LIBRO III Ventuno anni dopo Autunno 2030

Il tempo perduto non si ritrova mai.

JOHN H. AUGHEY

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Il tempo passa, le cose cambiano.

Nel 2017 una squadra di fisici e di ricercatori del cervello quasi tutti di stanza a Stanford elaborò un modello teorico completo per la dislocazione temporale. Il modello meccanicoquantistico della mente umana, proposto da Roger Penrose trent’anni prima, si era rivelato sostanzialmente valido, anche se Penrose si era sbagliato su molti particolari; nessuno si sorprese troppo, quindi, nello scoprire che esperimenti di fisica quantistica sufficientemente potenti potevano avere un effetto sulla percezione.

Anche i neutrini, poi, costituivano un elemento importante della faccenda. Si sapeva fin dagli anni sessanta che il sole terrestre liberava, per qualche motivo, solo la metà dei molti neutrini che avrebbe dovuto liberare: il famoso ‘problema dei neutrini solari’.

Il sole è riscaldato dalla fusione dell’idrogeno: quattro nuclei di idrogeno — ciascuno dei quali costruisce un singolo protone — si uniscono a formare un nucleo di elio, composto da due protoni e due neutroni. Nel processo di conversione in neutroni di due dei protoni originali forniti dall’idrogeno, dovrebbero essere espulsi due neutrini dell’elettrone… ma, non si sa come, un neutrino ogni due che dovrebbero raggiungere la Terra scompare prima di farlo, quasi come se in qualche modo venissero censurati, quasi come se l’universo sapesse che i processi meccanicoquantistici al di sotto della soglia di consapevolezza diventerebbero instabili, se fossero presenti troppi neutrini.

La scoperta del 1998 che i neutrini avevano una massa trascurabile aveva reso credibile una possibile soluzione di vecchia data al problema dei neutrini solari: se i neutrini hanno una massa, la teoria suggeriva che potessero forse cambiare tipo nel corso del loro viaggio, portando i rilevatori più primitivi a supporne la scomparsa. Ma l’Osservatorio sui neutrini di Sudbury, che era in grado di individuare tutti i tipi di neutrini, mostrava ancora una marcata differenza fra ciò che poteva essere prodotto e ciò che raggiungeva la Terra.

Il principio antropico forte affermava che l’universo ha bisogno di dare origine alla vita, e l’interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica sosteneva che necessitava di osservatori qualificati; dato ciò che si sapeva dell’interazione fra neutrini e consapevolezza, il problema dei neutrini solari sembrava essere la prova che l’universo si preoccupava di incoraggiare l’esistenza di tali osservatori.

Naturalmente, di tanto in tanto si verificavano delle raffiche di neutrini extrasolari, ma in circostanze normali si potevano tollerare. Quando però le condizioni non erano normali — quando un attacco di neutrini si combinava con condizioni che erano esistite solo poco dopo il Big bang — si verificava la dislocazione temporale.

Nel 2018 l’Agenzia spaziale europea lanciò la sonda Cassandra verso Sanduleak -69°202. Naturalmente sarebbero occorsi milioni di anni prima che la sonda raggiungesse Sanduleak, ma non importava. Quello che importava era che adesso, nel 2030, Cassandra si trovava a due miliardi e mezzo di miliardi di chilometri dalla Terra, e due miliardi e mezzo di miliardi di chilometri più vicina ai resti della supernova 1987A: una distanza che la luce, e i neutrini, avrebbero impiegato tre mesi a percorrere.

A bordo di Cassandra c’erano due strumenti. Uno era un rilevatore di luce puntato direttamente su Sanduleak, l’altro un’invenzione recente — un emettitore di tachioni — puntato sulla Terra. Cassandra non era in grado di individuare in via diretta i neutrini, ma se Sanduleak usciva dallo stato di buco marrone avrebbe emesso sia luce che neutrini, e la luce era facile da rilevare.

Nel luglio del 2030 Cassandra rilevò luce che fuoriusciva da Sanduleak. La sonda lanciò immediatamente una raffica di tachioni a energia ultra bassa (e quindi con velocità ultra alta) verso la Terra. Quarantatre ore più tardi i tachioni giunsero sulla Terra, mettendo in funzione gli allarmi.

All’improvviso, ventuno anni dopo il primo evento di dislocazione temporale, i popoli della Terra furono informati con un preavviso di tre mesi che se volevano dare un’altra occhiata al futuro potevano farlo con una ragionevole probabilità di successo. Naturalmente il successivo tentativo andava fatto nell’esatto momento in cui i neutrini di Sanduleak avrebbero cominciato ad attraversare la Terra — e non poteva essere una coincidenza che quel momento sarebbe stato alle 19:21, ora di Greenwich, di mercoledì 23 ottobre 2030: l’inizio preciso dell’arco di circa due minuti che la prima serie di visioni aveva mostrato.

Le Nazioni Unite discussero l’argomento con sorprendente velocità. Alcuni avevano pensato che, essendosi il presente rivelato diverso da quanto rappresentato nella prima serie di visioni, la gente avrebbe deciso che poteva fare a meno di una seconda serie. In realtà, però, la risposta generale fu del tutto diversa: quasi tutti desideravano un’altra occhiata al domani. L’effetto Ebenezer era ancora potente. E, naturalmente, adesso c’era un’intera generazione di giovani che erano nati dopo il 2009. Si sentivano tagliati fuori, e reclamavano la possibilità di avere ciò che i loro genitori avevano già sperimentato: una finestra sulle loro prospettive future.


Come prima, il CERN fu la chiave per aprire la serratura del domani. Ma Lloyd Simcoe, ormai sessantaseienne, non avrebbe preso parte al tentativo di replica. Era andato in pensione da due anni, e aveva rifiutato di tornare al CERN. Lui e Theo, d’altra parte, avevano effettivamente condiviso un Nobel. Gli era stato assegnato nel 2024: non, come risultò, in relazione all’effetto della dislocazione temporale o alla scoperta del bosone di Higgs, ma grazie alla loro invenzione congiunta del Collisore tachioni-tardioni, lo strumento portatile che aveva messo fuori uso i grandi acceleratori di particelle nei luoghi più disparati, dal TRIUMF, al Fermilab, al CERN. Adesso il CERN era in gran parte abbandonato, anche se il Collisore tachionitardioni originale era alloggiato nel campus.

Forse era perché il matrimonio di Lloyd con Michiko era fallito dopo dieci anni, che lui non aveva voluto essere coinvolto in quel tentativo di replicare l’esperimento originale. Sì, Lloyd e Michiko avevano avuto una figlia, ma nel suo intimo Michiko aveva sempre ritenuto, senza nemmeno rendersene conto all’inizio, che in qualche modo Lloyd fosse responsabile della morte della sua prima figlia. Lei per prima si era sorpresa, certo, quando la faccenda era venuta fuori nel corso di una discussione con Lloyd, ma così stavano le cose.

Non c’era dubbio che Lloyd e Michiko si amassero, ma alla fine tutti e due avevano deciso semplicemente che non potevano continuare a vivere insieme, non con quella sensazione che pesava, anche se in modo rarefatto, su ogni cosa. Almeno non era stato un divorzio doloroso, come quello dei genitori di Lloyd. Michiko era tornata in Giappone, portando con lei sua figlia Joan; Lloyd andava a farle visita una volta l’anno, a Natale.

La presenza di Lloyd non era fondamentale per la replica dell’esperimento originale, anche se la sua collaborazione avrebbe costituito un contributo significativo. Ma adesso era felicemente risposato… e, sì, lo era con Doreen, la donna che aveva visto nella sua visione e, sì, adesso avevano un cottage nel Vermont.

Jake Horowitz, che aveva da tempo lasciato il CERN per andare a lavorare al TRIUMF insieme a sua moglie Carly Tompkins, acconsentì a tornare in Europa per tre mesi. Venne anche Carly, e insieme a Jake dovette sopportare le battute di quelli che le chiedevano quale laboratorio del CERN avrebbero battezzato. Erano sposati ormai da diciotto anni, e avevano tre splendidi figli.

Theodosios Procopides e circa trecento altre persone lavoravano ancora al CERN, dove si occupavano del CTT. Theo, Jake, Carly e un personale ridotto ai minimi termini fecero a gara contro il tempo per rimettere l’LHC in grado di funzionare, dopo cinque anni di abbandono, prima che arrivassero i neutrini di Sanduleak.

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Theo, che adesso aveva quarantotto anni, era intimamente soddisfatto che la realtà del 2030 si fosse rivelata diversa da quella prospettata dalle visioni del 2009. Da parte sua si era fatto crescere una bella barba folta che gli copriva la mandibola prominente (e che lo salvava dalla necessità di radersi di nuovo a metà pomeriggio). Il giovane Helmut Drescher aveva affermato di avere notato, nella sua visione, il mento di Theo; la barba era uno dei piccoli espedienti escogitati da Theo per affermare il suo libero arbitrio.

Tuttavia, mentre la data della replica si avvicinava, Theo scoprì che stava diventando sempre più apprensivo. Cercò di convincersi che era solo dovuto al nervosismo per l’eventualità di deludere il mondo intero una seconda volta se qualcosa non avesse funzionato, ma l’LHC sembrava in perfetta efficienza, e quindi Theo dovette ammettere che la causa non era quella.

No, era nervoso perché si stava rapidamente avvicinando il giorno in cui, secondo le visioni del 2009, lui sarebbe morto.

Theo si accorse che non riusciva a mangiare, né a dormire. Se fosse riuscito a scoprire chi era che lo voleva morto forse la cosa sarebbe stata meno traumatica… gli sarebbe semplicemente bastato evitare quella persona. Ma non aveva idea di chi avesse potuto/avrebbe potuto/potesse premere il grilletto.

Alla fine, inevitabilmente, arrivò il lunedì 21 ottobre 2030: la data che, almeno in una versione della realtà, era scolpita sulla lastra tombale di Theo. Theo si svegliò quella mattina bagnato da un sudore freddo.

C’era ancora un bel po’ di lavoro da fare al CERN: mancavano ancora due giorni al momento in cui i neutrini di Sanduleak avrebbero colpito. Theo cercò di liberare la mente da tutti i suoi pensieri, ma anche quando giunse in ufficio si accorse che non riusciva a concentrarsi.

Poi, poco dopo le dieci del mattino, non ce la fece più. Lasciò la sala di controllo del collisore, infilandosi un berretto beige con la visiera abbassata e un paio di occhiali da sole. Non c’era poi tutta quella luce; la temperatura era fresca, e il cielo era per metà coperto di nuvole. Ma nessuno usciva più senza proteggersi la testa e gli occhi. Anche se era stato finalmente fermato il logorio della fascia di ozono, ancora non era stato fatto niente di efficace per ripristinarla.

Il sole scintillava oltre i pinnacoli rocciosi delle montagne del Giura. Nel parcheggio si trovava un autobus della Globus Gateway: il CERN ormai in gran parte smantellato non era più un’attrazione segnata in rosso sulla guida Michelin, naturalmente, e poi, con tutto il baccano che circondava il tentativo di replica, non erano comunque ammessi turisti nel centro. Quell’autobus era stato preso a noleggio per trasferire dall’aeroporto una folla di giornalisti che si erano precipitati lì per documentare il lavoro di preparazione della replica.

Theo si diresse verso la sua macchina, una Ford Octavia rossa: un mezzo di trasporto efficiente e robusto. Aveva passato la sua giovinezza a giocare con acceleratori di particelle che costavano miliardi di dollari, e non aveva bisogno di un’automobile da sogno per affermare il suo valore.

La macchina lo riconobbe appena lui si avvicinò, e Theo fece un cenno di assenso per indicare che voleva davvero salire a bordo. Lo sportello dal lato del guidatore si aprì scivolando nel tettuccio. Si potevano ancora acquistare automobili le cui porte si aprivano lateralmente, ma con i parcheggi così affollati in quasi tutti i grandi centri urbani erano più convenienti gli sportelli che non avevano bisogno di spazio per aprirsi.

Theo salì in macchina e le disse dove voleva andare. «A quest’ora del giorno» disse la macchina con una piacevole voce maschile «arriveremo prima prendendo Rue Meynard.»

«Bene» disse Theo. «Guida tu.»

La macchina cominciò a farlo, sollevandosi dal suolo e mettendosi in movimento. «Musica o notiziario?» gli chiese.

«Musica» rispose Theo.

La macchina si riempì della musica di uno dei complessi preferiti di Theo, un popolare gruppo da sballo coreano. Ma la musica non riuscì a calmarlo. Dannazione, sapeva che non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi in Svizzera, ma l’LHC era tuttora il più grande macchinario al mondo nel suo genere; episodici tentativi, antecedenti all’invenzione del CTT, per rilanciare il progetto Supercollisore superconduttore, tagliato nel 1993 dal Congresso degli Stati Uniti, erano tutti falliti. E l’arte di far funzionare e riparare gli acceleratori di particelle era ormai in via di estinzione. Molti di coloro che avevano costruito l’acceleratore LEP originale — il primo montato nella gigantesca galleria sotterranea del CERN — erano morti oppure in pensione, e solo pochi fra quelli che avevano preso parte, un quarto di secolo prima, all’allestimento dell’LHC erano ancora in attività. Quindi in Svizzera c’era bisogno dell’esperienza di Theo, ma che gli prendesse un colpo se aveva voglia di starsene lì a fare da bersaglio.

La macchina si fermò all’esterno del luogo di destinazione che Theo aveva richiesto: il quartier generale della Polizia di Ginevra. Era un vecchio edificio, vecchio più di un secolo, in effetti, e anche se i motori a combustione interna erano illegali su tutte le vetture fabbricate dopo il 2021, il palazzo mostrava ancora i segni di decenni di inquinamento; prima o poi avrebbero dovuto sabbiarlo.

«Apri» disse Theo, e lo sportello scomparve nel tettuccio.

«Non ci sono posti liberi nel parcheggio in un raggio di cinquecento metri» disse l’automobile.

«Allora continua a muoverti attorno all’isolato» disse Theo. «Ti chiamerò quando sarò pronto a risalire a bordo.»

La macchina emise un cinguettio di comprensione.

Theo si infilò il berretto e gli occhiali e scese. Attraverso il marciapiede, salì gli scalini ed entrò nel palazzo.

«Bonjour,» disse un uomo alto e biondo seduto dietro un bancone, «Je peux vous aider?»

«Oui,» rispose Theo. «Detective Helmut Drescher, s’il vous plàit.» Il giovane Helmut Drescher era davvero un funzionario di polizia, adesso; Theo, preso allora da semplice curiosità, lo aveva verificato parecchi mesi prima.

«Moot non c’è» disse l’uomo, sempre parlando in francese. «Forse qualcun altro può esserle utile?»

Theo provò una stretta al cuore. Drescher, almeno, poteva capirlo, ma cercare di spiegare tutto a un estraneo… «Io speravo proprio di poter parlare con il detective Drescher» disse Theo. «Pensa che tornerà presto?»

«Proprio non… oh, guardi, questo dev’essere il suo giorno fortunato. Ecco Moot.»

Theo si voltò. Due uomini più o meno dell’età giusta stavano entrando nel palazzo; Theo non aveva idea di quale dei due potesse essere Drescher. «Detective Drescher?» disse, a caso.

«Sono io» rispose quello sulla destra. Helmut era cresciuto ed era diventato un bell’uomo con i capelli castani lisci, la mascella volitiva e limpidi occhi azzurri.

«Come le avevo detto» disse il funzionario al bancone alle spalle di Theo. «È il suo giorno fortunato.»

Solo se alla fine sarò ancora vivo, pensò Theo. «Detective Drescher» disse Theo. «Devo parlarle.»

Drescher si rivolse all’uomo insieme al quale era entrato. «Ti raggiungo più tardi, Fritz» gli disse. Fritz annuì e si addentrò nel palazzo.

Drescher non mostrava alcun segno di avere riconosciuto Theo. Naturalmente erano passati ventuno anni da quando si erano visti per l’ultima volta e, anche se si era fatto un gran parlare sui media del tentativo di replicare la dislocazione temporale, negli ultimi tempi Theo era stato troppo occupato per apparire con sufficiente frequenza in televisione; per lo più aveva lasciato l’incarico a Jake Horowitz.

Drescher accompagnò Theo verso l’interno; era vestito in borghese, ma Theo non poté fare a meno di notare che aveva delle scarpe di ottima qualità. Drescher posò la mano sopra un lettore palmare e le porte gemelle si aprirono, lasciandoli entrare nella sala operativa. I ‘piattini’ — computer sottilissimi — erano ammucchiati su qualche scrivania e sparpagliati su altre formando strane composizioni sovrapposte. Un’intera parete era occupata da una mappa che mostrava lo schema del traffico di Ginevra, con ogni veicolo segnalato da un trasmettitore individuale. Theo la studiò per cercare di individuare la sua vettura che orbitava intorno al palazzo; gli sembrò di non essere l’unica a farlo, in quel momento.

«Si accomodi» disse Drescher indicandogli una sedia di fronte alla sua scrivania. Prese un piattino da una pila e lo sistemò fra sé e Theo. «Ha nulla in contrario se registro?» gli chiese. Le parole — in francese — apparvero subito come testo sul sottile computer, con un’etichetta identificativa che diceva: ‘H. Drescher’.

Theo scosse la testa, e Drescher gesticolò in direzione del piattino. Theo capì che voleva una risposta a voce. «Non» disse. Il piattino registrò doverosamente, ma appose un punto interrogativo luminoso nel riquadro in cui doveva esserci il nome di colui che stava parlando.

«Lei è…?»

«Theodosios Procopides» rispose Theo, aspettandosi che il nome facesse squillare un campanello nella mente di Drescher.

Il piattino, alla fine, lo riconobbe… Theo vide comparire sullo schermo una piccola finestra, che mostrò la corretta pronuncia del suo nome secondo l’alfabeto ellenico ed elencò alcuni fatti fondamentali sulla sua vita. Il punto interrogativo scomparve e l’etichetta identificativa del suo nome mutò immediatamente in ‘T. Procopides’.

«E cosa posso fare per lei?» chiese Drescher, sempre con l’aria di chi non ricordava nulla.

«Lei non sa chi sono, vero?» disse Theo.

Drescher scosse la testa.

«La… ehm, l’ultima volta che ci siamo visti, io non avevo la barba.»

Il detective fissò attentamente il volto di Theo. «Ecco, io… oh! Oh, Dio! Oh, è lei!»

Theo abbassò gli occhi. Il piattino aveva svolto l’encomiabile compito di apporre scrupolosamente la punteggiatura sull’esclamazione di Drescher. Quando rialzò lo sguardo, Theo si accorse che il volto dell’altro era sbiancato.

«Oui» disse Theo. «C’est moi.»

«Mon Dieu» esclamò Drescher. «Per anni sono stato tormentato da quell’esperienza.» Scosse la testa. «Lo sa, da allora ho assistito a un sacco di autopsie, e ho visto un bel po’ di cadaveri. Ma il suo… vedere qualcosa del genere quando sei ancora un bambino…» Fu scosso da un brivido.

«Mi dispiace» disse Theo. Fece una breve pausa, poi disse: «Si ricorda di quando venni a trovarla, poco dopo avere avuto quella visione? A casa dei suoi genitori… quella con la grande scala?»

Drescher annuì. «Me lo ricordo. Mi ha spaventato a morte.»

Theo alzò appena le spalle. «Mi dispiace anche di questo.»

«Ho cercato di rimuovere quella visione dalla mia mente» disse Drescher. «Per tutti questi anni ho cercato di non pensarci. Ma torna sempre a galla, lo sa. Anche dopo tutto quello che ho visto continua a perseguitarmi.»

Theo fece un sorriso di comprensione.

«Non è colpa sua» aggiunse Drescher, agitando la mano come per fargli capire che non aveva importanza. «Qual è stata la sua visione?»

Theo rimase sorpreso da quella domanda; Drescher aveva ancora qualche problema a collegare la sua visione di quel cadavere con la realtà dell’essere umano che era seduto davanti a lui. «Non ho visto niente» rispose Theo.

«Oh, già, è vero» disse Drescher, leggermente a disagio. «Mi dispiace.»

Seguì un silenzio imbarazzato che durò qualche secondo, poi fu Drescher a parlare di nuovo. «Lo sa, non è stato poi tutto così negativo… la visione, voglio dire. Mi ha avvicinato al lavoro di polizia. Non so se avrei chiesto di entrare in accademia, se non avessi avuto quella visione.»

«Da quanto tempo fa il poliziotto?» chiese Theo.

«Sette anni… gli ultimi due come detective.»

Theo non aveva idea se fosse una carriera rapida o no, ma si scoprì a fare calcoli sull’età di Drescher. Non poteva essersi laureato. Theo trascorreva fin troppo tempo fra accademici e scienziati: aveva sempre paura di dire per sbaglio qualcosa che potesse suonare come condiscendente per coloro che non erano andati oltre il liceo. «Complimenti» azzardò.

Drescher alzò le spalle, poi aggrottò la fronte e scosse la testa. «Lei non dovrebbe proprio trovarsi da queste parti. Non dovrebbe nemmeno essere in Europa, per l’amor di Dio. Lei deve essere stato ucciso a Ginevra o nelle sue immediate vicinanze, altrimenti non sarei stato io a svolgere le indagini. Se io avessi avuto una visione che proprio in questo giorno sarei stato ucciso, può scommettere che adesso mi troverei in Africa o alle Hawaii.»

Stavolta fu Theo ad alzare le spalle. «Io non volevo trovarmi qui, ma non ho scelta. Gliel’ho detto, lavoro al CERN. Facevo parte del gruppo che ventuno anni fa condusse l’esperimento del Grande collisore per Adroni. Hanno bisogno di me per duplicare quell’esperimento dopodomani. Mi creda, se avessi avuto la minima scelta, io sarei da qualche altra parte.»

«Lei non si è messo a praticare pugilato, vero?»

«No.»

«Perché nella mia visione…»

«Lo so. Lo so. Ha detto che mi hanno ucciso durante un incontro di pugilato.»

«Mio padre guardava sempre gli incontri di pugilato alla televisione» disse Helmut. «Strano sport per un venditore di scarpe, immagino, ma a lui piaceva. Io li guardavo insieme a lui, anche quando ero piccolo.»

«Mi ascolti,» disse Theo «lei sa meglio di chiunque altro che io sono davvero in pericolo. E per questo che sono venuto a trovarla.» Deglutì. «Ho bisogno del suo aiuto, Helmut. Ho bisogno della protezione della polizia. Fra adesso e quando l’esperimento sarà replicato, fra…» diede un’occhiata all’orologio a parete, un piattino tenuto su col nastro adesivo, le cui cifre di quindici centimetri rifulgevano sulla sua superficie «…fra quarantanove ore.»

Drescher indicò con un gesto della mano tutti gli altri piattini sparpagliati sulla sua scrivania. «Ho un mucchio di lavoro da fare.»

«La prego. Lei sa che cosa potrebbe succedere. Quasi tutti hanno il prossimo mercoledì libero dal lavoro… capisce, in modo che possano starsene al sicuro a casa quando ci sarà la replica della dislocazione temporale. Detesto perfino chiederlo, ma lei potrebbe approfittare di quell’occasione per recuperare il lavoro perduto oggi e domani.»

«Io non ho il mercoledì libero.» Drescher gesticolò in direzione degli altri poliziotti in sala operativa. «Nessuno di noi lo ha… nel caso qualcosa andasse male.» Una pausa. «Lei ha la minima idea di chi potrebbe spararle?»

Theo scosse il capo, poi, guardando il piattino che registrava, disse: «No, nessuna. Mi sono arrovellato il cervello per ventuno anni cercando di immaginarlo… cercando di capire a chi avrei potuto pestare i piedi fino al punto di fargli desiderare la mia morte, o chi avrebbe tratto qualche vantaggio dal fatto di togliermi di mezzo. Ma non c’è nessuno.»

«Nessuno?»

«Be’, lo sa, si diventa paranoici. Qualcosa del genere… Ti metti a sospettare di tutti. Certo, per qualche tempo ho pensato che fosse stato il mio vecchio socio, Lloyd Simcoe. Ma gli ho parlato ieri; è nel Vermont, e non progetta di venire in Europa nel prossimo futuro.»

«Si tratta solo di… quanto?… un volo di tre ore, se prende un supersonico» disse Drescher.

«Lo so, lo so… ma, davvero, sono sicuro che non è lui. Però c’è qualcuno, qualche… come dite voialtri? Una o più persone sconosciute che oggi possono attentare alla mia vita. E le sto chiedendo — la sto implorando — di impedire che quella persona o quelle persone giungano fino a me.»

«Dove deve trovarsi, oggi?»

«Al CERN. O nel mio ufficio, nella sala di controllo dell’LHC, oppure dentro la galleria.»

«Galleria?»

«Già. Deve averne sentito parlare: al CERN c’è una galleria circolare lunga ventisette chilometri, costruita cento metri sotto il livello del terreno. Un anello gigantesco, insomma. E lì che si trova il collisore.»

Drescher si morse per un attimo il labbro inferiore. «Lasci che parli con il mio capitano» disse. Si alzò, attraversò la stanza e bussò a una porta. La porta scivolò di lato e Theo riuscì a vedere all’interno una donna dai capelli neri, con l’aria severa. Drescher entrò e la porta si richiuse alle sue spalle.

Gli sembrò che trascorresse un tempo interminabile. Theo si guardò intorno nervosamente. Sulla scrivania di Drescher c’era un ologramma di una giovane donna che poteva essere sua moglie o la sua ragazza, insieme a un uomo e una donna più anziani. Theo riconobbe la donna anziana: frau Drescher. Presumendo che si trattasse di un’immagine recente — e in effetti doveva esserlo, visto che solo da un paio d’anni le olocamere erano scese di prezzo, arrivando al livello di un onesto funzionario di polizia — allora il tempo era stato clemente con lei. Era ancora una bella donna, orgogliosa di mostrare il grigio dei suoi capelli.

Finalmente la porta in fondo alla stanza si riaprì, e ne uscì il detective Drescher. Attraversò la sala operativa piena di gente in attività e tornò alla sua scrivania. «Mi dispiace» disse mentre si metteva a sedere. «Se qualcuno avesse fatto qualche minaccia o cose del genere…»

«Mi lasci parlare con il suo capitano.»

Drescher sbuffò. «Non la riceverà; per la metà del tempo non riceve neanche me.» Addolcì il tono della voce. «Mi dispiace davvero, signor Procopides. Mi dia retta… cerchi di essere prudente, tutto qui.»

«Io credevo che lei — lei soprattutto — avrebbe capito.»

«Sono un semplice poliziotto» disse Drescher. «Prendo ordini.» Fece una pausa, e la sua voce assunse un tono faceto. «E poi, magari venire qui è stato solo un grosso errore, da parte sua. Voglio dire, e se fossi proprio io il tipo che le ha sparato nella visione? Agatha Christie non scrisse una storia del genere, una volta, in cui l’investigatore è l’assassino? Sarebbe il colmo dell’ironia, allora, essere venuto proprio da me, no?»

Theo sollevò le sopracciglia. Il cuore gli batteva forte, e lui non sapeva che cosa dire. Gesù Cristo, gli avevano sparato con una Glock, una delle pistole preferite dai funzionari di polizia di tutto il mondo…

«Non si preoccupi» disse Drescher con una smorfia. «Stavo solo scherzando. Ho pensato che avevo il diritto di farle prendere un bello spavento, dopo tutto quello che mi ha fatto lei tanti anni fa.» Ma allungò la mano e passò un paio di volte l’indice per cancellare la trascrizione delle ultime frasi dal piattino.

«Buona fortuna, signor Procopides. Come le ho detto, sia prudente. Per miliardi di persone il futuro si è rivelato diverso da quello che avevano mostrato le loro visioni. Non sarei io a doverglielo dire, visto che lei è uno scienziato, ma non c’è proprio nessuna ragione per ritenere che la sua visione sia proprio quella che si avvererà.»


Theo usò il telefono cellulare per chiamare la macchina, e quando arrivò salì a bordo.

Senza dubbio Drescher aveva ragione. Theo provò un senso di imbarazzo per il suo attacco di panico; probabilmente era stato originato da un brutto sogno fatto la notte prima, unito alla tensione per la replica imminente. Cercò di rilassarsi, osservando la campagna mentre la sua vettura lo riportava al centro di controllo dell’LHC. Il pullman dei turisti era ancora lì. La cosa gli fece venire un po’ di nostalgia. Naturalmente i pullman della Globus Gateway si vedevano in tutta Europa. Theo non ne aveva mai preso uno, ma quando era un ragazzotto eccitato, lui e un paio dei suoi amici li tenevano sempre d’occhio, in luglio e agosto. Spesso le adolescenti americane in cerca di avventure estive viaggiavano su quei pullman; negli anni della sua giovinezza Theo aveva trascorso più di una notte romantica insieme a una di quelle studentesse.

Il piacevole ricordo svaní, però, trasformandosi in tristezza; adesso pensava a casa, ad Atene. Dopo il funerale di Dim ci era tornato solo due volte. Perché non aveva passato più tempo con i suoi genitori? Theo lasciò che la macchina trovasse un posto vuoto, scese e puntò verso il centro di controllo.

«Oh, Theo» disse Jake Horowitz, dirigendosi verso di lui dall’estremità opposta del corridoio con i mosaici. «Ho cercato di mettermi in comunicazione con te. Ho chiamato la tua macchina, ma mi ha detto che eri stato arrestato o qualcosa del genere.»

«La macchina aveva voglia di scherzare» disse Theo. «In realtà sono solo andato a trovare… qualcuno che credevo fosse un vecchio amico.»

«C’è un problema con il collisore che Jiggs non sa come risolvere.»

«Eh?»

«Già, qualcosa che ha a che fare con le unità criostatiche… numero quattro-quaranta, nell’ottante numero tre.»

Theo aggrottò la fronte. Erano anni che il grande collisore non funzionava più a pieno regime. Jiggs, appena trentaquattro anni, era il responsabile della divisione manutenzione, e non aveva mai visto l’impianto usato a livelli di 14-TeV.

Theo annuì; i controlli criostatici erano notoriamente esigenti. «Andrò a dare un’occhiata.» Ai vecchi tempii quando il CERN aveva tremila dipendenti, Theo non si sarebbe mai recato nel tunnel da solo, ma con il personale attualmente ridotto al minimo gli sembrò il modo migliore per sopperire alla mancanza di mano d’opera, e poi, be’, probabilmente la galleria era il posto più sicuro in cui stare: certo, un pazzo poteva sempre penetrare nel campus del CERN, tentando di uccidere Theo, ma ovviamente un intruso del genere sarebbe stato bloccato molto prima che potesse raggiungere la galleria. E poi nessuno, a parte Jake e Jiggs — di cui Theo si fidava ciecamente — avrebbe saputo che lui si trovava lì dentro.

Theo prese l’ascensore e scese a livello meno cento metri. L’aria nel tunnel dell’acceleratore di particelle era umida e calda, e odorava di olio per macchine e di ozono. La luce era bassa, un biancore con sfumature azzurre dalle lampade fluorescenti sul soffitto, punteggiato a intervalli regolari dalle luci gialle d’emergenza fissate alle pareti. Il fremito delle macchine, il ronzio delle pompe dell’aria e il ticchettio dei tacchi di Theo sul pavimento di cemento riecheggiavano rumorosamente. Vista in sezione la galleria era circolare, a parte il pavimento piatto, e il suo diametro variava fra 3,8 e 5,5 metri.

Come aveva fatto spesso in precedenza, Theo Procopides osservò il tunnel in una direzione, poi nell’altra. Non era proprio diritta. Riusciva a seguirne la traiettoria per una notevole distanza, ma poi le pareti cominciavano a curvarsi.

Dal soffitto pendeva la putrella di sostegno e appesa a quella c’era la monorotaia vera e propria: Jiggs l’aveva lasciata parcheggiata lì. La monorotaia consisteva in una cabina abbastanza grande da contenere una persona, tre piccole vetture ciascuna delle quali progettata per trasportare attrezzatura più che passeggeri, e una seconda cabina in coda, rivolta nella direzione opposta. Le vetture erano poco più che ceste metalliche pendenti, color blu pavone. Adesso le due cabine erano aperte, strutture arancioni con dei fari montati sotto i parabrezza inclinati e un grosso paraurti di gomma fissato sulla parte inferiore. I parabrezza avevano un’angolatura molto acuta.

Il guidatore doveva sedere con le gambe rannicchiate di fronte a lui; la cabina non era abbastanza alta da accogliere una persona normalmente seduta. Il nome ORNEX — la ditta che aveva costruito la monorotaia — era inciso a mo’ di ornamento sulla parte anteriore. Sui due lati del nome c’erano dei piccoli riflettori rossi, e sotto una larga striscia con dei segni bianchi e gialli; volevano essere assolutamente sicuri che le cabine fossero visibili nell’oscurità della galleria. La monorotaia era stata aggiornata nel 2020; adesso era in grado di raggiungere i sessanta chilometri l’ora, il che significava che poteva circumnavigare l’intera galleria in meno di trenta minuti.

Theo prese una scatola degli attrezzi da uno degli armadietti di rifornimento nella piazzola di sosta e si infilò il casco giallo… anche se si recava di rado nel tunnel, da anziano del mestiere aveva avuto anche lui il suo casco personale. Sistemò la scatola degli attrezzi in una delle vetture da carico, si arrampicò nella cabina puntata verso la direzione in cui voleva andare — in senso orario — e mise in moto il treno, allontanandosi ronzando nell’oscurità.


* * *

Il detective Helmut Drescher tentò di rimettersi a lavorare; aveva sette casi aperti su cui investigare, e il capitano Lavoisier aveva insistito perché ci fosse qualche progresso. Ma la mente di Moot continuava a soffermarsi sulla situazione di Theo Procopides. Il tipo gli era sembrato abbastanza a posto; avrebbe voluto aiutarlo. Gli era anche sembrato in buona forma, per un uomo che doveva essere vicino ai cinquanta. Moot ritrovò il piattino che aveva registrato la loro conversazione: mostrava ancora il riquadro con i dati biografici di Theo. Nato il 2 marzo 1982, dunque aveva quarantotto anni. Un po’ troppo vecchio per fare il pugile… e poi non aveva il fisico giusto. Magari in una qualunque realtà alternativa mostrata dalle visioni lui era un allenatore, o un arbitro, invece che un pugile vero e proprio. Ma no… non poteva essere così. Moot non aveva con sé il biglietto da visita che Theo gli aveva dato due decenni prima, ma l’aveva conservato per tutto quel tempo, e ogni tanto gli aveva anche dato un’occhiata: c’era scritto chiaramente CERN. Perciò, se era già un fisico prima che avessero luogo le visioni, nel 2009, sembrava improbabile che avesse cambiato-carriera per dedicarsi allo sport. Ma Moot ricordava la sua visione in modo molto vivido: l’uomo con il camice — il medico legale, adesso lo sapeva — aveva affermato chiaramente che Theo era stato ucciso sul ring, e…

Sul ring.

Che cosa aveva detto Procopides proprio quello stesso giorno? Deve averne sentito parlare: al CERN c’è una galleria circolare lunga ventisette chilometri, costruita cento metri sotto il livello del terreno. Un anello gigantesco, insomma.

Era solo un bambino… un bambino piccolo che guardava gli incontri di pugilato insieme al padre, un bambino piccolo che amava il film Rocky. Allora aveva semplicemente creduto che ‘sul ring’ significasse ‘durante un incontro di boxe’, e poi non ci aveva pensato più. Ma ring significa anche ‘anello’.

Un anello gigantesco, insomma.

Merda. Forse Procopides era davvero in pericolo. Moot si alzò dalla scrivania e tornò a parlare con il capitano Lavoisier.


* * *

L’unità criostatica difettosa si trovava a dieci chilometri di distanza, e la monorotaia avrebbe impiegato quasi dieci minuti per portarvi Theo. I fari della cabina solcavano l’oscurità. Lungo l’intera galleria c’erano dei pannelli fluorescenti, ma era inutile illuminare tutti i ventisette chilometri del tracciato.

Alla fine la monorotaia giunse nel settore in cui si trovava l’unità criostatica che faceva i capricci. Theo fermò il treno, scese dalla cabina, trovò il pannello che regolava l’illuminazione locale e la regolò per l’accensione cinquanta metri prima e cinquanta metri dopo di lui. Poi andò a prendere la cassetta degli attrezzi e si diresse verso l’unità difettosa.


Questa volta il capitano Lavoisier acconsentì, dando a Moot il permesso di fare da guardia del corpo a Theo fino alla fine della giornata. Moot prese la solita auto non contrassegnata e si diresse verso il CERN. Lui sospettava che il CERN fosse come quasi tutti gli altri luoghi: il segnale del radiofaro lanciato dalla macchina di un poliziotto di solito lo faceva passare automaticamente attraverso il cancello, ma stavolta Moot dovette fermarsi e mostrare alla guardia il tesserino di identificazione prima che quella alzasse la barriera. Chiese anche al computer la direzione: il campus del CERN comprendeva dozzine di edifici, quasi tutti vuoti. Gli ci vollero circa cinque minuti per trovare la sala di controllo dell’LHC. Lasciò che la macchina parcheggiasse sull’asfalto e si precipitò all’esterno.

Lungo un corridoio decorato da una serie di mosaici si imbatté in una bella donna di mezza età, con le lentiggini. Moot le mostrò il tesserino. «Sto cercando Theo Procopides» le disse.

La donna annuì. «Stamattina è arrivato presto; vediamo se riusciamo a trovarlo.»

La donna gli fece strada all’interno dell’edificio; provò in un paio di stanze, ma in nessuna delle due c’era Theo. «Vediamo nell’ufficio di mio marito» disse. «Lui e Theo lavorano insieme.» Percorsero un altro corridoio ed entrarono in un ufficio. «Jake, c’è qui un funzionario di polizia. Sta cercando Theo.»

«E nel tunnel» disse Jake. «Per quella dannata unità criostatica dell’ottante numero tre.»

«Potrebbe essere in pericolo» disse Moot. «Può portarmi là?»

«In pericolo?»

«Nella sua visione viene ucciso proprio oggi… e ho ragione di credere che avvenga nella galleria.»

«Mio Dio» disse Jake. «Eh, certo, certo… posso portarla da lui e… maledizione! Stramaledizione, deve avere preso la monorotaia.»

«La monorotaia?»

«C’è una ferrovia monorotaia che corre lungo l’anello, ma deve averla portata a dieci chilometri da qui.»

«C’è un solo treno?»

«Prima ne avevamo altri tre, ma li abbiamo venduti anni fa. Ce n’è rimasto uno solo.»

«Si potrebbe arrivare in volo alla stazione d’accesso remota» disse la donna. «Non c’è strada, ma sarebbe facile sorvolare i campi coltivati.»

«Giusto… giusto!» disse Jake. Sorrise a sua moglie. «Magnifica idea!» Poi si girò verso Moot. «Andiamo!»

Jake e Moot si precipitarono lungo i corridoi, attraversarono l’atrio ed emersero nel parcheggio. «Prendiamo la mia macchina» disse Moot. Salirono a bordo, Moot premette il pulsante di avvio e la vettura si sollevò dal suolo. Seguì le istruzioni di Jake per uscire dal campus, poi Jake indicò una vasta distesa coltivata.

La macchina continuò a volare.


Theo osservò l’alloggiamento dell’unità criostatica. Non c’era da stupirsi che Jiggs avesse avuto dei problemi ad aggiustarla. Il pannello dietro al quale aveva lavorato era ancora aperto, ma i potenziometri con i quali Jiggs armeggiava erano nascosti dietro un altro pannello.

Theo cercò di aprire lo sportello d’accesso che avrebbe dovuto permettergli di arrivare ai comandi giusti, ma quello non ne voleva sapere di muoversi. Dopo anni di abbandono in quella galleria buia e umida, sembrava che lo sportello si fosse corroso e bloccato. Theo frugò nella cassetta degli attrezzi in cerca di qualcosa di cui servirsi per forzare lo sportello, ma aveva solo dei cacciaviti che si dimostrarono del tutto inadeguati. Ciò che gli serviva era un piede di porco o qualcosa del genere. Imprecò in greco. Poteva riprendere la monorotaia e tornare al campus, ma gli sembrava uno spreco di tempo. Doveva esserci certamente qualcosa, lì nella galleria, da utilizzare con profitto. Controllò nella direzione da cui era venuto: nel corso delle poche centinaia di metri dal punto in cui aveva lasciato la monorotaia non aveva notato nulla di simile a ciò che gli serviva ma, è chiaro, non lo stava cercando. Comunque gli sembrò più sensato percorrere in senso orario la galleria, almeno per una breve distanza, e vedere se riusciva a trovare qualcosa per aprire quel dannato sportello.


La stazione remota era un vecchio bunker di calcestruzzo nel bel mezzo di un campo di rape. La vettura di Moot atterrò sul piccolo vialetto — c’era una stradina di accesso che si allontanava nella direzione opposta — e lui spense il motore, poi scese insieme a Jake.

Era mezzogiorno e, dal momento che era ottobre, il sole non era molto alto nel cielo. Ma almeno le api, così noiose d’estate, erano sparite. In alto, sui fianchi delle montagne, c’erano soprattutto conifere, naturalmente, ma laggiù abbondavano gli alberi decidui. Le foglie di molti avevano già cambiato colore.

«Andiamo» disse Jake.

Moot esitò. «Non c’è rischio di radiazioni, vero?»

«Non finché l’acceleratore è spento. Siamo assolutamente al sicuro.»

Mentre si dirigevano verso la baracca di cemento un riccio sgambettò veloce accanto a loro, nascondendosi subito sotto i germogli di rapa alti una ventina di centimetri. Jake si fermò davanti alla porta. Era una vecchia porta su cardini, con una serratura di sicurezza, ma qualcuno l’aveva forzata: un piede di porco giaceva in mezzo all’erba accanto alla baracca.

Moot osservo la porta. «Non c’è ruggine» disse, indicando il metallo scoperto nel punto in cui la serratura era stata rotta. «È stato fatto da poco.» Con la punta delle scarpe eleganti sollevò appena il piede di porco. «L’erba sotto è ancora verde; la porta dev’essere stata forzata ieri, o oggi stesso.» Guardò Jake. «Tenete qualcosa di prezioso là dentro?»

«Di prezioso, sì» rispose Jake. «Ma quanto a venderlo? Non se ne parla, a meno che non si conosca un mercato nero per apparecchi obsoleti di fisica dell’alta energia.»

«Lei ha detto che il collisore non è stato usato di recente?»

«Non da qualche anno.»

«Potrebbero essere dei vagabondi» disse Moot. «Là sotto può viverci qualcuno?»

«Io… io penso di sì. Sarebbe buio e freddo, ma a prova d’acqua.»

Moot aveva una sacca fissata su un fianco; la aprì e ne estrasse un piccolo congegno elettronico che fece scorrere sopra il piede di porco. «Ci sono un sacco di impronte digitali» disse. Jake guardò anche lui: si potevano vedere le impronte fluorescenti sullo schermo del congegno. Moot premette qualche pulsante. Dopo circa trenta secondi del testo cominciò a scorrere sullo schermo. «Nessuna corrispondenza in archivio. Chiunque ha lasciato queste impronte non è mai stato arrestato in Svizzera o nell’Unione europea.» Una pausa. «Quanto è lontano Procopides?»

Jake indicò col dito. «Più o meno cinque chilometri in quella direzione. Ma qui dovrebbero esserci un paio di carrelli a cuscino d’aria parcheggiati; ne prenderemo uno.»

«Ha un cellulare? Possiamo chiamarlo?»

«È sepolto sotto cento metri di terreno» rispose Jake. «I cellulari non funzionerebbero.»

Si affrettarono dentro la baracca.


Theo aveva percorso un paio di centinaia di metri lungo il tunnel senza trovare niente che potesse aiutarlo ad aprire lo sportello di accesso all’unità criostatica. Si guardò indietro; l’unità stessa era scomparsa alla vista oltre la curva appena accennata della galleria. Stava per rinunciare e tornare alla monorotaia quando il suo sguardo fu colpito da qualcosa poco più avanti. C’era qualcun altro che stava lavorando accanto a uno dei magneti esapolari. Quell’individuo non indossava il casco di sicurezza… una violazione dei regolamenti bella e buona. Theo pensò di chiamarlo, ma l’acustica nel tunnel era così cattiva che lui aveva imparato da tempo che era inutile rivolgersi a voce a qualcuno oltre una certa distanza. Be’, a Theo non importava chi fosse, gli bastava che avesse con sé una cassetta degli attrezzi più fornita della sua.

Theo impiegò un altro minuto prima di avvicinarsi all’uomo. Lavorava accanto a una delle pompe dell’aria; il frastuono della pompa doveva avere coperto il rumore dei passi di Theo che si avvicinava. Fermo sul pavimento della galleria c’era un carrello a cuscino d’aria, un disco di circa un metro e mezzo di diametro con due sedili singoli sotto un tettuccio. I carrelli a cuscino d’aria erano stati progettati per l’uso nei campi da golf; sui green erano molto più semplici ed efficaci degli antiquati veicoli motorizzati.

Ai vecchi tempi c’erano migliaia di dipendenti del CERN che Theo non aveva mai visto, ma in quel momento, con il personale ridotto a poche centinaia di persone, Theo si stupì di vedere qualcuno che non conosceva.

«Ehilà» disse Theo.

L’uomo — un bianco magro sulla cinquantina, con i capelli grigi e gli occhi anch’essi grigi — si girò di colpo, evidentemente colto di sorpresa. Aveva con sé una cassetta degli attrezzi, ma…

Aveva aperto una grossa piastra di accesso sul lato di una pompa dell’aria e aveva appena finito di inserirvi un congegno…

Un congegno che assomigliava a una valigetta di alluminio con una fila di cifre digitali luminescenti su un fianco.

Cifre luminescenti che avevano iniziato il conto alla rovescia.

30

C’era una serie di armadietti allineata lungo una parete della baracca. Jake prese un casco giallo e indicò a Moot di fare la stessa cosa. All’interno c’era un ascensore, ma anche una rampa di scale che scendeva verso il basso. Jake premette il pulsante di chiamata per l’ascensore; i due attesero per un tempo interminabile che comparisse la cabina.

«Chiunque sia stato a entrare deve essere ancora qui dentro» disse Jake. «Altrimenti l’ascensore sarebbe stato fermo a questo piano.»

«Non potrebbe avere preso le scale?» chiese Moot.

«Potrebbe, ma sono un centinaio di metri… l’equivalente di trenta piani in un palazzo per uffici. Anche scenderle è faticoso.»

L’ascensore giunse e loro entrarono. Jake premette il pulsante per avviare la discesa. La discesa fu lenta in modo frustrante; ci volle un minuto buono per giungere a livello della galleria. Jake e Moot uscirono dalla cabina. C’era un carrello a cuscino d’aria parcheggiato lì, e Jake vi si diresse. «Non mi ha detto che dovevano essercene due?» gli domandò Moot.

«A quanto mi risultava, sì» rispose Jake.

Jake si sistemò sul sedile del guidatore, e Moot su quello del passeggero. Accese i fari e attivò le ventole per l’effetto terreno. Il carrello si sollevò e i due imboccarono il tunnel in senso antiorario, procedendo alla massima velocità consentita dal piccolo veicolo.

Lungo il percorso il tunnel si raddrizzava per un certo tratto; lo faceva in prossimità di ognuno dei quattro rilevaton, per evitare le radiazioni del sincrotrone. Nel mezzo della sezione rettilinea i due uomini videro la gigantesca sala vuota, alta venti metri, in cui veniva solitamente alloggiato il rilevatore detto Solenoide a muoni compatti (CMS), con il suo magnete da 14.000 tonnellate. Quando era stato costruito, il CMS era costato oltre cento milioni di dollari americani. Dopo lo sviluppo del Collisore tachioni-tardioni il CERN aveva messo in vendita il CMS così come ALICE, DI solito alloggiato in una sala analoga in un altro punto della galleria circolare. Il governo giapponese li aveva acquistati entrambi per utilizzarli nel loro acceleratore KEK a Tsukaba. Michiko Komura aveva supervisionato di persona lo smantellamento delle enormi macchine a Ginevra e il loro riassemblaggio in terra nipponica. Il rumore dei motori del carrello a cuscino d’aria echeggiò nella grande sala, abbastanza grande da ospitare un palazzina condominiale.

«Quanto manca ancora?» chiese Moot.

«Non molto» disse Jake.

Continuarono ad avanzare.


Theo guardò l’uomo, ancora accucciato nella galleria di fronte alla pompa dell’aria. «Mein Gott» esclamò quest’ultimo a bassa voce.

«Ehi» disse Theo. «Chi è lei?»

«Salve, dottor Procopides,» disse l’uomo.

Theo si rilassò. Se quel tipo sapeva chi era, non poteva trattarsi di un intruso. E poi aveva un aspetto vagamente familiare.

L’uomo guardò lungo il tunnel nella direzione da cui era arrivato Theo, poi infilò la mano all’interno della giacca di pelle che indossava ed estrasse una pistola.

Il cuore di Theo ebbe un sussulto. Naturalmente, anni prima, quando il giovane Helmut gli aveva menzionato una Glock 9 mm., Theo aveva cercato una fotografia di quell’arma sul Web. La pistola squadrata semiautomatica che adesso era puntata su di lui era proprio quella dell’immagine; il suo caricatore poteva contenere fino a quindici proiettili.

L’uomo abbassò lo sguardo sulla pistola, come se lui per primo fosse sorpreso di vedersela in mano. Poi scrollò appena le spalle. «Una cosetta che mi sono procurato negli Stati Uniti… laggiù è molto più facile che venga fuori roba del genere.» Fece una pausa. «Eh, sì, lo so che cosa sta pensando.» Indicò con un gesto della mano la valigetta di alluminio con il timer a led blu. «Lei sta pensando che forse questa è una bomba. Ed è esattamente questo, una bomba. Immagino che avrei potuto collocarla in qualsiasi punto, ma ho percorso la galleria per un bel pezzo prima di trovare un luogo in cui nasconderla, per paura che qualcuno la trovasse. Infilarla in questo posto mi è sembrata la scelta più adatta.»

«Che cosa…» Theo si sorprese nel sentire come suonava la sua voce. Deglutì, sforzandosi di riacquistarne il controllo. «Che cosa sta tentando di ottenere?»

L’uomo scrollò di nuovo le spalle. «Mi sembra evidente. Sto cercando di sabotare il vostro acceleratore di particelle.»

«Ma perché?»

L’uomo gesticolò con la pistola in direzione di Theo. «Lei non mi riconosce, vero?»

«Ha l’aria familiare, ma…»

«È venuto a trovarmi in Germania. Uno dei miei vicini si era messo in contatto con lei; nella mia visione io stavo guardando un notiziario in videonastro sulla sua morte.»

«È vero» disse Theo. «Mi ricordo.» Non gli venne in mente il nome dell’uomo, ma ricordava benissimo l’incontro con lui, vent’anni prima.

«E perché stavo guardando quel notiziario? Come mai la storia della sua morte era l’unica storia di quel notiziario che stavo seguendo in quel futuro nel quale sono stato proiettato? Perché stavo controllando se avessero qualche prova che poteva ricondurre a me. Non ho mai avuto l’intenzione di uccidere qualcuno, ma io la ucciderò, se sarà necessario. In fondo sarebbe anche giusto. Lei ha ucciso mia moglie.»

Theo cominciò a protestare che lui non aveva fatto nulla del genere, ma poi gli tornò alla mente. Sì, ricordava la sua visita a quell’uomo. Sua moglie era caduta per le scale in una stazione della metropolitana durante il fenomeno della dislocazione temporale: si era spezzata l’osso del collo.

«Non potevamo assolutamente prevedere quello che sarebbe successo… non c’era proprio nessun modo di saperlo.»

«Ma certo che c’era un modo» scattò l’uomo… Rusch, ecco come si chiamava. Theo ricordò: Wolfgang Rusch. «Ma certo che c’era. Nessuno vi obbligava a fare quello che avete fatto. Tentare di riprodurre le condizioni dell’origine dell’universo! Tentare di portare con la forza l’opera di Dio alla luce del giorno! La curiosità dicono, uccise il gatto. Ma è stata la vostra curiosità… ed è mia moglie che è morta.»

Theo non sapeva che cosa dire. Come spiegare la scienza — il bisogno, la ricerca — a qualcuno che è palesemente un fanatico? «Mi ascolti,» disse Theo «dove sarebbe il mondo se noi non avessimo…»

«Lei pensa che io sia pazzo?» disse Rusch. «Pensa che sia fuori di cervello?» Scosse la testa. «Non sono fuori di cervello.» Infilò la mano nella tasca posteriore e tirò fuori il portafogli. Armeggiò per estrarne una tessera laminata gialloblu e la mostrò a Theo.

Theo la guardò. Era una un tesserino di facoltà, dell’università di Humboldt. «Docente con cattedra» disse Rusch. «Dipartimento di chimica. Laurea alla Sorbona.» Giusto… nel 2009 l’uomo aveva detto che insegnava chimica. «Se allora avessi saputo del suo ruolo in tutto questo, non le avrei parlato. Ma lei è venuto a trovarmi prima che il CERN rendesse pubblico il suo coinvolgimento nella faccenda.»

«E adesso vuole uccidermi?» chiese Theo. Il suo cuore batteva così forte che gli sembrò sul punto di scoppiare, mentre sentiva il sudore che gli colava lungo tutto il corpo. «Questo non riporterà in vita sua moglie.»

«Oh, certo che lo farà» disse Rusch.

Era proprio pazzo. Dannazione, perché Theo era andato nella galleria da solo?

«Non la sua morte, naturalmente» aggiunse Rusch. «Ma ciò che sto facendo. Sì, riporterà in vita Helena. Tutto per via del principio di esclusione di Pauli.»

Theo non trovò nulla da controbattere: quell’uomo vaneggiava. «Che cosa?»

«Wolfgang Pauli» disse Rusch, annuendo. «Mi piace raccontare ai miei studenti che mi hanno chiamato Wolfgang in suo onore, ma non è vero… era lo zio di mio padre che si chiamava così.» Una pausa. «Il principio di esclusione di Pauli si applicava in origine solo agli elettroni: due elettroni non possono occupare simultaneamente lo stesso stato di energia. In seguito venne allargato fino a comprendere altre particelle subatomiche.»

Theo sapeva tutto ciò. Cercò di nascondere il panico crescente. «E con questo?»

«Con questo io credo che il principio di esclusione si applichi anche al concetto di adesso. Ci sono tutte le prove: può esserci un solo adesso… in tutta la storia dell’uomo siamo sempre stati d’accordo su quale momento sia il presente. Non c’è mai stato un momento in cui una parte dell’umanità fosse convinta che era adesso, mentre un’altra parte credeva che fosse il passato, e un’altra ancora pensava che fosse il futuro.»

Theo alzò appena le spalle, senza riuscire a capire dove portasse quel discorso.

«Ma non capisce?» disse Rusch. «Proprio non ci arriva? Quando lei ha spostato in avanti di ventuno anni la consapevolezza dell’umanità — quando lei ha spostato l’adesso dal 2009 al 2030 — il senso dell’adesso che apparteneva alla gente del 2030 deve essersi spostato da qualche altra parte. Il principio di esclusione! Ogni momento esiste come ‘adesso’ per coloro che vi sono congelati dentro… non si può sovrapporre l’adesso del 2009 a quello del 2030: i due adesso non possono esistere simultaneamente. Nel momento in cui avete spostato in avanti l’adesso del 2009, l’adesso del 2030 è stato costretto a lasciare quel tempo. Quando ho saputo che avevate intenzione di replicare ancora l’esperimento nel momento esatto che le visioni originali avevano mostrato, ogni cosa è andata al suo posto.» Fece una pausa. «La supernova di Sanduleak oscillerà per molti decenni o secoli… di certo il tentativo di domani non sarà l’ultimo. Lei pensa che il desiderio dell’umanità di vedere il futuro verrà soddisfatto da un’altra occhiata? Certo che no. Siamo sempre famelici nei nostri desideri. Fin dai tempi antichi nessun sogno è mai stato più seducente di quello di vedere il futuro. Ogni volta che sarà possibile spostare la sensazione di adesso, noi lo faremo… sempre ammesso che domani il vostro esperimento abbia successo.»

Theo guardò la bomba. Se leggeva correttamente il display mancavano ancora cinquantacinque ore prima che esplodesse. Cercò di pensare con chiarezza: non immaginava quanto fosse snervante avere una pistola puntata al cuore. «E quindi… quindi che cosa vuole affermare? Che se qui nel 2030 non c’è nessuna apertura perché la consapevolezza del 2009 vi si infili dentro, allora quel primo balzo non avverrà mai?»

«Proprio così!»

«Ma è assurdo. Il primo balzo è già avvenuto. Noi tutti lo abbiamo vissuto ventuno anni fa.»

«Non tutti… qualcuno è morto» disse secco Rusch.

«Be’, certo, ma…»

«Sì, è successo. Ma io lo annullerò. Io scriverò retroattivamente gli ultimi due decenni.»

Theo non aveva intenzione di discutere con lui, ma disse lo stesso: «Non è possibile.»

«Sì che lo è. Non capisce? Ci sono già riuscito.»

«Che?»

«Che cosa avevano in comune, la prima volta, le visioni di tutti?» chiese Rusch.

«Io non…»

«Attività da tempo libero! La stragrande maggioranza della popolazione sembrava in vacanza, libera dal lavoro. E perché? Perché a tutti era stato detto di rimanere a casa, quel giorno, di starsene al sicuro, visto che il CERN avrebbe tentato di replicare la dislocazione temporale. Ma successe qualcosa… qualcosa che impedì lo svolgimento di quella replica, troppo tardi perché la gente tornasse al lavoro. E così l’umanità si godette una vacanza inattesa.»

«E più probabile che ciò che abbiamo visto la prima volta fosse semplicemente una versione della realtà in cui l’evento precognitivo non si era mai verificato.»

«Sciocchezze» disse Rusch. «Certo, abbiamo visto qualcuno al lavoro… commercianti, venditori ambulanti, poliziotti e via dicendo. Ma quasi tutte le attività produttive erano ferme, no? Lei avrà sentito tutte le ipotesi… che mercoledì 23 ottobre 2030 ci sarebbe stata qualche grande vacanza, celebrata in tutto il mondo. Un giorno di disarmo universale, magari, o i festeggiamenti per il primo contatto con gli alieni. Ma adesso siamo nel 2030, e lei sa bene quanto me che una celebrazione del genere non esiste. Tutti erano a casa, preparandosi a una dislocazione temporale che non si è verificata. Ma qualcuno li aveva avvisati in anticipo che non sarebbe avvenuta… nel senso che la notizia che il grande collisore per Adroni era stato danneggiato era stata resa nota un po’ prima di quel giorno. Bene, io ho regolato la mia bomba perché esploda due ore prima dell’arrivo dei neutrini di Sanduleak.»

«Ma se nei telegiornali ci fosse stata una notizia del genere, di certo qualcuno l’avrebbe vista nella sua visione. Qualcuno ne avrebbe parlato.»

«Ma chi poteva starsene a casa a guardare la TV in un giorno imprevisto di vacanza?» obiettò Rusch. «No, io sono sicuro che lo scenario che ho descritto è corretto. Riuscirò a mettere fuori uso il CERN, e la consapevolezza del 2030 rimarrà esattamente nel momento in cui deve essere, e il cambiamento si propagherà a ritroso nel tempo fino a quel punto, ventuno anni fa, riscrivendo la storia. La mia adorata Helena, e tutta l’altra gente che è morta a causa della vostra arroganza, tornerà a vivere.»

«Lei non può uccidermi» disse Theo. «E non può tenermi qui per due giorni. La gente noterà la mia assenza e verranno quaggiù a cercarmi, scopriranno la sua bomba e la neutralizzeranno.»

«Una buona osservazione» disse Rusch. Sempre tenendo la Glock attentamente puntata su Theo, fece qualche passo all’indietro verso la bomba. La estrasse dall’interno della pompa dell’aria tenendola per la maniglia. Doveva avere notato l’espressione di Theo. «Non si preoccupi» disse. «Non è così delicata.» Sistemò la bomba sul pavimento del tunnel e fece qualcosa al meccanismo del temporizzatore. Poi la girò in modo che il lato lungo fosse rivolto verso Theo. Theo guardò il timer. Faceva ancora il conto alla rovescia, ma stavolta segnava 59 minuti, 56 secondi.

«La bomba esploderà fra un’ora» disse Rusch. «È prima di quanto avessi programmato, e con la diffusione della notizia così in anticipo, probabilmente stiamo defraudando la gente del loro giorno di vacanza per dopodomani, ma l’effetto generale sarà lo stesso. Finché il danno alla galleria richiederà più di due giorni per essere riparato, lo Zwischenfall non sarà replicato.» Fece una pausa. «Ora, noi due cominciamo a camminare. Non mi fido a stare su un carrello a cuscino d’aria insieme a lei, o… immagino che lei abbia preso la monorotaia, no? Bene, non la prenderemo. Ma in un’ora possiamo allontanarci a sufficienza lungo la galleria da non rischiare di essere feriti dall’esplosione.» Fece un gesto con la pistola. «Mettiamoci in movimento.»

Cominciarono a camminare in senso antiorario, in direzione della monorotaia, ma prima che avessero percorso una decina di metri Theo si rese conto di un debole ronzio alle loro spalle. Si voltò, e altrettanto fece Rusch. Proprio in fondo alla curva del tunnel, in lontananza, apparve un altro carrello.

«Dannazione» esclamò Rusch. «Chi sarà?»

Anche a quella distanza era facile distinguere la testa rossa e grigia di Jake Horowitz, ma l’altro passeggero…

Dio! Sembrava proprio…

Lo era. Il detective Helmut Drescher della polizia di Ginevra.

«Non lo so» disse Theo, facendo finta di aguzzare la vista.

Il carrello a cuscino d’aria si stava avvicinando rapidamente. Rusch guardò a destra e a sinistra. C’erano così tanti apparecchi montati sulle due pareti del tunnel che, avendo un minimo di preavviso, non era difficile trovare una nicchia in cui nascondersi. Rusch lasciò la bomba da una parte e si ritrasse per nascondersi al carrello in arrivo. Ma era troppo tardi. Jake stava chiaramente puntando su di loro. Rusch si avvicinò a Theo e piantò la pistola fra le sue costole. In tutta la vita, Theo non aveva mai sentito il suo cuore battere così forte.

Drescher aveva già in mano la pistola quando il carrello planò sul pavimento a circa cinque metri di distanza da Rusch e Theo.

«Chi è lei?» chiese Jake a Rusch.

«Attento!» sbottò Theo. «Ha una pistola.»

Rusch sembrava in preda al panico. Sistemare una piccola bomba era una cosa, ma la cattura di un ostaggio e un potenziale omicidio erano ben altro. Ma premette di nuovo la Glock contro il fianco di Theo. «Proprio così» disse. «Perciò state indietro.»

Adesso Moot era in piedi a gambe larghe, per ottenere la massima stabilità, e stringeva la pistola fra le due mani, puntandola direttamente al cuore di Rusch. «Getti l’arma.»

«Nein.»

Il tono di Moot era assolutamente neutro. «Getti l’arma o sparo.»

Gli occhi di Rusch guizzarono a destra e a sinistra. «Se lei spara, il dottor Procopides morirà.»

La mente di Theo lavorava a velocità folle. Era andata proprio così, la prima volta? Rusch avrebbe dovuto sparargli non una, ma tre volte, perché la realtà combaciasse con la visione. In una situazione come quella poteva avere il tempo di piantare una pallottola nel petto di Theo — non che gliene sarebbero servite altre — ma certamente appena avesse premuto il grilletto la prima volta, Moot, lo avrebbe fatto secco.

«Indietro» disse Rusch. «Indietro!»

Jake sembrava terrorizzato almeno quanto Theo, ma Moot non si mosse. «Getti quella pistola. Lei è in arresto.»

Il panico di Rusch sembrò alleviarsi per un attimo, come se fosse semplicemente stordito dalla responsabilità. Se era davvero un docente universitario, con ogni probabilità non aveva mai avuto problemi con la legge nel corso della sua intera esistenza. Ma poi il suo volto si illuminò. «Lei non può arrestarmi.»

«Col cavolo che non posso» disse Moot.

«Di quale forza di polizia fa parte?»

«Di quella di Ginevra.»

Rusch si concesse addirittura una risatina nervosa. Tornò a spingere la pistola contro il fianco di Theo. «Gli dica dove siamo.»

Theo aveva lo stomaco in subbuglio. Non riuscì a capire la domanda. «Nel grande collisore…»

Rusch premette di nuovo. «La nazione.»

Theo ebbe una fitta al cuore. «Oh.» Maledizione. Stramaledizione. «Siamo in Francia» disse. «Il confine passa proprio attraverso il tunnel.»

«Perciò» disse Rusch, guardando Moot «qui lei non ha nessuna giurisdizione; la Svizzera non è un membro dell’Unione europea. Se lei mi spara al di fuori della sua giurisdizione, si tratterà di omicidio.»

Moot sembrò avere un attimo di esitazione; la pistola nella sua mano tremolò. Ma poi tornò a puntarla direttamente al cuore di Rusch. «Mi occuperò più tardi degli aspetti legali della questione» disse Moot. «Getti quell’arma adesso o sparo.»

Rusch era così vicino a Theo che lui poteva sentirne il respiro… rapido, ansimante. Il tizio poteva andare in iperventilazione.

«Va bene» disse Rusch. «Va bene.» Fece un passo avanti, allontanandosi da Theo, e…

Bang!

La detonazione riecheggiò nella galleria.

Il cuore di Theo si fermò…

… ma solo per un attimo.

La bocca di Rusch si era spalancata per l’orrore, il terrore, la paura…

… mentre si rendeva conto di ciò che aveva fatto…

… e mentre Moot Drescher barcollava all’indietro, lasciando cadere la pistola, con una chiazza di sangue che gli si allargava all’altezza della spalla.

«Oh, mio Dio!» esclamò Jake. «Oh, mio Dio!» Schizzò in avanti, cercando di impadronirsi della pistola di Drescher.

Rusch sembrava assolutamente impietrito. Theo lo attaccò da dietro, stringendogli il collo con una mano e puntando il ginocchio contro la base della schiena. Con l’altra mano cercò di strappare la pistola calda e ancora fumante dalla presa di Rusch.

Adesso Jake brandiva la pistola di Drescher. Cercò di puntarla sulla sagoma combinata di Theo e Rusch, ma le mani gli tremavano in modo incontrollato, Theo torse con violenza il braccio di Rusch, che lasciò cadere l’arma. Theo si scostò dalla traiettoria e Jake fece fuoco. Ma le sue mani inesperte e tremanti mancarono del tutto il bersaglio, colpendo una lampada fluorescente sul soffitto, che esplose in una pioggia di scintille e frammenti di vetro. Anche Rusch adesso annaspava per recuperare la sua pistola, ma né lui né Theo sembravano in grado di afferrarla; alla fine Theo la allontanò con un calcio dalla mano di Rusch. L’arma scivolò lungo la galleria per una dozzina di metri, in senso antiorario.

A questo punto né Theo né Rusch erano armati, mentre Drescher giaceva in una pozza di sangue, ma sembrava ancora vivo; il suo petto si alzava e si abbassava. Jake sparò un altro colpo, ma sbagliò mira anche questa volta.

Rusch non si era ancora rimesso in piedi del tutto e già scattava per andare a riprendere la sua pistola. Theo, rendendosi conto che non sarebbe mai riuscito ad arrivare prima di lui, decise di puntare nella direzione opposta. «Ha innescato una bomba» gridò mentre passava accanto a Jake. «Occupati di Moot!»

Jake annuì. Adesso Rusch aveva recuperato la sua pistola, si era girato e stava correndo, l’arma tesa davanti a lui, verso Jake, Moot e Theo, che a sua volta si stava allontanando.

Correva con tutta la forza che aveva in corpo, e il rumore dei suoi passi rimbombava forte nel tunnel. Poco più avanti c’era la valigetta di alluminio che conteneva la bomba. Theo diede un’occhiata veloce al di sopra della spalla. Jake, sempre stringendo in mano la pistola di Moot, si era inginocchiato accanto al poliziotto. Rusch li oltrepassò, voltandosi e puntando la pistola su Jake finché non fu fuori tiro. Poi si girò e continuò a inseguire Theo.

Theo raggiunse la bomba, afferrandola al volo con una mano, e poi…

Balzò sul carrello a cuscino d’aria di Rusch e schiacciò il piede sul pedale attivatore. Mentre il carrello guadagnava velocità e si allontanava in senso orario, Theo si voltò di nuovo a guardare.

Rusch invertì la sua corsa. Jake, apparentemente convinto che Rusch se ne fosse andato, aveva posato a terra la pistola di Moot e gli stava sfilando dalla testa la camicia, che aveva ancora alcuni bottoni allacciati… evidentemente aveva intenzione di usarla come benda per tamponare il flusso di sangue che usciva dalla ferita. Rusch non ebbe problemi a impadronirsi del carrello che aveva condotto sul luogo Jake e Moot, e si lanciò all’inseguimento di Theo.

Theo, forte di un buon vantaggio, guidava il veicolo come meglio poteva. Ma era difficile mantenere una traiettoria dritta: non solo doveva fare i conti con il tracciato leggermente ricurvo della galleria, ma anche con tutti i grossi congegni che inevitabilmente sporgevano dalle pareti per tutta la loro lunghezza.

Theo diede un’occhiata al display della bomba: 41 minuti, 18 secondi. Sperò che Rusch avesse detto la verità quando aveva affermato che l’esplosivo non era sensibile agli urti. Collegata al display c’era una serie di pulsanti senza etichetta: impossibile dire quali servissero ad aumentare i valori della temporizzazione, e quali potessero provocare l’esplosione immediata della bomba. Ma se riusciva a giungere alla stazione di accesso e a riemergere in superficie, ci sarebbe stato tutto il tempo per abbandonare la bomba in mezzo a uno dei campi coltivati.

Il carrello di Theo barcollava in modo accentuato: senza dubbio lo stava spingendo a una velocità superiore a quella che i suoi giroscopi potevano gestire. Si guardò ancora alle spalle. All’inizio cominciò a emettere un sospiro di sollievo, perché Rusch non si vedeva, ma dopo un secondo il carrello inseguitore comparve oltre la parete ricurva del tunnel.

In alto era tutto buio; Theo aveva attivato l’illuminazione del soffitto solo per una porzione minima della circonferenza. Sperò che Jake fosse riuscito a fermare l’emorragia di Moot. Dannazione… forse non avrebbe dovuto prendere il carrello a cuscino d’aria; di certo la necessità di portare Moot in superficie doveva prevalere sull’esigenza di proteggere la strumentazione del tunnel. Sperò che Jake si rendesse conto che la monorotaia era a poca distanza.

Merda! Il carrello di Theo tocco la parete del tunnel e cominciò a ruotare su se stesso, con le luci dei fari che falciavano l’oscurità. Theo lottò con la leva che regolava il carrello, cercando di impedirgli di urtare contro qualche altro ostacolo. Riuscì a rimetterlo nella direzione giusta, ma adesso il carrello di Rusch era a metà strada della porzione visibile della galleria, invece che alla sua estremità.

Il carrello non viaggiava abbastanza veloce da creare una corrente vera e propria, ma dava ugualmente l’impressione di correre a rotta di collo. Naturalmente Rusch aveva ancora la Glock, ma un carrello non era come un’automobile: non si poteva sparare alle gomme sperando di rallentarne la velocità. L’unico modo sicuro per bloccarlo era quello di sparare al guidatore; Theo doveva tenere il piede sempre premuto sull’acceleratore perché il carrello non rallentasse.

Per quanto gli fu possibile, Theo continuò a manovrare a zigzag, su e giù, destra e sinistra, nel tunnel ingombro di congegni; se Rusch stava cercando di colpirlo alle spalle, gli avrebbe reso quel compito molto difficile.

Controllò i segni indicatori sulla parete che curvava dolcemente; la galleria era divisa in otto ottanti, ciascuno dei quali lungo circa tre chilometri e mezzo, e ogni ottante era suddiviso a sua volta in una trentina di sezioni di circa un centinaio di metri. Secondo le segnalazioni, lui si trovava nell’ottante numero tre, sezione ventidue. La stazione di accesso si trovava nell’ottante numero quattro, sezione trentatré. Poteva farcela…

Un urto!

Una pioggia di scintille.

Il rumore del metallo che si lacerava.

Dannazione, non era stato abbastanza attento; il carrello a cuscino d’aria aveva urtato contro una delle unità criogeniche. Per poco non si era capovolto, il che avrebbe fatto cadere al suolo Theo e la bomba. Lottò di nuovo con i comandi, cercando disperatamente di stabilizzare il veicolo. Un’occhiata fugace all’indietro confermò le sue paure: la collisione lo aveva rallentato al punto che ormai Rusch si trovava appena cinquanta metri alle spalle di Theo. Aveva pur sempre bisogno di un bel po’ di fortuna per colpirlo da quella distanza e con quelle condizioni di luce, ma se si fosse avvicinato ancora un poco…

Più avanti la galleria era ulteriormente ristretta da altri apparecchi; Theo dovette abbassare il carrello a pochi centimetri da terra, ma il controllo sul veicolo a quella velocità era assai approssimativo… il carrello scivolò saltellando sul pavimento come una pietra piatta lanciata su un lago.

Un’altra occhiata al temporizzatore della bomba: le cifre azzurrine risplendevano nell’oscurità. Trentasette minuti.

Bang!

Il proiettile sibilò a un palmo da Theo, che si rannicchiò istintivamente, poi colpì un’intelaiatura metallica sul soffitto, riempiendo il tunnel di scintille.

Theo sperò che Jake e Moot fossero scesi dalla stazione di accesso usando l’ascensore. Se la cabina si trovava in alto, Theo non aveva il tempo di aspettarla, e avrebbe dovuto farsi di corsa tutte le rampe di scale per evitare che Rusch gli sparasse addosso.

Theo sterzò di nuovo, questa volta per evitare una staffa che sosteneva la conduttura con i cavi della monorotaia. Si guardò indietro. Accidenti, il carrello di Rusch doveva avere una batteria più carica della sua; adesso gli era quasi alle calcagna.

La parete ricurva della galleria continuò a scorrergli avanti e, sì… perdio, eccola! La zona di sosta della stazione di accesso. Ma…

Ma ormai Rusch era troppo vicino… fin troppo vicino. Se Theo avesse fermato lì il carrello, Rusch gli avrebbe sparato addosso. Dannazione, dannazione, dannazione.

Theo provò un colpo al cuore mentre oltrepassava la stazione di accesso. Si girò sul sedile e la vide allontanarsi alla vista. Rusch, che evidentemente non aveva voglia di inseguire Theo per tutto il tunnel, sparò un altro colpo. Questo colpì il carrello, e la sua struttura metallica reagì vibrando.

Theo sollecitò il veicolo. Gli tornarono alla mente i vecchi carrelli da golf che il CERN utilizzava per percorrere brevi distanze all’interno della galleria, e ne sentì la mancanza. Almeno quelli non rischiavano di capovolgersi per l’eccessiva velocità.

I due continuarono a correre, sempre più avanti, ondeggiando lungo il tunnel, e…

Un forte fragore alle sue spalle. Theo si guardò indietro. Il carrello di Rusch aveva urtato contro la parete, e si era fermato. Theo non riuscì a reprimere una risatina.

Calcolava di avere percorso ormai circa diciassette chilometri… fra poco sarebbe comparsa alla vista la piazzola della stazione della monorotaia. Poteva raggiungerla, prendere l’ascensore e risalire fino alla sala di controllo dell’LHC. Sperò di vedere il trenino parcheggiato lì, il che voleva dire che Jake e Moot erano riusciti a raggiungere la salvezza, e…

Maledizione! Il suo carrello a cuscino d’aria, con la batteria scarica, stava esalando l’ultimo respiro. Probabilmente prima era risuonato il segnale di allarme, ma Theo non era riuscito a sentirlo per il rumore prodotto dal motore sollecitato al massimo. Il carrello cadde sul pavimento della galleria, scivolando per una certa distanza lungo la superficie di cemento prima di fermarsi in modo definitivo. Theo afferrò la bomba e si mise a correre. Una volta, da ragazzo, aveva partecipato a una rievocazione della corsa effettuata nel 490 A.C. da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria dei greci sui persiani… ma allora aveva trent’anni di meno. Adesso il cuore gli batteva forte, mentre cercava di aumentare la velocità.

Bang!

Un altro colpo di pistola. Rusch doveva essere riuscito a rimettere in funzione il carrello. Theo continuò a correre, con le gambe che, almeno nella mente, gli pesavano come macigni. Più avanti si trovava l’area di smistamento principale del campus, con una dozzina di carrelli parcheggiati lungo la parete. Solo un’altra ventina di metri…

Si guardò indietro. Rusch si stava avvicinando rapidamente. Cristo, non poteva fermarsi lì… sarebbe diventato un bersaglio fin troppo facile.

Theo costrinse il suo corpo a resistere per gli ultimi metri, e…

La caccia continuò.

Si lasciò cadere dentro un altro carrello a cuscino d’aria e si ritrovò nuovamente a piroettare lungo il tunnel, sempre in senso orario. Si guardò alle spalle. Rusch abbandonò il suo carrello, probabilmente preoccupato per la carica delle batterie, e salì a bordo di un altro, lanciandosi subito all’inseguimento.

Theo diede un’occhiata al timer della bomba. Restavano solo venti minuti, ma questa volta sembrava che lui avesse un buon vantaggio. E proprio per quello si soffermò a riflettere per un momento. Poteva essere che Rusch avesse ragione? Poteva esistere la minima possibilità di disfare tutti i danni, tutti i lutti che si erano verificati ventuno anni prima? Se non fossero esistite le visioni, la moglie di Rusch poteva essere ancora viva; così come la figlia di Michiko, e il fratello stesso di Theo, Dim.

Ma, naturalmente, nessuno che fosse stato concepito dopo le visioni — nessuno che fosse nato negli ultimi vent’anni — sarebbe stato lo stesso. Quale spermatozoo penetrasse in un ovulo dipendeva da migliaia di dettagli; se il mondo si sviluppava in modo differente, se le donne restavano incinte in giorni diversi, o addirittura in secondi diversi, i loro figli sarebbero stati diversi. C’erano — quanti erano? — qualcosa come quattro miliardi di individui che erano nati negli ultimi vent’anni. Anche se fosse riuscito a riscrivere la storia, aveva forse qualche diritto di farlo? Quei miliardi di uomini non meritavano forse i settant’anni di vita loro destinati, invece di essere semplicemente spazzati via, nemmeno uccisi ma del tutto cancellati dalla linea temporale?

Il carrello di Theo continuò il suo viaggio lungo la galleria. Si guardò ancora all’indietro; Rusch spuntava in quel momento dalla curva del tunnel.

No. No, anche se avesse potuto, lui non avrebbe cambiato il passato. E poi non era convinto che Rusch avesse ragione. Sì, il futuro poteva essere cambiato, ma il passato? No, quello doveva essere immutabile. Almeno su quello era sempre stato d’accordo con Lloyd Simcoe. Ciò che sosteneva quel Rusch era pura follia.

Un altro sparo! La pallottola lo mancò, colpendo il soffitto del tunnel sopra di lui. Ma Rusch ci avrebbe provato di nuovo, se avesse capito dove stava puntando Theo…

Un altro chilometro di corsa. Il timer segnava ormai undici minuti. Theo osservò i segnali lungo la parete, cercando di illuminarli con la fioca luce dei fari. Doveva essere poco avanti, e…

Eccola! Proprio dove l’aveva lasciata!

La monorotaia, appesa al soffitto. Se fosse riuscito a raggiungerla…

Echeggiò un altro colpo di pistola. Questo colpì il carrello, e per poco Theo non perse di nuovo il controllo dei veicolo. La monorotaia si trovava ancora a un centinaio di metri di distanza. Theo armeggiò ancora con la leva di guida, chiedendole velocità, sempre più velocità…

La monorotaia era composta da cinque elementi: una cabina a ciascuna delle due estremità, e tre vetture nel mezzo; lui doveva raggiungere la cabina più lontana, perché il treno si sarebbe mosso solo nella direzione che i suoi sistemi di rilevazione consideravano come in avanti.

C’era quasi…

Non rallentò gradualmente il carrello a cuscino d’aria; al contrario, tirò di scatto il freno. Il veicolo schizzò in avanti, e Theo insieme a esso. Andò a sbàttere contro la parete del tunnel, scivolando via e facendo volare scintille da tutte le parti. Theo uscì, afferrò la bomba e…

Un altro sparo…

Dio!

Uno schizzo del suo stesso sangue gli imbrattò la faccia…

Un dolore forte come non lo aveva mai provato in tutta la sua vita…

Un pallottola piantata nella spalla destra…

Dio…

Lasciò cadere la bomba, poi la riafferrò a tentoni con la mano sinistra e s’infilò barcollando nella cabina della monorotaia.

Dolore… dolore incredibile…

Premette il pulsante di avvio.

I fari, montati al di sopra del parabrezza inclinato, si accesero, illuminando la galleria davanti a lui. Dopo l’oscurità dell’ultima ora, quella luce gli sembrò dolorosamente forte.

La monorotaia si mise in moto, emettendo una specie di gemito. Theo spinse la leva della velocità, e il treno accelerò progressivamente.

Theo pensò che fra poco sarebbe svenuto per il dolore. Si voltò a guardare. Rusch stava oltrepassando il carrello abbandonato da Theo. La monorotaia utilizzava il sistema della levitazione magnetica, ed era in grado di raggiungere una notevole velocità, ma naturalmente nessuno l’aveva mai messa alla prova al limite delle sue possibilità all’interno della galleria.

Fino a ora.

Le cifre luminose della bomba segnavano otto minuti.

Un’altra pallottola gli fischiò vicino, mancando il bersaglio. Theo si girò appena in tempo per vedere il carrello di Rusch precipitarsi oltre la curva del tunnel.

Theo sporse la testa dal finestrino della cabina, e il vento gli investì la faccia. «Andiamo» disse. «Andiamo…»

Le pareti ricurve della galleria gli scorsero davanti abbagliandolo. I generatori della levitazione magnetica ronzavano rumorosamente.

Eccoli: Jake e Moot, il fisico che assisteva il poliziotto, il quale si era tirato su a sedere, miracolosamente vivo. Theo gli fece un cenno con la mano mentre la monorotaia li oltrepassava a tutta velocità.

Altri chilometri, poi…

Sessanta secondi.

Non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere la stazione di accesso remoto, né a risalire in superficie. Forse doveva semplicemente gettare via la bomba; sì, avrebbe messo fuori uso l’LHC, dovunque esplodesse, ma…

No.

No, si era spinto troppo avanti… e su di lui non c’era il marchio del destino: la sua morte non era preordinata.

Se solò…

Tornò a guardare il timer, poi i segni lungo la parete.

Sì!

Sì! Poteva farcela!

Sollecitò il treno a una velocità ancora maggiore.

E poi…

Il tunnel si allargò.

Theo pigiò sul freno d’emergenza.

Un’altra nuvola di scintille.

Metallo contro metallo.

La sua testa scagliata in avanti…

Un dolore atroce alla spalla…

Theo si lanciò oltre il bordo della cabina bloccata e si allontanò barcollando dalla monorotaia.

Quarantacinque secondi…

Percorse con passo incerto pochi metri lungo la galleria…

Fino all’entrata dell’enorme sala vuota, alta come un palazzo di sei piani, che una volta aveva ospitato il rilevatore CMS.

Fece forza su se stesso per avanzare, entrare nella sala, sistemare la bomba del bel mezzo dell’ampio spazio vuoto.

Trenta secondi.

Si voltò, corse più veloce che poteva, atterrito nel vedere il fiume di sangue che si lasciava dietro…

Di nuovo alla monorotaia…

Quindici secondi.

Dentro la cabina, scavalcando il bordo, un colpo sull’acceleratore…

Dieci secondi.

Via di corsa lungo il binario fissato al soffitto…

Cinque secondi.

Oltre la curva del tunnel…

Quattro secondi.

Quasi svenuto per il dolore…

Tre secondi.

Sollecitando il treno alla massima velocità.

Due secondi.

Coprendosi la testa con le mani, mentre la spalla protestava con violenza al gesto di sollevare il braccio destro…

Un secondo.

Con appena il tempo di domandarsi ciò che il futuro serbasse…

Zero!

Boom!

L’esplosione che rimbomba nel tunnel.

Una vampa di luce da dietro le spalle che proietta l’ombra enorme della forma insettoide della monorotaia contro la parete ricurva del muro…

E poi…

L’oscurità gloriosa, che guarisce, mentre il treno corre via e Theo si accascia sul minuscolo cruscotto.

Due giorni dopo.

Theo era nella sala di controllo dell’LHC. La sala era affollata, ma non di scienziati e ingegneri… era quasi tutto automatizzato. Tuttavia c’erano decine di giornalisti, tutti sdraiati sul pavimento. Naturalmente c’era anche Jake Horowitz, così come gli ospiti d’onore di Theo, il detective Helmut Drescher, con un bendaggio rigido alla spalla, e la sua giovane moglie.

Theo diede inizio al conto alla rovescia, poi si sdraiò anche lui al suolo, aspettando che la cosa accadesse.

31

Lloyd Simcoe pensava spesso a sua figlia Joan, sette anni, che adesso viveva in Giappone. Naturalmente si parlavano un giorno sì e un giorno no per videofono, e Lloyd cercava di convincersi che vederla e parlarle fosse la stessa cosa che coccolarla e tenerla sulle ginocchia e passeggiare con lei nel parco, mano nella mano, e asciugarle le lacrime quando cadeva e si sbucciava un ginocchio.

L’amava moltissimo ed era talmente orgoglióso di lei da non riuscire a esprimerlo a parole. Certo, malgrado il suo nome occidentale, non gli assomigliava nemmeno un po’: i suoi lineamenti erano del tutto asiatici. Ma soprattutto assomigliava in modo straordinario alla povera Tamiko, la sorellastra che non avrebbe mai conosciuto. L’aspetto esteriore, comunque, non contava; la metà di ciò che Joan era, proveniva da Lloyd. Più del suo premio Nobel, più di tutte le pubblicazioni che aveva scritto da solo o in collaborazione, lei era la sua immortalità.

E anche se veniva da un matrimonio che non era durato, Joan stava crescendo proprio bene. Oh, Lloyd non aveva dubbi che qualche volta la bambina desiderasse rivedere i suoi genitori insieme. Però Joan era venuta al matrimonio di Lloyd con Doreen, conquistando il cuore di tutti come damigella della donna che ben presto sarebbe diventata la sua matrigna.

Matrigna. Sorellastra. Ex-moglie. Ex-marito. Nuova moglie. Permutazioni: la panoplia delle interazioni umane, dei diversi modi di formare una famiglia. Ormai quasi nessuno si sposava con grandi cerimonie, ma Lloyd aveva insistito. La legge di quasi tutti gli stati e provincie del Nord America sosteneva che se due adulti vivevano insieme per un tempo sufficiente, erano sposati, e se smettevano di vivere insieme, non lo erano più. Chiaro e semplice, senza tante storie… e senza nessuno dei dispiaceri che i genitori di Lloyd avevano patito, senza le scenate e le sofferenze a cui lui e Dolly avevano assistito, a occhi sgranati, impietriti da quello spettacolo, mentre il mondo crollava loro addosso.

Invece Lloyd aveva voluto la cerimonia; ne aveva fatto a meno fin troppo, per la sua paura di creare un’altra famiglia destinata a spezzarsi… tra l’altro, Lloyd aveva notato che l’ultima edizione del Merriam-Webster bollava il termine famiglia come ‘arcaico’. Lloyd era assolutamente determinato a non farsi più condizionare dal passato. E così lui e Doreen avevano fatto le cose in grande: una festa magnifica, a detta di tutti, una notte da ricordare, piena di danze, e di canti, e di risate e d’amore.

Doreen era già in menopausa quando loro due si erano messi insieme. Naturalmente adesso esistevano procedimenti e tecniche particolari, e se lei avesse voluto un figlio avrebbe ancora potuto averne uno. Lloyd ne sarebbe stato ben felice; era già padre, ma non le avrebbe certo negato la possibilità di diventare madre. Ma Doreen aveva rifiutato. Era già soddisfatta della sua vita prima di incontrare Lloyd, e da quando stavano insieme la sua soddisfazione era aumentata… ma non smaniava per avere un figlio, non cercava l’immortalità.

Adesso che Lloyd era andato in pensione, i due trascorrevano un bel po’ di tempo insieme nel loro cottage nel Vermont. Naturalmente entrambe le loro visioni li avevano mostrati lì, in quel giorno. Avevano sistemato ridendo la stanza da letto, facendola sembrare il più possibile uguale a come l’avevano vista la prima volta, collocando con precisione il piccolo comodino in pannello truciolare e lo specchio da parete in pino nodoso.

E adesso Lloyd e Doreen erano sdraiati sul loro letto, uno accanto all’altra; lei indossava addirittura una camicia Tilley color blu marina. Attraverso la finestra si vedevano gli alberi adorni di colori sgargianti. I due avevano le dita intrecciate. La radio era accesa, e trasmetteva il conto alla rovescia per l’arrivo dei neutrini.

Lloyd sorrise a Doreen. Erano sposati da cinque anni. Lloyd immaginava, essendo figlio di genitori divorziati, e adesso divorziato lui stesso, che non fosse il caso di concepire pensieri ingenui, quanto alla possibilità di restare per sempre con Doreen, ma continuava a provare quella sensazione. Lloyd e Michiko erano stati una bella coppia, ma Lloyd e Doreen erano una coppia perfetta. Doreen era già stata sposata una volta, ma il suo matrimonio era finito vent’anni prima. Era convinta che non si sarebbe mai più risposata e aveva continuato a vivere da sola.

Poi aveva incontrato Lloyd, lui un premio Nobel per la fisica, lei una pittrice, due mondi completamente diversi… più diversi, sotto molti aspetti, del Giappone di Michiko rispetto al Nord America di Lloyd, eppure i due avevano legato alla perfezione, e l’amore era sbocciato, e adesso lui divideva la sua vita in due fasi, prima e dopo Doreen.

La voce alla radio continuò a snocciolare il conto alla rovescia. «Dieci secondi. Nove. Otto.»

Lui la guardò e sorrise, e lei gli restituì il sorriso.

«Sei. Cinque. Quattro.»

Lloyd si domandò che cosa avrebbe visto nel futuro, ma su una cosa non aveva nessun dubbio, neppure il più piccolo dubbio.

«Due! Uno!»

Qualsiasi cosa riservasse il futuro, lui e Doreen sarebbero stati sempre insieme.

Zero!


Lloyd vide un breve, immobile fotogramma di lui e Doreen, molto vecchi, più vecchi di quanto lui avesse mai immaginato di diventare, e…

Di certo non erano morti. Di certo lui non avrebbe visto niente, se la sua consapevolezza fosse venuta meno.

Il suo corpo poteva essersi deteriorato, ma… una breve occhiata, il lampo di un’immagine…

Un nuovo corpo, tutto argento e oro, liscio e rilucente…

Un corpo androide? L’aspetto di un robot per la sua consapevolezza di uomo?

O un corpo virtuale, niente di più — o di meno — che una rappresentazione di ciò che lui era all’interno di un computer?

La prospettiva di Lloyd si spostò.

Adesso guardava verso la Terra, da un’altezza di centinaia di chilometri. Nuvole bianche turbinavano sotto di lui, e la luce del sole si rifletteva sugli oceani enormi…

A parte che…

A parte che, in quell’unico breve momento nel quale ebbe quella percezione, lui pensò che forse non si trattava di oceani, ma piuttosto del continente nordamericano, la cui superficie era ricoperta da una ragnatela di metallo e macchinari, mentre l’intero pianeta era letteralmente diventato il World Wide Web.

Poi la sua prospettiva cambiò di nuovo, ma ancora una volta lui vide la Terra, o ciò che lui pensò potesse essere stata la Terra. Sì, sì, lo era certamente, perché c’era la Luna che sorgeva oltre il suo margine. Ma l’oceano Pacifico era più piccolo, ricopriva solo un terzo della faccia che lui vedeva, e la costa occidentale del Nord America era cambiata radicalmente.

Il tempo scorreva via veloce; i continenti avevano avuto millenni per spostarsi e assumere nuove forme.

E lui continuava ad andare avanti.

Vide la Luna allontanarsi muovendosi a spirale, sempre più dalla Terra, e poi…

Gli sembrò istantaneo, ma forse aveva richiesto migliaia di anni…

La Luna che si sbriciolava, riducendosi in pulviscolo.

Un altro balzo…

Poi la Terra stessa che si riduceva, si contraeva, diventava più piccola, un ciottolo, poi…

Di nuovo il sole, ma…

Incredibile…

Il sole era adesso incassato per metà in una sfera metallica, che catturava ogni fotone di energia che vi cadeva addosso. La Luna e la Terra non erano andate in frantumi… erano state smantellate. Erano diventate materia prima.

Lloyd proseguì il suo viaggio in avanti. Vide…

Sì, era inevitabile; sì, aveva letto qualcosa innumerevoli anni prima, ma non pensava che sarebbe vissuto abbastanza per vederlo.

La Via Lattea, quella girandola di stelle che il genere umano chiamava casa, in collisione con Andromeda, il suo vicino più grande, le due girandole che si intersecavano, il gas interstellare che prendeva fuoco.

E il suo viaggio continuò, avanti nel tempo.


Non fu affatto come la prima volta… ma in fondo che cosa lo è mai, nella vita?

La prima volta in cui si erano verificate le visioni, il passaggio dal presente al futuro era sembrato istantaneo. Ma se fosse durato anche un centomillesimo di secondo, chi se ne sarebbe accorto? E se quel centomillesimo di secondo fosse diventato 0,000005 secondi ogni anno di salto in avanti, di nuovo, chi se ne sarebbe accorto? Ma 0,000005 secondi per 8 miliardi di anni sommavano qualcosa più di un’ora… un’ora trascorsa a schizzare via, a scivolare lungo i panorami del tempo, senza mai afferrare, senza mai concretizzare, senza mai padroneggiare del tutto la consapevolezza vera e propria del momento, eppure sentendo, percependo, vedendo ogni cosa che gli si rivelava, osservando l’universo che cresceva e mutava, sperimentando l’evoluzione dell’umanità passo dopo passo, dall’infanzia…

… a ciò che era destinata a diventare, qualsiasi cosa fosse.

Naturalmente Lloyd non viaggiava affatto. Si trovava ancora nel New England, e non aveva più controllo su ciò che vedeva, o su ciò che il suo corpo surrogato faceva, di quanto ne avesse avuto nel corso della sua prima visione. I mutamenti di prospettiva erano certamente dovuti al riposizionamento di ciò che diventava con il trascorrere dei millenni. Doveva esserci stata una sorta di persistenza del ricordo, analoga alla persistenza della visione che rendeva possibile guardare un film. Certamente toccava ognuno di quei momenti per una frazione infinitesimale di secondo, con la sua coscienza che cercava di capire se quello strato del cubo era occupato, e quando scopriva che lo era, qualcosa come il principio di esclusione — Theo lo aveva informato per posta elettronica di Rusch e dei suoi presunti vaneggiamenti — le impediva di insediarsi lì, e subito ripartiva per il futuro, in avanti, sempre più avanti.

Lloyd si sorprese di avere ancora un’individualità; avrebbe pensato che se il genere umano era destinato a sopravvivere per milioni di anni di certo lo avrebbe fatto come coscienza collegata, collettiva. Ma nella sua mente non sentiva altre voci; per quanto poteva dire, lui era ancora una singola unità separata, anche se il fragile corpo fisico che una volta lo aveva avviluppato aveva da tempo cessato di esistere.

Aveva visto la sfera di Dyson che avvolgeva per metà il sole, il che significava che un giorno l’umanità avrebbe padroneggiato una tecnologia fantastica ma, fino a quel momento, non aveva visto la minima traccia di qualsiasi intelligenza diversa da quella dell’uomo.

Poi la cosa lo colpì: un’intuizione fulminea. Ciò che stava succedendo voleva dire che non esisteva in nessun luogo altra vita intelligente, su nessuno dei pianeti dei duecento miliardi di stelle che formavano la Via Lattea, anzi — si fermò per correggersi — dei seicento miliardi di stelle che facevano parte della supergalassia attualmente congiunta, formata dall’intersezione della più piccola Via Lattea con la più grande Andromeda. E su nessun pianeta delle stelle delle innumerevoli altre galassie che formavano l’universo.

Di certo tutta la consapevolezza, ovunque, doveva convenire su ciò che costituiva l’ adesso’. Se la coscienza umana rimbalzava via, si spostava, non significava forse che non poteva esistere nessun’altra coscienza, nessun altro gruppo in competizione per il diritto di affermare quale particolare momento costituisse il presente?

Nel qual caso l’umanità era sola in modo sconcertante, inesorabile, schiacciante, nell’intera vastità oscura del cosmo, l’unica scintilla di intelligenza che fosse mai stata generata. La vita si era felicemente sviluppata sulla Terra per quattro miliardi di anni, prima dei vagiti iniziali di autocoscienza, ma ancora nel 2030 nessuno era riuscito a duplicare quell’intelligenza in una macchina. Essere consapevole, sapere che quello era l’allora, questo è l’adesso e che domani è un altro giorno, era stato un incredibile colpo di fortuna, un evento casuale, una capricciosa coincidenza mai replicata prima o dopo nella storia dell’universo.

E forse questo spiegava l’incredibile mancanza di nerbo che Lloyd aveva notato molto spesso. Anche nel 2030 l’uomo non si era ancora avventurato oltre la Luna; nessuno aveva raggiunto Marte nei sessantuno anni successivi alla piccola passeggiata di Armstrong, e non sembrava esistere alcun programma per realizzare quel progetto. Marte, naturalmente, poteva allontanarsi dalla Terra fino a 377 milioni di chilometri, quando i due pianeti si trovavano sui lati opposti del sole. Una mente umana su Marte, in quelle condizioni, si sarebbe trovata a ventuno minuti luce dalle altre menti sulla Terra. Anche le persone che stanno in piedi l’una accanto all’altra sono in qualche modo separate dal tempo: si vedono non come sono, ma come erano un miliardesimo di miliardesimo di secondo prima. Sì, un certo grado di desincronizzazione era chiaramente tollerabile, ma doveva esserci un limite. Magari sedici minuti luce erano ancora accettabili — la distanza fra due individui sui lati opposti di una sfera di Dyson costruita lungo il raggio dell’orbita terrestre — ma ventuno minuti luce erano troppi. 0 forse anche sedici minuti luce erano al di là della capacità di accettazione di un essere consapevole. Il genere umano aveva certamente costruito la sfera di Dyson che Lloyd aveva osservato — e così facendo aveva posto una barriera fra sé e la vuota, solitaria vastità dell’esterno — ma forse la sua intera superficie interna non era popolata. La gente poteva occupare solo una porzione della superficie. Una sfera di Dyson, in fin dei conti, aveva un’area milioni di volte superiore a quella del pianeta Terra; anche occupare solo un decimo del territorio disponibile avrebbe offerto all’umanità una quantità di spazio di gran lunga maggiore di quello che avesse mai avuto a disposizione. La sfera poteva raccogliere ogni fotone emesso dalla stella centrale, ma probabilmente l’umanità non si era sparpagliata lungo tutta la superficie.

Lloyd — o qualunque cosa lui fosse diventato — si ritrovò a spingersi sempre più avanti nel futuro. Le immagini continuavano a cambiare.

Pensò a ciò che aveva detto Michiko: Frank Tipler e la sua teoria che chiunque fosse mai vissuto, o dovesse ancora vivere, era destinato a essere resuscitato nel punto Omega, per vivere di nuovo. La fisica dell’immortalità.

Ma la teoria di Tipler si basava sul presupposto che l’universo fosse chiuso, che avesse massa sufficiente perché la sua attrazione gravitazionale facesse collassare alla fine ogni cosa, riducendo il tutto a una singolarità. Col passare degli eoni divenne ben presto chiaro che ciò non sarebbe avvenuto. Sì, la Via Lattea e la sua più immediata vicina erano entrate in collisione, ma anche intere galassie erano ben poca cosa, a paragone con un universo in continua espansione. L’espansione poteva anche rallentare fino a ridursi a quasi nulla, avvicinandosi asintoticamente allo zero, ma non si sarebbe mai fermata. Non ci sarebbe mai stato un punto Omega. E non ci sarebbe mai stato un altro universo. Esisteva solo quello, la sola e unica iterazione dello spazio e del tempo.

Naturalmente, a questo punto, anche la stella racchiusa nella sfera di Dyson aveva senza dubbio esalato l’ultimo respiro; se gli astronomi del ventunesimo secolo non si erano sbagliati, il sole della Terra era destinato a espandersi in una gigante rossa, inghiottendo il guscio che lo circondava. L’umanità aveva avuto certamente miliardi di anni di preavviso, però, e si era di sicuro spostata — en masse, se è questo che richiedeva la fisica della consapevolezza — da qualche altra parte.

Almeno lo spero, pensò Lloyd. Si sentiva ancora disconnesso da tutto ciò che gli si mostrava in immagini individuali, luminose. Forse l’umanità era stata spazzata via quando il suo sole era morto.

Ma lui — qualsiasi cosa fosse diventato — era in qualche modo ancora vivo, ancora pensava, ancora provava sensazioni.

Doveva esserci qualcun altro con cui dividere tutto questo.

A meno che…

A meno che quello fosse il modo dell’universo di sigillare l’inattesa spaccatura causata dai neutrini di Sanduleak che si riversavano da una ricreazione dei primi momenti dell’esistenza.

Spazzare via ogni forma di vita estranea. Lasciare solo un osservatore qualificato… una forma onnisciente, che tenesse d’occhio…

…ogni cosa, decidendo la realtà in base alla sua osservazione. Bloccandola in un adesso stabile, muovendosi in avanti all’inesorabile ritmo di un secondo in più ogni secondo.

Un dio…

Ma di un universo vuoto, senza vita, incapace di pensare.

Alla fine la corsa nel tempo si fermò. Era giunto alla sua destinazione, al momento della rivelazione; la consapevolezza di questo anno così remoto — se la parola ‘anno’ poteva avere più qualche significato, adesso che il pianeta del quale misurava l’orbita era da tempo scomparso — si era trasferita in regni ancora più lontani, lasciando al suo posto un buco che lui poteva occupare.

Naturalmente l’universo era aperto. Naturalmente sarebbe andato avanti per sempre. L’unico modo in cui la consapevolezza del passato poteva continuare a balzare in avanti era quello di avere sempre un punto più lontano in cui potesse spostarsi la consapevolezza del presente; se l’universo fosse stato chiuso, la dislocazione temporale non si sarebbe mai verificata. Doveva essere una catena senza fine.

E adesso, di fronte a lui…

Di fronte a lui, adesso, c’era il futuro più remoto.

Da ragazzo Lloyd aveva letto La macchina del tempo, di H. G. Wells. E ne era rimasto affascinato per anni. Non dal mondo degli Eloi e dei Morlock; anche se così giovane, l’aveva subito interpretata come un’allegoria, un ‘morality play’ sulle strutture di classe dell’Inghilterra vittoriana. No, quel mondo dell’anno 802.701 non lo aveva impressionato più di tanto. Ma il viaggiatore nel tempo di Wells aveva effettuato un altro viaggio, nel libro, balzando in avanti fino al crepuscolo del mondo, quando le forze di marea avevano rallentato la rotazione della Terra, che aveva finito col rivolgere sempre la stessa faccia al sole, rosso e rigonfio, un occhio funesto sull’orizzonte, mentre cose simili a granchi risalivano lentamente lungo una spiaggia.

Ma ciò che era di fronte di lui, adesso sembrava ancora più desolato. Il cielo era buio: le stelle si erano allontanate così tanto fra loro che se ne vedevano pochissime. L’unico frammento di bellezza era che queste stelle, ricche di metalli forgiati nella generazione di soli che era venuta e scomparsa prima di loro, risplendevano di colori mai visti nel giovane universo. Che Lloyd conosceva da poco: stelle verde smeraldo, stelle purpuree, stelle turchese, come pietre preziose incastonate in un firmamento di velluto.

E adesso che era giunto alla sua destinazione, Lloyd non aveva ancora alcun controllo sul suo corpo sintetico; era un passeggero dietro occhi di vetro.

Sì, era ancora solido, aveva ancora una forma fisica. Ogni tanto riusciva a vedere ciò che sembrava essere il suo braccio, perfetto, immacolato, più simile a metallo liquido che a qualcosa di biologico, che entrava e usciva dal suo campo visivo. Si trovava sulla superficie di un pianeta, un’enorme distesa di polvere bianca che poteva essere neve, o roccia polverizzata, o qualcosa di totalmente sconosciuto alla povera scienza vecchia di miliardi di anni. Non c’era traccia di edifici; se si possedeva un corpo indistruttibile forse non si aveva bisogno di un riparo, o non lo si desiderava. Il pianeta non poteva essere la Terra — era scomparsa da tempo immemorabile — ma la gravità sembrava molto simile. Lloyd non sentiva alcun odore, ma c’erano dei suoni… suoni strani, eterei, una via di mezzo fra il sospiro di uno zefiro e la musica del vento.

Mentre si girava, vide che il suo campo visivo mutava. No, no, non era così… non si stava esattamente girando, piuttosto stava spostando la sua attenzione su un altro blocco di informazioni, con gli occhi sul retro della testa. Be’, perché no? Se si doveva fabbricare un corpo, tanto valeva migliorare le imperfezioni dell’originale.

E nel suo nuovo campo visivo c’era un’altra figura, un’altra essenza umana incapsulata. Con sua sorpresa la faccia non era stilizzata, non era un semplice ovale. Aveva invece delle fattezze intricate, delicatamente incise, e se il corpo di Lloyd sembrava essere fatto di metallo liquido, quello dell’altro era fluido marmo verde, venato e levigato e bellissimo, una statua incarnata.

Non c’era niente di femminile — o di maschile — nella forma, ma lui seppe in un attimo chi doveva essere. Doreen, naturalmente… sua moglie, la sua adorata compagna, l’unica con la quale voleva passare l’eternità.

Ma poi studiò il volto, i lineamenti elaborati, gli occhi…

Gli occhi a mandorla.

E poi…


Durante la replica dell’esperimento Lloyd era sdraiato sul letto, con la moglie al suo fianco… non potevano farsi male in nessun modo, una volta persa conoscenza.

«È stato incredibile,» disse Lloyd quando fu tutto finito. «Assolutamente incredibile.»

Voltò la testa, cercò la mano di Doreen e la fissò.

«Che cosa hai visto?» le domandò.

Lei usò l’altra mano per spegnere la radio. Lloyd notò che tremava. «Niente» rispose.

Lloyd ebbe un tuffo al cuore. «Niente? Nessuna visione?»

Lei scosse la testa.

«Oh, tesoro,» disse Lloyd. «Mi dispiace tanto.»

«Fin dove giungeva la tua visione?» chiese lei. Doveva essersi domandata per quanto tempo fosse stata priva di sensi.

Lloyd non sapeva come spiegarglielo a parole. «Non ne sono sicuro» rispose. Era stata una cavalcata emozionante… ma era doloroso pensare che Doreen non sarebbe vissuta per vederla anche lei.

Doreen cercò di sembrare coraggiosa. «Sono vecchia» disse. «Pensavo che magari potevo ancora vivere per altri venti o trent’anni, ma…» Lasciò la frase a metà.

«Sono sicuro che sarà così,» disse Lloyd, cercando di suonare convincente. «Vedrai che sarà così.»

«Ma tu hai avuto una visione…» disse lei.

Lloyd annuì. «Ma è stata… è stata in un futuro molto lontano.»

«TV accesa,» disse Doreen; la sua voce era ansiosa. «ABC.»

Uno dei quadri sulla parete divenne uno schermo televisivo. Doreen protese la testa per vedere meglio.

«…grande disappunto» disse la conduttrice, una donna sui quarant’anni. «Fino a questo momento nessuno ha effettivamente riferito di avere avuto una visione nel corso della perdita di sensi. La replica dell’esperimento del CERN sembra essere riuscita, ma nessuno qui all’ABC, né nessuno che ci abbia chiamato ha affermato di avere avuto una visione. Tutti sembrano essere rimasti semplicemente svenuti per… le prime stime sostengono che la gente è rimasta priva di conoscenza per circa un’ora. Come ha fatto per tutto il giorno, Jacob Horowitz è ancora in collegamento con noi dal CERN; il dottor Horowitz faceva parte della squadra che produsse il primo fenomeno della dislocazione temporale ventuno anni fa. Dottore, che cosa significa tutto questo?»

Jake sollevò le spalle. «Be’, ammettendo che una dislocazione ci sia stata — e, naturalmente, ancora non possiamo affermarlo con certezza — deve essersi trattato di un tempo talmente lontano nel futuro che chiunque oggi sia vivo è… insomma, non c’è un modo più diplomatico per dirlo, no? Chiunque oggi sia vivo, per allora deve essere morto. Se la dislocazione è stata, diciamo, di centocinquanta anni, immagino che non ci sia da sorprendersi, ma…»

«Togli sonoro» disse Doreen dal letto. «Ma tu hai avuto una visione» disse a suo marito. «Si riferiva a centocinquanta anni nel futuro?»

Lloyd scosse la testa. «Di più» disse. «Molto di più.»

«Quanti?»

«Milioni,» rispose lui. «Miliardi.»

Doreen fece una risatina. «Oh, andiamo, caro! Dev’essere stato un sogno… certo, tu sarai vivo nel futuro, ma allora starai sognando.»

Lloyd rifletté su quell’affermazione. Poteva avere ragione? Poteva essersi trattato solo di un sogno? Ma era stato così vivido… così realistico…

E poi aveva sessantasei anni, per l’amor di Dio. Per quanti anni fosse balzato in avanti, se aveva avuto una visione lui, dovevano averla avuta anche persone più giovani. Ma Jake Horowitz era un quarto di secolo più giovane, e certamente l’ABC aveva numerosi dipendenti dai venti ai quarant’anni.

E nessuno di loro aveva fatto cenno ad alcuna visione.

«Non lo so,» disse alla fine. «Non mi è sembrato un sogno.»

32

Il futuro poteva essere cambiato; lo avevano scoperto quando la realtà aveva deviato da ciò che era stato visto nella prima serie di visioni. Di certo anche quel futuro poteva essere cambiato.

In un tempo relativamente non troppo lontano sarebbe stato sviluppato un procedimento per l’immortalità, o per qualcosa di dannatamente vicino a essa, e Lloyd Simcoe sarebbe stato sottoposto a quel procedimento. Nulla di così semplice come bloccare i telomeri ma, qualunque cosa fosse, avrebbe funzionato, almeno per centinaia di anni. In seguito il suo corpo biologico sarebbe stato rimpiazzato da uno robotico, più durevole, e lui sarebbe vissuto abbastanza a lungo da vedere la Via Lattea e Andromeda che si baciavano.

Perciò tutto quello che lui doveva fare era scoprire un modo per accertarsi che anche Doreen potesse sottoporsi al trattamento per l’immortalità… quali che fossero i costi, o i criteri di scelta, lui doveva essere sicuro che sua moglie facesse parte del progetto.

Indubbiamente c’erano altre persone già vive, oltre a lui, che sarebbero diventate immortali. Lloyd non poteva essere stato il solo ad avere una visione; del resto, alla fine della sua non era più solo.

Ma, proprio come lui, gli altri se ne stavano tranquilli, cercando ancora di chiarire il senso della loro visione. Forse un giorno tutti gli umani sarebbero vissuti in eterno, ma fra gli appartenenti all’attuale generazione — quelli già vivi nel 2030 — sembrava che solo una manciata non avrebbero mai conosciuto la morte.

Lloyd li avrebbe trovati. Un messaggio sulla rete, magari, Niente di così clamoroso come chiedere a chiunque avesse avuto una visione di uscire allo scoperto. No, no… qualcosa di più sottile. Magari domandare a tutti coloro che avevano un interesse nelle sfere di Dyson di mettersi in contatto con lui. Anche coloro che non sapevano quello che stavano vedendo, nel momento delle visioni, una volta ripresa conoscenza dovevano avere cercato informazioni sulle immagini, e nel corso delle ricerche sulla rete il termine doveva essere saltato fuori.

Sì, li avrebbe trovati… avrebbe trovato gli altri immortali.


O sarebbero stati loro a trovare lui.

Lloyd aveva pensato che la donna vista nel futuro su quella spianata imbiancata dalla neve potesse essere Michiko.

Ma poi gli giunse la lettera che lo invitava a Toronto. Era un semplice messaggio di posta elettronica: «Sono l’uomo di giada che ha incontrato alla fine della sua visione.»

Giada. Ma certo, non marmo verde: giada. Non aveva parlato con nessuno di quella parte della visione. In fin dei conti, come faceva a dire a Doreen che aveva visto Michiko, e non lei?

Invece non era Michiko.

Lloyd volò in aereo da Montpelier all’aeroporto internazionale di Pearson e si diresse verso l’uscita delle lineejet. Era stato un volo internazionale, ma il suo passaporto canadese gli fece attraversare la dogana senza perdere troppo tempo. Un autista lo aspettava subito fuori del cancello, esibendo un piattino con il nome SIMCOE che risplendeva. La sua limousine volò — letteralmente — lungo la 407 fino a Yonge Street, poi verso sud fino alla torre di condomini sopra il grande centro commerciale.


«Se lei dovesse salvare dalla morte solo una minima parte della specie umana, quale sceglierebbe?» chiese il signor Cheung a Lloyd, che adesso era seduto sul divano di pelle arancione nel soggiorno dell’appartamento del cinese. «Come potrebbe accertarsi di avere scelto i più grandi pensatori, le menti migliori? Indubbiamente ci sono molti modi; per quanto mi riguarda, ho deciso di scegliere i vincitori del premio Nobel. I medici illustri, gli scienziati eminenti, i grandi scrittori! E, sì, i più grandi filantropi… i vincitori del premio Nobel per la pace. Naturalmente, chiunque potrebbe mettere in discussione le scelte del Nobel di ogni anno, ma grosso modo quelle scelte sono degne di considerazione. E così abbiamo cominciato ad avvicinare i vincitori del Nobel. Lo abbiamo fatto per via indiretta, naturalmente; immagini lo scalpore che avremmo suscitato nell’opinione pubblica se si fosse venuto a sapere che l’immortalità era una cosa possibile, ma che le masse ne erano escluse? Non avrebbero capito… non avrebbero capito che il procedimento era incredibilmente costoso e lo sarebbe rimasto con ogni probabilità per decenni. Oh, alla fine, forse, avremmo scoperto sistemi più economici per realizzarlo, ma all’inizio potevamo permetterci di trattare solo qualche centinaio di persone.»

«Lei incluso?»

Cheung si strinse nelle spalle. «Io vivevo a Hong Kong, dottor Lloyd, ma me ne sono andato per una ragione precisa. Sono un capitalista… e i capitalisti sono convinti che coloro che fanno il lavoro debbano prosperare grazie al sudore della loro fronte. Il processo dell’immortalità non esisterebbe senza i miliardi investiti per il suo sviluppo dalle mie compagnie. Sì, ho incluso anche me stesso, era un mio diritto.»

«Se lei ha scelto i premi Nobel, che mi dice del mio collaboratore, Theodosios Procopides?»

«Ah, sì. E sembrato prudente amministrare la cosa in ordine decrescente di età. Ma, certo, lo faremo anche con lui, nonostante la sua giovane età; nel caso di vincitori congiunti di Nobel, il procedimento verrà effettuato contemporaneamente su tutti i componenti del gruppo.» Una pausa. «Una volta ho conosciuto Theo, lo sa… ventuno anni fa. La mia visione originale aveva a che fare con lui, e quando si mise a cercare informazioni sul suo assassino venne a trovarmi.»

«Me lo ricordo; eravamo a New York insieme, e lui venne qui in aereo. Mi ha raccontato del suo incontro con lei.»

«Le ha riferito quello che gli avevo detto? Gli avevo detto che le anime sono immortali, dottor Procopides, e che la religione garantisce la giusta ricompensa. Gli ho detto che sospettavo che lo aspettassero grandi cose, e che un giorno avrebbe ricevuto un premio importante. Anche allora sospettavo la verità; in fin dei conti, a buon diritto, io non avrei dovuto avere visioni… a quest’ora sarei dovuto essere morto, o quanto meno non in grado di muovermi a passo sostenuto senza un aiuto. Naturalmente non potevo essere sicuro che un giorno il mio personale avrebbe sviluppato una tecnica per l’immortalità, ma era un interesse che coltivavo da molto tempo, e l’esistenza di una cosa del genere avrebbe spiegato la buona salute di cui godevo nella mia visione, nonostante l’età avanzata. Volevo che il suo amico sapesse, anche senza rivelare del tutto il mio segreto, che se fosse vissuto abbastanza a lungo, gli sarebbe stata offerta la più grande ricompensa: la vita illimitata.» Una pausa. «Lo vede spesso?»

«Non più.»

«Però sono felice — più di quanto lei possa immaginare — che la sua morte sia stata evitata.»

«Se era preoccupato di questo, e aveva a disposizione l’immortalità, allora perché non lo ha fatto sottoporre al trattamento prima del giorno in cui, secondo le visioni, sarebbe dovuto morire?»

«Il nostro procedimento arresta la senescenza biologica, ma di certo non rende invulnerabili… anche se, come lei ha visto certamente nella sua visione, saranno i corpi surrogati a farsi carico di quel problema. Se avessimo investito milioni su Theo, e lui avesse finito col farsi uccidere, be’, sarebbe stato uno spreco di una risorsa molto limitata.»

Lloyd rifletté su quelle parole. «Lei ha affermato che Theo è più giovane di me; è vero. Io sono un vecchio.»

Cheung rise. «Lei è un bambino! Io sono di trent’anni più vecchio.»

«Voglio dire» aggiunse Lloyd «che se questa cosa mi fosse stata offerta quando ero più giovane, più sano…»

«Dottor Simcoe, certo, lei ha sessantasei anni… ma ha trascorso tutta la sua vita all’ombra della medicina moderna, sempre più sofisticata. Ho visto le sue cartelle cliniche…»

«Che cosa ha fatto?»

«La prego… io qui dispenso la vita eterna; pensa seriamente che qualche accorgimento per proteggere la riservatezza personale costituisca un ostacolo per una persona nella mia posizione? Come stavo dicendo, ho visto le sue cartelle cliniche: il suo cuore è in forma eccellente, la pressione sanguigna è a posto, i livelli di colesterolo sono sotto controllo. Sul serio, dottor Simcoe, lei adesso è in una forma fisica migliore di quanto lo fosse qualsiasi venticinquenne nato più di cento anni fa.»

«Sono sposato. Che ne sarà di mia moglie?»

«Mi spiace, dottor Simcoe. La mia offerta vale solo per lei.»

«Ma Doreen…»

«Doreen vivrà ciò che le rimane della sua vita naturale… un’altra ventina d’anni, immagino. Non le viene negato nulla; lei trascorrerà insieme a sua moglie tutti questi anni. A un certo momento morirà. Io sono cristiano, dottor Simcoe… credo che ci attendano cose migliori… be’, almeno credo che sia così per molti di noi. Nella mia vita sono stato spietato e mi aspetto di essere giudicato con severità… ecco perché non ho fretta di ricevere la mia ricompensa. Ma sua moglie… io so molte cose su di lei, e sospetto che il suo posto in paradiso sia garantito.»

«Non sono sicuro di volere andare avanti senza di lei.»

«Sua moglie vorrebbe certamente che lei lo facesse, anche se non la potrà seguire. E, mi perdoni la franchezza, ma Doreen non è la sua prima moglie, né lei il suo primo marito. Io non denigro l’amore che voi provate, ma ciascuno di voi è, alla lettera, una semplice fase nella vita dell’altro.»

«E se scelgo di non partecipare?»

«Io sono un esperto in campo farmaceutico, dottor Simcoe. Se lei sceglie di non partecipare, o se finge di accettare ma ci dà ragione di dubitare della sua sincerità, le verrà iniettata una dose di mnemonase, che bloccherà tutta la sua memoria a breve termine. Lei dimenticherà del tutto questo incontro. Se proprio non desidera l’immortalità la prego di accettare questa opzione… è indolore e non ha effetti collaterali duraturi. E adesso, dottor Simcoe, ho proprio bisogno della sua risposta. Che cosa sceglie?»

Doreen andò a prendere Lloyd all’aeroporto di Montpelier. «Grazie al cielo sei tornato!» gli disse appena lui emerse dal deposito bagagli. «Che è successo? Perché hai perso il volo precedente?»

Lloyd abbracciò sua moglie e la strinse; Dio, quanto l’amava… e quanto si odiava per essere stato lontano da lei. Ma poi scosse la testa. «Tutta colpa di quella maledetta storia. Mi ero completamente dimenticato che il volo di ritorno era alle quattro.» Sollevò un poco le spalle, e riuscì a sorridere debolmente. «Forse sto invecchiando.»

33

Theo sedeva nel suo ufficio. Una volta, naturalmente, era stato l’ufficio di Gaston Beranger, ma il suo mandato quinquennale era scaduto da tempo, e in quei giorni il CERN non era abbastanza grande da richiedere un direttore generale. Così Theo, come direttore del CTT, se ne era appropriato. Il vecchio Gaston era ancora nei paraggi; era professore emerito in fisica all’università di Parigi a Orsay. Lui e MarieClaire erano ancora felicemente sposati, e avevano un figlio eccezionale, alle soglie della laurea, e anche una figlia.

Theo si scoprì a fissare la finestra. Era trascorso un mese dal grande blackout… il Cronolampo in cui tutti avevano perso coscienza per un’ora. Ma questa volta si erano comportati come Klaatu; non si era registrato un solo incidente in tutto il mondo.

Theo era ancora vivo, aveva evitato il proprio assassinio. Era destinato a sopravvivere… be’, chi poteva dire per quanto? Qualche decennio, certamente. Un supplemento di vita.

E, si rese conto con un sussulto, senza sapere che cosa fare di tutto quel tempo.

Era autunno; troppo tardi per annusare le rose, in senso letterale. Ma in senso figurato?

Si alzò, fece scivolare la porta interna dell’ufficio, lasciò che quella esterna facesse lo stesso, si diresse verso l’ascensore, scese al piano terra, percorse un corridoio, oltrepassò l’atrio e uscì dall’edificio.

Il cielo era nuvoloso, ma lui inforcò ugualmente gli occhiali da sole.

Quando era un ragazzo, Theo aveva corso da Maratona ad Atene. Finita la corsa, aveva pensato che il suo cuore non avrebbe mai smesso di pompare, e che lui non sarebbe mai riuscito a riprendere fiato. Ricordava nitidamente quel momento… mentre attraversava la linea del traguardo, completando la storica gara.

Naturalmente c’erano altri momenti che ricordava, con altrettanta nitidezza. Il suo primo bacio; il suo primo rapporto sessuale; immagini specifiche — come cartoline nella mente — di quel viaggio a Hong Kong; la laurea all’università; il giorno in cui aveva conosciuto Lloyd; la volta in cui si era rotto un braccio giocando a lacrosse. E il giorno del primo esperimento con l’LHC, il Cronolampo…

Ma…

Ma quei momenti vividi, quei ricordi scolpiti nella memoria, be’, risalivano tutti a due decenni o più nel passato.

Che cosa era successo più di recente? Quali esperienze significative, quali sottili dolori, quali altezze vertiginose?

Theo continuò a camminare; l’aria era fredda, tonificante. Dava a ogni cosa profilo, definizione, forma, una chiarezza che mancava da…

Da quando Theo aveva incominciato a indagare sulla sua morte.

Ventuno anni, ossessionato da un’unica cosa.

Achab aveva forse ricordi vividi? Oh, certo… quello di aver perso la gamba, senza dubbio. Ma dopo… dopo avere iniziato la sua ricerca? 0 era tutto un ricordo indistinto, mese dopo mese, anno dopo anno, ogni cosa, ogni persona archiviata e dimenticata?

Ma no… no. Theo non era Achab; non era incosciente e testardo come lui. Aveva trovato il tempo per fare molte cose, fra il 2009 e oggi, qui, nel 2030.

Eppure…

Eppure non si era mai concesso progetti per il futuro. Oh, aveva continuato a dedicarsi al suo lavoro, ed era stato promosso più volte, ma…

Una volta aveva letto un libro in cui si parlava di un uomo che all’età di diciannove anni aveva saputo di essere a rischio di contrarre il morbo di Huntington, una malattia che lo avrebbe privato delle sue facoltà mentali prima ancora di raggiungere la mezza età. Quell’uomo si era concentrato nel tentativo di diventare famoso prima che l’arco vitale concessogli giungesse a termine. Theo non aveva fatto nulla del genere. Certo, aveva fatto discreti progressi nel campo della fisica, e naturalmente aveva ottenuto il Nobel. Ma anche quel momento — l’atto di ricevere l’onorificenza — era lontano e sfuocato.

Ventuno anni offuscati e confusi. Anche sapendo che il futuro si poteva cambiare, anche promettendo a se stesso che non si sarebbe fatto condizionare la vita dalla ricerca del suo potenziale assassino, due decenni erano già passati, per lo più erano andati perduti… se non addirittura dimenticati, certamente appiattiti, sminuiti, ridotti a nulla.

Nessuna imperfezione fatale? C’era da ridere.

Theo continuò a camminare. Un coro di uccelli cinguettava in sottofondo.

Nessuna imperfezione fatale? Quello, fra tutti, era stato il pensiero più arrogante. Ma certo che l’aveva avuta, certo che aveva avuto un’hamartia. Ma era l’immagine speculare di quella di Edipo, il quale aveva creduto di poter sfuggire al suo destino. Theo, pur sapendo che il futuro non era immutabile, era stato ugualmente assillato dalla paura di non poterlo ingannare.

E così…

E così non si era sposato, non aveva fatto figli; in ciò poteva considerarsi inferiore allo stesso Achab.

Non aveva nemmeno letto Guerra e pace. O la Bibbia. Per dirla tutta, era — quanto tempo? — forse dieci anni che Theo non leggeva un romanzo.


Non aveva viaggiato, a parte gli spostamenti cui lo avevano portato le sue vecchie ossessioni per la ricerca del suo assassino.

Non aveva seguito corsi di cucina.

Non aveva preso lezioni di bridge.

Non aveva scalato il Monte Bianco, nemmeno in parte.

E adesso, incredibilmente, si ritrovava… be’, se non proprio tutto il tempo del mondo, almeno molto più tempo di prima.

Aveva il libero arbitrio; aveva un futuro da costruire.

Un pensiero che dava alla testa. Che cosa vuoi fare quando sarai grande? Le magliette con i personaggi dei cartoni animati erano scomparse, così come la sua gioventù. Aveva quarantotto anni: per un fisico significava essere vecchio. Troppo vecchio, con tutta probabilità, per raggiungere un altro traguardo importante.

Un futuro da costruire. Ma come definirlo?

Un futuro di momenti luminosi, di ricordi solidi come diamanti, chiaro ed eccitante. Un futuro vissuto, assaporato, formato da attimi così aguzzi e taglienti che qualche volta avrebbero potuto anche ferire e qualche volta scintillare in modo tanto abbagliante da disturbare la vista, ma che qualche volta sarebbero stati anche gioiosi, una felicità assoluta, pura, non contaminata, del genere che non aveva più provato nel corso di questi ultimi ventuno anni.

Ma d’ora in avanti…

D’ora in avanti avrebbe vissuto.

Ma che fare, per prima cosa?

Il nome riemerse dal passato, dal suo inconscio.

Michiko.

Lei era a Tokyo, naturalmente. A Natale gli aveva mandato una e-card, e un’altra in occasione del suo compleanno.

Aveva divorziato da Lloyd… il suo secondo marito. Ma dopo non si era più risposata.

Ecco, poteva andare a Tokyo, farle una visita. Quello sarebbe stato un momento magnifico.

Ma, Dio, erano passati così tanti anni. Tanta acqua sotto i ponti.

Eppure…

Eppure Theo l’aveva sempre tenuta in grande considerazione. Così intelligente… sì, era quella la cosa che gli veniva in mente per prima; quella mente splendida, quell’ingegno acuto. Ma non poteva negare che fosse anche graziosa. Forse anche più che graziosa, di certo elegante ed equilibrata, e vestita sempre in modo impeccabile, all’ultima moda.

Ma…

Ma erano passati ventuno anni.

Poteva esserci qualcuno altro nella sua vita, dopo tutto quel tempo.

No. Non c’era nessuno. Theo aveva sentito delle chiacchiere. Naturalmente era più giovane di lei, ma la cosa non importava veramente, no? Adesso Michiko avrebbe avuto… quanti anni? Cinquantasei.

Theo non poteva semplicemente preparare la valigia e partire per Tokyo.

O forse si?

Una vita da vivere…

Che aveva da perdere?

Un bel niente, decise. Un bel niente.

Tornò nell’edificio, scelse di salire a piedi invece che con l’ascensore, e divorò i gradini a due a due con le lunghe gambe, riempiendo il pozzo delle scale di echi rumorosi.

Certo, prima doveva chiamarla. Che ora era a Tokyo? Pronunciò la domanda a voce alta. «Che ora è a Tokyo?»

«Le venti e diciotto minuti» rispose uno degli innumerevoli dispositivi computerizzati sparpagliati nel suo ufficio.

«Chiama Michiko Komura a Tokyo» disse Theo.

Dall’altoparlante risuonarono degli squilli elettronici. Il suo cuore cominciò a battere. Uno schermo piatto sbucò dal piano della scrivania, mostrando il logo della Nippon Telecom.

E poi…

Eccola lì. Michiko.

Era ancora adorabile, ed era invecchiata bene: dimostrava una dozzina d’anni meno della sua età reale. E naturalmente era vestita in modo impeccabile… Theo non aveva ancora visto quel particolare stile in Europa, ma era sicuro che in Giappone fosse l’ultima moda. Michiko indossava una giacca corta con disegni di arcobaleni che la increspavano appena.

«Ciao, Theo, sei tu?» disse lei, in inglese.

Le e-card che si erano scambiati erano state solo di testo e grafica; erano anni che Theo non ascoltava più quella magnifica voce cristallina come uno scroscio d’acqua. Sentì che il suo viso si atteggiava in un sorriso stirato. «Ciao, Michiko.»

«Ti ho pensato» disse la donna «mentre si avvicinava la data indicata dalle visioni. Ma avevo paura di chiamarti. Temevo che tu pensassi che ti chiamavo per dirti addio.»

A Theo sarebbe piaciuto sentire prima quella voce. Sorrise. «In effetti l’uomo che nelle visioni ha cercato di uccidermi adesso è in carcere. Ha tentato di far saltare in aria l’LHC.»

Michiko annuì. «L’ho letto sul Web.»

«Credo che nessun’altra visione si sia avverata.»

Michiko alzò le spalle. «Be’, forse non con esattezza. Ma la mia splendida bambina è esattamente come l’avevo vista. E, lo sai, ho conosciuto la nuova moglie di Lloyd, e anche lui sostiene che è proprio come gli era apparsa nella visione. E oggi il mondo è molto simile a quello che risultava dal progetto Mosaico.»

«Immagino di sì. Comunque sono ben felice che la parte che mi riguardava non si sia avverata.»

Michiko sorrise. «Anch’io.»

Vi fu silenzio; una delle cose belle dei videofoni era che il silenzio non faceva male. Ci si poteva guardare, godersi l’immagine l’uno dell’altra, senza parole.

Lei era bellissima…

«Michiko» disse Theo, con un filo di voce.

«Hmmm?»

«Io… ecco, io ti ho pensato molto.»

Lei sorrise.

Theo deglutì, cercando di raccogliere il coraggio. «E mi stavo domandando, insomma, che ne diresti se venissi a farti una visitina in Giappone?» Sollevò la mano, come se sentisse il bisogno di offrire a entrambi una scappatoia nel caso lei avesse volutamente frainteso, deludendolo sia pure con dolcezza. «All’università di Tokyo c’è un CTT, e mi hanno chiesto di venire lì a tenere una conferenza sullo sviluppo tecnologico.»

Ma lei non cercava scappatoie. «Sarei felicissima di rivederti, Theo.»

Naturalmente non c’era modo di sapere se fra loro sarebbe nato qualcosa. Michiko poteva essere semplicemente un po’ nostalgica, ricordando il passato, i bei momenti passati insieme al CERN per tanti anni.

Ma forse, solo forse, erano sulla stessa lunghezza d’onda. Forse qualcosa sarebbe davvero successo fra loro. Forse, dopo tutti quegli anni, era destino che succedesse.

Theo lo sperò con tutto il cuore.

Ma solo il tempo lo avrebbe detto.

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