Archie, il piccolo procione rinnegato, stava acquattato sul fianco della collina, cercando di afferrare una delle piccole creature frettolose che correvano tra l’erba. Rufus, il robot di Archie, cercava di parlare al procione, ma Archie era troppo occupato e non gli dava risposta.
Homer stava facendo una cosa che nessun Cane aveva mai fatto prima. Aveva attraversato il fiume e trotterellando si stava avvicinando al campo degli automi selvaggi, e così facendo tremava di paura, perché non si poteva dire cosa gli avrebbero fatto gli automi selvaggi quando si fossero voltati e l’avessero visto. Ma la sua preoccupazione era più forte della paura, e così continuava ad andare avanti.
Nelle profondità di un nido segreto, le formiche sognavano e facevano piani oscuri su di un mondo che non potevano comprendere. E si addentravano in quel mondo, vibranti di grandi speranze, mirando a una cosa che nessuno, né Uomo, né robot, né Cane, avrebbe mai potuto capire.
A Ginevra, Jon Webster compiva il decimillesimo anno di animazione sospesa e continuava a dormire, immobile e sereno. Fuori, nella strada giù dalla collina, una brezza vagabonda faceva frusciare le foglie del viale, ma nessuno udiva e nessuno vedeva.
Jenkins camminava a grandi passi sulla collina, e non guardava né a destra né a sinistra, perché c’erano cose che non voleva vedere. C’era un albero che si ergeva là dove un altro albero aveva stormito nel vento di un altro mondo. C’era una distesa di terreno ch’era stata impressa nella sua mente, calpestata da un miliardo di passi, per diecimila anni.
E, se si ascoltava attentamente, era possibile udire l’eco di una risata che vibrava già per la china dei millenni… la risata sardonica di un uomo di nome Joe.
Archie riuscì ad acchiappare una delle creature frettolose e la tenne stretta nella zampa ben chiusa. Cautamente, alzò la zampa e la schiuse, e la creatura era là, che correva follemente nel minuscolo spazio, e cercava di fuggire.
«Archie,» disse Rufus. «Tu non mi stai ascoltando.»
La creatura si tuffò nel pelo di Archie, cominciò a risalire veloce la zampa del procione.
«Forse era una pulce,» disse Archie. Si rialzò e si grattò lo stomaco.
«Un nuovo genere di pulce,» disse. «Anche se spero proprio di no. Le pulci comuni sono già abbastanza insopportabili.»
«Tu non mi stai ascoltando,» ripeté Rufus.
«Sono occupato,» disse Archie. «L’erba è piena di queste creature. Voglio scoprire cosa sono.»
«Io ti lascio, Archie.»
«Cos’hai detto?»
«Ti lascio,» ripeté Rufus. «Vado alla Costruzione.»
«Tu sei pazzo,» fece Archie, furibondo. «Non mi puoi fare una cosa simile. Sei diventato impossibile, da quando sei caduto in quel formicaio…»
«Ho ricevuto la Chiamata,» disse Rufus. «Devo andare.»
«Sono stato buono con te,» lo supplicò il procione. «Non ti ho mai fatto sgobbare. Tu sei stato un amico per me, più che un robot. Ti ho sempre trattato come un animale.»
Rufus scosse il capo deciso.
«Non puoi convincermi a restare,» disse. «Non potrei restare, qualsiasi cosa tu faccia. Ho ricevuto la Chiamata e devo andare.»
«Il fatto è che io non posso avere un altro robot,» obiettò Archie. «Hanno estratto il mio numero e io sono fuggito. Sono un disertore, e tu lo sai. Lo sai che non posso avere un altro robot, coi guardiani che mi cercano dappertutto…»
Rufus rimase fermo dov’era, e neppure rispose.
«Ho bisogno di te,» gli disse Archie. «Devi restare per aiutarmi a trovare da mangiare. Lo sai che non posso avvicinarmi a nessuna delle stazioni di nutrizione, altrimenti i guardiani mi prenderebbero e mi trascinerebbero alla Collina dei Webster. Devi aiutarmi a scavare una tana. L’inverno si avvicina e io avrò bisogno di una tana. Non avrà luce e calore, ma almeno la tana devo averla! E devi anche…»
Rufus si era voltato e ora stava camminando giù per la collina, verso il sentiero del fiume. Verso il sentiero del fiume… e verso la grande macchia tenebrosa che torreggiava sull’orizzonte lontano.
Archie si rannicchiò, cercando di proteggersi dal vento che soffiava pungente e gli scompigliava il pelo, e si avvolse la coda intorno alle zampe. Quel vento portava un brivido di gelo, un brivido che non c’era stato un’ora prima. E non era un brivido di montagne lontane o d’inverno vicino, non era un brivido di notte fredda e di distese lontane, ma era un altro brivido, il brivido di altre cose più oscure e più fredde e più cupe.
I suoi occhi tondi e vivaci guardarono le pendici della collina, e non videro più alcun segno di Rufus.
Senza cibo, senza tana e senza robot. Braccato dai guardiani. Morso dalle pulci, perfino da quelle di nuovo tipo.
E la Costruzione, una macchia torva e immensa sullo sfondo delle colline più lontane, oltre la valle e oltre il fiume.
Cento anni prima, così dicevano i documenti di allora, la Costruzione non era stata più grande della Casa dei Webster.
Ma da allora era cresciuta… e il nome che le era stato dato era il più adatto, perché la Costruzione non era mai completata, continuava a crescere e non si fermava mai. All’inizio aveva coperto un acro di terreno. E poi un chilometro quadrato. E adesso, infine, almeno dieci chilometri quadrati. E continuava a crescere, a crescere, allargandosi sempre più vasta, torreggiando sempre più alta e oscura e svettante nel cielo.
Una macchia torva sulle colline e un terrore oscuro per le piccole creature superstiziose della foresta che la vedevano. Il suo nome era diventato una parola per atterrire i cuccioli e i lupacchiotti e gli orsetti e tutte le piccole creature del bosco, per farli tacere atterriti e tremanti per qualche oscuro e inesplicabile terrore.
Perché si avvertiva la presenza del male, nella Costruzione… il male connaturato con l’ignoto, un male intuito e attribuito, non visto o sentito o fiutato. Un male che si avvertiva specialmente nel buio della notte, quando le luci erano tutte spente e il vento ululava all’imboccatura della tana e tutti gli altri animali dormivano, e qualcuno, solo, stava sveglio ad ascoltare le pulsazioni aliene che cantavano sorde tra i mondi.
Archie batté le palpebre nel freddo chiarore del sole di autunno, e si grattò furtivamente sul fianco.
Forse, un giorno, si disse, qualcuno troverà un rimedio contro le pulci. Qualcosa da spalmarsi sul pelo, per farle stare alla larga. Oppure qualcuno troverà il modo di farle ragionare, di discutere seriamente le cose con loro, di farsi capire e trovare un accordo soddisfacente per tutti. Magari avrebbero potuto aprire una riserva per le pulci, un posto nel quale le pulci avrebbero potuto stare tranquille e venire nutrite, senza che esse dessero più fastidio agli animali. O qualcosa del genere.
Così come stavano le cose, non si poteva fare molto. Ci si grattava. Si diceva al proprio robot di toglierle una per una, anche se di solito il robot strappava più peli che pulci. Ci si rotolava nella sabbia o nella polvere. Ci si gettava nel fiume o nel laghetto o nello stagno, una veloce nuotata e qualche pulce annegava… bene, se accadeva così, non era fatto con intenzione, non le si annegavano davvero. Ci si buttava nello stagno o nel fiume o nel laghetto per lavarsi, per togliere le pulci, e se qualcuna annegava, bene, doveva incolpare solo la sua sfortuna.
Si diceva al proprio robot di toglierle una per una… ma adesso, lui, il robot non l’aveva più.
Non aveva un robot che gli togliesse le pulci.
Non aveva un robot che lo aiutasse a trovare il cibo.
Ma, ricordò Archie, c’era un cespuglio di biancospino in fondo alla valle, sulla riva umida del fiume, e la brina notturna forse aveva fatto cadere le bacche. Si leccò le labbra, pensando alle bacche cadute, pronte a essere raccolte. E c’era un campo di granoturco, dietro la collina. Se riusciva a muoversi in fretta e calcolava bene il tempo e non faceva rumore, sarebbe riuscito senza difficoltà a procurarsi qualche pannocchia. E se proprio non c’era niente da fare, c’erano sempre molte radici e c’erano le ghiande selvatiche e, se ricordava bene, c’erano quegli arbusti di uva selvatica dall’altra parte della collina.
Bene, Rufus se ne era andato, pensò Archie. Che se ne vada dove vuole. Per quello che mi riguarda, i Cani possono tenersi le loro stazioni di nutrizione, e i guardiani possono continuare a cercare all’infinito.
Avrebbe vissuto la sua vita da solo. Avrebbe mangiato i frutti selvatici e si sarebbe scavato da solo le radici commestibili e avrebbe compiuto delle veloci incursioni nei campi di frumento e di granoturco. I suoi remoti antenati avevano vissuto così, avevano scavato le radici con le loro zampe, avevano colto le bacche dai cespugli, avevano saccheggiato i campi coltivati. E se l’avevano fatto loro, poteva farlo anche lui.
Avrebbe vissuto come avevano vissuto tutti gli altri procioni, prima che i Cani fossero venuti con tutte le loro idee sulla Fratellanza degli Animali. Avrebbe vissuto come avevano vissuto tutti gli animali prima di poter parlare usando delle parole, prima di poter leggere i libri stampati che i cani distribuivano, prima di avere dei robot che li servivano sostituendosi alle mani, prima che le tane avessero luce e calore.
Sì, e prima che ci fosse stata una lotteria che ti diceva se dovevi restare sulla Terra o andare in un altro mondo.
I cani, ricordava Archie, erano stati molto persuasivi a questo riguardo, molto ragionevoli e dolci e melliflui. Alcuni animali, avevano detto, dovevano andare negli altri mondi, altrimenti ci sarebbero stati troppi animali sulla Terra. La Terra non era abbastanza grande, avevano detto, per contenerci tutti. E una lotteria, avevano spiegato, era la maniera più equa per decidere quali animali sarebbero andati negli altri mondi e quali sarebbero rimasti.
E, dopotutto, avevano continuato, gli altri mondi erano quasi uguali alla Terra, perché si trattava soltanto di estensioni della Terra. Perché gli altri mondi erano soltanto mondi che seguivano la pista della Terra. Non proprio uguali alla Terra, forse, ma quasi. Solo qualche piccola differenza qua e là. Magari non c’era un albero, dove sulla Terra c’era un albero. Magari c’era una quercia dove sulla Terra c’era un albero di noce. Magari una sorgente di acqua limpida e fresca sgorgava cristallina e musicale dove sulla Terra non c’era nessuna sorgente.
Forse, gli aveva detto Homer, entusiasmandosi con le sue stesse parole… forse il mondo che gli era stato assegnato sarebbe stato ancor meglio della Terra.
Archie si rannicchiò ancora di più, sul fianco della collina, sentì il tiepido sole d’autunno giungere fino a lui, per l’aria vibrante dei brividi di vento dell’inverno vicino. Pensò alle bacche del biancospino. Dovevano essere morbide e saporite e la brina doveva averle fatte cadere, molte sarebbero state al suolo, vicino al fiume. Lui si sarebbe avvicinato, camminando silenzioso sulla terra soffice e muschiosa, e avrebbe mangiato le bacche che si trovavano al suolo, e poi si sarebbe arrampicato sul cespuglio e ne avrebbe colte ancora, e poi sarebbe ridisceso e avrebbe mangiato anche le bacche cadute quando lui aveva scalato il cespuglio, facendolo tremare.
Le avrebbe mangiate e le avrebbe prese tra le zampe e se le sarebbe spiaccicate sul muso. Ci si sarebbe perfino rotolato in mezzo.
Con la coda dell’occhio vide le cose frettolose che correvano nell’erba, come formiche, pensò, solo che non erano formiche. Almeno, non erano simili alle formiche che lui aveva visto in passato.
Pulci, forse. Una nuova razza di pulci.
Mosse rapidamente la zampa e raccolse una delle creature. La sentì correre nel cavo della zampa. Aprì la zampa e vide la creatura correre disperatamente tutt’intorno, e allora richiuse subito la zampa.
Poi si portò la zampa all’orecchio e ascoltò.
La creatura che lui aveva preso stava ticchettando!
Il campo dei robot selvaggi non era affatto come Homer se l’era immaginato. Non c’erano edifici. C’erano solo rampe di lancio e tre astronavi e mezza dozzina di robot che lavoravano intorno a una delle astronavi.
Eppure, a pensarci bene, si disse Homer, lui avrebbe dovuto saperlo, che in un campo di robot non avrebbe trovato degli edifici. Perché i robot non avevano bisogno di un riparo, e cos’era un edificio, se non un riparo?
Homer era spaventato a morte, ma cercava con tutta la sua forza di volontà di non mostrarlo. Arrotolò la coda sopra le reni, tenne la testa bene eretta, e trotterellando avanzò verso il piccolo gruppo di robot, senza la minima esitazione. Quando li raggiunse, sedette al suolo, con la lingua penzoloni, e aspettò che uno dei robot gli parlasse.
Ma quando vide che nessuno dei robot gli parlava, radunò tutto il suo coraggio e si decise a parlare per primo.
«Mi chiamo Homer,» disse. «E rappresento i Cani. Se avete un capo dei robot, vorrei parlargli.»
I robot continuarono a lavorare per un minuto almeno, ma finalmente uno di loro si voltò e si avvicinò e si acquattò per terra accanto a Homer, abbassandosi in modo che la sua testa fosse all’altezza di quella del cane. Tutti gli altri robot continuarono a lavorare come se niente fosse accaduto.
«Io sono un robot di nome Andrew,» disse il robot acquattato accanto a Homer. «E non sono quello che tu chiameresti un capo dei robot, perché non abbiamo questo genere di cose tra noi. Ma io posso parlare con te.»
«Sono venuto da voi a causa della Costruzione,» gli disse Homer.
«Immagino,» disse il robot di nome Andrew, «Che tu stia parlando della struttura che si trova a nord-est del luogo dove ci troviamo. Quella che puoi vedere anche da qui, se ti volti.»
«È di quella che io parlo,» disse Homer. «Sono venuto a chiedervi perché voi la state costruendo.»
«Ma noi non la stiamo costruendo,» disse Andrew.
«Abbiamo visto dei robot lavorarci intorno.»
«Sì, ci sono dei robot che lavorano là. Ma non siamo noi a costruirla.»
«State aiutando qualcun altro?»
Andrew scosse il capo.
«Alcuni di noi ricevono una chiamata… una chiamata ad andare a lavorare là. Gli altri robot non cercano di fermarli, perché qui siamo tutti liberi.»
«Ma chi la costruisce, allora?» domandò Homer.
«Le formiche,» disse Andrew.
Homer sbalordì.
«Le formiche? Intendi parlare degli insetti? Delle piccole creature che vivono nei formicai?»
«Precisamente, disse Andrew. Fece scorrere le dita di una mano sulla sabbia, imitando il movimento di una formica che corre.
«Ma le formiche non possono costruire un luogo simile,» protestò Homer. «Sono stupide.»
«Non lo sono più,» disse Andrew.
Homer rimase immobile, raggelato sulla sabbia, e sentì dita gelide di terrore scorrergli veloci in tutto il corpo.
«Non lo sono più,» disse Andrew, parlando tra sé. «Non sono più stupide. Vedi, in un tempo lontano, c’era un uomo di nome Joe…»
«Un uomo? Che cosa sarebbe?» chiese Homer.
Il robot fece un rumore strano, come se volesse rimproverare bonariamente Homer.
«Gli uomini erano degli animali,» disse il robot. «Animali che camminavano su due gambe. Somigliavano molto a noi, solo che loro erano di carne e noi siamo di metallo.»
«Tu devi parlare dei webster,» disse Homer. «Sappiamo dell’esistenza di creature quali tu descrivi, ma le chiamiamo webster.»
Il robot annuì lentamente.
«Sì, i webster potrebbero essere uomini. C’era una loro famiglia che portava quel nome. Abitava proprio di là dal fiume.»
«Là dove tu dici, esiste un luogo chiamato Casa dei Webster,» disse Homer. «Sorge sulla cima della Collina dei Webster.»
«Quello è il luogo che dico,» fece Andrew.
«Noi la conserviamo,» disse Homer. «Per noi è come un tempio, ma non riusciamo a capirne il motivo… È la parola che è stata tramandata fino a noi… dobbiamo conservare la Casa dei Webster.»
«I webster,» gli disse Andrew, «Sono coloro che hanno insegnato a voi Cani a parlare.»
Homer si irrigidì.
«Nessuno ci ha insegnato a parlare. Siamo stati noi a imparare. Abbiamo impiegato molti e molti e ancora molti anni per evolverci. E poi abbiamo insegnato a tutti gli altri animali.»
Andrew, il robot, sedeva curvo nel sole, e annuiva lentamente, come se ricordasse tra sé cose che Homer non poteva sapere.
«Diecimila anni,» disse. «No, forse sono dodicimila. Diciamo circa undicimila.»
Homer aspettò e mentre aspettava sentì il peso degli anni che schiacciavano le colline… gli anni del fiume e del sole, della sabbia e del vento e del cielo.
E gli anni di Andrew.
«Tu sei vecchio,» disse. «Puoi ricordare un’epoca così lontana?»
«Sì,» disse Andrew. «Benché io sia stato uno degli ultimi robot creati dalle mani dell’uomo. Sono stato creato solo pochi anni prima che gli uomini andassero su Giove.»
Homer rimase in silenzio, e i suoi pensieri erano tumultuosi.
Uomo… una parola nuova.
Un animale che camminava su due gambe.
Un animale che aveva creato i robot, che aveva insegnato ai Cani a parlare.
«Non avreste dovuto restare così divisi da noi,» disse il robot. «Avremmo dovuto lavorare insieme. Un tempo abbiamo lavorato insieme. Avremmo guadagnato entrambi, se avessimo lavorato insieme.»
«Avevamo paura di voi,» disse Homer. «E io ho ancora paura di voi.»
«Sì,» disse Andrew. «Sì, immagino che sia così. Immagino che Jenkins vi abbia ispirato questa paura di noi, e l’abbia conservata e alimentata nel corso del tempo. Perché Jenkins era saggio. Sapeva che voi dovevate restare puri. Sapeva che non dovevate conservare il ricordo dell’Uomo come un peso morto sulla vostra schiena.»
Homer restò in silenzio.
«E noi,» disse il robot. «Non siamo niente di più del ricordo dell’Uomo. Noi facciamo le cose che egli faceva, solo che le facciamo più scientificamente perché, essendo delle macchine, dobbiamo essere scientifici. Le facciamo con maggiore pazienza dell’Uomo, perché noi abbiamo l’eternità ed egli aveva soltanto pochi anni.»
Andrew tracciò due linee nella sabbia, e poi altre due lìnee che tagliavano perpendicolarmente le prime. Tracciò una X nel quadrato aperto, formato dall’angolo in alto a sinistra.
«Tu pensi che io sia pazzo,» disse. «Tu credi che io dica cose senza senso.»
Homer affondò più profondamente le anche nella sabbia.
«Non so cosa pensare,» disse. «Sono passati tanti anni…»
Andrew tracciò una O col dito nel quadrato centrale del disegno che aveva tracciato nella sabbia.
«Lo so,» disse. «Sono passati tanti anni, e per tutti questi anni voi avete vissuto con un sogno. L’idea che i Cani siano stati i primi. E i fatti sono duri da comprendere, duri da conciliare con il sogno. Forse sarebbe meglio che dimenticassi ciò che ti ho detto. I fatti, a volte, sono cose dolorose. Un robot deve lavorare su di essi, perché sono le sole cose sulle quali egli può lavorare. Noi non possiamo sognare, vedi. I fatti sono tutto quello che abbiamo.»
«Noi abbiamo superato i fatti già da molto tempo,» gli disse Homer. «Non li abbiamo abbandonati del tutto, perché a volte li usiamo. Ma lavoriamo in altri modi. Abbiamo l’intuizione e lo studio delle ombre e l’ascolto.»
«Voi non siete meccanici,» disse Andrew. «Per voi, due più due non dà sempre quattro, ma per noi deve essere quattro. E a volte mi chiedo se la tradizione non ci stia accecando. Mi chiedo, a volte, se due e due non possano dare qualcosa di più o di meno di quattro.»
Rimasero seduti in silenzio, il cane e il robot, guardando il fiume, un nastro di argento fuso che scorreva al centro di una terra colorata.
Andrew tracciò una X nell’angolo in alto a destra del disegno, una O nello spazio in alto al centro, una X nello spazio in basso al centro. Con il palmo della mano cancellò il disegno sulla sabbia, cancellò tutto, lasciando la polvere liscia e intatta.
«Non vinco mai,» disse. «Sono troppo intelligente per battermi.»
«Mi stavi dicendo delle formiche,» disse Homer. «Mi stavi dicendo che non erano più stupide.»
Jenkins camminava a lunghi passi sulla collina, e non guardava né a destra né a sinistra, perché c’erano cose che non voleva vedere, cose che colpivano troppo profondamente la sua memoria antica. C’era un albero che si ergeva là dove un altro albero aveva stormito nel vento di un altro mondo. C’era una distesa di terreno ch’era stata impressa nella sua mente, calpestata da un miliardo di passi, per diecimila anni.
Il sole debole del pomeriggio, già raggelato dai brividi sottili dell’inverno, baluginava nel cielo, baluginava come la fiamma di una candela toccata dal vento, e quando la fiamma cessò di baluginare e il vento invisibile se ne fu partito verso alberi e comignoli lontani, erano i raggi della luna a bagnare il mondo d’argento, e non più i tiepidi palpiti del sole del crepuscolo.
Jenkins rallentò il passo e si voltò e la casa era là… acquattata vicinissima alla terra, distesa sulla collina, come una creatura giovane e sonnolenta aggrappata alla madre terra.
Jenkins fece un passo esitante e, quando si mosse di nuovo, il suo corpo di metallo brillò e scintillò rifrangendo in una pioggia di diamanti d’argento la luce della luna, ch’era stata la luce del sole soltanto un breve istante prima, lo spazio fuggevole del battito di un cuore.
Dal fondo della valle, là dove scorreva il fiume d’argento, giungeva il pianto lontano di un uccello notturno, e un procione stava singhiozzando in un campo di granoturco, subito dietro la cima del colle.
Jenkins fece un altro passo e pregò che la casa non se ne andasse… benché sapesse che la casa se ne sarebbe andata, perché non era là. Perché quella era la cima spoglia di una collina che non aveva mai conosciuto una casa. Perché quello era un altro mondo, dove non esistevano case.
La casa restò, nera e silenziosa, e non usciva fumo dal comignolo, non usciva luce dalle finestre, ma i contorni erano quelli di sempre, quelli che il ricordo non poteva confondere.
Jenkins avanzò lentamente, molto lentamente, con prudenza, timoroso che la casa se ne andasse, timoroso di spaventarla e di farla sparire.
Ma la casa rimase, solida e ferma e oscura. E c’erano delle altre cose, e anche quelle rimasero. L’albero nell’angolo era stato un olmo e adesso era una quercia, com’era stato prima. E la luna era la luna d’autunno, e non il sole d’inverno. E la brezza soffiava da ponente, non soffiava fredda dal nord.
È accaduto qualcosa, pensò Jenkins. La cosa che è cresciuta dentro di me. La cosa che sentivo e che non potevo capire. Una nuova capacità che si sviluppava? Oppure un nuovo senso che finalmente veniva alla luce? Oppure soltanto un potere che non aveva mai sognato di possedere.
Il potere di camminare di mondo in mondo, a volontà. Il potere di andare ovunque io voglia, prendendo la strada più breve che le mutevoli linee di forza del tempo che non è il tempo, del caso che non è il caso, mi possono procurare.
Camminò con minore prudenza e la casa rimase ancora, per nulla spaventata, solida e materiale e sicura.
Attraversò il giardino invaso dalle erbacce e si fermò davanti alla porta.
Esitante, sollevò una mano e la posò sul saliscendi. E il saliscendi era là. Non era il fantasma di una cosa perduta, ma era là, nella concretezza del metallo.
Lentamente lo abbassò e la porta si aprì verso l’interno e lui varcò la soglia.
Dopo cinquemila anni, Jenkins era tornato a casa… era tornato alla Casa dei Webster.
Così c’era stato un uomo di nome Joe. Non un webster, ma un uomo. Perché un webster era un uomo. E i Cani non erano stati i primi.
Homer giaceva davanti al fuoco, mucchietto inerte di pelo e di ossa e di muscoli, con le zampe tese davanti a sé e il muso poggiato sulle zampe. Di tra gli occhi socchiusi vedeva il fuoco e l’ombra, sentiva il calore dei ceppi ardenti che gli scaldava il corpo, gli arruffava il pelo.
Ma all’interno della sua mente lui vedeva la sabbia e il robot acquattato accanto a lui e le colline curve sotto il peso degli anni.
Andrew era rimasto acquattato sulla sabbia e gli aveva parlato, con il sole d’autunno che riverberava stanco sulle sue spalle d’acciaio… gli aveva parlato di uomini e di cani e di formiche. Di una cosa ch’era accaduta quando Nathaniel era stato vivo, e quello era un tempo già da molto passato, perché Nathaniel era il primo Cane.
C’era stato un uomo di nome Joe… un uomo-mutante, un uomo che era più dell’Uomo… e quell’uomo di nome Joe che era stato un mutante aveva guardato le formiche e si era posto delle domande, in un giorno perduto di dodicimila anni prima. Si era chiesto perché le formiche avessero progredito fino a un certo punto e poi si fossero fermate, perché avessero raggiunto la fine del vicolo cieco del destino.
La fame, forse, aveva pensato Joe… quel bisogno pressante di trovare del cibo per sopravvivere. L’ibernazione, forse, il letargo ristagnante del sonno d’inverno, l’anello spezzato della catena dei ricordi, il ricominciare tutto da principio, tanto che ogni anno e ogni primavera rappresentavano una nuova genesi per le formiche.
Così, aveva detto Andrew, con il suo cranio calvo riverberante nel sole, Joe aveva scelto un formicaio, e si era messo al lavoro, come un dio, per cambiare il destino delle formiche. Le aveva sfamate, perché non avessero più bisogno di lottare disperatamente per sopravvivere, di lottare disperatamente contro una grande nemica, la fame. Aveva racchiuso il formicaio in una cupola di vetro e aveva riscaldato la cupola, perché esse non cadessero più in letargo.
E la cosa aveva funzionato. Le formiche erano progredite, avevano fabbricato dei piccoli carri e avevano imparato a fondere i metalli. Tutto questo si era potuto sapere, perché i carretti avevano viaggiato sul terreno e acri vapori di metallo fuso erano usciti dai comignoli sporgenti dal formicaio. Quali altre cose avessero fatto, quali altre cose avessero imparato, nelle profondità segrete delle loro gallerie, non c’era modo di saperlo.
Joe era pazzo, aveva detto Andrew. Pazzo… eppure, forse, non così pazzo.
Perché un giorno aveva distrutto la cupola di vetro e aveva fatto crollare il formicaio col piede, poi si era voltato e se ne era andato, senza più curarsi delle formiche.
Ma le formiche, invece, si erano curate del proprio destino.
La mano che aveva distrutto la cupola, il piede che aveva sconvolto il formicaio, erano stati la mano e il piede che avevano messo le formiche sulla strada della grandezza. Le formiche erano state costrette a lottare… lottare per conservare le cose che avevano, lottare per impedire alla bottiglia del destino di chiudersi ancora una volta sulle loro speranze.
Un calcio ben dato, aveva detto Andrew. Un calcio ben dato, per le formiche. Un calcio nella giusta direzione.
Dodicimila anni prima era stato un formicaio sconvolto e rovesciato, oggi era una costruzione immensa che cresceva con il passare di ogni anno.
Una costruzione… e non poteva essere il nome adatto, anche se fin dall’inizio era stata chiamata ’la Costruzione’. Perché una costruzione era un edificio, e un edificio era una casa, e una casa era un riparo, un luogo in cui nascondersi dalle dita crudeli del gelo e della tempesta. E le formiche non avevano bisogno di questo, perché avevano le loro gallerie e i loro formicai.
Perché una formica avrebbe dovuto costruire un edificio che aveva inghiottito dieci chilometri quadrati di terra in poco più di un secolo, e, malgrado ciò, continuava a crescere e a crescere e a crescere ancora? Cosa avrebbe potuto farsene una formica di un luogo simile?
Homer appoggiò il muso sulle zampe, stancamente, e un mugolio gli salì alle labbra.
Non c’era modo di saperlo. Perché, prima, bisognava sapere come pensava una formica. Bisognava conoscere le sue ambizioni e la sua meta. Bisognava scrutare dentro di lei, apprendere ciò che lei sapeva, sondare la sua scienza.
Dodicimila anni di scienza e di conoscenza. Dodicimila anni, da un punto di partenza anch’esso ignoto, anch’esso imperscrutabile.
Ma bisognava sapere. Doveva esserci un modo per sapere.
Perché, un anno dopo l’altro, la Costruzione avrebbe continuato a crescere. Prima un chilometro e poi sei chilometri e poi cento chilometri. Cento chilometri, duecento chilometri, e poi, ancora, tutto il mondo.
Potremmo ritirarci, pensò Homer. Sì, potremmo ritirarci. Potremmo migrare in quegli altri mondi, i mondi che ci seguono lungo il fiume del tempo, i mondi che si sfiorano senza mai toccarsi, uno dopo l’altro, in una processione infinita. Potremmo lasciare la Terra alle formiche, e ci sarebbe ancora dello spazio per noi.
Ma questa è la nostra patria. Questa è la nostra casa. È qui che i Cani sono nati, e qui che è nata la nostra civiltà, è qui che abbiamo insegnato agli animali a parlare, e non solo a parlare, ma a pensare e ad agire insieme. È questo il luogo in cui abbiamo creato la Fratellanza degli Animali.
Perché non ha importanza il nome di chi è venuto per primo… il webster o il cane. Questa è la nostra casa. È la nostra casa, come è la casa delle formiche.
E noi dobbiamo fermare le formiche.
Deve esserci un modo di fermarle. Un modo di parlare con loro, di scoprire quello che vogliono. Un modo di ragionare con loro. Una base per negoziare. Deve esistere un accordo che possiamo raggiungere.
Homer giacque immobile sulla pietra, davanti al fuoco, e ascoltò i mormoni sommessi che percorrevano la casa, ascoltò i passi soffocati e leggeri dei robot intenti alle loro faccende, ascoltò il chiacchierio sommesso dei Cani che si trovavano in un’altra stanza, al piano di sopra, ascoltò il crepitio delle fiamme che rodevano lente i ceppi ardenti.
Una buona vita, disse Homer, parlottando tra sé. Una buona vita, e pensavamo di essere stati noi a crearcela, da soli. Ma ora Andrew dice che non siamo stati noi. Ora Andrew dice che noi non abbiamo aggiunto uno iota al talento meccanico e alla logica meccanica che costituivano la nostra eredità… e che anzi abbiamo perduto molto. Lui mi ha parlato della chimica e ha cercato di spiegarmi i concetti, ma io non ho potuto capire. Lo studio degli elementi, mi ha detto, e ha parlato di cose che si chiamano atomi e molecole… E poi c’era anche l’elettronica, mi ha detto Andrew. Ma poi ha aggiunto che noi sappiamo fare certe cose, senza l’aiuto dell’elettronica, in maniera più prodigiosa di quanto avrebbe saputo fare l’uomo con tutta la sua scienza. Potresti studiare l’elettronica per un milione di anni, mi ha detto, senza mai raggiungere gli altri mondi, senza neppure sospettare la loro esistenza… e noi, invece, ci siamo riusciti, abbiamo fatto una cosa che un webster non avrebbe potuto fare.
Perché noi pensiamo in maniera diversa dai webster. No, si chiamano uomini, non webster.
E i nostri robot. I nostri robot non sono migliori di quelli che l’uomo ci ha lasciato. Una piccola modifica qua e là… una modifica ovvia, ma nessun reale perfezionamento.
Chi avrebbe mai potuto pensare, e neppure pensare, soltanto sognare, che possa esistere un robot migliore?
Una pannocchia di granoturco migliore, questo sì. O un albero migliore. O un metodo migliore per preparare il lievito che sostituisce la carne.
Ma un robot migliore… bene, un robot fa tutto quello che si desidera da lui. Perché dovrebbe essere migliore?
Eppure… i robot ricevono una chiamata e vanno a lavorare nella Costruzione, vanno a costruire una cosa che ci scaccerà dalla terra.
Non riusciamo a capire. È naturale che non possiamo capire. Se conoscessimo meglio i nostri robot, potremmo capire. E, una volta compreso il motivo di ciò che accade, potremmo cambiare i robot, in modo che essi non ricevano la chiamata o, se la ricevono, non le prestino attenzione.
E questa, naturalmente, sarebbe la risposta. Se i robot non lavorassero, non ci sarebbe la Costruzione. Perché le formiche, senza l’aiuto dei robot, non potrebbero continuare a costruire.
Una pulce si mise a correre sulla testa di Homer, e Homer agitò un orecchio.
Andrew, però, potrebbe sbagliarsi, si disse Homer. Noi abbiamo le nostre leggende sulla nascita delle Fratellanza degli Animali, e i robot hanno le loro leggende sulla caduta dell’uomo. Dopo tanto tempo, chi ci può dire, ormai, quale dei due abbia ragione, cane o robot?
Ma la storia di Andrew ha un senso compiuto. C’erano dei Cani e c’erano dei robot e quando l’Uomo conobbe il momento della caduta i Cani e i robot si divisero, seguendo ciascuno la propria strada… anche se noi tenemmo alcuni robot, perché ci servissero come mani. Alcuni robot rimasero con noi, ma nessun Cane rimase con i robot.
Una mosca d’autunno uscì da un angolo, ronzando, stordita e confusa dalla luce del fuoco. Una delle ultime mosche dell’estate, pensò Homer, che è riuscita a vivere fino ai primi freddi, e che ora vola incerta, senza accettare la fine che l’aspetta. La mosca si mise a ronzare intorno al muso di Homer, e si posò sul naso del cane. Homer la fissò con aria minacciosa, e la mosca sollevò le zampette e, insolentemente, si pulì le ali. Homer agitò una zampa, e la mosca volò via.
Qualcuno bussò alla porta.
Homer alzò il capo, sorpreso.
«Avanti,» disse, ancora perduto nei suoi pensieri.
Era il robot, Hezekiah.
«Hanno preso Archie,» disse Hezekiah.
«Archie?»
«Archie, il procione.»
«Oh, sì,» disse Homer. «Quello che è scappato.»
«È qui fuori, adesso,» disse Hezekiah. «Lo vuoi vedere?»
«Fallo entrare,» disse Homer.
Hezekiah fece un segno col dito e Archie entrò lentamente dalla porta. Aveva il pelo macchiato e arruffato, e la coda gli pendeva inerte. Dietro di lui torreggiavano due robot guardiani.
«Ha cercato di rubare del granoturco,» disse uno dei guardiani, «E noi l’abbiamo scoperto, ma ci ha fatto correre, oh, se ci ha fatto correre!»
Homer si alzò maestosamente, e fissò Archie. Archie sostenne il suo sguardo, fissandolo negli occhi.
«Non mi avrebbero preso mai,» disse Archie, «Se avessi avuto ancora Rufus. Rufus era il mio robot e mi avrebbe avvertito.»
«E dov’è adesso Rufus?»
«Oggi ha ricevuto la Chiamata,» disse Archie. «E mi ha lasciato per andare alla Costruzione.»
«Dimmi,» fece Homer. «È successo qualcosa a Rufus, prima che se ne andasse? Qualcosa di insolito? Qualcosa fuori dell’ordinario?»
«Niente,» rispose Archie. «A parte il fatto che era caduto in un formicaio. Era un robot maldestro. Non faceva altro che inciampare in tutti gli ostacoli… era sempre per terra, o era sempre impigliato da qualche parte. Non era coordinato come avrebbe dovuto essere. Aveva un bullone allentato da qualche parte, dentro.»
Una cosa minuscola e nera saltò dal naso di Archie, e si mise a correre sul pavimento. Archie mosse la zampa con la velocità del lampo, e raccolse la creaturina.
«Farai bene a scostarti,» disse Hezekiah. «È addirittura grondante di pulci.»
«Non è una pulce,» disse Archie, ansimando di collera. «È un’altra cosa. L’ho presa nel pomeriggio. Fa tic-tic e sembra una formica, ma non è una formica.»
La cosa che faceva tic-tic sfuggì dalle unghie del procione e cadde sul pavimento. Cadde male, si rimise eretta, e ricominciò a correre. Archie cercò di prenderla con la zampa, ma la cosa gli sfuggì, correndo a zig-zag sul pavimento. Come un lampo, raggiunse Hezekiah e si arrampicò sulla gamba del robot.
Homer balzò sulle quattro zampe, e improvvisamente, subitaneamente, un lampo di comprensione gli attraversò la mente.
«Presto!» gridò. «Prendila! Fermala! Non lasciarle…»
Ma la cosa era sparita.
Lentamente Homer tornò a sedersi. La sua voce era calma, ora, di una calma quasi mortale.
«Guardiani,» disse. «Prendete in custodia Hezekiah. Non lasciatelo un momento, non permettetegli di muoversi. Riferitemi ogni suo gesto e ogni sua azione immediatamente.»
Hezekiah indietreggiò.
«Ma io non ho fatto niente!»
«No,» disse Homer, quasi con dolcezza. «No, non ancora. Ma lo farai. Riceverai la Chiamata e cercherai di abbandonarci per andare alla Costruzione. E prima di lasciarti andare, scopriremo per quale motivo lo farai. Cos’è che ti costringe e in quale modo agisce.»
Homer si voltò, con il muso raggrinzito da un sorriso canino.
«E adesso, Archie…» disse.
Ma Archie non c’era più.
C’era una finestra aperta. E Archie non c’era più.
Homer si agitò sul letto di fieno, riottoso, perché non voleva svegliarsi. Un ringhio soffocato gli saliva dalla gola.
Sto invecchiando, pensò. Troppi anni sono sopra di me, come gli anni che schiacciano le colline. C’è stato un tempo in cui sarei balzato dal letto al primo mormorio, al primo rumore udito alla porta, con il pelo sporco di fieno, e avrei abbaiato con tutte le mie forze per avvertire i robot.
Si udì bussare di nuovo e Homer, barcollando, si alzò.
«Entra pure,» gridò. «Piantala di fare tutto questo frastuono, ed entra.»
La porta si aprì ed entrò un robot, ma il robot più grande e imponente che Homer avesse mai visto. Un robot dal grande corpo di metallo lucido, immenso e maestoso, e il metallo levigato pareva splendere di fuoco soffuso anche nel buio. E sulla spalla del robot era appollaiato Archie, il procione.
«Io sono Jenkins,» disse il robot. «Sono tornato stanotte.»
Homer sussultò, inghiottì, e sedette lentamente, molto lentamente.
«Jenkins,» disse. «Ci sono delle storie… delle leggende… di un passato molto lontano.»
«Sono solo leggende?» chiese Jenkins.
«Sono solo leggende e niente di più,» disse Homer. «La leggenda di un robot che ebbe cura di noi. Ma Andrew ha parlato di Jenkins, oggi, come se lo avesse conosciuto. E poi c’è la storia che narra come i Cani ti donassero un corpo, quando tu compisti settemila anni, e come quel corpo fosse meraviglioso…»
Tacque d’un tratto… perché il corpo del robot ritto davanti a lui, con il procione appollaiato sulla spalla… quel corpo non poteva essere che quel dono di compleanno.
«E la Casa dei Webster?» domandò Jenkins. «Conservate ancora la Casa dei Webster?»
«Noi conserviamo ancora la Casa dei Webster,» disse Homer. «La conserviamo così com’è. È una cosa che dobbiamo fare.»
«E i webster?»
«Non ci sono più webster.»
Jenkins annuì, a quella risposta. I sensi perfetti del suo corpo gli avevano già detto che non c’erano più webster. Non si udivano le vibrazioni dei webster. E nella mente delle creature che lui aveva sfiorato con quel senso prodigioso, non c’erano pensieri che riguardassero i webster.
E così doveva essere.
Attraversò lentamente la stanza, con il passo vellutato come il passo di un gatto, malgrado la sua mole enorme, e Homer lo sentì vicino, sentì l’amicizia e la bontà che sprigionavano da quella creatura di metallo, si sentì protetto dalla forza poderosa dell’antico, antichissimo robot.
Jenkins si acquattò sul pavimento, accanto a lui.
«Voi siete nei guai,» disse Jenkins.
Homer lo fissò, senza rispondere.
«Le formiche,» spiegò Jenkins. «Me l’ha detto Archie. Mi ha detto che eravate nei guai a causa delle formiche.»
«Sono andato alla Casa dei Webster per nascondermi,» disse Archie. «Temevo che tu mi facessi cercare di nuovo, che i guardiani ricominciassero a darmi la caccia, e pensavo che forse alla Casa dei Webster…»
«Silenzio, Archie,» gli disse Jenkins. «Tu non sai niente della faccenda. Me l’hai detto tu stesso. Hai detto solo che i Cani erano nei guai per colpa delle formiche.
«Immagino che si tratti delle formiche di Joe,» disse.
«Così tu sai di Joe,» disse Homer. «Così c’era davvero un uomo di nome Joe.»
Jenkins ridacchiò.
«Sì, e combinava molti guai. Ma a volte era simpatico. Era un vero demonio.»
Homer disse:
«Stanno costruendo. Costringono i robot a lavorare per loro e costruiscono una immensa struttura.»
«Certamente,» disse Jenkins. «Anche le formiche hanno il diritto di costruire.»
«Ma costruiscono troppo in fretta. Ci scacceranno dalla Terra. Altri mille anni, e avranno coperto la Terra intera, se continueranno a costruire al ritmo attuale.»
«E non avete alcun posto dove andare? È questo che vi preoccupa?»
«Sì, abbiamo un posto dove andare. Molti posti, anzi. Tutti gli altri mondi. I mondi delle ombre.»
Jenkins annuì, con aria grave.
«Io sono stato in un mondo delle ombre. Il primo mondo dopo questo. Ho portato laggiù alcuni webster, cinquemila anni fa. E sono tornato soltanto stanotte. E so come ti senti, so quello che pensi. Nessun altro mondo è come la Terra. Nessun altro mondo è la nostra casa. Ho avuto fame e sete della Terra per ogni giorno di quei cinquemila anni. Sono tornato alla Casa dei Webster e vi ho trovato Archie. Lui mi ha parlato delle formiche e così sono venuto qui. Spero che non ti dispiaccia, né a te né a tutti i Cani.»
«Siamo felici che tu sia venuto,» disse Homer, a bassa voce, con una sfumatura di dolcezza.
«Quelle formiche…» disse Jenkins. «Immagino che vogliate fermarle.»
Homer annuì.
«Un modo esiste,» disse Jenkins. «So che un modo esiste. I webster conoscevano un modo… se solo riuscissi a ricordarlo. Ma è passato tanto tempo. Ed è un modo semplice, ne sono certo. Questo lo ricordo. Un modo semplicissimo.»
Sollevò una mano e strofinò il mento d’acciaio.
«Perché fai questo?» chiese Archie.
«Come?»
«Perché ti strofini la faccia a quel modo? C’è uno scopo?»
Jenkins lasciò ricadere il braccio.
«È solo un’abitudine, Archie. Un gesto dei webster. Un modo di fare che avevano nel pensare. L’ho preso da loro.»
«Ti aiuta a pensare?»
«Be’, forse. E forse no. Pareva aiutare i webster. E adesso, che cosa farebbe un webster, in un caso del genere? I webster potrebbero aiutarci. Lo so che potrebbero…»
«I webster che si trovano nel mondo delle ombre potrebbero aiutarci,» disse Homer.
Jenkins scosse il capo.
«Laggiù non ci sono più webster.»
«Ma tu hai detto che ne avevi portati alcuni con te.»
«Sì, l’ho detto. Ma ora non ci sono più. Sono rimasto solo, nel mondo delle ombre, per quasi quattromila anni.»
«Allora non ci sono più webster, da nessuna parte. Tutti gli altri sono andati su Giove. Questo me l’ha detto Andrew. Jenkins, dov’è Giove?»
«Sì, c’è ancora,» disse Jenkins. «Voglio dire che c’è ancora qualche webster. Almeno dovrebbe esserci. Quei pochi che sono rimasti a Ginevra.»
«Non sarà facile,» fece Homer. «Nemmeno per un webster. Quelle formiche sono astute. Archie ti ha parlato della pulce che ha trovato?»
«Non era una pulce,» disse Archie.
«Sì, me ne ha parlato,» annuì Jenkins. «Ha detto che è salita su Hezekiah.»
«Non è salita,» gli disse Homer. «È entrata, questa è la parola giusta. Non era una pulce… era un robot, un minuscolo robot. Ha scavato un forellino nel cranio di Hezekiah ed è entrato nel suo cervello. Poi ha richiuso il forellino.»
«E che cosa sta facendo adesso Hezekiah?»
«Niente,» disse Homer. «Ma siamo certissimi su quello che farà non appena il robot avrà terminato il suo lavoro. Riceverà la Chiamata. Riceverà la Chiamata e andrà a lavorare alla Costruzione.»
Jenkins annuì.
«Un controllo automatico,» disse. «Le formiche non possono fare da sole un lavoro simile, così prendono possesso di coloro che lo possono fare per mezzo di un controllo automatico.»
Sollevò di nuovo la mano e se la passò sul mento.
«Mi chiedo se Joe lo sapesse,» mormorò. «Quando ha giocato a fare il dio con le formiche, mi chiedo se Joe lo sapesse.»
Ma questo era ridicolo. Joe non avrebbe mai potuto saperlo. Neppure un mutante come Joe avrebbe potuto vedere dodicimila anni nel futuro.
È passato tanto tempo, pensò Jenkins. Sono accadute tante cose. Bruce Webster aveva appena iniziato i suoi esperimenti sui cani, aveva cominciato a sognare il suo grande sogno… cani capaci di parlare e di pensare, che avrebbero percorso il sentiero del destino a fianco dell’Uomo, mano nella zampa… senza sapere che l’Uomo, nel giro di pochi, brevi secoli, si sarebbe disperso ai quattro venti dell’eternità, e avrebbe lasciato la Terra ai robot e ai cani. Senza sapere che perfino il nome dell’Uomo sarebbe stato dimenticato nella polvere dei secoli, e che la razza umana sarebbe stata conosciuta con il nome di una sola famiglia.
Eppure, pensò Jenkins, se l’Uomo doveva essere conosciuto con il nome di una sola famiglia, era giusto che la famiglia fosse quella dei Webster. Li ricordo, li ricordo come se fosse ieri. Quelli erano i giorni nei quali anch’io mi consideravo un Webster.
Lo sa il Signore quanto ho tentato di essere degno di quel nome. Ho fatto del mio meglio. Sono rimasto accanto ai cani dei Webster quando la razza degli uomini è partita per sempre e alla fine ho portato gli ultimi pericolosi superstiti di quella razza folle in un altro mondo, perché i Cani avessero la strada aperta e libera… perché i Cani potessero modellare la Terra secondo il loro piano, seguendo il loro sogno.
E ora anche quegli ultimi, pericolosi superstiti se ne sono andati… sono partiti per un luogo lontano, chissà dove, chissà come… vorrei tanto saperlo. Sono fuggiti dietro qualche fantasia della mente umana. Anche loro se ne sono andati. E gli uomini che si trovano su Giove non sono più neppure uomini, ma qualcosa di diverso, qualcosa di alieno. E Ginevra è chiusa… isolata dal mondo, bloccata per sempre.
Però non potrà essere più lontana o chiusa più ermeticamente del mondo dal quale sono venuto. Se soltanto riuscissi a scoprire in qual modo sono riuscito a viaggiare dal mondo delle ombre nel quale ero esiliato, fino a raggiungere la Casa dei Webster… allora forse, in un modo o nell’altro, potrei raggiungere Ginevra.
Un potere nuovo, si disse. Un nuovo talento. Una cosa cresciuta dentro di me, senza che io me ne rendessi conto. Una cosa che ogni uomo e ogni robot… e forse ogni cane… potrebbe avere, se solo conoscesse il modo.
Forse, però, è stato il mio corpo a renderla possibile… questo corpo che i Cani mi hanno donato nel giorno dei miei settemila anni. Un corpo che possiede più di quanto ogni altro corpo di carne e di sangue abbia potuto raggiungere. Un corpo che può conoscere i pensieri di un orso e i sogni di una volpe, che può ascoltare i piccoli pensieri dei topolini felici che corrono tra l’erba e nelle gallerie scavate nella terra umida.
L’appagamento del desiderio. Potrebbe trattarsi di questo. La risposta al desiderio strano, illogico e struggente delle cose che raramente sono e spesso, troppo spesso non possono essere. Ma che sono tutte possibili, se si riesce a far crescere, o a sviluppare, o a creare dentro di sé il nuovo talento che conduce il corpo e la mente all’appagamento del desiderio.
Camminavo su quella collina ogni giorno, ricordò Jenkins. Camminavo lassù perché non potevo restare lontano, perché il desiderio e la nostalgia erano così forti, troppo forti per me. E mi facevo forza per non guardare troppo attentamente, perché se avessi guardato avrei visto le differenze tra quel mondo e la Terra lontana… e vicina a un tempo… e quelle differenze io non le volevo vedere.
Ho camminato lassù per un miliardo di volte e c’è voluto quel miliardo di volte prima che il potere latente dentro di me fosse abbastanza forte da farmi tornare indietro.
Perché io ero in trappola. Le parole, i pensieri, i concetti che mi avevano portato nel mondo delle ombre costituivano un biglietto di sola andata e quel biglietto mi ha portato là, ma non poteva farmi tornare indietro. Ma esisteva un altro modo, un modo che non conoscevo. Che neppure adesso conosco.
«Hai detto che c’era un modo,» disse Homer, ansioso.
«Un modo?»
«Sì, un modo per fermare le formiche.»
Jenkins annuì.
«Voglio scoprirlo. Andrò a Ginevra.»
Jon Webster si svegliò.
E questo è strano, pensò, perché ho chiesto l’eternità. Dovevo dormire per sempre, e per sempre non ha mai fine.
Tutto il resto era nebbia e grigiore di oblio sonnolento, ma questo concetto si stagliava nella sua mente con chiarezza cristallina. L’eternità. E questa non era l’eternità.
Una parola gli bussava alla mente, come se qualcuno bussasse dolcemente a una porta lontana, molto lontana.
Giacque nella nebbia e nel grigiore e ascoltò bussare alla porta della sua mente sonnolenta, e la parola si trasformò in due parole… parole che dicevano il suo nome:
«Jon Webster. Jon Webster.» Ancora e ancora, ancora e ancora. Due parole che battevano gentili alla porta della sua mente.
«Jon Webster.»
«Jon Webster.»
«Sì,» disse la mente di Webster, e le due parole si fermarono e non tornarono di nuovo.
Silenzio, e le nebbie dell’oblio si diradavano. E come l’inizio di una sorgente in una grotta, le gocce dei ricordi cominciarono a cadere, con un stillicidio lento e sicuro. Una cosa per volta.
C’era una città e il nome della città era Ginevra.
Degli uomini vivevano nella città, ma erano uomini senza uno scopo.
I Cani vivevano fuori della città… in tutto il mondo, fuori della città. I Cani avevano uno scopo e un sogno.
Sarà saliva sulla collina per prendere un secolo di sogni.
E io… io, pensò Jon Webster, sono salito sulla collina e ho chiesto l’eternità. E questa non è l’eternità.
«Sono Jenkins, Jon Webster.»
«Sì, Jenkins,» disse Jon Webster, eppure non lo disse; non lo disse con le labbra e con la lingua e con la gola, perché sentiva il fluido che gli premeva tutto il corpo, all’interno del cilindro, il fluido che lo nutriva e gli impediva di disidratarsi. Il fluido che sigillava le sue labbra e i suoi occhi e le sue orecchie.
«Sì, Jenkins,» disse Webster, parlando con la mente. «Ti ricordo. Adesso ti ricordo. Tu sei stato con la famiglia fin dall’inizio. Tu ci hai aiutati a insegnare ai Cani. Tu sei rimasto con loro anche quando la famiglia non c’era più.»
«Sono ancora con loro,» disse Jenkins.
«Io ho cercato l’eternità,» disse Webster. «Ho chiuso la città e ho cercato l’eternità.»
«Spesso ci siamo chiesti,» disse Jenkins, «Perché sia stata chiusa la città.»
«I Cani,» disse la mente di Webster. «I Cani dovevano avere la loro opportunità. L’Uomo avrebbe rovinato questa opportunità.»
«I Cani si comportano bene,» disse Jenkins.
«Ma la città ora è aperta?»
«No, la città è ancora chiusa.»
«Ma tu sei qui.»
«Sì, ma sono il solo che conosce il modo di entrare. E non ci saranno altri. Non per molto tempo, almeno.»
«Tempo,» disse Webster. «Avevo dimenticato il tempo. Quanto tempo è passato, Jenkins?»
«Da quando la città è stata chiusa? Diecimila anni.»
«E ci sono degli altri?»
«Sì, ma stanno dormendo.»
«E i robot? I robot vigilano ancora?»
«I robot vigilano ancora.»
Webster giacque in silenzio e una grande pace scese sopra di lui. La città era ancora chiusa e gli ultimi uomini stavano dormendo. I Cani si comportavano bene e i robot vigilavano ancora.
«Non avresti dovuto svegliarmi,» disse. «Avresti dovuto lasciarmi dormire.»
«C’era una cosa che dovevo conoscere. Un tempo la conoscevo, ma l’ho dimenticata ed è molto semplice. Semplice, eppure terribilmente importante.»
Webster ridacchiò mentalmente.
«Di che si tratta, Jenkins?»
«Si tratta delle formiche,» disse Jenkins. «Un tempo le formiche molestavano gli uomini. Cosa facevano gli uomini per impedirlo?»
«Bene, le avvelenavamo,» disse Webster.
Jenkins rimase attonito.
«Avvelenarle!»
«Sì,» disse Webster. «Una cosa semplicissima. Usavamo una sostanza dolce, per attirare le formiche. E in quella sostanza mettevamo del veleno, un veleno mortale per le formiche. Ma non tanto da ucciderle immediatamente. Si trattava di un veleno a effetto lento, vedi, in modo che esse avessero il tempo di portarlo nel formicaio. In questo modo potevamo ucciderne molte in una volta sola, invece che due o tre soltanto.»
Il silenzio pulsò nella mente di Webster… il silenzio senza pensieri e senza parole, il silenzio completo.
«Jenkins,» disse. «Jenkins, sei ancora…»
«Sì, Jon Webster, sono qui.»
«È tutto quello che vuoi?»
«È tutto quello che voglio.»
«Posso riprendere il mio sonno?»
«Sì, Jon Webster. Puoi riprendere il tuo sonno.»
Jenkins era in piedi sulla cima della collina e sentiva il primo vento dell’inverno annunciare gelido la nuova stagione per tutta la terra. Sotto di lui il pendio che portava al fiume era nero e grigio degli scheletri spogli degli alberi dai quali le foglie erano cadute.
Verso nord-est si levava la forma oscura, la grande nube di cattivo presagio ch’era stata chiamata la costruzione’. Una cosa che cresceva, nata dalla mente delle formiche, costruita per uno scopo e per un fine che nessuna creatura, a eccezione di una formica, avrebbe potuto neppure lontanamente indovinare.
Ma c’era un modo di trattare le formiche.
Il modo umano.
Il modo che Jon Webster gli aveva detto dopo diecimila anni di sonno. Un modo semplice e un modo radicale, un modo brutale ma efficace. Bastava un po’ di sostanza dolce, una sostanza che piacesse alle formiche, e si metteva del veleno… un veleno lento, che non uccidesse troppo presto le formiche.
Il veleno, pensò Jenkins. Il modo semplice. Il modo più semplice.
Solo che per usarlo era necessaria la chimica, e i Cani non la conoscevano.
Solo che per usarlo era necessario uccidere, e non si uccideva più.
Neppure le pulci si uccidevano, e i Cani erano tormentati oltre ogni misura dalle pulci. Neppure le formiche si uccidevano… e le formiche minacciavano di privare gli animali del mondo che era stato la loro culla e la loro casa.
Nessuno aveva più ucciso, per cinquemila anni e più. Il concetto stesso di uccidere era stato sradicato dalla mente di tutte le creature.
Ed è meglio così, si disse Jenkins. È meglio perdere un mondo, che ricominciare a uccidere.
Si voltò, lentamente, e cominciò a scendere verso il fiume.
Homer sarebbe rimasto deluso, pensò.
Terribilmente deluso, sapendo che i webster non avevano alcun modo di trattare con le formiche…