L’ombra grigia scivolò lungo il costone roccioso, dirigendosi verso la tana, lamentandosi sommessamente tra sé per la frustrazione e l’amara delusione… perché le Parole non avevano funzionato.
I raggi obliqui del sole del pomeriggio mostrarono un viso e una testa e un corpo, confusi, e indistinti e nebbiosi, come un vortice di foschia mattutina che si levi dalla valle umida di rugiada.
D’improvviso il costone roccioso si gettò ripido nell’abisso scosceso, e l’ombra si fermò, attonita, stringendosi contro la parete di roccia… perché la tana non c’era. Il costone finiva prima di raggiungere la tana!
L’ombra si girò di scatto, come un colpo di frusta, e guardò di nuovo la valle. E il fiume non era come doveva essere. Scorreva più vicino alla parete di roccia di quanto non scorresse prima. C’era una piccola grotta nella parete di roccia, e laggiù non c’era mai stata una grotta.
L’ombra si irrigidì e i ciuffi di tentacoli che aveva sopra le orecchie guizzarono e vibrarono serpentini, cercando un sentore nell’aria.
E c’era vita! L’odore della vita portato dal vento, debole ma inconfondibile, il sentore della vita vibrava tra le colline spoglie, tremava tra le rocce e oltre il fiume.
L’ombra si mosse, si staccò dal riparo della roccia, cominciò a strisciare e a fluire morbidamente lungo il costone.
La tana non c’era e il fiume era diverso e sul fianco delle alture rocciose si apriva l’imboccatura di una grotta.
L’ombra tremò, sbavando mentalmente.
Le Parole erano state giuste. Non avevano fallito. Questo era un mondo diverso.
Un mondo diverso… diverso sotto molti aspetti. Un mondo così pieno di vita, che il profumo della vita vibrava perfino nell’aria e nel vento. Una vita, forse, che non avrebbe saputo correre così in fretta, né nascondersi così bene.
Il lupo e l’orso s’incontrarono all’ombra della grande quercia e si fermarono insieme per ingannare le lunghe ore del giorno.
«Ho sentito,» disse Lupo, «Che ci sono state delle uccisioni.»
Orso grugnì.
«Uno strano genere di uccisioni, fratello. Morti, ma non mangiati.»
«Uccisioni simboliche,» disse il lupo.
Orso scosse il capo.
«Non puoi convincermi dell’esistenza di cose tanto assurde come un’uccisione simbolica. Questa nuova psicologia che i Cani ci stanno insegnando comincia davvero a esagerare. Quando avviene un’uccisione, avviene o per odio o per fame. Non mi sorprenderai mai a uccidere qualcosa che poi non mangi subito.»
Si affrettò a chiarire:
«Non che io uccida nessuno, fratello. Lo sai bene.»
«Certo che no,» disse il lupo.
Orso chiuse pigramente gli occhietti, li riaprì e batté le palpebre.
«Non voglio dire neanche, cerca di capirmi, che qualche volta io non rovesci un sasso e non lecchi una formica o due.»
«Non credo che i Cani possano considerare questo un delitto,» gli disse Lupo, con aria grave. «Gli insetti sono un po’ diversi dagli animali e dagli uccelli. Nessuno ci ha mai detto che non possiamo uccidere gli insetti.»
«È qui che ti sbagli,» disse Orso. «I Canoni lo dicono con estrema chiarezza. Tu non devi mai sopprimere la vita. Tu non devi mai prendere la vita d’altri.»
«Sì, penso che dicano proprio così,» ammise il lupo in tono untuoso. «Immagino che tu abbia ragione, fratello. Ma perfino i Cani lasciano un po’ correre, per quello che riguarda gli insetti. Saprai certamente che uno dei loro sforzi maggiori è quello di produrre una polvere contro le pulci che sia maggiormente efficace. E a che cosa serve la polvere contro le pulci, ti chiedo? Bene, rispondo, a uccidere le pulci. È per questo che esiste. E le pulci sono una forma di vita. Le pulci sono creature viventi.»
Orso diede una zampata rabbiosa a una piccola mosca verde che gli ronzava intorno al naso.
«Io scendo alla stazione di nutrizione,» disse il lupo. «Che ne diresti di venire con me?»
«Non ho fame,» disse l’orso. «E poi tu sei in anticipo. Non è ancora il momento di mangiare.»
Lupo si leccò il muso, con la lingua enorme.
«Certe volte mi faccio vedere laggiù, sai, come se passassi per caso, e il webster che è di servizio mi dà sempre qualche boccone extra.»
«Meglio tenerlo d’occhio,» disse Orso. «Stai tranquillo che non ti dà quei bocconcini extra per niente. Avrà qualche cosa in mente, avrà già fatto dei calcoli su di te. Non mi fido di quei webster.»
«Quello di cui parliamo è un bravo webster,» dichiarò il lupo. «Presta servizio nella stazione di nutrizione, e non ce ne sarebbe bisogno. Basterebbe un robot. Ma lui è andato a chiedere che gli dessero il lavoro. Si era stancato di oziare in quelle case che sembrano scatole, senza niente da fare all’infuori che giocare. E lui sta seduto nella stazione, e ride e parla, proprio come se fosse uno di noi. Quel Peter è un bravo webster, te lo dico io.»
L’orso brontolò, nella sua gola cavernosa.
«Uno dei Cani mi diceva che, secondo Jenkins, i webster non si chiamano affatto webster. Jenkins avrebbe affermato che il loro nome non è webster, ma uomini…»
«Che cosa vuol dire uomini?» domandò Lupo.
«Be’, te lo stavo dicendo adesso. Cioè, è quello che afferma Jenkins…»
«Jenkins,» dichiarò Lupo, «Sta diventando così vecchio che ormai è quasi un rottame, tutto ammaccato e rappezzato. Ha troppe cose da ricordare. Deve avere almeno mille anni suonati.»
«Settemila,» lo corresse l’orso. «I Cani pensano di organizzare una grande festa per il suo compleanno. Gli stanno preparando un nuovo corpo; sarà il loro regalo per il compleanno. Quello vecchio si sta logorando… deve andare nell’officina di riparazione un mese sì e l’altro no.»
L’orso dondolò il testone enorme, saggiamente.
«Diciamo la verità, Lupo, i Cani hanno fatto molto per noi. Hanno aperto dappertutto delle stazioni di nutrizione e ci mandano dei robot medici quando ne abbiamo bisogno, per non parlare di tutto il resto. Pensa, l’anno scorso mi era venuto un tremendo male ai denti, e…»
Il lupo lo interruppe.
«Ma quelle stazioni di nutrizione potrebbero essere migliori. Loro continuano a dire che il lievito è lo stesso che la carne, che ha lo stesso valore nutritivo e così via. Ma non ha il gusto della carne…»
«Come fai a saperlo?» chiese l’orso.
L’esitazione del lupo durò per una frazione di secondo.
«Be’… be’, l’ho saputo da quello che mi ha raccontato il nonno, naturalmente. Un vecchio furfante in piena regola, il nonno. Spesso si concedeva il lusso di mangiare un po’ di selvaggina, lui. Mi diceva sempre qual era il sapore della carne. Ma a quel tempo non c’erano tutti i guardiani che ci sono oggi…»
Orso chiuse gli occhi, li tenne chiusi per qualche istante, poi li riaprì.
«Mi chiedo sempre che sapore abbiano i pesci,» disse. «C’è una quantità di trote giù nel torrente della Pineta. Sto delle ore sulla riva a guardarle. Sarebbe facile allungare la zampa e pescarne una o due.»
Aggiunse, frettolosamente:
«Naturalmente, non l’ho mai fatto.»
«Naturalmente,» disse il lupo.
Un mondo e poi un altro, come una lunga catena. Un mondo dietro l’altro, una processione di mondi che camminavano tutti sulle orme del precedente, e andavano sempre avanti. ÌJn domani di un mondo era l’oggi di un altro mondo. E ieri era domani e domani era il passato.
Solo che non c’era nessun passato. Nessun passato, neppure l’ombra… a eccezione di quei frammenti di ricordi che fluttuavano come creature notturne alate nell’ombra della mente di qualcuno. Non c’era un passato che si potesse raggiungere. Non c’erano disegni dipinti sul muro del tempo. Non c’erano pellicole da proiettare a rovescio, per vedere cos’era stato un tempo, com’era stato un tempo.
Joshua si alzò e si scrollò, tornò a sedersi e schiacciò una pulce. Ichabod era seduto rigidamente dietro il tavolo, e tamburellava la superficie liscia con le sue dita metalliche.
«I calcoli sono esatti,» disse il robot. «E non possiamo farci niente. Tutto corrisponde. Non possiamo viaggiare nel passato. È un’impossibilità assoluta.»
«Non possiamo,» disse Joshua.
«Però,» disse Ichabod. «Noi sappiamo dove sono le ombre.»
«Sì,» disse Joshua. «Noi sappiamo dove sono le ombre. E forse possiamo raggiungerle. Ora conosciamo qual è la strada da prendere.»
Una strada era aperta, ma un’altra era chiusa. Ma non era chiusa, perché per chiudersi avrebbe dovuto esistere, e la strada non era mai esistita. Perché il passato non c’era, non era mai esistito, non c’era posto per lui. Dove avrebbe dovuto esserci un passato c’era un altro mondo.
Come due cani che camminavano l’uno sulle orme dell’altro. Quando la zampa di uno toccava l’orma dell’altro, l’altro aveva già tolto la sua zampa da quell’orma. Come una lunga, interminabile fila di palline rotolanti lungo una scanalatura alla stessa velocità, sempre quasi sul punto di toccarsi, ma senza mai arrivare a toccarsi davvero. Come gli anelli di un’infinita catena che scorresse su una ruota dentata, ma una ruota con un miliardo di miliardi di denti.
«Siamo in ritardo,» disse Ichabod, dando un’occhiata all’orologio. «Dovremmo già essere pronti ad andare alla festa di Jenkins.»
Joshua si diede un altro scrollone.
«Sì, immagino che tu abbia ragione. È un grande giorno per Jenkins, Ichabod. Pensaci… settemila anni.»
«Io sono prontissimo,» disse Ichabod, orgoglioso. «Mi sono dato una bella lucidata, stamattina, ma tu hai bisogno di una buona spazzolata. Hai tutto il pelo arricciato.»
«Settemila anni,» disse Joshua. «Io non vorrei vivere così a lungo.»
Settemila anni e settemila mondi che si susseguivano uno all’altro, uno sulle orme del precedente, all’infinito. Ma certo erano di più. Un mondo al giorno, forse. Trecentosessantacinque volte settemila. O forse un mondo al minuto. O forse ancora, perfino un mondo al secondo. Un secondo era una cosa grossa… abbastanza grossa da separare due mondi, abbastanza ampia da contenere due mondi. Trecentosessantacinque volte settemila volte ventiquattro volte sessanta…
Una cosa grossa e una cosa definitiva. Perché il passato non c’era. Non si poteva tornare indietro. Non c’era modo di ripercorrere a ritroso la corrente del grande fiume, per scoprire la verità sulle cose delle quali Jenkins parlava… le cose che avrebbero potuto essere vere, o che avrebbero potuto essere il prodotto di una memoria confusa da settemila anni di pensieri. Non si poteva tornare indietro per scoprire la verità sulle nebulose leggende che parlavano di una casa e di una famiglia di Webster e di una cupola chiusa di nulla ch’era acquattata torva sulle montagne di là dal mare.
Ichabod avanzò verso di lui con un pettine e una spazzola, e Joshua sobbalzò e cercò di raggomitolarsi al suolo.
«Ah, che sciocchezze,» disse Ichabod. «Una spazzolata non ti farà male.»
«L’ultima volta,» disse Joshua, «Per poco non mi hai scuoiato vivo. Vacci piano, mi raccomando.»
Il lupo era venuto, sperando in uno spuntino fuori programma, ma lo spuntino non gli era stato offerto, e il lupo era troppo educato per chiederlo. Così adesso sedeva, con la grande coda cespugliosa elegantemente avvolta intorno alle zampe, e guardava Peter, il quale lavorava con il coltello sulla sottile bacchetta di legno.
Ghianda, lo scoiattolo, si lanciò dal ramo di un albero sovrastante, e si posò leggero sulla spalla di Peter.
«Cosa stai facendo?» domandò.
«Un bastone da lancio,» disse Peter.
«Tu puoi lanciare tutti i bastoni che vuoi,» disse il lupo. «Non hai bisogno di prepararne uno apposta. Basta che tu raccolga il primo bastone che vedi, e poi lo lanci.»
«Questa è una cosa nuova,» spiegò Peter. «Una cosa che ho pensato io. Una cosa che ho fatto io. Ma non so di che si tratta.»
«Non ha un nome?» domandò Ghianda.
«Non ancora,» disse Peter. «Dovrò pensarne uno.»
«Ma,» insisté il lupo, «Tu puoi lanciare un bastone quando e come vuoi. Non hai bisogno di farne uno apposta.»
«Non così lontano,» disse Peter. «Non con tanta forza.»
Peter rigirò la bacchetta tra le dita, accarezzandone la liscia rotondità, la sollevò e se la portò all’altezza di un occhio, per vedere se era ben diritta.
«Non lo lancio con il braccio,» disse Peter. «Lo lancio con un altro bastone e con una corda.»
Si protese a raccogliere l’oggetto che aveva appoggiato al tronco dell’albero.
«Quello che non riesco a capire,» disse Ghianda, «È il motivo per cui tu voglia lanciare un bastone.»
«Non lo so,» disse Peter. «È divertente. È come un gioco.»
«Voi webster,» disse il lupo, con fare severo, «Siete degli strani animali. A volte mi chiedo se abbiate buon senso.»
«Puoi colpire qualunque punto tu prenda di mira,» disse Peter. «Se il bastone da lancio è diritto e la corda è buona. Non si può raccogliere semplicemente il primo pezzo di legno che si vede. Bisogna cercare e cercare…»
«Fammi vedere,» disse Ghianda.
«Si fa così,» disse Peter, sollevando il ramo di noce. «Lo vedi? È duro e flessibile. Se lo pieghi, scatta e torna diritto. Ho legato assieme le due estremità con una corda; fatto questo, basta collocare il bastone da lancio in questa posizione, così, con un’estremità appoggiata alla corda, e poi tirare indietro il bastone, così, e…»
«Hai detto che puoi colpire tutto quello che vuoi,» disse il lupo. «Avanti, facci vedere.»
«Che cosa devo colpire?» domandò Peter. «Scegliete voi. Ditemelo, e…»
Ghianda puntò la zampa, tutto eccitato.
«Quel pettirosso appollaiato sull’albero, guarda!»
Rapidamente, Peter alzò le mani, tirò indietro il bastone, e la corda fece piegare ad arco il ramo di noce. Il bastone da lancio sibilò nell’aria. Il pettirosso cadde dal ramo, in una pioggia di piume. L’animaletto colpì il terreno con un tonfo sordo e sommesso, e giacque immobile, supino… con le minuscole zampe impotenti e rattrapite puntate verso la cima degli alberi. Un filo di sangue gli colò dal becco e macchiò la foglia che aveva sotto il capo.
Ghianda si irrigidì sulla spalla di Peter, e il lupo balzò eretto sulle quattro zampe. E ci fu silenzio, il silenzio delle foglie immobili, delle nubi che galleggiavano nel cielo azzurro del pomeriggio.
L’orrore rese quasi incomprensibili le parole di Ghianda.
«L’hai ucciso! È morto! Tu l’hai ucciso.»
Peter protestò, paralizzato dalla paura.
«Io non sapevo. Non avevo mai cercato di colpire delle creature vive, prima d’ora. Ho semplicemente scagliato il bastone contro dei bersagli tra gli alberi…»
«Ma tu l’hai ucciso. E non si deve mai uccidere.»
«Lo so,» disse Peter. «Lo so che non si deve mai uccidere. Ma sei stato tu a dirmi di tirare. Sei stato tu a mostrarmi il pettirosso. Sei stato tu…»
«Ma io non volevo che tu l’uccidessi,» strillò Ghianda. «Credevo che l’avresti soltanto sfiorato. Per fargli prendere un po’ di paura. Era così grasso e pigro e…»
«Te l’avevo detto che il bastone andava veloce, che aveva molta forza.»
Il webster sembrava avere messo radici nel terreno, sembrava incapace di muoversi.
Lontano e con forza, pensò. Lontano e con forza… e veloce.
«Andiamo, non prendertela tanto, amico,» disse il lupo con voce gentile. «Sappiamo che non volevi farlo. La cosa rimarrà fra noi tre. Non diremo mai una parola a nessuno.»
Ghianda saltò via dalla spalla di Peter, raggiunse il ramo dell’albero e strillò:
«Io lo dirò,» I suoi strilli si fecero ancora più forti. «Io lo dirò, lo dirò, lo dirò! Andrò a dirlo a Jenkins.»
Il lupo ringhiò, preso da una collera improvvisa, gli occhi rossi e cattivi.
«Sudicio, piccolo piagnone. Lurida spia.»
«Lo farò, lo farò,» strillò Ghianda. «Vedrai se non lo farò. Aspetta e vedrai. Andrò a dirlo a Jenkins.»
Si arrampicò sull’albero, camminò veloce su un ramo, e da quello si lanciò sul ramo di un albero vicino.
Il lupo si mosse veloce.
«Aspetta,» disse Peter, seccamente.
«Non può fare tutta la strada camminando sugli alberi,» disse il lupo, in fretta. «Dovrà scendere per attraversare il prato. Non devi preoccuparti di niente.»
«No,» disse Peter. «Non voglio altre uccisioni. Una sola è abbastanza.»
«Parlerà, lo sai anche tu.»
Peter annuì.
«Sì, sono sicuro che parlerà.»
«Io potrei impedirgli di parlare.»
«Qualcuno ti vedrebbe e andrebbe a dirlo a Jenkins, e sarebbe peggio per te,» disse Peter. «No, Lupo, non ti permetterò questo.»
«Allora farai bene a scappare,» disse Lupo. «Conosco un posticino dove potrai nasconderti. Non ti troveranno mai, neanche se cercassero per mille anni.»
«Non riuscirei a cavarmela,» disse Peter. «Ci sono molti occhi che guardano, nei boschi. Troppi occhi. Sarebbero loro a vedermi, e tutti saprebbero dove sono andato. Sono passati i giorni in cui ci si poteva nascondere.»
«Forse hai ragione,» disse il lupo, lentamente. «Sì, penso che tu abbia ragione.»
Si voltò a guardare il corpicino inanimato del pettirosso.
«Che ne diresti se ci liberassimo della prova?» chiese.
«La prova…»
«Be’, certo…» Il lupo fece due passi rapidi, abbassò il capo. Si udì il rumore di qualcosa che si spezzava. Lupo si leccò i baffi e si acquattò al suolo, avvolgendosi intorno alle zampe la lunga coda pelosa.
«Tu e io possiamo andare d’accordo,» disse. «Sissignore, ho la sensazione che tu e io possiamo andare d’accordo. Ci assomigliamo tanto, noi due!»
Una piuma rivelatrice gli ballonzolava sul naso.
Il corpo era un vero gioiello.
Un maglio non avrebbe potuto scalfirlo, e non c’era più pericolo della ruggine. E aveva tanti congegni che neppure li si poteva contare.
Era il regalo per il compleanno di Jenkins. Le parole incise sul petto lo dicevano in lettere nitide e chiare:
Ma io non metterò mai questo corpo, si disse Jenkins. È troppo elegante e perfetto per me, è troppo elegante per un robot vecchio come me. Mi sentirei fuori posto in una cosa sgargiante come questa.
Dondolò lentamente, avanti e indietro, nella sedia a dondolo, ascoltando il miagolio del vento tra le fronde.
Le loro intenzioni erano così buone. E io non vorrei ferire i loro sentimenti per nessuna cosa al mondo. Dovrò portare questo corpo, qualche volta, solo per le apparenze. Solo per fare piacere ai Cani che me l’hanno donato. Non sarebbe giusto che non me lo mettessi, quando loro hanno faticato tanto per procurarmelo. Ma non tutti i giorni… solo per le occasioni migliori.
Forse in occasione della grande Colazione all’Aperto dei Webster. Certo, voglio avere il mio aspetto migliore quando ci sarà la Colazione all’Aperto. È una grande festa. È un grande avvenimento. Il giorno in cui tutti i Webster del mondo, tutti i Webster rimasti in vita, si riuniscono. E vogliono che io sia con loro. Ah, sì, sì, mi vogliono sempre con loro. Perché io sono un robot Webster. Sissignore, lo sono sempre stato e lo sarò sempre.
Chinò il capo e mormorò delle parole che pervasero l’aria della stanza come una canzone di sospiri. Parole che lui e la stanza ricordavano. Parole di un passato lontano, molto, molto lontano.
La poltrona cigolò e il suono fu una nota della canzone di quella stanza dalle pareti macchiate di passato. Fu una nota della canzone del vento che soffiava tra le foglie e ululava su per la cappa del caminetto.
Il fuoco acceso nel caminetto, pensò Jenkins. È passato tanto tempo dall’ultima volta in cui abbiamo acceso il fuoco nel caminetto. Agli uomini piaceva il fuoco. A loro piaceva star seduti davanti al caminetto a guardarlo ardere e a costruire immagini e figure e sogni tra le fiamme guizzanti. Immagini e figure… e sogni…
Ma i sogni degli uomini, disse Jenkins, parlando per sé solo… i sogni degli uomini non ci sono più. Sono partiti, andati. Andati su Giove e sepolti a Ginevra e germogliano di nuovo, deboli e pallidi, nei webster di oggi.
Il passato, si disse Jenkins. Il passato resta troppo con me. E il passato mi ha reso inutile. Ho troppe cose da ricordare… tante cose da ricordare, che il passato diventa più importante delle cose che si devono fare oggi. Io vivo nel passato e questo non è un modo di vivere.
Perché Joshua dice che il passato non c’è, e Joshua lo deve sapere. Tra tutti i Cani, è l’unico che lo può sapere, perché ha dedicato tutti i suoi sforzi a cercare un passato nel quale viaggiare, a cercare il modo di risalire nel tempo per vedere con i suoi occhi le cose che gli ho narrato. Vuole controllare, sapere la verità. Lui pensa che la mia mente stia vacillando e che io giri e rigiri vecchie favole di robot, mezze verità, mezze fantasie, arricchite e mutate e impreziosite dai lunghi secoli, da tutte le volte nelle quali io le ho narrate.
Questo lui non lo ammetterebbe per nessuna cosa al mondo, ma è quello che pensa, il piccolo bugiardo. Lui non crede che io lo sappia, ma io lo so.
Non mi può ingannare, disse Jenkins, ridacchiando tra sé. Nessuno di loro mi può ingannare. Li conosco meglio di quanto loro non si conoscano… so di che cosa sono fatti, so tutto, tutto di loro. Io ho aiutato Bruce Webster a creare il primo cane. Sono stato io ad ascoltare le prime parole uscite dalla gola di un cane. E se loro hanno dimenticato, io non ho dimenticato… non un’espressione, né una parola, né un gesto.
Forse è naturale che abbiano dimenticato. Hanno fatto grandi cose; io li ho lasciati fare, non ho interferito molto, ed è stato meglio così. Jon Webster mi ha detto che doveva essere così, in quella notte di tanto, tanto tempo fa. È per questo motivo che Jon Webster ha fatto quello che ha fatto per chiudere, isolare dal mondo la città di Ginevra. Perché è stato Jon Webster a chiudere la città. Deve essere stato lui. Non poteva essere stato un altro.
Jon Webster aveva detto che pensava di rinchiudere per sempre la razza umana, per lasciare la Terra libera per i cani. E quando aveva chiuso la città… era stato sicuro di avere ottenuto il suo scopo. Ma aveva dimenticato una cosa. Oh sì, mormorò Jenkins, Jon Webster aveva dimenticato una cosa. Aveva dimenticato suo figlio e la sua piccola banda di amici, amici che con l’arco e le frecce erano usciti dalla città, al mattino, per giocare agli uomini delle caverne… e anche alle donne delle caverne, perché c’erano state delle donne tra loro.
E il gioco, pensò Jenkins, era diventato un’amara realtà. Una realtà che dura ormai da mille anni, da quando finalmente noi li abbiamo trovati e li abbiamo riportati a casa. Alla Casa dei Webster, dove tutto, tutto era cominciato.
Jenkins incrociò le braccia, giunse le mani in grembo, e piegò il capo, e continuò a dondolarsi lentamente sulla vecchia sedia, avanti e indietro, avanti e indietro. La sedia a dondolo cigolò raucamente e il vento ululò tra le foglie e una finestra tintinnò lontano. Il caminetto parlava con la sua gola cavernosa e lontana, parlava di altri giorni e di altre genti, di altri venti che avevano soffiato tempestosi da occidente.
Il passato, pensò Jenkins. È una cosa futile. Una cosa stupida, quando c’è tanto da fare. Quando ci sono tanti problemi che i Cani devono ancora affrontare.
Il problema della popolazione, per esempio. Questa è la cosa sulla quale abbiamo meditato e della quale abbiamo parlato per troppo tempo. Ci sono troppi conigli, perché nessun lupo e nessuna volpe li possono uccidere. Ci sono troppi daini, perché i leoni di montagna e i lupi non possono cacciare la selvaggina. Ci sono troppe puzzole, troppi topi, troppi gatti selvatici. Troppi scoiattoli, troppi porcospini, troppi orsi.
Proibite il più grande controllo della popolazione, proibite di uccidere, e avrete troppe vite. Tenete sotto controllo le malattie e prestate soccorso ai feriti e ai malati con i robot medici, veloci ed efficienti e perfetti, e un altro grande controllo della popolazione se ne va.
L’uomo aveva pensato a questo, si disse Jenkins. L’uomo non aveva corso questi pericoli. Sì, l’uomo aveva posto rimedio all’inconveniente. Perché gli uomini uccidevano chiunque si trovasse sulla loro strada… altri uomini come animali.
L’uomo non aveva mai pensato a una grande società animale, non aveva mai sognato che la puzzola e il procione e l’orso percorressero insieme la strada della vita, pensando insieme, progettando insieme, aiutandosi l’un l’altro… mettendo da parte, forse per sempre, tutte le differenze naturali.
Ma i Cani questo l’avevano sognato. In un giorno lontano, il sogno aveva preso forma dentro di loro. E i Cani erano riusciti nel loro intento. I Cani avevano avverato il loro sogno.
Come in un cartone animato, pensò Jenkins. Come nelle fantasie per bambini di un’epoca tanto, tanto lontana, che neppure lui conosceva se non per il ricordo di coloro che la ricordavano. Come la storia del Leone e dell’Agnello che riposavano insieme. Come un cartone animato di Walt Disney, solo che il cartone animato non aveva mai avuto un sapore diverso da quello della fiaba, perché era stato basato sulla filosofia umana.
Scricchiolando, la porta si aprì di qualche centimetro. Jenkins si voltò.
«Ciao, Joshua,» disse. «Ciao, Ichabod. Volete entrare? Ero seduto qui a pensare, ecco tutto.»
«Passavamo di qui,» disse Joshua, «E abbiamo visto una luce.»
«Stavo pensando alle luci,» disse Jenkins, annuendo, serenamente. «Stavo pensando alla notte di cinquemila anni fa. Jon Webster era venuto qui da Ginevra, era il primo uomo che veniva qui da molti, molti secoli. Ed era di sopra, a letto, e tutti i Cani stavano dormendo, e io ero qui in piedi, davanti alla finestra, e guardavo in direzione del fiume. E non c’erano luci. Non c’era neppure una luce. Solo un grande mare di tenebre. E io stavo in piedi, qui, ricordando il giorno in cui c’erano state delle luci e chiedendomi se ci sarebbero mai più state delle luci, in futuro.»
«Adesso ci sono delle luci,» disse Joshua, parlando con estrema dolcezza. «Ci sono delle luci in tutto il mondo, stanotte. Perfino nelle caverne e nelle tane.»
«Sì, lo so,» mormorò Jenkins. «È perfino meglio di quanto non fosse stato prima.»
Ichabod camminò pesantemente sul pavimento, dirigendosi verso lo scintillante corpo di robot che stava eretto in un angolo, allungò una mano e toccò la carne di metallo, quasi con tenerezza.
«I Cani sono stati molto buoni,» disse Jenkins, «A regalarmi quel corpo. Ma non avrebbero dovuto fare tanto. Con qualche piccola riparazione qua e là, il vecchio corpo è ancora buono.»
«L’abbiamo fatto perché ti vogliamo bene,» gli disse Joshua. «Era il minimo che i Cani potessero fare. Abbiamo cercato di fare delle altre cose per te, ma tu non ce l’hai mai permesso. Vorremmo tanto che tu ci lasciassi costruire una nuova casa, nuova fiammante, con tutti i ritrovati più moderni.»
Jenkins scosse il capo d’acciaio.
«Non servirebbe a niente, perché non potrei viverci. Vedi, questo posto è casa mia. È sempre stata la mia casa. Basterà che la teniate in ordine, con qualche riparazione ogni tanto, come avete fatto con il mio corpo, e io sarò felice.»
«Ma tu sei così solo, qui!»
«No, non sono solo,» disse Jenkins. «La casa è piena di gente.»
«Piena di gente?» domandò Joshua.
«Gente che conoscevo, un tempo,» spiegò Jenkins.
«Accidenti,» esclamò Ichabod. «Che corpo stupendo! Come mi piacerebbe provarlo.»
«Ichabod!» gridò Joshua. «Torna qui subito. Tieni giù le mani da quel corpo…»
«Lascia stare il piccolo,» disse Jenkins, con una sfumatura d’affetto. «Se viene qui una volta o l’altra, quando non sarò occupato…»
«No,» disse Joshua.
Un ramo strusciò contro la parete della casa e sfiorò con dita leggere la finestra. Una persiana tintinnò e il vento marciò sul tetto con piedi leggeri e danzanti.
«Sono felice che tu sia venuto qui,» disse Jenkins. «Volevo parlarti.»
Dondolò avanti e indietro, avanti e indietro sulla vecchia sedia a dondolo, e la sedia gracchiò cupamente.
«Io non potrò durare per sempre,» disse Jenkins. «Settemila anni sono lunghi. È un tempo più lungo di quanto non avessi il diritto di aspettarmi.»
«Con il nuovo corpo,» disse Joshua, «Potrai essere perfettamente in forma per un periodo tre volte più lungo.»
Jenkins scosse il capo.
«Ma io non sto pensando al corpo. Sto pensando al cervello. È meccanico, vedi, Joshua? È stato costruito bene, è stato costruito per durare molto tempo, ma non per sempre. Un giorno qualcosa si guasterà e il cervello non funzionerà più.»
La sedia a dondolo gracchiò nella stanza silenziosa.
«E quella sarà la morte,» disse Jenkins. «Quella sarà la mia fine. Ed è giusto così. È così che deve essere. Perché io non servo più. C’è stato un tempo in cui c’era bisogno di me.»
«Noi avremo sempre bisogno di te.» disse Joshua, dolcemente. «Non potremmo andare avanti senza di te.»
Ma Jenkins continuò a parlare, come se non l’avesse udito.
«Voglio parlarti dei webster. Sì, voglio parlarti di loro. Voglio che tu capisca.»
«Cercherò di capire,» disse Joshua.
«Voi Cani li chiamate webster, e va bene,» disse Jenkins. «Non importa come li chiamate, basta che sappiate chi sono.»
«A volte,» disse Joshua, «Tu li chiami uomini, a volte li chiami webster. Non capisco.»
«Erano uomini,» disse Jenkins, «E governavano la Terra. E c’era una loro famiglia che portava il nome di Webster. E sono stati i Webster a fare questa grande cosa, per voi.»
«Quale grande cosa?»
Jenkins fermò di colpo la sedia, e la tenne ferma.
«Dimentico spesso le cose,» borbottò. «Dimentico così facilmente. E così mi confondo.»
«Stavi parlando di una grande cosa che i webster hanno fatto per noi.»
«Eh,» disse Jenkins. «Sì, davvero, stavo dicendo questo. Sì, davvero. Voi dovete sorvegliarli. Dovete avere cura di loro e sorvegliarli. Soprattutto sorvegliarli.»
Ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, avanti e indietro, e i pensieri si rincorsero nel suo cervello antico, pensieri intervallati dal gracidare della vecchia sedia a dondolo.
Per poco non l’hai fatto, si disse. Per poco non hai rovinato il sogno.
Ma ho ricordato in tempo. Sì, Jon Webster, mi sono trattenuto in tempo. Ho tenuto fede alla promessa, Jon Webster. Non ho tradito la tua fiducia. Sono sempre stato un servitore fedele, Jon Webster, e non ho tradito neppure adesso la tua fiducia.
Non ho detto a Joshua che un tempo i Cani erano animali domestici, gli animali domestici preferiti dall’uomo, e che sono stati gli uomini a innalzarli fino al punto che hanno raggiunto ora. Perché loro non devono mai sapere. Devono tenere eretta la loro testa. Devono continuare il loro lavoro. Le vecchie storie che si narravano di notte intorno al focolare non ci sono più, e non dovranno mai più ritornare.
Anche se io vorrei tanto parlare. Lo sa il Signore quanto vorrei parlare. Metterli in guardia dalle cose dalle quali devono stare in guardia. Dire loro che noi abbiamo sradicato le antiche idee dagli uomini delle caverne che abbiamo trovato in Europa e che abbiamo portato qui, tra noi. Spiegare come abbiamo fatto disimparare a quegli uomini le molte cose che essi sapevano. Come abbiamo liberato le loro menti dalle armi e dalle cose più pericolose delle armi, come abbiamo insegnato loro l’amore e la pace.
E dire loro che dobbiamo stare in guardia, temere il giorno in cui essi riprenderanno le cose perdute… l’antico modo umano di pensare.
«Ma avevi detto…» fece Joshua.
Jenkins agitò una mano.
«Non era niente, Joshua. Solo le chiacchiere vuote di un vecchio robot brontolone. A volte il mio cervello si confonde e allora dico cose che non voglio dire. Penso tanto al passato… e tu dici che il passato non c’è.»
Ichabod si accovacciò sul pavimento e guardò Jenkins.
«Che non ci sia è sicuro,» disse. «Abbiamo controllato i calcoli, per quaranta volte da domenica, e tutte le volte i fattori concordano. È tutto esatto. Non esiste nessun passato.»
«Non c’è spazio per il passato,» aggiunse Joshua. «Se tu viaggi a ritroso lungo la linea del tempo non trovi il passato, ma un altro mondo, un’altra parentesi di coscienza. Troveresti la stessa Terra, vedi, o almeno quasi la stessa. Gli stessi alberi, gli stessi fiumi, le stesse colline, ma non sarebbe più il mondo che conosciamo. Perché questo mondo ha vissuto una vita diversa, si è sviluppato in maniera diversa. Il secondo dietro di noi non è affatto il secondo dietro di noi, ma un altro secondo, una sezione del tempo totalmente separata e diversa. Noi viviamo sempre nello stesso secondo. Ci muoviamo entro la parentesi di quel secondo, quel minuscolo frammento di tempo che è stato assegnato al nostro mondo.»
«La colpa è del modo in cui abbiamo considerato il tempo,» disse Ichabod. «È stata questa la cosa che ci ha impedito di considerarlo com’era in realtà, perché noi abbiamo sempre pensato di passare attraverso il tempo, muovendoci dal passato verso il futuro, mentre invece non era così, non è stato mai così. Ci siamo semplicemente mossi insieme al tempo. Abbiamo sempre detto: ecco un altro secondo che passa, ecco un altro minuto e un’altra ora e un altro giorno, quando invece, in realtà, il secondo e il minuto e l’ora non erano mai passati. Era sempre lo stesso tempo, sempre lo stesso, per sempre. Era sempre lo stesso secondo che si muoveva in avanti, e noi ci eravamo mossi con lui.»
Jenkins annuì.
«Capisco. Come un tronco portato dalla corrente del fiume. Il tronco si muove con il fiume. E la scena cambia, lungo la riva del fiume, ma l’acqua è sempre la stessa.»
«È più o meno così, approssimativamente,» disse Joshua. «Solo che il tempo è una corrente rigida e i diversi mondi sono fissati al loro posto molto più rigidamente di un tronco sul fiume.»
«E le ombre vivono in questi altri mondi?»
Joshua annuì.
«Ne sono certo.»
«E adesso,» disse Jenkins, «Immagino che tu stia elaborando un sistema per viaggiare in questi altri mondi.»
Joshua si grattò leggermente, alla ricerca di una pulce molesta.
«Certo che ci sta lavorando,» disse Ichabod. «Abbiamo bisogno dello spazio.»
«Ma le ombre…»
«Le ombre potrebbero anche non essere su tutti i mondi,» disse Joshua. «Potrebbe esservi qualche mondo disabitato. Se riusciremo a trovarlo, ne avremo bisogno, molto bisogno. Se non riusciamo a trovare lo spazio, avverrà un disastro. La pressione della popolazione porterà un’ondata di uccisioni. E un’ondata di uccisioni ci riporterebbe al punto dal quale siamo partiti.»
«Ci sono già delle uccisioni,» gli disse Jenkins, sottovoce.
Joshua raggrinzì il muso in un’espressione incredula, e abbassò le orecchie.
«Delle strane uccisioni. Le vittime sono morte, ma non sono state mangiate. Non c’è sangue. Come se le vittime fossero semplicemente cadute a terra, morte. I nostri medici sono quasi impazziti, per cercare una risposta. Non ci sono cause apparenti di morte. Gli organi sono intatti. Non c’è alcun motivo per cui le vittime debbano essere morte.»
«Ma sono morte,» disse Ichabod.
Joshua si avvicinò alla vecchia sedia, e abbassò la voce.
«Ho paura, Jenkins. Ho paura che…»
«Non c’è niente da temere.»
«Ma ti sbagli, Jenkins. Angus mi ha detto… Angus teme che una delle ombre… che una delle ombre sia venuta tra noi.»
Un soffio di vento ululò nella cappa del camino e sibilò sul tetto e mosse le fronde degli alberi antichi. Un’altra folata di vento sibilò in qualche angolo vicino, nel buio. E la paura uscì dal vento e marciò sul tetto, marciò con passi sordi e soffocati nei corridoi silenziosi e nelle stanze buie, e il vento le volava intorno, freddo e pungente e profumato di cose buie e lontane.
Jenkins rabbrividì e si costrinse a restare rigido ed eretto, perché un robot non può e non deve tremare, e invece un altro brivido stava percorrendo sinuosamente il suo corpo.
«Nessuno ha visto un’ombra.»
«Forse le ombre non si vedono.»
«Sì,» disse Jenkins. «Sì, forse le ombre non si vedono.»
Ed è quello che l’Uomo ha già detto un tempo, pensò Jenkins. Gli spiriti non si vedono e le ombre non si vedono e i fantasmi non si vedono… ma si sente, con qualche senso nascosto e segreto, che le ombre e i fantasmi e gli spiriti sono là, nell’angolo buio, e ti guardano e pulsano di vita segreta vicino a te. E ti accorgi che esistono, perché l’acqua continua a gocciolare anche quando tu hai chiuso il rubinetto, e si odono delle dita che battono e stridono alle finestre, e i cani si mettono a ululare nel cuore della notte, e si rifugiano nell’angolo più caldo e tremano e ringhiano contro qualcosa che non si può vedere, e nella neve fresca, fuori, non si vedono tracce.
E si udirono delle dita che battevano contro la finestra.
Joshua balzò sulle quattro zampe e si irrigidì, parve diventare una statua, la statua di marmo di un cane, con una zampa sollevata, le labbra schiuse nel principio di un ringhio. Ichabod si acquattò ancor più sul pavimento… ascoltando, aspettando.
Il rumore si udì di nuovo.
«Apri la porta,» disse Jenkins a Ichabod. «C’è qualcuno là fuori, che vuole entrare.»
Ichabod si mosse nel silenzio ovattato e sinistro della stanza. La porta scricchiolò, quando la sua mano cominciò ad aprirla. E quando la porta fu aperta, uno scoiattolo entrò di corsa, una piccola cosa grigia e veloce che spiccò un balzo verso Jenkins e piombò sulle sue ginocchia.
«Sei tu, Ghianda!» esclamò Jenkins.
Joshua tornò ad acquattarsi al suolo e le sue labbra si chiusero, nascosero di nuovo i denti aguzzi. Ichabod aveva un sorriso sciocco, un sorriso di metallo sul viso di metallo.
«L’ho visto, l’ho visto,» strillò Ghianda. «L’ho visto uccidere il pettirosso. L’ha fatto con un bastone da lancio. E le piume volavano tutt’intorno. E c’era del sangue sulla foglia.»
«Calmati,» disse Jenkins, con dolcezza. «Calmati, non fare troppo in fretta, e dimmi cos’è successo. Tu hai visto qualcuno uccidere un pettirosso?»
Ghianda respirava affannosamente, e batteva forte i denti.
«È stato Peter,» disse.
«Peter?»
«Peter, il webster.»
«Hai detto che ha lanciato un bastone?»
«L’ha lanciato con un altro bastone. Aveva legato insieme le due estremità con una corda, e lui ha spinto sulla corda e il bastone si è piegato…»
«Lo so,» disse Jenkins. «Lo so.»
«Tu lo sai! Sai tutto di quella cosa?»
«Sì,» disse Jenkins; «Sì, so tutto di quella cosa. Erano un arco e una freccia.»
E c’era qualcosa, nel suo tono, mentre pronunciava quelle parole, che costrinse gli altri tre a tacere, e fece sembrare la stanza grande e vuota, e il rumore del ramo che batteva contro la finestra pareva venire da lontano, da molto lontano, come una voce cupa e lamentosa che continuava a piangere senza speranza di aiuto.
«Un arco e una freccia?» chiese alla fine Joshua. «Cosa sono un arco e una freccia?»
E che cos’erano? pensò Jenkins.
Cosa sono un arco e una freccia?
Sono il principio della fine. Sono i sentieri tortuosi che si uniscono e s’ingrossano fino a raggiungere la strada ruggente della guerra.
Sono un gioco e un’arma e un trionfo dell’ingegno umano.
Sono i primi deboli vagiti di una bomba atomica.
Sono il simbolo di un sistema di vita.
E sono la strofa di una filastrocca infantile.
Chi ha ucciso il pettirosso?
Io, disse il passero.
Con l’arco e con la freccia,
Io ho ucciso il Pettirosso.
E sono anche una cosa dimenticata. E una cosa imparata di nuovo.
Sono le mie paure di ogni notte che si avverano.
Si mosse, si alzò pesantemente in piedi.
«Ichabod,» disse. «Avrò bisogno del tuo aiuto.»
«Certo,» disse Ichabod. «Conta su di me, per tutto quello che vuoi.»
«Quel corpo,» disse Jenkins. «Voglio indossare il mio nuovo corpo. Dovrai aprire la mia scatola cranica…»
Ichabod annuì.
«So come devo fare, Jenkins.»
Nella voce di Joshua comparve un improvviso tremito di paura.
«Cosa succede, Jenkins? Che cosa vuoi fare?»
«Voglio andare dai Mutanti,» disse Jenkins, parlando con estrema lentezza. «Dopo tutti questi anni, andrò a chiedere il loro aiuto.»
L’ombra scivolò già dalla collina, silenziosa e sinuosa, evitando le radure della foresta dove i raggi della luna bagnavano la terra di chiarore d’argento. L’ombra scintillava al chiaro di luna… e non doveva farsi vedere. Non doveva rovinare la caccia delle altre che sarebbero seguite.
Perché ce ne sarebbero state altre. Non tutte insieme, non in una fiumana incontrollata, ma con un attento controllo, con un calcolo preciso. Poche per volta e disseminate in luoghi lontani, in modo che la vita di quel mondo d’incanto non si allarmasse.
Perché se si fosse allarmata, poi sarebbe venuta la fine.
L’ombra si rannicchiò torva nelle tenebre, appiattendosi al suolo, e sentì le emanazioni della notte con i suoi nervi tesi e vibranti. Separò dalla fiumana di sensazioni gli impulsi che già conosceva, catalogandoli con la sua mente acuta come la lama di un coltello, archiviandoli nella sua memoria, per servirsene eventualmente in futuro come punti di riferimento e di controllo.
E alcuni impulsi già li conosceva e alcuni erano misteri e altri potevano essere indovinati. Ma ce n’era uno che portava una sfumatura di orrore.
L’ombra si appiattì ancor più al suolo e tenne la testa orrenda appiattita anch’essa e chiuse la sua mente alle percezioni della notte pulsante e vibrante, concentrandosi sulla cosa che stava venendo su per la collina.
Erano in due, e i due erano diversi. Un ringhio sbocciò nella sua mente e le gorgogliò in gola e il suo corpo tenue e sottile si tese in qualcosa che era per metà anticipazione famelica, e per metà strisciante, angoscioso terrore alieno.
L’ombra si alzò dal suolo, tenendosi curva e appiattita, e fluì sinuosamente giù per la collina, muovendosi in modo da tagliare la strada alle due creature che stavano salendo.
Jenkins era di nuovo giovane, giovane e forte e veloce… veloce di corpo e di mente. Veloce nel camminare per le colline battute dal vento e inondate dai raggi d’argento della luna. Veloce nell’udire il mormorio delle foglie e il cinguettio sonnolento degli uccelli… e molte altre cose ancora.
Sì, molte altre cose ancora, ammise tra sé.
Quel corpo era un gioiello. Un maglio non avrebbe potuto scalfirlo, e la ruggine non l’avrebbe mai attaccato. Ma non era tutto.
Non avrei mai immaginato che un corpo potesse rendermi così diverso. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse in realtà vecchio e logoro e consunto e limitato il mio vecchio corpo. Non era gran cosa fin dall’inizio, anche se allora, nei giorni in cui l’hanno fatto, era il meglio che si potesse ottenere. La meccanica è meravigliosa, certo, con tutte le cose che si possono realizzare. Dei veri prodigi.
Erano stati i robot, naturalmente. I robot selvaggi. I Cani avevano chiesto a loro di fare il nuovo corpo. I Cani non s’immischiavano spesso negli affari dei robot. Andavano d’accordo, certo, vivevano da buoni vicini e tutto il resto… ma andavano d’accordo perché non s’immischiavano gli uni nelle faccende degli altri, perché non interferivano, perché seguivano la regola aurea del vivi e lascia vivere, perché né i robot né i Cani amavano ficcare il naso nelle faccende altrui.
Un coniglio si stava muovendo nella tana… e Jenkins lo sentiva. Un procione stava facendo una passeggiata di mezzanotte al chiaro di luna, e Jenkins sentiva anche lui… sentiva la curiosità astuta e penetrante che pervadeva il cervello del procione, dietro gli occhietti che stavano guardando lui, Jenkins, dietro le fronde di una macchia di nocciuoli. E un poco più lontano, alla sua sinistra, rannicchiato sotto un albero, un orso stava dormendo e mentre dormiva sognava… il sogno di un orso ghiotto, pieno di miele selvatico e di pesci pescati in un torrente cristallino con un gesto veloce della zampa, pieno di formiche leccate di sotto un pietrone rovesciato, per completare la festa.
Ed era sorprendente… eppure era naturale. Naturale come alzare un piede per camminare, naturale come l’udito. Ma non si trattava di udito e di vista. Non si trattava neppure d’immaginazione. Perché Jenkins sapeva con certezza fredda e lucida e sicura, sapeva del coniglio nella tana e del procione nella macchia di nocciuoli e dell’orso che sognava sogni proibiti, dormendo sotto un albero amico.
E questo, pensò, è il tipo di corpo che i robot selvaggi possiedono… perché, certamente, se ne hanno potuto fabbricare uno per me, ne potranno fabbricare quanti ne vogliono anche per loro.
Anche loro hanno fatto molta strada in settemila anni, anche loro hanno percorso un lungo cammino, come i Cani, dopo l’esodo degli uomini. Ma noi non abbiamo prestato alcuna attenzione ai robot, li abbiamo chiamati selvaggi perché erano liberi e indipendenti, non abbiamo dedicato attenzione al loro lavoro, perché così doveva essere. I robot sono andati per la loro strada e i Cani sono andati per la loro strada e nessuno dei due ha chiesto all’altro cosa stesse facendo, non è stato curioso di sapere quale fosse l’obiettivo alla fine della strada, non è stato curioso di sapere quale fosse il cammino che l’altro stava seguendo. Mentre i robot avevano costruito delle enormi astronavi che erano partite veloci verso le stelle, mentre avevano costruito nuovi corpi perfetti, mentre avevano lavorato con la matematica e con la meccanica, i Cani avevano lavorato con gli animali, avevano forgiato una fratellanza delle creature ch’erano state selvagge e ch’erano state cacciate e uccise quando il sole aveva illuminato i lunghi e brevi giorni dell’Uomo… avevano ascoltato le ombre e avevano cercato di frugare tra le pieghe profonde del tempo, per scoprire infine che il tempo non esisteva.
E certamente, se i robot e i cani avevano percorso tanta strada, i Mutanti erano andati ancora più lontano. E i Mutanti mi ascolteranno, si disse Jenkins, mi dovranno ascoltare, perché sto portando loro un problema che spetta a loro risolvere. Perché i Mutanti sono uomini… malgrado il loro comportamento, malgrado il loro modo di pensare, sono i figli degli uomini. Non possono più conservare rancore, ormai, perché il nome dell’Uomo è polvere che vola portata dal vento, è il fruscio delle foglie in un giorno di estate… e niente di più.
Inoltre, non li ho disturbati per settemila anni… non che li abbia mai disturbati. Joe era mio amico, o almeno si era avvicinato ad essermi amico più di quanto un Mutante si fosse mai avvicinato a essere l’amico di qualcuno. Parlava con me, mentre non avrebbe mai parlato con un uomo. Loro mi ascolteranno… mi diranno quel che devo fare. E non rideranno di me.
Perché non c’è niente da ridere, in questa faccenda. Si tratta soltanto di un arco e di una freccia, ma non c’è niente, niente, niente da ridere in questo. Forse avrebbero riso un tempo, ma la storia toglie ogni motivo di risa da molte, molte cose. Se la freccia è un motivo d’ilarità, devono anche esserlo le bombe atomiche, le nubi di polvere mortale e inquinata che scendono a inghiottire intere città, i missili urlanti che descrivono il loro arco mortale nel cielo e cadono a diecimila chilometri di distanza e uccidono un milione di persone.
Anche se adesso non c’è neppure un milione di persone. Solo poche centinaia di persone, che vivono nelle case costruite per loro un tempo dai Cani, perché allora i Cani ancora sapevano cos’erano gli esseri umani, ricordavano gli uomini come degli dei. Consideravano gli uomini come degli dei e narravano le antiche storie davanti al fuoco in una sera d’inverno e lavoravano alacremente e sognavano e si preparavano al giorno in cui l’Uomo sarebbe ritornato e avrebbe accarezzato la loro testa e avrebbe detto, «Ben fatto, servo buono e fedele.»
E questo non era giusto, pensò Jenkins camminando a lunghi passi tra le colline bagnate di luna, e i raggi della luna traevano scintille di luce viva dal suo nuovo corpo stupendo. Questo non era affatto giusto. Perché gli uomini non meritavano questa adorazione, perché gli uomini non meritavano di essere divinizzati. Lo sa il Signore quanto li ho amati, io. Li amo ancora, se è per questo… ma non perché essi sono uomini, ma grazie al ricordo di pochi uomini tra molti.
Non era giusto che i Cani costruissero per gli Uomini. perché stavano facendo meglio di quanto l’Uomo non avesse mai fatto. Non era giusto che i Cani si sacrificassero tanto, sognando solo, come ricompensa, una carezza del padrone, una grattatina dietro l’orecchio, una parola gentile degli dei ritornati. E così io ho spazzato via il ricordo degli uomini, ed è stato un lavoro lungo e lento e faticoso. Per anni e anni, anni lenti e senza fine, ho tolto ai cani le leggende, e ho confuso i loro ricordi nella nebbia, e ora essi chiamano gli uomini webster e pensano che siano webster e non sospettano altro.
Spesso mi sono chiesto se ho agito bene, se ho fatto la cosa giusta. Mi sono sentito un traditore e ho trascorso notti amare quando il mondo dormiva e c’era un gran buio intorno e io sedevo nella sedia a dondolo e ascoltavo il vento soffiare lamentoso nella cappa del focolare, sul tetto e tra le fronde degli alberi. Perché forse io non avevo il diritto di farlo. Forse era una cosa che io non avrei dovuto fare. Era una cosa che ai Webster non sarebbe piaciuta. Perché è così che li amavo, perché era tanta l’autorità che avevano su di me, che hanno ancora su di me… tanta che ancora adesso, dopo mille e mille e mille anni, posso fare una cosa e poi starmene angosciato, pieno di tormento, a chiedermi se questo ai Webster sarebbe piaciuto, se non mi avrebbero biasimato per ciò che avevo fatto.
Ma ora, ora so di avere agito bene. Ora so che avevo ragione, facendo quello che ho fatto. L’arco e la freccia ne sono la prova migliore. Un tempo io pensavo che l’Uomo fosse partito sulla strada sbagliata, credevo che in un momento dimenticato di un luogo dimenticato di un passato dimenticato, nell’era oscura e selvaggia che era stata la culla dell’umanità, l’Uomo fosse partito con il piede sbagliato, avesse preso la direzione errata. Ma ora capisco di essermi sbagliato, io, non l’Uomo un tempo. C’è una strada e una strada sola che l’Uomo può percorrere… la strada dell’arco e della freccia.
Perché ho tentato, lo sa il Signore come ho tentato!
Quando abbiamo trovato i dispersi, quando li abbiamo radunati e portati a casa, alla Casa dei Webster, io ho tolto loro le armi, non solo dalle loro mani ma anche dalle loro menti. Ho riscritto tutta la letteratura che poteva essere riscritta, e ho bruciato il resto. Sono stato un censore e l’ho fatto per il loro bene. Ho insegnato loro di nuovo a leggere e a cantare e a parlare e a pensare. Ho insegnato loro una nuova maniera di farlo, la maniera giusta di farlo. E nei libri non c’era più alcuna traccia di guerra e di armi, non c’era più alcuna traccia di odio e di storia, perché la storia è odio… ho tolto ogni traccia di battaglie e di imprese eroiche, ho soffocato anche l’ultimo squillo di trombe gloriose.
Ma è stato tempo sprecato. Perché un uomo inventerà sempre un arco e una freccia, malgrado tutto quello che si possa fare, malgrado tutte le cose che si possano tentare.
Era disceso giù per la lunga collina e aveva attraversato il torrente che scendeva ansioso verso il fiume, e ora stava salendo di nuovo, stava salendo nelle tenebre della scoscesa collina rocciosa.
Si udivano dei leggeri fruscii e il suo nuovo corpo gli diceva che erano dei topi, topi che scalpicciavano frusciando nelle gallerie che avevano scavato tra l’erba alta. E per un istante avvertì la piccola felicità che si sprigionava dai topi intenti a correre e a giocare, i piccoli pensieri liberi e semplici dei topi ebbri di gioia.
Una donnola si fermò, acquattandosi per un momento sul tronco di un albero caduto, e nella sua mente c’era il male, il male che si associava al pensiero dei topi, il male del ricordo di giorni antichi e passati, quando le donnole davano la caccia ai topi e li mangiavano e i topi fuggivano e le donnole riuscivano a prenderli, astute e silenziose e veloci. Sete di sangue e paura, paura di ciò che i Cani avrebbero potuto farle se avesse ucciso un topo, paura dei cento occhi che guardavano nella notte, che sorvegliavano il mondo intero per impedire le uccisioni che un tempo lo avevano insanguinato.
Ma un uomo aveva ucciso. Una donnola non aveva il coraggio di uccidere, non osava, e un uomo aveva ucciso. Senza intenzione, forse, senza malizia. Ma aveva ucciso. E i Canoni dicevano che non si doveva, mai, prendere la vita d’altri.
Negli anni che erano passati, altri avevano ucciso ed erano stati puniti. E anche l’uomo doveva essere punito. Ma la punizione non sarebbe stata sufficiente. La punizione, da sola, non avrebbe dato la risposta. La risposta doveva occuparsi non di un uomo solo, ma di tutti gli uomini, dell’intera razza. Perché quello che un uomo aveva fatto, avrebbero potuto farlo anche gli altri. E non solo avrebbero potuto farlo, ma l’avrebbero fatto, erano destinati a farlo… perché erano uomini, e gli uomini avevano ucciso prima e avrebbero ucciso ancora.
Il castello dei Mutanti si stagliava nero contro il cielo, così nero e torvo da scintillare, quasi, al chiaro di luna. Non ne usciva alcuna luce, e questo non era strano, perché dal castello dei Mutanti non era mai uscito un solo raggio di luce. Né, per quanto era dato sapere, la porta si era mai aperta sul mondo esterno. I Mutanti avevano costruito i castelli, su tutta la Terra, e vi erano entrati, e questa era stata la fine. I Mutanti si erano intromessi nelle cose degli uomini, avevano combattuto una specie di guerra beffarda contro gli uomini, e quando gli uomini se ne erano andati, anche i Mutanti se ne erano andati.
Jenkins arrivò ai piedi dell’ampia scala di pietra che conduceva alla porta del castello, e si fermò. Con la testa rovesciata indietro, guardò l’edificio che torreggiava titanico sopra di lui.
Immagino che Joe sia morto, si disse. Joe aveva una vita lunga, come tutti i Mutanti, ma non era immortale. Non avrebbe vissuto per sempre. E mi sembrerà strano incontrare un altro Mutante e sapere che non si tratta di Joe.
Cominciò a salire la grande scalinata, muovendosi con estrema lentezza, teso in ogni fibra del suo corpo prodigioso, attendendosi da un momento all’altro di captare il primo segno di beffarda ironia che sarebbe inevitabilmente disceso sopra di lui dalla costruzione immensa.
Ma non accadde nulla.
Jenkins salì gli ampi scalini e si fermò davanti alla porta e cercò qualche mezzo da usare per fare sapere ai Mutanti che lui era arrivato.
Ma non c’era niente. Non c’era un campanello e non c’era un cicalino e non c’era neppure un battente. La porta era grande e massiccia, semplice e piana, con un saliscendi dei più comuni. E questo era tutto.
Esitante, Jenkins alzò la mano e batté la porta, e batté di nuovo, e poi aspettò. Non ci fu risposta. La porta rimase muta e immobile.
Bussò di nuovo alla porta, questa volta con forza maggiore. E non ebbe risposta.
Lentamente, cautamente, sollevò la mano e la posò sul saliscendi, premette col pollice. Il saliscendi si abbassò e la porta si aprì e Jenkins varcò la soglia, entrando nel castello.
«Tu hai il cervello bacato,» disse Lupo. «Io li costringerei a venire a prendermi. Se ci riescono. Li farei correre come non hanno mai corso in vita loro. Se mi vogliono, che ce la mettano tutta. Ecco cosa farei.»
Peter scosse il capo.
«Forse tu faresti così, Lupo, e forse per te sarebbe giusto. Ma per me no. I webster non fuggono mai.»
«Come fai a saperlo?» domandò il lupo, niente affatto scosso dalla dichiarazione. «Stai facendo delle chiacchiere senza senso. Nessun webster è stato costretto a fuggire, prima d’oggi, e se fino a oggi nessun webster è stato costretto a fuggire, come fai a sapere che non…»
«Oh, sta’ zitto,» disse Peter.
Salirono in silenzio per il sentiero sassoso che portava alla cima della collina.
«C’è qualcosa che ci segue,» disse Lupo.
«Ti lasci trasportare dall’immaginazione,» disse Peter. «Che cosa potrebbe seguirci?»
«Non so, ma…»
«Senti qualche odore?»
«Be’, no.»
«Senti qualcosa, o vedi qualcosa?»
«No, non vedo e non sento niente, ma…»
«Allora non c’è niente che ci segue,» dichiarò con sicurezza Peter. «Non è più il tempo in cui si doveva temere che qualcosa ti seguisse!»
Il chiaro di luna filtrava tra le cime degli alberi, bagnava le fronde, trasformando la foresta in un regno incantato e sfumato, dipinto di nero e d’argento. Dal fiume che scorreva in fondo alla valle giungeva lo starnazzare lontano e soffocato di anatre rissose, prese da chissà quale disputa di mezzanotte. Una brezza dolce e leggera sfiorava il fianco della collina, e portava con sé un po’ della nebbia del fiume.
La corda dell’arco di Peter si impigliò in un cespuglio e Peter si fermò per liberarla. Alcune delle frecce che portava con sé gli caddero di mano, e lui dovette chinarsi a raccoglierle.
«Faresti meglio a trovare qualche altro sistema per portare quegli aggeggi,» grugnì Lupo. «La corda si impiglia dappertutto e quegli stecchi ti cadono e…»
«Ci ho pensato,» gli disse Peter, con calma. «Forse la soluzione sarebbe una specie di sacca da appendermi in spalla.»
Continuarono a salire la collina.
«Che cosa intendi fare quando avrai raggiunto la Casa dei Webster?» domandò Lupo.
«Vedrò Jenkins,» disse Peter. «Gli dirò quello che ho fatto.»
«Ghianda gliel’avrà già detto.»
«Ma forse gliel’avrà detto male. Si sarà spiegato nel modo sbagliato. Ghianda era molto emozionato.»
«Non era solo emozionato,» disse Lupo. «È anche stupido.»
Attraversarono una chiazza argentea di chiaro di luna, e ripresero a salire per il sentiero immerso nell’ombra.
«Non mi sento tranquillo,» disse Lupo. «Comincio a innervosirmi. Voglio tornare indietro. È una pazzia quella che stai facendo. Io ti ho accompagnato fin qui, ma…»
«Torna indietro, allora,» disse Peter, in tono sferzante. «Io non sono nervoso. Io…»
Si girò di scatto, e gli si rizzarono i capelli.
Perché c’era qualcosa d’anormale… qualcosa nell’aria che respirava, qualcosa nella sua mente… una sensazione allucinante e orribile di pericolo e, ancor più che di pericolo, un atroce ribrezzo, un disgusto sconvolgente, che affondava gli artigli nelle sue spalle, che strisciava lungo la sua schiena con milioni di piccoli piedi pungenti.
«Lupo!» gridò. «Lupo!»
Un cespuglio si agitava violentemente lungo il sentiero e Peter si mise a correre, ripercorrendo la strada dalla quale era passato pochi istanti prima. Si gettò dietro un folto cespuglio, si fermò e alzò il suo arco, e con un solo gesto prese una freccia e la incoccò e tese la corda.
Lupo era disteso al suolo, e il suo corpo era per metà nell’ombra e per metà immerso nel chiaro di luna. Le sue labbra erano tese in una smorfia orrenda, le zanne erano scoperte. Un zampa si muoveva ancora debolmente, mostrando gli artigli.
Sopra di lui era acquattata una forma. Una forma… niente altro che una forma. Una forma che sbavava e ringhiava, un torrente di suoni rabbiosi che si ripercuotevano laceranti nel cervello di Peter. Il ramo di un albero si mosse, per una folata di vento, e i raggi della luna fecero capolino, e Peter vide il contorno del viso… un contorno vago e sfumato, simile al segno tracciato dal gesso su una lavagna e poi cancellato per metà. Un viso scheletrico, quasi un teschio, con una bocca bavosa e gli occhi obliqui e orecchie dalle quali spuntavano orridi ciuffi di tentacoli brulicanti come vermi viscidi.
La corda dell’arco vibrò e la freccia colpì il viso orrendo… colpì il viso e vi affondò e lo attraversò e cadde al suolo. E il viso rimase com’era, ringhiante e bavoso, illeso.
Peter incoccò un’altra freccia e tirò, tirò finché la corda non fu tesa fino all’orecchio. Una freccia spinta dalla forza vibrante dell’asta di noce ben stagionata… spinta dall’odio e dalla paura e dal ribrezzo dell’uomo che aveva teso la corda.
La freccia colpì la faccia orrenda, i lineamenti confusi e informi, rallentò il suo volo e tremò, e poi cadde.
Un’altra freccia e poi di nuovo la corda venne tesa. Con maggiore forza ancora, questa volta. Con maggiore forza, per avere maggiore forza, per uccidere la cosa che non voleva morire quando una freccia la colpiva. Una cosa che rallentava soltanto il volo di una freccia e la faceva tremare prima che la freccia l’attraversasse e si perdesse al suolo.
Tirò e tirò e tirò con tutte le sue forze. E poi la cosa accadde.
La corda dell’arco si ruppe.
Per un istante, Peter rimase là fermo, con l’inutile arco in una mano, l’inutile freccia nell’altra mano. Rimase diritto e guardò attraverso il breve spazio che lo separava dall’orrore d’ombra che stava acquattato sinistro sul corpo grigio del lupo.
E in quel momento Peter non conobbe la paura. Non conobbe la paura, benché l’arma non servisse più. Provò solo una vampata di collera feroce, una collera che scosse tutto il suo essere, mentre una voce gli martellava la mente ripetendo all’infinito una sola parola:
UCCIDI… UCCIDI… UCCIDI…
Gettò via l’arco e fece un passo avanti, con le braccia sui fianchi e le mani racchiuse, e le dita piegate come se fossero state artigli.
L’ombra indietreggiò… indietreggiò presa da un’improvvisa ondata di paura che le inondò la mente… un’ondata di paura e di orrore per l’odio fiammeggiante che la percuoteva, l’odio che veniva dalla creatura che le avanzava contro. Un odio che possedeva e tormentava, un odio terribile e mortale. La creatura aveva già conosciuto la paura e l’orrore… la paura e l’orrore e anche un’inquietante rassegnazione… ma questa era una cosa nuova. Questa era una sferzata di tormento che le martoriava il cervello, che la colpiva con furia insopportabile.
Era l’odio.
L’ombra cominciò a gemere e a singhiozzare, dentro di sé… cominciò a gemere e a singhiozzare e a soffiare rabbiosa, e indietreggiò, indietreggiò lentamente mentre cercava freneticamente nella mente annebbiata i simboli della fuga.
La sala era vuota… era vuota e antica e cava. Una sala che afferrava con dita adunche di silenzio il suono della porta cigolante, e lo scagliava lontano, verso distanze soffocate, per poi farlo ritornare vibrante di mille eco strane e aliene. Una sala gravida della polvere dell’oblio, colma del cupo silenzio pensoso di secoli senza scopo.
Jenkins si fermò, tenendo ancora la mano sul saliscendi, si fermò immobile e usò tutti i sensi penetranti della macchina perfetta ch’era il suo corpo per frugare negli angoli riposti e nelle alcove d’ombra silenziosa. E non trovò niente, all’infuori del silenzio e della polvere e delle tenebre fitte. Non trovò niente, niente che potesse indicare almeno che, nei giorni e negli anni e nei secoli ch’erano trascorsi, quella sala avesse contenuto qualcosa all’infuori del silenzio e della polvere e delle tenebre fitte. Non si intuiva neppure il più debole tremore del residuo d’un pensiero remoto, non si vedevano orme sbiadite sul pavimento, né l’impronta d’un dito sulla polvere del tavolo.
Una vecchia canzone, una canzone incredibilmente antica… una canzone ch’era stata antica già quando lui era uscito dalla fucina che l’aveva forgiato, uscì strisciando da qualche oscuro angolo segreto della sua mente. E Jenkins si sorprese di trovare ancora là quel ricordo, si sorprese perfino di averlo conosciuto un tempo… e ricordando, fu atterrito e sconfortato a un tempo. Sconfortato e atterrito per il vortice profondo di secoli che il ricordo aveva evocato, sconsolato al pensiero delle case bianche e accoglienti che si erano erette sulle cime di un milione di colline, sconsolato al pensiero degli uomini che avevano amato la loro terra e gli alberi e i torrenti, e avevano camminato sulle zolle umide con il passo calmo e sicuro dei padroni.
Annie non vive più qui.
Stupido, disse Jenkins a se stesso. Stupido, stupido, stupido. È stupido che una delle assurdità di una razza ormai quasi svanita debba tornare ad angosciarmi proprio in questo momento. Stupido, stupido.
Annie non vive più qui.
Chi ha ucciso il Pettirosso? Io, disse il passero…
Ricordi e ricordi e cose perdute e frammenti sciocchi di un’epoca lontana. Stupido.
Chiuse la porta dietro di sé e camminò lentamente attraverso la sala.
Mobili coperti di polvere stavano ancora aspettando l’uomo che non era ritornato. Oggetti e strumenti coperti di polvere erano poggiati sul piano dei tavoli. La polvere copriva i titoli delle file di libri che riempivano i grandi scaffali.
Se ne sono andati, disse Jenkins, parlando tra sé. E nessuno sapeva l’ora o il motivo della loro partenza. E neppure il luogo per il quale erano partiti. Erano scivolati via nella notte e non avevano detto a nessuno che se ne stavano andando. E qualche volta, senza dubbio, ripensano a quel che hanno fatto e ridono compiaciuti… ridono pensando che noi li crediamo ancora qui, ridono pensando che noi sorvegliamo i castelli temendo che loro escano.
C’erano delle altre porte e Jenkins si diresse verso una di queste. Quando posò la raano sul saliscendi pensò che era inutile aprirla, pensò che era inutile continuare a cercare. Se quella sala era antica e vuota, anche le altre sale sarebbero state uguali. Non aveva senso cercare ancora.
Premette con il pollice e la porta si aprì e una vampata di calore lo investì, ma oltre la soglia non c’era nessuna stanza. C’era il deserto… un deserto giallo e dorato che si stendeva fino a un orizzonte nebuloso e ardente, nel calore torrido di un enorme sole azzurro.
Una creatura verde e purpurea che avrebbe potuto essere una lucertola, ma non lo era, saettò rapidissima sulla sabbia riarsa, producendo un rumore soprannaturale e assurdo con i suoi piedini minuscoli, un sibilo frusciante che faceva rabbrividire.
Jenkins chiuse con forza la porta, stordito, sentendosi confuso e stanco e sconvolto.
Un deserto. Un deserto e una creatura che schizzava via guizzando veloce. Non un’altra sala, non un corridoio solenne, nemmeno una veranda o un giardino o un cortile… ma solo un deserto.
E il sole era azzurro… azzurro e rovente.
Lentamente, cautamente, aprì di nuovo la porta, prima una sottile fessura, che poi allargò un poco.
Il deserto era ancora là.
Jenkins sbatté la porta e si appoggiò a essa con la schiena, come se fosse stata necessaria la forza del suo corpo di metallo per tener fuori il deserto, per tener fuori ciò che la porta e il deserto facevano intuire.
Erano intelligenti e astuti, si disse. Intelligenti e astuti e rapidi di mente. Troppo intelligenti e troppo astuti e troppo veloci per i comuni uomini. Non abbiamo mai saputo, in realtà, fino a qual punto arrivasse la loro intelligenza. Ma adesso so ch’erano più intelligenti di quel che potessimo immaginare.
Questa sala è solo l’anticamera di molti altri mondi, una chiave protesa attraverso spazi incommensurabili per giungere ad altri pianeti che ruotano intorno a soli sconosciuti. Un modo di lasciare questa Terra senza mai lasciarla davvero… un modo di attraversare l’abisso del vuoto siderale semplicemente varcando la soglia di una porta.
C’erano delle altre porte e Jenkins le guardò e scosse il capo.
Lentamente ritornò sui suoi passi, attraversò la sala e raggiunse la porta d’ingresso. Silenziosamente, timoroso di rompere la quiete antica della sala polverosa, abbassò il saliscendi e uscì, e davanti a lui ritrovò il mondo familiare, il mondo che conosceva. Il mondo della luna e delle stelle, della nebbia che salendo lenta dal fiume ondeggiava umida tra le colline, delle cime degli alberi che si scambiavano parole di vento sulle pendici delle colline erbose.
I topi correvano ancora nelle gallerie delle loro tane tra l’erba, pensando pensieri felici di topi che a malapena si potevano considerare pensieri. Un gufo stava appollaiato torvo su un ramo e i suoi pensieri erano pensieri di morte.
Così vicino, pensò Jenkins. Ancora così vicino alla superficie di ogni mente di animale, l’antico e famelico istinto del sangue, l’antico odio, l’antico piacere della caccia. Ma oggi noi stiamo dando loro una partenza migliore di quella che l’Uomo ebbe nel suo tempo… anche se, probabilmente, il genere di partenza non avrebbe mai cambiato il corso preso dal genere umano.
E ora è qui di nuovo, l’antica sete di sangue dell’Uomo, il desiderio ardente di essere diverso e di essere più forte, di imporre la propria volontà con strumenti da lui inventati… strumenti che rendono il suo braccio più forte di qualsiasi altro braccio o zampa o artiglio, che fanno i suoi denti più aguzzi e taglienti di qualsiasi zanna naturale, per arrivare a colpire e a far male e a ferire e a uccidere anche a distanze di molto superiori alla portata del suo braccio.
Credevo di poter ottenere aiuto. Per questo sono venuto qui. E l’aiuto non c’è.
Nessun aiuto, né ora, né mai. Perché i Mutanti erano i soli che avrebbero potuto aiutarmi, e se ne sono andati.
Tocca di nuovo a te, si disse Jenkins, scendendo lentamente la grande scalinata del castello. L’umanità è un problema tuo, è nelle tue mani ed è un peso sulle tue spalle. Devi riuscire a fermarli in qualche modo. Devi riuscire a cambiarli in qualche modo. Non puoi permettere che trasformino di nuovo il mondo in un mondo dell’arco e della freccia.
Camminò nell’oscurità fatta di foglie vibranti e conobbe il profumo delle foglie marcite dell’autunno lontano, sotto il nuovo mantello delle cose verdi che crescevano tenere, e questa era una cosa, pensò, che non aveva mai conosciuto prima.
Il suo vecchio corpo non aveva avuto il senso dell’olfatto.
L’olfatto e una vista migliore e un senso nuovo, il senso di sapere ciò che una creatura stava pensando, di leggere i pensieri dei procioni, di intuire i pensieri dei topi, di riconoscere la morte e l’istinto omicida nella mente dei gufi e delle donnole.
E c’era qualcos’altro… c’era un odio sfumato e remoto che gli giungeva portato dal vento, un urlo di terrore alieno, un vago profumo di morte.
La sensazione portata dal vento vibrò per un istante nella sua mente, e Jenkins si fermò bruscamente, e poi si mise a correre, a salire a grandi passi le pendici della collina, non come un uomo avrebbe potuto correre nelle tenebre, ma come un robot poteva correre, vedendo nel buio e con la forza del metallo che non conosce l’ansito affannoso e i polmoni brucianti per la fatica.
Odio… e poteva esistere un solo odio simile a quello che aveva captato.
La sensazione si fece sempre più forte e più distinta, mentre Jenkins saliva per il sentiero a grandi passi, e la sua mente già tremava per la paura… la paura di quel che avrebbe trovato.
Superò un gruppo di folti cespugli e si fermò di colpo.
L’uomo avanzava, tenendo le braccia lungo i fianchi e le mani racchiuse ad artiglio, e sull’erba giaceva dimenticato l’arco dalla corda spezzata. Il corpo grigio del lupo giaceva per metà sotto i raggi della luna, per metà nell’ombra, e da esso indietreggiava una cosa inesprimibile, che per metà era ombra e per metà era luce, che si vedeva quasi, s’intuiva sempre, ma non si distingueva con certezza, simile a una creatura immaginata vista come un fantasma in un sogno.
«Peter!» gridò Jenkins, ma le parole non gli uscirono dalle labbra d’acciaio.
Perché Jenkins avvertiva la disperata frenesia nella mente della creatura d’ombra, la frenesia del terrore più abietto provocato dall’odio dell’uomo che avanzava verso la chiazza indistinta e viva, che sbavava e soffiava e ringhiava nel buio. Il terrore più abietto e la necessità più disperata… la necessità di trovare qualcosa, di ricordare qualcosa.
L’uomo era ormai vicinissimo all’ombra, avanzava camminando sicuro ed eretto… un uomo dal corpo fragile e dai pugni ridicoli… e dal coraggio smisurato. Coraggio, pensò Jenkins, tanto coraggio da sfidare perfino l’inferno, da scendere nel pozzo delle anime e attraversare il regno delle tenebre per gridare una parolaccia di scherno allo stesso custode dei dannati.
E poi la creatura d’ombra trovò quel che cercava… seppe qual era la cosa da fare. Jenkins avvertì l’ondata di sollievo che pervase il corpo della creatura, udì la cosa, in parte parole, in parte simboli, in parte pensiero, ch’essa eseguì. Come una formula magica, come un rito propiziatorio, come un incantesimo, ma solo in parte. Un esercizio mentale, un pensiero che prendeva possesso del corpo, di ogni fibra del corpo… questa definizione era più vicina alla verità.
Perché non si trattava di un vuoto incantesimo, ma di qualcosa di più. Era qualcosa che funzionava.
E funzionò.
La creatura svanì. Svanì e se ne fu andata… fuori del mondo.
Non c’era più alcun segno della sua esistenza, non c’era una sola vibrazione del suo essere. Come se essa non fosse mai esistita.
E la cosa che aveva detto, la cosa che aveva pensato? Era così, ricordava. Era così…
Jenkins si trattenne in tempo. La cosa era impressa nel suo cervello e lui sapeva, conosceva le parole e il pensiero e l’intonazione esatta… ma non doveva usarla, doveva dimenticarla, doveva tenerla nascosta, celata.
Perché la cosa aveva funzionato sull’ombra. E avrebbe funzionato anche su di lui. Lo sapeva, che avrebbe funzionato.
L’uomo si era voltato e ora pareva confuso, inerte, le braccia gli penzolavano lungo i fianchi, e i suoi occhi guardavano Jenkins, incerti.
Le sue labbra si mossero, nella bianca macchia confusa del viso.
«Tu… tu…»
«Io sono Jenkins,» gli disse Jenkins. «Questo è il mio nuovo corpo.»
«C’era qualcosa, qui» disse Peter.
«Era un’ombra,» disse Jenkins. «Joshua mi ha detto che un’ombra era riuscita a passare, era venuta qui.»
«Ha ucciso Lupo,» disse Peter.
Jenkins annuì.
«Sì, ha ucciso Lupo. E ha ucciso molti altri. Era la creatura responsabile di tutte quelle uccisioni.»
«E io l’ho uccisa,» disse Peter. «Io l’ho uccisa… o l’ho scacciata… oppure…»
«L’hai spaventata, l’hai costretta a fuggire,» disse Jenkins. «Tu eri più forte di lei. Aveva paura di te. L’hai spaventata a tal punto, che essa è ritornata al mondo dal quale è venuta.»
«Avrei potuto ucciderla,» si vantò Peter. «Ma la corda si è spezzata…»
«La prossima volta,» disse Jenkins, a bassa voce. «Dovrai usare una corda più forte. Ti mostrerò come si deve fare. E una punta d’acciaio per la tua freccia…»
«Per la mia… come hai detto?»
«Freccia. Il bastone da lancio si chiama freccia. Il bastone e la corda che ti servono per lanciare la freccia si chiamano con un nome solo, arco. Arco e frecce. Non dimenticarlo.»
Peter abbassò il capo e curvò le spalle.
«Allora non si tratta di una cosa nuova. È già stata fatta in passato. Non sono stato il primo?»
Jenkins scosse il capo.
«No, tu non sei stato il primo.»
Jenkins camminò sull’erba e si avvicinò a Peter e gli posò la mano sulla spalla.
«Torniamo a casa insieme, Peter.»
Peter scosse il capo.
«No. Starò qui insieme a Lupo, finché non spunterà l’alba. E poi chiamerò i suoi amici e lo seppelliremo.»
Sollevò il capo e guardò Jenkins in viso.
«Lupo era mio amico. Un mio grande amico, Jenkins.»
«Lo so. Capisco,» disse Jenkins. «Ma quando ci vedremo?»
«Oh, presto,» disse Peter. «Verrò alla Colazione all’Aperto. La grande Colazione all’Aperto dei Webster. Ci sarà tra una settimana, se non sbaglio.»
«È proprio così,» disse Jenkins, parlando molto lentamente, e riflettendo. «È proprio così. E noi ci vedremo là.»
Si voltò e ricominciò lentamente a salire per la collina.
Peter sedette sull’erba, accanto al cadavere del lupo, aspettando l’aurora. Un paio di volte si portò la mano alla guancia, per asciugarla.
Erano seduti in semicerchio davanti a Jenkins e ascoltavano attenti ed eccitati le sue parole.
«Adesso dovete fare molta attenzione,» disse Jenkins. «È molto importante. Dovete fare attenzione e concentrarvi bene e dovete stringere molto forte le cose che avete con voi… i cestini della colazione e gli archi e le frecce e le altre cose.»
Una delle ragazze fece una risatina felice.
«È un nuovo gioco, Jenkins?»
«Sì,» disse Jenkins. «Una specie. Ma penso che sia proprio come hai detto tu… un nuovo gioco. E molto emozionante. Molto, molto emozionante.»
Qualcuno disse:
«Jenkins riesce sempre a trovare un nuovo gioco per la Colazione dei Webster!»
«E adesso,» disse Jenkins, «Dovete fare attenzione. Dovete guardarmi e cercare di indovinare la cosa che sto pensando…»
«È un indovinello,» squittì la ragazza che aveva riso prima. «Io adoro gli indovinelli.»
Jenkins piegò le sue labbra meccaniche in un sorriso.
«Hai ragione,» le disse. «È proprio quello che hai detto… un indovinello. E adesso, se volete fare tutti attenzione e starmi a guardare…»
«Io voglio provare l’arco e le frecce,» disse uno degli uomini. «Quando avremo finito il gioco potremo provarli, vero, Jenkins?»
«Sì,» disse Jenkins, pazientemente. «Quando il gioco sarà finito potrete provarli.»
Chiuse gli occhi e protese la propria mente per raggiungerli tutti, per distinguere ciascuno come individuo singolo, con quel suo nuovo senso così prodigioso. Avvertì l’ansiosa aspettativa delle menti che si tendevano, a loro volta, verso la sua, avvertì le piccole dita protese di pensiero che sfioravano un po’ impacciate il suo cervello.
«Concentratevi,» disse Jenkins. «Di più, di più. Sforzatevi!»
Un brivido attraversò la sua mente, e Jenkins lo represse con una vaga irritazione. Non era ipnotismo… e neppure telepatia, ma era il meglio che lui poteva fare. Li attirava a sé, li riuniva, fondeva le loro menti con la sua… ed era tutto un gioco.
Lentamente, prudentemente, portò alla superficie della sua mente il simbolo nascosto… le parole, il pensiero e la giusta inflessione. Facilmente, anche se non l’aveva preparato prima, portò tutto questo alla superficie della sua mente, prima le parole, poi il pensiero e poi l’inflessione, metodicamente, come uno parlerebbe a un bambino, cercando di insegnare il tono esatto, il modo di muovere le labbra, il modo di muovere la lingua.
Lasciò che il simbolo si fermasse per un momento alla superficie del suo cervello, e aspettò che le altre menti toccassero la sua, aspettò che le invisibili dita di pensiero si posassero sulla cosa nascosta che era venuta alla luce. E poi pensò il simbolo ad alta voce, come aveva fatto l’ombra.
E non accadde niente. Niente di niente. Non si udì uno scatto rivelatore nel suo cervello. Non provò alcuna sensazione di caduta. Non ebbe neppure un vago senso di vertigine. Non provò la minima sensazione.
Così lui aveva fallito. Così il suo piano era finito. Così il gioco era terminato.
Aprì gli occhi e le pendici verdi delle colline erano uguali, il prato era uguale, il cielo era uguale. Il sole splendeva ancora e l’azzurro del cielo era immacolato.
Sedette sull’erba, rigidamente, in silenzio, e sentì che gli altri lo stavano guardando.
Tutto era come era stato prima.
Tranne che…
Cera una margherita là dove prima una macchia di grandi fiori scarlatti aveva mandato il suo profumo dolce nell’aria. Accanto a lui il vento gentile cullava un fiorrancio che non c’era stato quando Jenkins aveva chiuso gli occhi.
«È tutto qui?» domandò la ragazza che aveva riso felice, all’inizio del gioco, chiaramente delusa.
«È tutto qui,» disse Jenkins.
«Ora possiamo provare l’arco e le frecce?» domandò uno dei ragazzi.
«Sì,» disse Jenkins. «Ma dovete stare attenti. Non tiratevi le frecce contro. Le frecce sono pericolose. Peter vi mostrerà come dovete fare.»
«Possiamo aprire i cestini della colazione,» disse una delle donne «Tu hai portato un cestino, Jenkins?»
«Sì,» disse Jenkins. «Ce l’ha Esther. L’ha tenuto lei, quando abbiamo fatto il gioco.»
«Che meraviglia,» disse la donna. «Tutti gli anni tu ci fai una sorpresa, con le cose che porti.»
E quest’anno sarà una vera sorpresa, si disse Jenkins. Sarà una vera sorpresa trovare i pacchetti di sementi, tutti accuratamente catalogati ed etichettati.
Perché noi avremo bisogno di semi, pensò. Semi, per piantare nuovi giardini e seminare nuovi campi… per coltivare il nostro cibo. E avremo bisogno degli archi e delle frecce per ottenere della carne. E avremo bisogno di arpioni e di ami e di lenze per pescare.
Adesso cominciava a distinguere tante altre piccole differenze. Il modo in cui un albero si chinava ai margini del prato. E una nuova ansa del fiume, in basso, lontano.
Jenkins restò seduto in silenzio al sole, ascoltando le grida dei ragazzi e degli uomini che provavano gli archi e le frecce, ascoltando l’allegro chiacchiericcio delle donne che stendevano le tovaglie e aprivano i cestini della colazione.
Dovrò dirglielo presto, si disse. Dovrò avvertirli di non sprecare il cibo… di non mangiarlo tutto in una sola volta. Perché avremo bisogno di quel cibo per resistere un giorno o due, per superare il primo momento, finché non avremo trovato radici da scavare e pesci da pescare e frutta da raccogliere.
Sì, tra poco dovrò chiamarli tutti intorno a me, e dar loro la notizia. Dire loro che sono soli, che devono cavarsela da soli. Spiegare loro il perché di tutto questo. Avvertirli che possono fare quello che vogliono, prendere quello che vogliono, inventare quello che vogliono. Perché questo è un nuovo mondo, un mondo vergine, un mondo che è come un frutto da cogliere.
E dovrò metterli in guardia dalle ombre.
Benché questa sia la cosa meno importante. L’Uomo ha un modo tutto particolare… un modo cattivo e deciso… di affrontare le cose che gli sbarrano la strada. Non ha importanza di che cosa si tratti, l’Uomo saprà sempre affrontarla nella maniera più efficace, nella sua maniera.
Jenkins sospirò.
Che il Signore aiuti le ombre, si disse.