraversò, addentrandosi ancor più nella Costruzione. Tutte le collinette erano uguali alla prima… erano tutte immobili e silenti e morte, con i comignoli sgretolati o vacillanti, e le strade spazzate via dalle frane, e, soprattutto, senza alcun segno di vita.
E poi, finalmente, egli riuscì a distinguere bene l’ornamento che sorgeva sopra ogni formicaio, e forse per la prima volta in tutta la sua vita, Jenkins sentì nascere in lui una risata insopprimibile. Se anche aveva riso in passato, ora non poteva ricordarlo, perché lui era stato un robot serio e devoto. Ma ora, tra quella selva di formicai morti, Jenkins si teneva i fianchi, proprio come avevano fatto gli uomini, e si lasciava pervadere da quella risata impetuosa e insopprimibile.
Perché quell’ornamento raffigurava un piede e una gamba umani, con la gamba tesa da metà coscia al ginocchio, con il ginocchio piegato e il piede teso, come se quella gamba fosse stata raggelata un attimo prima di colpire violentemente qualcosa con un calcio.
Il piede di Joe! Il piede del mutante pazzo, Joe!
Era accaduto tanto, tantissimo tempo prima, e lui aveva dimenticato, e c’era un certo conforto nell’accorgersi di avere dimenticato qualcosa, perché lui aveva temuto di non essere capace di dimenticare.
Ma ora ricordava quella storia quasi leggendaria, dal suo remoto inizio, anche se sapeva bene che non si trattava di una leggenda, ma di una storia accaduta davvero, perché c’era stato un mutante umano di nome Joe. Si domandò che cosa fosse accaduto a quei mutanti. Apparentemente, nulla di eccezionale. C’era stato un tempo in cui erano esistiti alcuni mutanti, forse troppo pochi, e poi non ne era rimasto nessuno, e il mondo era andato avanti come se essi non fossero mai esistiti.
Be’, non proprio come se non fossero mai esistiti, perché c’era stato il mondo delle Formiche, e c’era stato Joe. Joe, questa era la storia, aveva compiuto degli esperimenti su di un formicaio. Lo aveva coperto con una cupola, e aveva riscaldato la cupola, e forse aveva fatto altre cose… cose che nessuno aveva mai saputo, all’infuori di Joe. Aveva cambiato l’ambiente delle formiche, e, in chissà quale maniera, aveva fatto germogliare in loro il seme della grandezza, e, con il trascorrere del tempo, le formiche avevano sviluppato una loro civiltà, se era possibile parlare d’intelligenza in rapporto alle formiche. Poi Joe era passato di nuovo dal formicaio, e l’aveva preso a calci, sbriciolando la cupola, devastando la collinetta, e si era allontanato, ridendo, con quella sua risata strana, stridula, un po’ folle, che gli era così caratteristica. Aveva calpestato e distrutto il formicaio e gli aveva voltato le spalle, senza più curarsene. Ma con quel calcio, aveva lanciato le formiche verso la loro vera grandezza. Costrette ad affrontare la catastrofe, le formiche non erano ritornate al loro antico modo di comportarsi, metodico, stupido, da formiche, ma avevano lottato per salvare ciò che avevano ottenuto. Come l’Era Glaciale del Pleistocene aveva lanciato il genere umano verso la grandezza, così aveva fatto il piede del mutante umano, Joe… che con un calcio aveva messo in movimento l’oscura civiltà delle Formiche.
Pensando a questo, Jenkins venne colpito da un’idea, e questa idea fece sparire la risata. Come avevano fatto a sapere, le Formiche? Come avevano potuto? Quale formica, o quali formiche, avevano avvertito o visto, in un passato così remoto, il calcio che era venuto dal nulla? Era possibile che qualche formica astronoma, guardando attraverso il suo telescopio, fosse stata testimone di tutto il succedersi degli eventi? E questo era ridicolo, certo, perché non avrebbero mai potuto esistere delle formiche astronome. Ma in quale altro modo le formiche avrebbero potuto stabilire un legame tra l’immensa forma indistinta che aveva torreggiato, per qualche momento, sopra di loro, e il vero inizio della civiltà che esse avevano costruito?
Jenkins scosse il capo. Forse si trattava di una risposta che nessuno avrebbe mai potuto conoscere. Ma le Formiche, chissà come, avevano saputo la verità, e avevano costruito sopra ogni formicaio il simbolo di quella figura mistica. Un memoriale, si domandò Jenkins, oppure un simbolo religioso? O forse qualcosa di completamente diverso, che aveva uno scopo oscuro o un significato arcano… qualcosa che solo una formica avrebbe potuto concepire e comprendere?
Si domandò, forse oziosamente, se il fatto che le Formiche avevano scoperto la verità sulla loro origine e sulla loro grandezza non fosse collegato all’altro inesplicabile fenomeno, e cioè il fatto che la Costruzione aveva risparmiato la Casa dei Webster e il territorio circostante; ma Jenkins non proseguì per questa linea di pensiero, poiché si rendeva conto che era una speculazione troppo vaga e nebulosa, e non c’era alcuna speranza di trovare una risposta.
Si addentrò vieppiù nei recessi dell’immensa Costruzione, percorrendo gli angusti sentieri che dividevano i formicai, e con i sensi più acuti del suo corpo cercò intorno a sé qualche traccia di vita, senza trovarne alcuna… non c’era vita, neppure quel barlume debolissimo, vacillante, che indicava la presenza di quei minuscoli organismi che avrebbero dovuto brulicare nel suolo.
C’erano il silenzio e il nulla, e quel silenzio e quel nulla si addensavano in una composizione d’orrore, ma Jenkins si sforzò di proseguire, pensando che certamente lui avrebbe trovato, un poco più avanti, almeno qualche debole traccia di vita. Si domandò se non avrebbe fatto bene a gridare, per attirare l’attenzione, ma la ragione gli diceva che le Formiche non avrebbero udito il suo grido, e, a parte questo, egli provava una bizzarra riluttanza all’idea di produrre qualche rumore. Come se quello fosse stato un luogo nel quale un visitatore avrebbe dovuto cercare di farsi piccolo e di procedere in maniera furtiva.
Ogni cosa era morta.
Perfino il robot che Jenkins trovò.
Giaceva al centro di uno dei sentieri, con la schiena appoggiata a un formicaio, e Jenkins lo incontrò nel momento in cui sbucò da dietro un’altra collinetta. Era immobile e privo di vita, se era possibile dire questo di un robot, e Jenkins, vedendolo, s’immobilizzò al centro del sentiero. Non c’era alcun dubbio sul fatto che fosse morto; non poteva cogliere alcun fremito di vita all’interno di quella testa di robot, e nel momento in cui egli comprese questo, gli parve che tutto il mondo si fosse fermato, come sgomento di fronte a quella rivelazione.
Perché i robot non muoiono. Si consumano, forse, o rimangono danneggiati al di là di ogni possibile riparazione, ma anche in questo caso la vita dovrebbe continuare a scorrere all’interno dei loro cervelli. Jenkins non aveva mai sentito dire che un robot fosse morto, mai in tutta la sua vita, e se questo evento fosse accaduto, certo Jenkins lo avrebbe saputo.
I robot non muoiono, ma davanti a lui c’era un robot morto, e non si trattava solo di un robot, qualcosa pareva bisbigliargli nel cervello, ma di tutti i robot che avevano servito le Formiche. Tutti i robot e tutte le formiche, e la Costruzione sorgeva ancora, vuoto simbolo di un’ambizione sbagliata, di qualche errore di calcolo di una civiltà. Qualcosa era andato male, nell’evoluzione delle formiche, esse avevano commesso qualche errore lungo la strada, e questo errore era stato forse dovuto al fatto che Joe aveva costruito una cupola? La cupola era forse diventata l’inizio e la fine delle cose, il mezzo e il fine, la ragione di vita e il mezzo di sussistenza? Le formiche avevano forse creduto di poter essere grandi solo costruendo una cupola, e che fosse necessaria una cupola, se esse avessero voluto continuare a essere grandi?
Jenkins fuggì. E, mentre lui fuggiva, una spaccatura apparve nel soffitto, lassù, in alto, lontanissimo dal suolo, e si udì un rumore strano, stridente e crepitante, mentre la spaccatura avanzava serpentina.
Jenkins attraversò correndo il buco del Muro, e continuò a fuggire, rifugiandosi sul prato. Alle sue spalle udì il tuono prodotto dal crollo di una parte del tetto. Allora si volse e guardò, mentre altre porzioni della Costruzione crollavano, e grandi macerie cadevano su quei formicai morti e desolati, rovesciando le miriadi di emblemi di quel piede umano, gli emblemi che erano stati posti alla sommità di ogni formicaio.
Jenkins si voltò di nuovo, allora, e camminò lentamente sul prato, e cominciò a salire il pendio che conduceva alle sommità della collina sulla quale sorgeva la Casa dei Webster. Quando fu sulla veranda, vide che per il momento il crollo della Costruzione era terminato. Gran parte del muro esterno era crollata, e un enorme buco si spalancava nella Costruzione sostenuta dal muro.
In quella serena giornata d’autunno, pensò Jenkins, lui assisteva all’inizio della fine. Lui era stato là, quando tutto era cominciato, ed era ancora là, per assistere alla fine. Si domandò ancora una volta quanto tempo fosse passato, e rimpianse, ma solo fuggevolmente, di non avere conservato una traccia del trascorrere dei giorni.
Gli uomini se ne erano andati e i Cani se ne erano andati, e, a parte lui, anche tutti i robot se ne erano andati. Ora anche le formiche se ne erano andate, e la Terra era rimasta sola, sola con un antico, massiccio robot, e con dei minuscoli, indifferenti topolini di campo. Forse esistevano ancora dei pesci, pensò Jenkins, e altre creature del mare, e chissà quali erano queste creature del mare, e che cosa facevano. Forse stavano raggiungendo l’intelligenza. Ma l’intelligenza veniva nella maniera più difficile, la si conquistava a duro prezzo, e non durava a lungo. Tra un giorno, pensò, forse un’altra intelligenza sarebbe uscita dal mare, anche se nelle profondità del suo essere egli sapeva che questo era sommamente improbabile.
Le formiche avevano deciso di rinchiudersi, pensò, Jenkins. Il loro mondo era stato un mondo chiuso e inaccessibile. Avevano fallito, forse, perché non c’era stato per loro alcun posto ove andare? O perché il loro mondo era stato chiuso fin dall’inizio? C’erano state delle formiche, nel mondo, fino dal remoto Giurassico, centottanta milioni di anni prima, e forse molti, molti di più. Milioni di anni prima del tempo in cui i progenitori dell’uomo erano esistiti, le formiche avevano già stabilito un rigido ordine sociale. Erano progredite solo fino a un certo punto; avevano stabilito il loro ordine sociale, e si erano accontentate di questo… si erano accontentate di questo, perché si trattava di quanto realmente desideravano, o perché non erano riuscite ad andare oltre? Avevano raggiunto la sicurezza, e, nel Giurassico e per molti milioni di anni dopo, questa sicurezza era stata sufficiente. La cupola di Joe aveva contribuito a rafforzare questa sicurezza, e allora esse avevano potuto progredire di nuovo, perché era stato sicuro progredire, avendone le possibilità e le capacità. Era evidente, certo, che le formiche possedevano la capacità di progredire, ma l’antico concetto di sicurezza aveva continuato a prevalere. Le formiche non erano state capaci di liberarsene. Forse non avevano neppure mai tentato di liberarsene, non avevano mai compreso che quell’idea era un peso per loro, non avevano mai avvertito la necessità di scrollare quell’eredità dai loro corpi, per proseguire liberamente. Era stato quell’antico desiderio di sicurezza, di ordine stabilito, si domandò Jenkins, l’elemento che alla fine aveva avuto il sopravvento su di loro, e le aveva uccise?
Con un tuono rimbombante, uno schianto che riecheggiò tutt’intorno all’orizzonte, un’altra porzione del tetto crollò.
Per quali scopi avrebbe potuto lottare una formica? Per mantenere la sicurezza, e che altro? Per accumulare e mettere da parte, forse… raccogliendo in tutta la Terra anche le ultime briciole di tutto ciò che poteva aver valore, e riponendo ogni cosa in vista di tempi di carestia, pensando al domani. E anche questo, in sé, non era altro che una delle tante sfaccettature del feticcio della sicurezza. Una forma di religione, forse… i simboli di quel piede umano pronto a colpire, che si ergevano sopra ogni formicaio, forse erano stati davvero simboli religiosi. E, ugualmente, simboli di sicurezza. Sicurezza, per l’anima delle formiche. La conquista dello spazio? E forse le formiche avevano conquistato lo spazio, si disse Jenkins. Per una creatura grande come una formica il mondo stesso doveva apparire una galassia vasta e sconfinata. Le formiche avevano conquistato una galassia, senza neppure sospettare che, più oltre, si apriva un’altra galassia infinitamente più grande. E anche la conquista di una galassia poteva apparire come un’altra forma di sicurezza.
Era tutto sbagliato, pensò Jenkins. Lui continuava ad attribuire alle formiche gli stessi processi ragionativi degli esseri umani, e poteva essere tutto diverso, poteva esserci molto di più, nel mondo delle formiche. Nelle menti delle formiche potevano esistere un certo fermento, una direzione strana, un’equazione etica incrollabile che non avevano mai fatto parte, né mai avrebbero potuto far parte, delle menti degli uomini.
Pensando a questo, Jenkins capì inorridito che nel costruire l’immagine di una formica lui aveva costruito l’immagine di un essere umano.
Cercò una poltrona, una vecchia poltrona a dondolo, e sedette, dondolandosi quietamente, scrutando oltre il prato, guardando là dove la Costruzione delle formiche continuava a crollare, un pezzo dopo l’altro.
Ma l’Uomo, ricordò Jenkins, aveva lasciato qualcosa dietro di sé. Aveva lasciato i Cani e i robot. Che cosa avevano lasciato le formiche, se avevano lasciato qualcosa? Nulla di evidente, nulla di certo, questo era ovvio… ma lui come avrebbe potuto saperlo?
Un uomo non avrebbe mai potuto saperlo, si disse Jenkins, e neppure un robot avrebbe potuto, perché un robot era un uomo, non di carne e ossa, come un uomo, ma sotto ogni altro aspetto sì. Le formiche avevano edificato la loro sconfitta… la società del formicaio era così saldamente radicata in loro, che esse non avevano saputo spezzarne i vincoli neppure per sopravvivere.
E io? si domandò d’un tratto. Non è forse anche il mio caso? Io sono racchiuso nella struttura sociale umana ancor più saldamente di quanto le formiche fossero racchiuse nella loro. Per meno di un milione di anni, ma per un tempo lunghissimo, quasi un’eternità, lui aveva vissuto non nella struttura della società umana, ma nel ricordo di quella struttura. Aveva vissuto in quella struttura, ora lo capiva, perché gli aveva offerto la sicurezza di un antico ricordo.
Continuò a dondolarsi sulla vecchia poltrona, in silenzio, ma colpito e scosso da quell’idea… o almeno dal fatto che quel pensiero fosse affiorato nella sua mente.
«Non è mai abbastanza,» disse, ad alta voce. «Non conosciamo mai abbastanza noi stessi.»
Si appoggiò ancor più allo schienale della poltrona, e pensò a quanto poco robotico fosse starsene seduto su una poltrona a dondolo. Un tempo, lui non si era mai seduto. Era l’uomo che viveva in lui, pensò. Permise alla sua testa di appoggiarsi allo schienale, di cedere al desiderio del riposo, e abbassò i filtri ottici per non vedere più la luce. Dormire, pensò… chissà cosa si provava a dormire? Forse il robot che lui aveva trovato accanto al formicaio… ma no, quel robot era morto, non addormentato. Era tutto sbagliato, si disse. I robot non dormivano e non morivano.
Altri suoni gli giunsero. La Costruzione continuava a crollare, e laggiù, sul prato, la brezza autunnale faceva frusciare l’erba. Tese i suoi sensi, per sentire i topi che correvano nelle loro gallerie, ma per una volta i topi erano quieti e silenziosi. Erano rannicchiati, in attesa. Poteva avvertire il senso di attesa che li pervadeva. I topi sapevano, in virtù di chissà quale senso dimenticato, che c’era qualcosa di diverso, che c’era qualcosa di sbagliato.
E c’era un altro suono, un bisbiglio, un suono che Jenkins non aveva mai udito in passato, un suono completamente alieno.
Aprì di scatto i suoi filtri ottici, e si rizzò a sedere, repentinamente, e proprio davanti a lui vide l’astronave atterrare sul prato.
I topi stavano correndo, ora, terrorizzati, fuggivano per salvare la vita, e l’astronave si posò al suolo, leggera, e giacque immobile, assestandosi sull’erba.
Jenkins balzò in piedi e usò tutti i suoi sensi, dirigendoli verso l’astronave, ma ogni tentativo di sondare la misteriosa, inaspettata apparizione s’infrangeva sulla superficie dello scafo. Gli era impossibile penetrare quella superficie con i suoi sensi, come gli era stato impossibile penetrare il Muro che gli aveva precluso tutto ciò che si era trovato all’interno della Costruzione, fino a quando il Muro non aveva cominciato a crollare.
Rimase così immobile, sulla veranda, completamente confuso da quella cosa tanto inaspettata. Ed era giusto che lui fosse confuso, pensò, perché fino a quel giorno non era mai accaduto niente d’inatteso. I giorni avevano continuato a scorrere, uno dopo l’altro, uno uguale all’altro, fondendosi, i giorni, gli anni, i secoli, ed era stato impossibile distinguere gli uni dagli altri. Il tempo aveva continuato a scorrere come un grande, possente fiume, senza cascate e senza rapide improvvise, sempre uguale e inarrestabile. E ora, in quel giorno, proprio quello tra tutti i giorni, la Costruzione era crollata e un’astronave era atterrata.
Un portello si aprì sul fianco dell’astronave, e dal portello venne gettata una scaletta. Un robot scese da quella scaletta, e avanzò a grandi passi sul prato, dirigendosi verso la Casa dei Webster. Il robot si fermò sul limitare della veranda.
«Salve, Jenkins,» disse. «Pensavo che ti avremmo trovato qui.»
«Tu sei Andrew, vero?»
Andrew ridacchiò, fissandolo.
«Così ti ricordi di me.»
«Io ricordo tutto,» disse Jenkins. «Tu sei stato l’ultimo a partire. Tu, insieme ad altri due robot, terminasti la costruzione dell’ultima astronave, e poi partisti dalla Terra. Io sono rimasto qui, e ho assistito alla tua partenza. Vi ho visti andare, tutti. Che cosa avete trovato, là fuori?»
«Tu ci chiamavi robot selvaggi,» disse Anderw. «Immagino che lo pensassi davvero. Ci giudicavi pazzi.»
«Non eravate dei robot normali,» lo corresse Jenkins.
«E cosa è normale?» domandò Andrew. «Vivere in un sogno? Vivere per un ricordo? Devi esserne stanco, ormai.»
«Non sono stanco…» disse Jenkins, e poi la sua voce si spense. «Andrew, le formiche hanno fallito. Sono morte. L’edificio che hanno costruito sta crollando.»
«E questo chiude il discorso su Joe,» disse Andrew. «E anche sulla Terra. Non è rimasto più niente.»
«Ci sono i topi,» disse Jenkins. «E c’è la Casa dei Webster.»
Pensò di nuovo al giorno in cui i Cani gli avevano donato un corpo nuovissimo, un regalo per il giorno del suo compleanno. Il corpo era stato un vero gioiello. Neppure il trapano più acuminato avrebbe potuto scalfirlo, e la ruggine non lo avrebbe mai potuto attaccare, ed era dotato di dispositivi sensoriali quali lui non aveva mai neppure sognato. Lo portava ancora oggi, ed era come nuovo, e quando lui si curava di lucidare un poco il petto, l’incisione appariva ancora, chiara e nitida: A JENKINS, DAI CANI.
Lui aveva visto partire tutti… gli uomini erano andati a Ginevra, per vivere un’eternità di sogni, e i Cani e tutti gli altri animali erano partiti per uno dei mondi delle ombre, e ora, infine, anche le formiche erano partite, per l’oscuro, freddo sentiero dell’estinzione.
Era sconvolgente accorgersi dell’impressione che l’estinzione delle formiche aveva prodotto su di lui. Come se fosse giunto qualcuno ad apporre il punto finale all’ultimo, definitivo periodo della storia della Terra.
Dei topi, pensò. Dei topi, e la Casa dei Webster. Con l’astronave ferma al centro del prato, potevano bastare? Cercò di riflettere, cercò di pensare: il ricordo si era consumato, era diventato più fragile, più esile? Il debito che lui aveva accumulato era stato pagato? Aveva versato anche l’ultima stilla di devozione?
«Ci sono dei mondi, là fuori,» stava dicendo Andrew. «E su alcuni di essi esiste la vita. Esiste anche l’intelligenza, là fuori. E c’è del lavoro da compiere.»
Lui non avrebbe potuto andare nel mondo delle ombre che i Cani avevano scelto come loro dimora. Molto tempo prima, nei tempi remoti dell’inizio, i Webster se ne erano andati, affinché i Cani potessero sviluppare la loro civiltà senza interferenze umane. E lui non poteva fare meno di quanto avessero fatto i Webster, perché lui era, dopotutto, un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro azioni; non poteva interferire.
Aveva tentato la strada dell’oblio, ignorando il trascorrere del tempo, e non aveva funzionato, perché un robot non può dimenticare.
Aveva creduto che le formiche non avessero mai avuto importanza, in realtà. Le aveva considerate fastidiose, a volte le aveva perfino odiate, perché, se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora là, su quel mondo. Ma ora sapeva che tutta la vita contava.
C’erano ancora i topi, ma i topi stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e avrebbero dovuto proseguire liberi, senza intromissioni o interferenze. Non ne volevano, e non ne avevano bisogno, e avrebbero saputo cavarsela bene. Sarebbero stati loro a foggiare il loro destino, e se quel destino fosse stato soltanto quello di rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male, niente di sbagliato.
«Passavamo di qui,» disse Andrew. «Forse non passeremo mai più da queste parti.»
Altri due robot erano scesi dall’astronave, e stavano camminando sul prato. Un’altra sezione del Muro cadde, e con essa una parte del tetto. Dal punto in cui ora si trovava, Jenkins udiva solo l’eco attutita del crollo, e quel suono pareva giungere da molto più lontano di quanto fosse in realtà.
Così rimaneva solo la Casa dei Webster, e la Casa dei Webster era soltanto un simbolo della vita che un tempo aveva ospitato. Era fatta solo di pietra e di legno e di metallo. Il suo significato, la sua importanza, pensò Jenkins, esistevano soltanto nella sua mente, un concetto psicologico che era stato lui stesso a creare.
Costretto ormai in un angolo, Jenkins ammise anche l’ultima realtà, la più difficile da accettare. Non c’era bisogno di lui in quel luogo. Lui rimaneva là, da solo, e non c’era bisogno di lui.
«Abbiamo posto per te,» disse Andrew. «E abbiamo anche bisogno di te.»
Fino a quando c’erano state le formiche, non c’erano stati problemi, né dubbi, né domande. Ma ora le formiche se ne erano andate. E questo che cosa cambiava? Lui non aveva mai amato le formiche.
Jenkins si volse, ciecamente, e scese barcollando dalla veranda, e varcò la porta che conduceva nella casa. Le pareti cominciarono a gridargli mille e mille parole. E anche molte voci gridarono, voci che giungevano anch’esse dalle ombre del passato. Jenkins rimase immobile, e ascoltò quelle voci, e si accorse di una cosa strana. Le voci erano là, come sempre, ma lui non udiva le parole che esse pronunciavano. Un tempo c’erano state anche le parole, ma ora le parole se ne erano andate, e, chissà, col tempo se ne sarebbero andate anche le voci, forse? Cosa sarebbe accaduto, si chiese, nel giorno in cui la casa fosse diventata infine quieta e silenziosa e solitaria, quando tutte le voci se ne fosse andate, e anche tutti i ricordi fossero sbiaditi e perduti? Erano già sbiaditi, lo sapeva. Non erano più nitidi e chiari e cristallini; avevano continuato a sbiadire, nel corso di tutti quegli anni, mentre il tempo che lui non aveva voluto riconoscere aveva continuato a scorrere.
Una volta c’era stata gioia, ma ora c’era solo tristezza, e non si trattava soltanto della tristezza di una casa vuota e abbandonata; era la tristezza che pervadeva tutte le altre cose, la tristezza della Terra, la tristezza per tutte le sconfitte e le vuote vittorie.
Con il trascorrere del tempo, il legno sarebbe marcito, e il metallo si sarebbe sbriciolato, sfaldandosi. Con il trascorrere del tempo, la casa non sarebbe più stata là, e al suo posto sarebbe rimasto un monticello sabbioso, unico segno, unica testimonianza del fatto che un tempo lassù, sulla collina, era sorta una casa.
Tutto questo veniva dal fatto di avere vissuto troppo a lungo, pensò Jenkins… di avere vissuto troppo a lungo, di non essere capace di dimenticare. Sarebbe stata quella la parte più difficile e più dura; lui non avrebbe mai potuto dimenticare.
Si volse, allora, e uscì di nuovo dalla porta, e attraversò la veranda. Andrew lo stava aspettando, ai piedi della scaletta che conduceva lassù, al portello dell’astronave.
Jenkins cercò di dire addio, ma non riuscì a dire addio. Se almeno lui avesse potuto piangere, pensò, ma un robot non poteva piangere.