Colui che prevede le disgrazie
le soffre due volte.
Una frattura nello spaziotempo…
Il centro di controllo del Grande collisore per Adroni (Large Hadron Collider, LHC) del CERN era nuovo: era stato autorizzato nel 2004 e completato nel 2006. Comprendeva un cortile centrale, inevitabilmente chiamato ‘il nucleo’. Ogni ufficio aveva una finestra che si affacciava o verso il nucleo o verso l’esterno, sul vasto campus del CERN. Il quadrilatero che circondava il nucleo aveva due piani, ma gli ascensori principali facevano quattro fermate: una a ciascuno dei due piani, una al piano terra, in cui si trovavano le caldaie e i magazzini, e la quarta al livello meno novantanove metri, da dove si raggiungeva una delle stazioni della monorotaia utilizzata per percorrere la galleria circolare di ventisette chilometri del collisore. La galleria stessa correva sotto terreni agricoli, alla periferia dell’aeroporto di Ginevra, e ai piedi delle montagne del Giura.
La parete meridionale del corridoio principale del centro di controllo era divisa in diciannove lunghe sezioni, ciascuna delle quali era stata decorata con un mosaico realizzato da un artista di uno dei paesi membri del CERN. Quello greco rappresentava Democrito e l’origine della teoria atomica; quello tedesco illustrava la vita di Einstein; quello danese, la vita di Niels Bohr. Non tutti i mosaici, tuttavia, avevano la fisica come tema: quello francese riproduceva il profilo di Parigi, mentre quello italiano mostrava una vigna, con migliaia di ametiste levigate che rappresentavano i singoli grappoli.
La sala di controllo vera e propria del Grande collisore per Adroni era un quadrato perfetto con ampie porte scorrevoli posizionate nel centro esatto di ciascun lato. Era alta due piani, e la metà superiore aveva le pareti in vetro, in modo che i gruppi di visitatori potessero osservare l’attività dei tecnici; il CERN organizzava delle visite guidate per il pubblico della durata di tre ore nei giorni di lunedì e sabato, alle 9 e alle 14. Piú in basso, al di sopra delle finestre, appese contro le pareti erano disposte le bandiere dei diciannove stati membri, cinque per parete; il ventesimo riquadro era occupato dalla bandiera blu e oro dell’Unione europea.
La sala di controllo conteneva decine di consolle. Una era destinata alla gestione degli iniettori delle particelle e controllava l’inizio degli esperimenti. Quella accanto aveva la superficie angolata e dieci monitor incassati che mostravano i risultati trasmessi dai rivelatori ALICE e CMS, gli enormi sistemi sotterranei che avrebbero registrato e tentato di identificare le particelle prodotte dagli esperimenti dell’LHC. I monitor su una terza consolle mostravano sezioni della galleria sotterranea del collisore che curvava dolcemente, e la putrella della monorotaia appesa al soffitto.
Lloyd Simcoe, un ricercatore canadese, era seduto alla consolle degli iniettori. Aveva quarantacinque anni, era alto e sbarbato di fresco. Aveva gli occhi azzurri e i capelli tagliati alla militare di un colore marrone così scuro da poterli tranquillamente definire neri… a parte sulle tempie, che erano almeno per metà già ingrigite.
I fisici che studiavano le particelle non erano famosi per la loro eleganza nel vestire, e fino a poco tempo prima Lloyd non aveva fatto eccezione. Ma qualche mese prima aveva deciso di donare il suo intero guardaroba alla sede ginevrina dell’Esercito della salvezza, e di lasciare che la sua fidanzata scegliesse per lui dei capi completamente nuovi. Per dire la verità quegli abiti erano un po’ troppo vistosi per i suoi gusti, ma doveva riconoscere di non avere mai avuto un aspetto così distinto. Oggi indossava una camicia beige, una giacca color corallo, pantaloni marroni con sacche esterne al posto delle tasche e, in ossequio a una moda piú tradizionale, un paio di scarpe nere italiane di pelle. Lloyd aveva anche fatto propri un paio di status symbol universali che, guarda caso, appartenevano alla tradizione locale: una penna stilografica Mont Blanc, che teneva infilata nel taschino della giacca, e un buon orologio svizzero analogico.
Seduta alla sua destra, davanti alla consolle dei rivelatori, vi era la responsabile in carne e ossa della trasformazione, la sua fidanzata, l’ingegner Michiko Komura. Dieci anni piú giovane di Lloyd, Michiko aveva un nasino piccolo all’insù, e capelli neri e lucidi pettinati alla paggetto, secondo la moda del momento.
Alle sue spalle sedeva Theo Procopides, il ricercatore collega di Lloyd. Aveva ventisette anni, diciotto meno di Lloyd e non erano mancati i buontemponi che avevano paragonato il tradizionale, maturo Lloyd e il suo impetuoso collega greco alla coppia di genetisti Crick e Watson. Theo aveva i capelli ricci, neri e folti, gli occhi grigi e la mandibola prominente. Indossava quasi sempre dei jeans di cotone rosso — a Lloyd non piacevano, ma ormai nessuno sotto i trent’anni portava piú i bluejeans — e una delle sue tante magliette con personaggi dei cartoni animati di tutto il mondo; oggi esibiva quella con il venerabile Titti il canarino. Alle rimanenti consolle erano sistemati una dozzina di altri scienziati e ingegneri.
Risalendo lungo il cubo…
A parte il regolare mormorio dell’aria condizionata e il debole ronzio delle ventole di raffreddamento, la sala di controllo era assolutamente silenziosa. Tutti erano tesi e nervosi, dopo una lunga giornata trascorsa a mettere a punto l’esperimento. Lloyd si guardò intorno, poi respirò a fondo. Il suo polso era accelerato, e nel suo stomaco sembrava ci fosse un turbinio di farfalle.
L’orologio alla parete era analogico, come quello sulla sua consolle digitale. Entrambi si stavano rapidamente avvicinando alle 17:00… quelle che per Lloyd, anche dopo due anni che si trovava in Europa, erano ancora le cinque del pomeriggio.
Lloyd era il direttore di un gruppo di lavoro di quasi mille fisici che usavano il rivelatore ALICE (A Large Ion Collider Experiment). Lui e Theo avevano trascorso due anni a progettare la collisione delle particelle prevista per oggi… due anni per svolgere un lavoro che avrebbe potuto richiedere due vite intere. Stavano tentando di ricreare livelli di energia che non erano esistiti fino a un nanosecondo prima del Big Bang, quando la temperatura dell’universo era di dieci milioni di miliardi di gradi. Nel procedimento speravano di scoprire il santo Graal della fisica della massima energia, il bosone di Higgs così tanto ricercato, la particella le cui interazioni fornivano massa ad altre particelle. Se il loro esperimento avesse funzionato, avrebbero finalmente avuto il bosone, e il premio Nobel, che con ogni probabilità sarebbe stato assegnato a chi lo avesse scoperto.
L’intero esperimento era automatizzato e calcolato al secondo. Non c’erano interruttori da abbassare, né levette nascoste sotto coperchi a molla da premere. Sì, Lloyd aveva progettato e Theo aveva codificato i moduli basilari del programma per questo esperimento, ma adesso era tutto sotto il controllo di un computer.
Quando l’orologio digitale raggiunse le 16:59:55 Lloyd cominciò il conto alla rovescia a voce alta insieme a esso. «Cinque.»
Guardò Michiko.
«Quattro.»
Lei lo ricambiò con un sorriso di incoraggiamento. Dio, quanto l’amava…
«Tre.»
Spostò lo sguardo sul giovane Theo, il wunderkind… il genere di stella nel fiore della giovinezza che Lloyd aveva sempre sperato di essere e non era mai stato.
«Due.»
Theo, sempre sfacciato, gli fece un cenno sollevando i due pollici.
«Uno.»
Dio, ti prego… pensò Lloyd. Ti prego.
«Zero.»
E poi…
E poi, all’improvviso, tutto fu diverso.
Vi fu un cambiamento immediato nell’illuminazione… la fioca luminosità della sala di controllo fu sostituita dalla luce del sole che entrava da una finestra. Ma non vi fu nessuna correzione, nessun disagio… e nessuna sensazione che le pupille di Lloyd si stessero contraendo. Fu come se fosse già abituato a una luce più forte.
Eppure Lloyd non riusciva a controllare i suoi occhi. Voleva guardarsi intorno, vedere ciò che stava succedendo, ma i suoi occhi si muovevano come guidati dalla propria volontà.
Si trovava a letto… nudo, così sembrava. Poteva sentire le lenzuola di cotone scivolargli lungo la pelle mentre si sollevava su un gomito. Mentre la sua testa si muoveva, Lloyd colse l’immagine fugace di alcuni lucernari, che a quanto pareva si affacciavano dal secondo piano di una casa di campagna. Si vedevano degli alberi, e…
No, non poteva essere. Quelle foglie erano diverse, di un rosso vivo e freddo. Ma oggi era il 21 aprile… primavera, non autunno.
Lo sguardo di Lloyd continuò a spostarsi e, improvvisamente, in quello che avrebbe potuto essere un sussulto, si rese conto di non essere solo nel letto. Insieme a lui c’era qualcun altro.
Si ritrasse.
No… no, non era esatto. Fisicamente non reagì affatto; fu come se il suo corpo si fosse separato dalla sua mente. Ma provò la sensazione di ritrarsi.
L’altra persona era una donna, ma…
Che diavolo stava succedendo?
Era vecchia, grinzosa, con la pelle traslucida, i capelli simili a una ragnatela bianca. Il collagene che un tempo aveva riempito le sue guance si era sedimentato come bargigli sui lati della bocca, una bocca che adesso sorrideva, le linee di quel sorriso perse in mezzo alle rughe permanenti.
Lloyd tentò di rotolare via da quella megera, ma il suo corpo si rifiutò di collaborare.
In nome di Dio, che stava succedendo?
Era primavera, non autunno.
A meno che, naturalmente, non si trovasse nell’emisfero meridionale. Trasportato chissà come dalla Svizzera all’Australia…
Ma no. Gli alberi che aveva scorto al di là della finestra’ erano aceri e pioppi; doveva essere il Nord America o l’Europa…
La sua mano si protese. La donna indossava una camicia blu scuro. Non era la parte superiore di un pigiama, però; aveva delle spalline sbottonate e diverse tasche… un capo d’abbigliamento di tipo militare, in tela di cotone, del tipo che si può acquistare da L. L. Bean o da Tilley, quello che potrebbe indossare una donna pratica del giardinaggio. Adesso Lloyd sentì le sue dita che accarezzavano la stoffa, che ne saggiavano la morbidezza, la flessuosità. E poi…
E poi le sue dita trovarono il bottone, duro, di plastica, riscaldato dal corpo di lei, traslucido come la sua pelle. Le dita strinsero senza esitazione il bottone, lo sospinsero verso l’esterno, lo fecero scivolare di lato attraverso la cucitura in rilievo intorno all’asola. Prima che la camicia si aprisse del tutto, lo sguardo di Lloyd, che ancora agiva di iniziativa propria, tornò a sollevarsi sul volto della vecchia, e si fissò sui suoi pallidi occhi azzurri, le cui iridi erano circondate da anelli spezzati di bianco.
Sentì le sue stesse guance contrarsi mentre sorrideva. Le sue mani scivolarono sotto la camicia della donna, trovarono il suo seno… Ebbe nuovamente voglia di ritrarsi, di tirare indietro la mano. Il seno era morbido e avvizzito, la pelle flaccida e pendula, come un frutto andato a male. Le dita si unirono, seguendo i contorni del seno, trovando il capezzolo.
Lloyd avvertì una pressione giù in basso. Per un orribile momento pensò che stava per avere un’erezione, ma non era così. Invece, tutto a un tratto, vi fu un senso di pienezza nella vescica; doveva urinare. Ritrasse la mano e vide le sopracciglia della vecchia sollevarsi in un’espressione interrogativa. Lloyd riuscì a sentire le sue spalle che si alzavano e si abbassavano, una piccola scrollata. La donna gli sorrise… un sorriso caldo, un sorriso di comprensione, come se quella fosse la cosa più naturale al mondo, come se lui dovesse scusarsi spesso per quel fatto. I denti di lei erano appena gialli — il semplice giallo dell’età — ma per il resto erano perfetti.
Alla fine il suo corpo fece ciò che lui aveva desiderato fin dall’inizio: rotolò via dalla donna. Lloyd provò dolore al ginocchio, mentre si girava, un colpo secco. Faceva male, ma lo ignorò ostentatamente. Calò le gambe fuori dal letto, e i piedi sfiorarono appena il pavimento di legno duro e freddo. Era metà mattina o metà pomeriggio, l’ombra proiettata da un albero si disegnava netta sul successivo. Un uccello si era fermato a riposare sopra un ramo; sobbalzò all’improvviso movimento nella stanza da letto e volò via. Un pettirosso: il grosso tordo nordamericano, non il piccolo pettirosso del vecchio mondo. Non c’erano dubbi: Stati Uniti o Canada. In effetti ricordava il New England… Lloyd amava i colori dell’autunno nel New England.
Si trovò a muoversi lentamente, quasi strascicando i piedi, sopra le assi di legno. Proprio in quell’istante si rese conto che quella stanza non si trovava in un appartamento, ma piuttosto in un cottage; l’arredamento era il consueto guazzabuglio da seconda casa. Quel comodino basso, in pannello truciolare rivestito in alto da un’impiallacciatura sottile come carta da parati che riproduceva false venature: almeno quello lo riconobbe. Un mobile che aveva acquistato quando era studente, e che alla fine aveva sistemato nella stanza degli ospiti della sua casa in Illinois. Ma che ci faceva lì, in quel posto così poco familiare?
Continuò ad avanzare. Il ginocchio destro gli doleva a ogni passo; si domandò che cosa ci fosse che non andava. Sulla parete c’era uno specchio appeso; la cornice era di pino nodoso, ricoperto di vernice chiara. Faceva a pugni con il legno più scuro del comodino, naturalmente, ma…
Gesù.
Gesù Cristo.
Di loro iniziativa, i suoi occhi guardarono nello specchio mentre gli passava davanti, e lui vide se stesso…
Per mezzo secondo pensò di essere suo padre.
E invece era lui. Quei pochi capelli che gli erano rimasti sulla testa erano completamente grigi; i peli sul petto erano bianchi. La sua pelle era floscia e venata, il suo portamento ricurvo.
Potevano essere le radiazioni? Forse l’esperimento lo aveva esposto? Forse…
No. No, non era così. Lo sapeva nelle ossa, nelle ossa artritiche. Non era così.
Lui era vecchio.
Era come se fosse invecchiato di vent’anni o più, come se…
Due decenni di vita spariti, rimossi dalla sua memoria.
Ebbe voglia di gridare, di sbraitare, di protestare contro l’ingiustizia, di lamentare la perdita, di esigere una spiegazione dall’universo…
Ma non poteva fare nulla di tutto ciò; non aveva alcun controllo. Il suo corpo continuò nel lento, penoso strascicamento verso il bagno.
Mentre svoltava per entrare guardò indietro la vecchia sul letto, adesso sdraiata sul fianco, con la testa appoggiata su un braccio, e un sorriso malizioso, seducente. Vedeva ancora bene… poteva vedere il luccichio dell’oro sul dito medio della mano sinistra. Già era abbastanza brutto che dormisse con una vecchia, ma che dormisse con una donna vecchia e sposata…
La semplice porta di legno era socchiusa, ma lui allungò la mano per aprirla del tutto, e con la coda dell’occhio scorse la fede al dito della mano sinistra.
Poi la cosa lo colpì. Quella megera, quell’estranea, quella donna che non aveva mai visto prima, quella donna che non assomigliava minimamente alla sua adorata Michiko, era sua moglie.
Lloyd sarebbe voluto tornare a guardarla, tentare di immaginare come doveva essere stata qualche decennio prima, di ricostruire la bellezza che forse una volta aveva avuto, ma…
Ma continuò, entrò in bagno, girò il volto verso la tazza, si chinò per sollevare il coperchio, e…
…e improvvisamente, incredibilmente, misericordiosamente, straordinariamente, Lloyd Simcoe si ritrovò al CERN, di nuovo nella sala di controllo dell’LHC. Per qualche ragione era accasciato sulla sua poltrona di vinile imbottito. Si raddrizzò e usò le mani per sistemarsi la camicia.
Che allucinazione incredibile era stata! Naturalmente c’era un prezzo da pagare: in teoria lì erano perfettamente schermati, con un centinaio di metri di terra fra loro e l’anello del collisore: ma aveva sentito dire che le scariche ad alta energia potevano provocare delle allucinazioni, e di certo era quello che gli era successo.
Lloyd si concesse un attimo per ritrovare l’orientamento. Non c’era stata nessuna transizione fra il lì e il qui: nessuna vampata di luce, nessuna sensazione di vertigini, nessun rombo nelle orecchie. Un momento prima lui era al CERN poi, il momento successivo, si era trovato da qualche altra parte per — per quanto tempo? — per due minuti, forse. E adesso, senza interruzione, era di nuovo nella sala di controllo.
Naturalmente non l’aveva mai lasciata. Naturalmente era stata tutta un’illusione.
Si guardò intorno, cercando di leggere nei volti degli altri. Michiko appariva sconvolta. Aveva osservato Lloyd mentre era in preda alla sua allucinazione? Che cosa aveva fatto? Si era dimenato come un epilettico? Aveva proteso la mano in aria come se stringesse un seno invisibile? 0 era semplicemente rimasto accasciato nella poltrona, privo di sensi? In tal caso, non poteva essere rimasto svenuto per troppo tempo — certamente non per i due minuti che aveva avuto l’impressione di trascorrere — altrimenti Michiko e gli altri gli sarebbero stati addosso, tastandogli il polso e allentandogli il colletto della camicia. Controllò l’orologio analogico sulla parete: in effetti erano le cinque e due minuti del pomeriggio.
Poi guardò Theo Procopides. L’espressione del giovane greco era più controllata di quella di Michiko, ma era guardingo come Lloyd, e fissava uno dopo l’altro tutti i presenti in sala, spostando lo sguardo appena uno di loro lo ricambiava.
Lloyd aprì la bocca per parlare anche se non sapeva bene che cosa dire. Ma la richiuse quando sentì un gemito provenire dalla porta aperta più vicina. Evidentemente lo aveva sentito anche Michiko; entrambi si alzarono contemporaneamente. Ma lei era più vicina alla porta, e quando Lloyd la raggiunse, la ragazza era già uscita nel corridoio. «Mio Dio!» stava gridando. «Va tutto bene?»
Uno dei tecnici — si trattava di Sven — stava cercando faticosamente di rialzarsi in piedi. Si teneva la mano destra sul naso, che sanguinava in modo vistoso. Lloyd si precipitò nella sala di controllo, staccò la cassetta del pronto soccorso dal suo alloggiamento sulla parete e tornò di corsa in corridoio. Tutta l’attrezzatura era all’interno di una scatola di plastica bianca; Lloyd l’aprì e cominciò a srotolare una benda di garza.
Sven cominciò a parlare in norvegese, ma si interruppe dopo un attimo, e ricominciò in francese: «Io… io devo essere svenuto.».
Il pavimento del corridoio era in mattoni; Lloyd vide la macchia rossastra di sangue nel punto in cui il volto di Sven aveva sbattuto. Porse la garza al tecnico, che lo ringraziò con un cenno del capo, poi ne fece un batuffolo e se la premette sul naso. «Una cosa assurda» disse Sven. «Come se mi fossi addormentato in piedi.» Fece una specie di risatina. «Ho addirittura fatto un sogno.»
Lloyd sentì che gli si inarcavano le sopracciglia. «Un sogno?» ripeté, anche lui in francese.
«Vivido come non mai» disse Sven. «Ero a Ginevra… da Le Rozzel.» Anche Lloyd lo conosceva benissimo: una créperie in stile bretone sulla Grand Rue. «Ma sembrava una specie di storia di fantascienza. C’erano macchine che volavano senza toccare il terreno, e…»
«Sì, sì!» Era la voce di una donna, ma non in risposta a Sven. Proveniva dall’interno della sala di controllo. «La stessa cosa è capitata a me!»
Lloyd rientrò nella sala fiocamente illuminata. «Che ti è successo, Antonia?»
Una massiccia donna italiana stava parlando con due delle altre persone presenti, ma adesso si voltò per guardare Lloyd. «Era come se all’improvviso mi trovassi da qualche altra parte. Parry dice che anche a lui è accaduta la stessa cosa.»
Michiko e Sven si trovavano ora sulla soglia, proprio alle spalle di Lloyd. «Anche a me» disse Michiko, con l’aria sollevata di chi si trova in buona compagnia.
Theo, in piedi accanto ad Antonia, aveva aggrottato la fronte. Lloyd lo guardò. «Theo? Tu che ci dici?»
«Niente.»
«Niente?»
Theo scosse la testa.
«Credo che abbiamo tutti perso i sensi» disse Lloyd.
«Io di certo» disse Sven. Si tolse la garza dal naso, poi la riavvicinò per vedere se aveva smesso di sanguinare. Non aveva smesso.
«Per quanto tempo siamo stati svenuti?» chiese Michiko.
«E… Cristo! L’esperimento com’è andato?» domandò Lloyd. Si lanciò verso la stazione di monitoraggio di ALICE e pigiò un paio di tasti.
«Niente» disse. «Dannazione.»
Michiko esalò un grosso sospiro di disappunto.
«Avrebbe dovuto funzionare» disse Lloyd, sbattendo il palmo aperto sopra la consolle. «Avremmo dovuto trovare lo Higgs.»
«Be’, qualcosa è successo» disse Michiko. «Theo, tu non hai visto niente mentre noialtri avevamo… avevamo delle visioni?»
Theo scosse la testa. «Niente di niente. Io credo… credo di avere avuto una specie di blackout. Solo che non c’era oscurità. Stavo seguendo Lloyd mentre faceva il conto alla rovescia, poi c’è stata una specie di interruzione, sai, come un salto in un film. E all’improvviso Lloyd era accasciato sulla sua poltrona.»
«Mi hai visto mentre mi accasciavo?»
«No, no. E come ti ho detto: prima eri seduto e il momento successivo eri accasciato, senza nessun movimento fra un istante e l’altro. Io credo… io credo di avere avuto un attimo di vuoto totale. Non me ne sono nemmeno reso conto, prima eri seduto, poi abbandonato sulla poltrona, e…»
Tutto a un tratto lo squillo di una sirena trafisse l’aria… un veicolo di emergenza di qualche genere. Lloyd si precipitò fuori dalla sala di controllo, seguito da tutti gli altri. La sala dalla parte opposta del corridoio aveva una finestra. Michiko, che era arrivata per prima, stava già sollevando la veneziana; il sole del tardo pomeriggio penetrò all’interno. Il veicolo era un furgoncino antincendio del CERN, uno dei tre di servizio al centro. Correva attraverso il campus puntando verso l’ufficio amministrativo centrale.
Finalmente sembrava che il naso di Sven avesse smesso di sanguinare; adesso teneva in mano la garza sporca di sangue. «Chissà se qualcun altro ha avuto uno svenimento.»
Lloyd lo fissò.
«Usano i furgoncini antincendio anche per il pronto soccorso» spiegò Sven.
Michiko si rese conto dell’importanza di quanto aveva appena detto Sven. «Bisogna controllare tutte le stanze, e accertarci che stiano tutti bene.»
Lloyd annuì e tornò indietro nel corridoio. «Antonia, tu occupati di quelli che si trovano nella sala di controllo. Michiko, prendi Jake e Sven e andate da quella parte. Theo e io daremo un’occhiata di là.» Avvertì un fugace senso di colpa nell’allontanare Michiko, ma aveva bisogno di un momento per vagliare ciò che aveva visto, l’esperienza che aveva vissuto.
Nella prima stanza in cui Lloyd e Theo entrarono c’era una donna a terra. Lui non riuscì a ricordarne il nome, ma lavorava nelle pubbliche relazioni. Il monitor a schermo piatto del computer di fronte a lei mostrava il familiare desktop tridimensionale di Windows 2009. Era ancora priva di sensi, ed era evidente dalla grossa contusione sulla fronte che era caduta in avanti, battendo la testa sul bordo metallico della scrivania, e svenendo. Lloyd fece ciò che aveva visto fare in tanti film: le prese la mano sinistra con la destra, tenendola in modo che il dorso fosse rivolto verso l’alto, e dandole dei colpetti affettuosi con l’altra mano, mentre la sollecitava ad alzarsi.
Alla fine si alzò. «Dottor Simcoe?» disse, fissando Lloyd. «Che è successo?»
«Non lo so.»
«Ho fatto questo… questo sogno» disse lei. «Mi trovavo in una galleria d’arte da qualche parte, e guardavo un quadro.»
«Adesso va tutto bene?»
«Io… io non lo so. Mi fa male la testa.»
«Potrebbe avere una commozione cerebrale. Dovrebbe andare al pronto soccorso.»
«Che sono tutte queste sirene?»
«Mezzi antincendio.» Una pausa. «Senta, adesso devo andare. Potrebbero esserci anche altre persone ferite.»
Lei annuì. «Ce la farò.»
Theo aveva già proseguito lungo il corridoio. Lloyd lasciò la stanza e lo seguì, superandolo mentre il suo collega si prendeva cura di qualcun altro che era caduto. Il corridoio svoltava a destra; Lloyd imboccò la nuova sezione. Giunse alla porta di un ufficio che si aprì silenziosamente mentre si avvicinava, ma le persone che si trovavano dall’altra parte sembravano stare tutte bene, anche se discutevano animatamente delle diverse visioni che avevano avuto. Erano in tre, due donne e un uomo. Una delle donne notò Lloyd.
«Lloyd, che è successo?» gli chiese in francese.
«Ancora non lo so» rispose lui, sempre in francese. «State tutti bene?»
«Stiamo bene.»
«Non ho potuto fare a meno di sentire» disse Lloyd. «Avete avuto tutti e tre delle visioni?»
Annuirono.
«Erano vivide e realistiche?»
La donna che non aveva ancora parlato indicò l’uomo. «Quella di Raoul no. Lui ha avuto una specie di esperienza psichedelica.» Lo disse come se ci fosse da aspettarselo, visto lo stile di vita dell’uomo.
«Io non la definirei esattamente psichedelica» disse Raoul, con l’aria di chi sentisse il bisogno di difendersi. I suoi capelli biondi erano lunghi e puliti, e legati in una vistosa coda di cavallo. «Ma certo non è stata realistica. C’era questo tipo con tre teste, capisci…»
Lloyd annuì, registrando quest’altro frammento di informazione. «Se voi ragazzi state tutti bene, allora unitevi a noi… qualcuno è stato vittima di brutte cadute, quando è successo quello che è successo. Dobbiamo cercare chiunque possa essersi fatto male.»
«Perché non convocare tutti a un incontro in sala riunioni con l’interfono?» disse Raoul. «Così potremo fare la conta e vedere chi manca.»
Lloyd si rese conto che la proposta era assolutamente logica. «Voi continuate a controllare; qualcuno potrebbe avere bisogno di aiuto immediato. Io salgo nell’ufficio principale.» Lasciò la stanza e gli altri si alzarono e uscirono anche loro nel corridoio. Lloyd seguì il percorso più breve per l’ufficio, oltrepassando di corsa i diversi mosaici. Quando arrivò, alcuni dipendenti del settore amministrativo si stavano prendendo cura di uno dei loro che sembrava essersi rotto un braccio cadendo. Un’impiegata si era ustionata precipitando proprio addosso alla sua tazza di caffè bollente.
«Dottor Simcoe, cosa è successo?» chiese un uomo.
Lloyd cominciava a stancarsi di quella domanda. «Non lo so. Lei è in grado di far funzionare l’IA?»
L’uomo lo guardò; evidentemente Lloyd aveva usato un’espressione colloquiale nordamericana che l’altro non conosceva.
«L’IA» ripeté Lloyd. «L’impianto di amplificazione.»
L’uomo continuò a fissarlo senza capire.
«L’interfono!»
«Oh, certo» disse l’altro, in un inglese indurito dall’accento tedesco. «Per di qua.» Condusse Lloyd a una consolle e manipolò alcuni pulsanti. Lloyd impugnò la bacchetta di plastica sottile che aveva alla sommità il microfono allo stato solido.
«Qui è Lloyd Simcoe.» Poteva sentire la sua voce che usciva dall’altoparlante nel corridoio, ma i filtri nel sistema eliminavano ogni segnale di ritorno. «Chiaramente è successo qualcosa. Diverse persone sono ferite. Se ce la fate a muovere le gambe…» Si bloccò. Per la maggior parte di quelli che lavoravano lì l’inglese era la seconda lingua.
«Se siete in grado di camminare, e se possono camminare anche quelli che sono con voi, o se è quanto meno possibile lasciarli soli, vi prego di raggiungere subito la sala riunioni principale. Qualcuno potrebbe essere caduto in qualche posto che non sappiamo; dobbiamo scoprire chi manca all’appello.» Restituì il microfono all’uomo. «Può ripetere il succo del discorso in tedesco e in francese?»
«Jawohl» rispose l’altro, con le rotelle mentali già in funzione. Cominciò a parlare al microfono. Lloyd si allontanò dai comandi dell’impianto di amplificazione. Poi fece uscire dall’ufficio le persone in buone condizioni fisiche e le accompagnò nella sala riunioni, che era decorata con una lunga targa di ottone recuperata da uno dei vecchi edifici che erano stati demoliti per far posto al centro di controllo dell’LHC. Sulla targa c’era il nome completo dell’acronimo CERN: Conseil Européenne pour la Recherche Nucleate. In quei giorni l’acronimo non significava praticamente più nulla, ma qui venivano onorate le sue radici storiche.
I volti nella sala erano per lo più bianchi, con pochi… Lloyd si bloccò prima di riferirsi mentalmente a loro come americani melanici, la definizione correntemente preferita dai neri degli Stati Uniti. Anche se Peter Carter veniva da Stanford, la maggior parte degli altri neri era giunta direttamente dall’Africa. C’erano anche parecchi asiatici inclusa, naturalmente, Michiko, che aveva raggiunto la sala riunioni in risposta all’annuncio via interfono. Lloyd si diresse verso di lei e l’abbracciò. Grazie a Dio, almeno lei era rimasta illesa. «Qualcuno ha ferite gravi?» le domandò.
«Qualche ammaccatura e un altro naso sanguinante,» rispose Michiko «ma niente di grave. Tu?»
Lloyd cercò la donna che aveva sbattuto la testa. Ancora non si era fatta vedere. «Una possibile commozione cerebrale, un braccio rotto e una brutta ustione.» Fece una pausa. «Dovremmo proprio far venire delle ambulanze… far portare i feriti in ospedale.»
«Me ne occupo io» disse Michiko, e scomparve nell’ufficio.
Il gruppo dei convenuti stava crescendo di numero; adesso c’erano circa duecento persone. «Ascoltatemi tutti!» gridò Lloyd. «Prestatemi ascolto, per favore. Voire attention, s’il vous plaítl» Attese finché tutti gli occhi non furono puntati su di lui. «Guardatevi intorno e vedete se ci sono tutti i vostri collaboratori, o compagni di stanza, o personale di laboratorio. Se manca qualcuno che avete visto oggi, fatemelo sapere. E se qualcuno qui in sala ha bisogno di un intervento medico immediato, fatemi sapere anche questo. Abbiamo chiamato delle ambulanze.»
Mentre concludeva il discorsetto ritornò Michiko. La sua carnagione era ancora più pallida del solito, e quando parlò la sua voce tremava. «Non verrà nessuna ambulanza» disse. «Non subito, comunque. Il centralinista mi ha detto che sono tutte a Ginevra. Pare che tutti gli automobilisti in viaggio abbiano avuto uno svenimento; non sono nemmeno in grado di fare il conto di quante persone siano morte.»
Il CERN era stato fondato cinquantacinque anni prima, nel 1954. Il suo personale era formato da tremila impiegati, di cui circa un terzo fisici o ingegneri, un terzo tecnici, e gli altri equamente suddivisi fra amministrativi e operai.
Il Grande collisore per Adroni era stato costruito, con un costo di cinque miliardi di dollari americani, all’interno della stessa galleria sotterranea circolare che correva a cavallo del confine franco-svizzero e nel quale era ancora alloggiato il più vecchio, e ormai inattivo, Grande collisore per elettronipositroni; quest’ultimo era rimasto in servizio dal 1989 al 2000. L’LHC usava degli elettromagneti superconduttori da 10 tesla a campo doppio per muovere le particelle lungo l’anello gigante. Il CERN aveva il più grande e più potente sistema criogenico al mondo, che utilizzava elio liquido per raffreddare i magneti fino ad appena 1.8 gradi Celsius al di sopra dello zero assoluto.
Il Grande collisore per Adroni consisteva in effetti di due acceleratori in uno: il primo accelerava le particelle in senso orario, il secondo in senso antiorario. Il raggio di una particella che andava in una direzione poteva essere fatto collidere con un altro raggio che andasse in direzione opposta, e poi…
E poi E=mc2, alla grande.
L’equazione di Einstein afferma semplicemente che la materia e l’energia sono intercambiabili. Se si fanno collidere particelle a una velocità sufficientemente alta, l’energia cinetica della collisione può essere convertita in particelle instabili.
L’LHC era stato attivato nel 2006, e durante i suoi primi anni di lavoro aveva fatto collidere protoni contro protoni, producendo energie fino a un massimo di quattordicimila miliardi di elettron-volt.
Ma adesso era tempo di passare alla Fase Due, e Lloyd Simcoe e Theo Procopides avevano guidato la squadra che aveva progettato il primo esperimento. Nella Fase Due, invece di far collidere i protoni fra loro, i nuclei del piombo — ciascuno dei quali era duecentodiciassette volte più pesante di un protone — sarebbero stati fatti collidere l’uno contro l’altro. Le collisioni risultanti avrebbero prodotto mille e centocinquanta miliardi di miliardi di elettron-volt, paragonabili al livello di energia dell’Universo appena un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. A quel livello di energia, Lloyd e Theo avrebbero dovuto produrre il bosone di Higgs, una particella che i fisici inseguivano da mezzo secolo.
Al contrario, produssero morte e distruzione su scala impressionante.
Gaston Béranger, direttore generale del CERN, era un uomo compatto e irsuto, con un naso affilato e prominente. Nel momento in cui si verificò il fenomeno, era seduto nel suo ufficio. Era l’ufficio più spazioso in tutta l’area del CERN, con un lungo tavolo da conferenze in legno massello proprio di fronte alla sua scrivania, e un grosso bar, ben fornito, con la parete interna a specchio. Béranger non beveva… non più; non c’era niente di più difficile che essere un alcolista in Francia, dove il vino abbondava in ogni pasto. Gaston aveva vissuto a Parigi fino alla nomina al CERN. Ma quando giungevano gli ambasciatori per vedere in che modo venivano spesi i loro milioni, lui doveva riuscire a versare loro un bicchiere di liquore senza mostrare mai quanto disperatamente lo avrebbe desiderato anche lui.
Naturalmente quel pomeriggio Lloyd Simcoe e il suo compagno Theo Procopides stavano provando il loro grande esperimento nell’LHC; Gaston avrebbe potuto cancellare gli impegni in agenda per andare ad assistervi, ma c’era sempre qualcosa di importante da fare, e se avesse seguito di persona ogni corsa dell’acceleratore non sarebbe mai riuscito a finire nessun lavoro. Per di più doveva prepararsi per la riunione dell’indomani mattina con la squadra di Gec Alsthom, e…
«Raccoglila!»
Gaston Béranger non aveva dubbi su dove si trovasse: era casa sua, sulla rive droite di Ginevra. La scaffalatura dell’Ikea era la stessa, così come il divano e la poltrona. Ma il TV color Sony e il suo mobile non c’erano più. Invece, proprio al di sopra del punto in cui avrebbe dovuto esserci il televisore, c’era un monitor a schermo piatto montato sulla parete. Stava trasmettendo un incontro internazionale di lacrosse. Una delle due squadre era chiaramente la Spagna, ma non riusciva a riconoscere l’altra, che indossava delle magliette verde e porpora.
Un giovane era entrato nella stanza. Gaston non riconobbe nemmeno lui. Indossava quella che sembrava essere una giacca di pelle nera, e l’aveva gettata sull’estremità del divano, da dove era scivolata sul tappeto. Un piccolo robot, non più grande di una scatola per scarpe, rotolò da sotto un sofà e si diresse verso la giacca caduta. Gaston puntò un dito contro il robot e latrò: «Arrèt!». La macchina si bloccò, poi, dopo un attimo, se ne tornò sotto il sofà.
Il giovane si voltò. Dimostrava diciannove, forse vent’anni. Sulla sua guancia destra c’era quello che sembrava il tatuaggio animato di un fulmine; percorreva a zig-zag il volto del ragazzo in cinque balzi separati, poi ripeteva il ciclo all’infinito.
Mentre si girava, il lato sinistro della sua faccia divenne visibile… e fu orribile, con tutti i muscoli e i vasi sanguigni chiaramente in evidenza, come se, in qualche modo, avesse trattato la pelle con un prodotto chimico che l’aveva resa trasparente. La mano destra del giovane era ricoperta da un guanto esoscheletrico da cui le dita si protendevano in lunghe estensioni che terminavano con punte d’argento scintillante, chirurgicamente affilate.
«Ho detto raccoglila!» ringhiò Gaston in francese… o, almeno, era la sua voce; non aveva la sensazione di pronunciare volontariamente le parole. «Finché sono io a pagarti i vestiti, farai bene ad averne cura.»
Il giovane lo fissò. Gaston era sicuro di non conoscerlo, ma aveva una rassomiglianza con… chi? Era difficile dirlo, con quella faccia spettrale semitrasparente, ma la fronte alta, le labbra sottili, quegli occhi grigi e freddi, quel naso aquilino…
Le punte affilate delle estensioni delle dita si ritrassero con un ronzio, e il ragazzo raccolse la giacca fra il pollice e l’indice meccanico, tenendola adesso come se fosse qualcosa di ripugnante. Mentre lo faceva, Gaston non poté fare a meno di notare che c’erano anche un sacco di altri particolari sbagliati: l’abituale sistemazione dei libri sugli scaffali era cambiata completamente, come se qualcuno avesse riorganizzato in parte ogni cosa. E, a dire il vero, sembravano esserci molti meno volumi di quanti avrebbero dovuto trovarsi lì, quasi che la biblioteca di famiglia fosse stata pesantemente falcidiata. Un altro robot, questo simile a un ragno e grande più o meno come una mano allargata, si stava facendo strada lungo gli scaffali, apparentemente intento a spolverare.
Su una parete, dove c’era sempre stata una riproduzione incorniciata del Moulin de la Gaiette di Monet, adesso c’era un’alcova in cui era alloggiata quella che sembrava una scultura di Henry Moore… ma no, no, lì non poteva esserci nessuna alcova; quel muro era in comune con l’edificio adiacente. Doveva trattarsi proprio di un oggetto piatto, un ologramma o qualcosa di simile, appeso alla parete, che dava un’illusione di profondità; in tal caso, l’illusione era assolutamente perfetta.
Anche le porte del guardaroba erano cambiate; si aprirono spontaneamente mentre il ragazzo si avvicinava. Lui allungò la mano, tirò fuori una stampella e vi appese la giacca. Poi ripose la stampella dentro l’armadio… e la giacca scivolò sul pavimento.
La voce di Gaston risuonò, ancora sferzante: «Dannazione, Marc, non puoi stare più attento?»
Marc…
Marc!
Mon Dieu!
Ecco perché c’era in lui qualcosa di già visto.
Una rassomiglianza familiare.
Marc. Il nome che Marie-Claire e lui avevano scelto per il bambino che lei portava in grembo.
Marc Béranger.
Gaston non lo aveva mai nemmeno tenuto in braccio, non gli aveva dato i colpetti sulla schiena per fargli fare i ruttini, non gli aveva mai cambiato i pannolini, eppure eccolo lì, già cresciuto, un uomo… un uomo spaventoso, ostile.
Marc osservò la giacca caduta, con la guancia ancora lampeggiante, poi si allontanò dall’armadio lasciando che la porta si richiudesse con un sibilo alle sue spalle.
«Accidenti a te, Marc» disse la voce di Gaston. «Mi sono stufato del tuo modo di fare. Non troverai mai un lavoro se continui a comportarti così.»
«Fottiti» disse il ragazzo, la voce profonda, il tono beffardo.
Quelle erano le prime parole di suo figlio: non mamma, o papà, ma ‘fottiti’.
Poi, come se potesse esserci ancora qualche dubbio, proprio in quel momento Marie-Claire entrò nel campo visivo di Gaston, emergendo dallo studio attraverso un’altra porta scorrevole. «Non rivolgerti a tuo padre in quel modo» disse.
Gaston fu colto alla sprovvista: era Marie-Claire, su questo non c’erano dubbi, ma sembrava più sua madre che se stessa. Aveva i capelli bianchi, il volto segnato dalle rughe, e aveva addosso almeno quindici chili in più.
«Fottiti anche tu» disse Marc.
Gaston suppose che la sua voce avrebbe protestato: «Non parlare così a tua madre». Non rimase deluso.
Prima che Marc si voltasse, Gaston notò di sfuggita una zona rasata sul retro della testa del ragazzo, e una presa metallica impiantata chirurgicamente.
Doveva essere un’allucinazione. Doveva. Ma che allucinazione terrificante! Marie-Claire avrebbe partorito da un giorno all’altro. Per anni avevano provato ad avere un bambino… Gaston era capace di unire senza difficoltà un elettrone e un positrone, ma chissà perché lui e Marie-Claire avevano avuto grosse difficoltà a unire un ovulo e uno spermatozoo, ciascuno dei quali era milioni di volte più grande di quelle particelle subatomiche. Ma alla fine era successo: alla fine Dio gli aveva sorriso, alla fine sua moglie era rimasta incinta.
E adesso, finalmente, dopo nove mesi erano in attesa del lieto evento. Tutta quella preparazione per il parto indolore, tutti i loro progetti, la prenotazione della clinica… tutto stava giungendo a compimento.
E adesso questo sogno; non poteva che essere un sogno, solo un brutto sogno. Paura: aveva avuto il peggiore incubo della sua vita appena prima di sposarsi. Perché questo doveva essere differente?
Ma era differente. Era molto più realistico di qualsiasi sogno lui avesse mai fatto. Pensò alla presa sulla nuca di suo figlio; pensò alle immagini che venivano pompate direttamente in un cervello… la droga del futuro?
«Piantala di rompere» disse Marc. «Ho avuto una giornata pesante.»
«Oh, davvero?» disse la voce di Gaston, grondante sarcasmo. «Hai avuto una giornata pesante, eh? Una giornata pesante a terrorizzare i turisti nella città vecchia, no? Avrei dovuto lasciarti marcire in galera, teppistello ingrato…»
Gaston rimase sconvolto nel sentirsi così simile a suo padre… le cose che suo padre gli aveva detto quando lui aveva l’età di Marc, le cose che aveva promesso a se stesso di non dire mai a suo figlio.
«Dai, Gaston…» disse Marie-Claire.
«Be’, se non apprezza quello che ha qui…»
«Non so che farmene di questa merda» disse Marc con disprezzo.
«Basta!» scattò Marie-Claire. «Basta!»
«Vi odio» disse Marc. «Vi odio entrambi.»
La bocca di Gaston si aprì per replicare, e poi…
E poi, all’improvviso, si ritrovò di nuovo nel suo ufficio al CERN.
Dopo aver fatto rapporto su tutti i decessi, Michiko Komura tornò immediatamente nell’ufficio principale del centro di controllo del collisore. Continuò a cercare di telefonare alla scuola di Ginevra frequentata dalla figlia di otto anni, Tamiko; Michiko aveva divorziato dal primo marito, un dirigente di Tokyo. Ma tutto ciò che ottenne fu un segnale di occupato dopo l’altro: chissà per quale motivo, la società svizzera dei telefoni non si stava offrendo di avvisarla automaticamente quando la linea fosse stata libera.
Lloyd era in piedi alle sue spalle mentre lei continuava a provare, ma alla fine Michiko alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo disperato. «Non riesco a prendere la linea» disse. «Devo andare là.»
«Verrò con te» disse Lloyd senza pensarci. Uscirono dall’edificio, nell’aria calda di aprile, con il sole rosso che già baciava l’orizzonte e le montagne che si profilavano in lontananza.
Anche la macchina di Michiko — una Toyota — era parcheggiata lì, ma presero la Fiat in leasing di Lloyd, che si mise alla guida. Attraversarono tutto il campus del CERN, passando accanto ai torreggianti serbatoi cilindrici di elio liquido, e imboccarono la strada, che lì portò direttamente a Meyrin, la città appena a est del CERN. Anche se videro alcune auto ai margini della strada, le cose non sembravano peggiori di quanto apparissero dopo una delle rare tempeste invernali, a parte, naturalmente, che non c’era neve sul terreno.
Attraversarono rapidamente la città. A breve distanza intravidero l’aeroporto di Ginevra, Cointrin. Colonne di fumo nero si levavano verso il cielo; un grosso jet della Swissair era precipitato sulla pista di atterraggio. «Mio Dio!» esclamò Michiko, portandosi una mano chiusa a pugno verso la bocca. «Mio Dio!»
Proseguirono fino a raggiungere la città di Ginevra, situata sulla punta occidentale del lago Lemano. Ginevra era una ricca metropoli di 200.000 abitanti, conosciuta per i ristoranti extra lusso e i negozi esclusivi.
Insegne che normalmente sarebbero state accese erano spente, e una gran quantità di auto — molte delle quali Mercedes, o altre marche costose — erano uscite di strada e si erano schiantate contro i palazzi. Le vetrine in cristallo di molti negozi erano infrante, ma non sembrava che ci fosse alcun saccheggio in atto. Anche i turisti erano in apparenza troppo storditi da ciò che era successo per approfittare della situazione.
Scorsero un’ambulanza che si stava prendendo cura di un vecchio sul lato della strada; sentirono anche le sirene dei pompieri o di altri mezzi di soccorso. E a un certo punto videro un elicottero infilato nella parete a vetrate di un piccolo palazzo per uffici.
Passarono il Pont de l’Ile, attraversando il Reno con i gabbiani che volteggiavano sopra di loro, lasciarono la rive droite con i suoi alberghi patrizi ed entrarono nella storica rive gauche. La strada intorno alla vieille ville — la città vecchia — era bloccata da un incidente che aveva coinvolto quattro macchine, e così dovettero cercare di trovare una via d’uscita lungo le stradine tortuose e a senso unico del centro. Giunsero a rue de la Cité, e di lì svoltarono per la Grand rue. Ma era bloccata anche quella da un autobus della Transports Publics Genevois che aveva sbandato e adesso ostruiva entrambe le carreggiate. Tentarono un itinerario alternativo, con Michiko sempre più nervosa a ogni minuto che passava, ma anche questa strada era impercorribile per via delle automobili danneggiate.
«Quanto è lontana la scuola?» chiese Lloyd.
«Meno di un chilometro» rispose Michiko.
«Andiamo a piedi.» Tornò indietro fino alla Grand rue e lasciò la macchina sul lato della strada. Non era una zona di parcheggio autorizzato, ma Lloyd pensò che difficilmente qualcuno ci avrebbe fatto caso, in un momento come quello. Scesero dalla Fiat e cominciarono a inerpicarsi lungo le strade ripide e acciottolate. Michiko si fermò dopo pochi passi per sfilarsi le scarpe con i tacchi alti, in modo da poter correre più veloce. Continuarono a salire, ma quando giunsero a un marciapiede ricoperto di frammenti di vetro dovettero fermarsi di nuovo, perché lei potesse rimettersi le scarpe.
Salirono di corsa rue Jean-Calvin, oltrepassando il museo Barbier-Mueller, svoltarono per rue du Puits St. Pierre e sfrecciarono davanti alla maison Tavel, che con i suoi sette secoli di vita era la più antica casa privata di Ginevra.
Rallentarono appena l’andatura quando giunsero di fronte all’austero Tempie de l’Auditoire, dove Calvino e Knox avevano tenuto i loro sermoni pubblici.
Con il cuore in subbuglio, il respiro ansimante, ripresero a correre. Sulla destra si stagliava la Cattedrale di StPierre e la casa d’aste di Christie’s. Michiko e Lloyd attraversarono in tutta fretta la place du Bourg-de-Four, con la sua sfilata di cafés e patisseries all’aperto intorno alla fontana centrale. Molti turisti e molti cittadini ginevrini erano ancora accasciati sulla pavimentazione in pietra, intenti a curare le loro escoriazioni e ammaccature o assistiti da altri passanti.
Giunsero finalmente in prossimità della scuola, in rue de Chaudronniers. La scuola Ducommun era un complesso adibito da lungo tempo al servizio di assistenza per i figli degli stranieri che lavoravano a Ginevra o nei suoi paraggi. Gli edifici centrali avevano più di duecento anni, ma parecchie costruzioni erano state aggiunte negli ultimi decenni. Anche se le lezioni terminavano alle quattro del pomeriggio, venivano offerte attività di doposcuola fino alle sei, in modo che i genitori con un’attività professionale a tempo pieno potessero lasciarvi i figli per tutto il giorno; anche se ormai erano quasi le sette, c’erano ancora numerosi gruppi di ragazzi.
Michiko non era affatto l’unico genitore a essersi precipitato lì. La zona intorno alla scuola era tutta un viavai di diplomatici, ricchi uomini d’affari e altri i cui figli frequentavano Ducommun; decine di loro trascinavano via dei bambini, piangendo per il sollievo.
Gli edifici apparivano tutti intatti. Michiko e Lloyd sbuffavano e ansimavano mentre continuavano a correre sul prato immacolato. Per lunga tradizione la scuola esponeva sulla facciata anteriore le bandiere delle nazioni di origine di tutti i ragazzi; Tamiko era l’unica giapponese attualmente iscritta, ma il sol levante sventolava al vento leggero di primavera.
Riuscirono a giungere all’atrio, che aveva splendidi pavimenti in marmo e le pareti rivestite di pannelli di legno scuro. L’ufficio era proprio sulla destra, e Michiko vi si diresse facendo strada a Lloyd. La porta si aprì, rivelando un lungo bancone in legno che separava la segreteria dal pubblico. Michiko si precipitò al bancone e, scossa da fremiti ansimanti, cominciò a dire: «Salve, sono…»
«Oh, signora Komura» disse una donna emersa da una stanza. «Ho cercato di chiamarla ma non sono riuscita a prendere la linea.» Fece una pausa, sembrava a disagio. «La prego, si accomodi.»
«Dov’è Tamiko?» chiese Michiko.
«Per favore» disse la donna. «Si sieda.» Guardò Lloyd. «Io sono madame Severin; sono la direttrice, qui.»
«Lloyd Simcoe, sono il fidanzato di Michiko.»
«Signora Komura, sono così dispiaciuta. Io…» Si interruppe, deglutì, poi riprese: «Tamiko era all’esterno. Una macchina ha fatto irruzione nel parcheggio, e… mi dispiace tanto.»
«Come sta?» chiese Michiko.
«Tamiko è morta, signora Komura. Tutti noi… io non so cosa sia successo; abbiamo avuto tutti uno svenimento, o qualcosa del genere. Quando siamo rinvenuti, l’abbiamo trovata lì.»
Gli occhi di Michiko si riempirono di lacrime. Lloyd provò un’orribile stretta al petto. Michiko trovò una sedia, vi si accasciò e affondò la faccia tra le mani. Lloyd le si inginocchiò accanto e le pose un braccio attorno alle spalle.
«Mi dispiace» disse la signora Severin.
Lloyd annuì. «Non è stata colpa sua.»
Michiko continuò a singhiozzare per un po’, poi sollevò gli occhi rossi di pianto. «Voglio vederla.»
«È ancora nel parcheggio. Mi dispiace… l’abbiamo chiamata, la polizia, ma ancora non sono arrivati.»
«Mi faccia vedere dov’è» disse Michiko con voce rotta.
La signora Severin annuì e li condusse sul retro dell’edificio. C’erano altri ragazzi in piedi che guardavano il corpo, terrorizzati e allo stesso tempo attratti da qualcosa che era al di là della loro capacità di comprensione. Il personale era troppo impegnato a occuparsi dei ragazzi che erano rimasti feriti per riuscire a far rientrare nella scuola tutti gli studenti.
Tamiko giaceva a terra, buttata lì come un sacco. Non c’era sangue e il corpo sembrava intatto. La macchina che presumibilmente l’aveva investita aveva fatto marcia indietro per parecchi metri ed era parcheggiata in un angolo. Il paraurti era ammaccato.
Michiko si avvicinò a meno di cinque metri, emise un urlo stridulo e svenne. Lloyd la prese fra le braccia e la sostenne. La signora Severin rimase nei paraggi per un po’, ma ben presto venne chiamata a occuparsi di altri genitori, di altri problemi.
Alla fine, poiché Michiko lo voleva, Lloyd la portò fino al corpo. Si chinò su di lei, con la vista offuscata e il cuore a pezzi, e le tolse dolcemente i capelli dalla faccia.
Lloyd non aveva parole; cosa mai poteva dire come conforto in un momento come quello? Rimasero lì, con Lloyd a sostenere per forse un’ora il corpo di Michiko, scossa da un pianto convulso.
Theo Procopides percorse barcollando il corridoio fiancheggiato da mosaici fino al suo piccolo ufficio, alle cui pareti erano appesi poster di personaggi dei cartoni animati. Asterix il Gallico da una parte, Ren e Stompy dall’altra, Bugs Bunny, Fred Flintstone e Gaga di Vaga sopra la scrivania.
Theo si sentiva stordito, come sotto shock. Anche se lui non aveva avuto una visione, sembrava che tutti gli altri l’avessero avuta. Ma il solo fatto di aver perso i sensi sarebbe stato sufficiente a sconvolgerlo. Oltre a ciò c’erano da considerare le ferite subite dai suoi amici e collaboratori, e le notizie delle morti a Ginevra e nelle città vicine. Theo era sconvolto fin nel profondo del cuore.
Continuavano a giungere rapporti. Centoundici persone erano morte su un 797 della Swissair che era precipitato all’aeroporto di Ginevra. In circostanze normali alcuni sarebbero potuti sopravvivere all’impatto vero e proprio… ma nessuno era intervenuto per evacuare l’aereo prima che prendesse fuoco.
Theo si accasciò sulla poltrona girevole di pelle nera. Poteva vedere il fumo levarsi in lontananza; la finestra dava proprio sull’aeroporto, e per averne una che offrisse la vista delle montagne del Giura ci voleva un’anzianità decisamente maggiore.
Lui e Lloyd non avevano avuto intenzione di fare del male a nessuno. Cavolo, Theo non riusciva nemmeno a immaginare che cosa avesse provocato quel blackout in tanta gente. Un gigantesco impulso elettromagnetico? Ma certamente avrebbe fatto più danni ai computer che alle persone, mentre tutti i delicati strumenti del CERN sembravano funzionare normalmente.
Mentre si sedeva, Theo aveva fatto ruotare la poltroncina, e adesso voltava le spalle alla porta aperta. Non si rese conto che qualcuno era entrato nella stanza finché non sentì un uomo che si schiariva la gola. Girò la poltrona e si trovò di fronte Jacob Horowitz, un giovane studente fresco di laurea che lavorava insieme a Theo e Lloyd. Aveva una massa di capelli rossi e chiazze di lentiggini.
«Non è colpa sua» disse Jake, con enfasi.
«E invece lo è» ribatté Theo, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «È evidente che non abbiamo preso in considerazione qualche fattore importante, e…»
«No» lo interruppe Jake, deciso. «No, davvero. Non è colpa sua. Non ha niente a che fare col CERN.»
«Che cosa?» Theo lo disse come se non avesse ben capito le parole di Jake.
«Venga giù nella sala di ritrovo del personale.»
«In questo momento non voglio vedere nessuno, e…»
«No, venga. Laggiù si prende la CNN, e…»
«La CNN sta già trasmettendo?»
«Lo vedrà. Venga giù.»
Theo si alzò lentamente dalla poltrona e cominciò a camminare. Jake gli fece cenno di affrettarsi, e alla fine Theo procedette al piccolo trotto accanto al ragazzo. Quando arrivarono, nella sala c’erano una ventina di persone.
«…Helen Michaels che vi parla da New York City. A te la linea, Bernie.»
Il volto severo e grinzoso di Bernard Shaw riempì gli schermi televisivi ad alta definizione. «Grazie, Helen. Come potete vedere,» disse alla telecamera «il fenomeno sembra essere di portata mondiale… il che suggerisce che le analisi iniziali secondo le quali si sarebbe trattato di qualche tipo di arma straniera sono molto probabilmente inesatte, anche se certamente rimane la possibilità che si tratti di un atto terroristico. Fino a ora, comunque, nessun gruppo credibile si è fatto avanti per rivendicarne la responsabilità, e… ah, abbiamo adesso quel servizio dall’Australia che vi avevamo promesso poco fa.»
L’immagine cambiò, mostrando Sydney con le bianche vele dell’Opera House sullo sfondo, illuminata contro un cielo nero. Un giornalista era in piedi al centro dell’inquadratura. «Bernie, qui a Sydney sono passate da poco le quattro del mattino. Non c’è un’immagine che possa mostrarti per farti capire quello che è successo qui. Le notizie giungono con molta lentezza, man mano che la gente si rende conto che ciò che le è accaduto non è stato un fenomeno isolato. Le tragedie sono numerose: ci risulta per esempio il caso di una donna che è morta in un ospedale del centro durante un intervento chirurgico d’emergenza, perché tutti i presenti in sala operatoria hanno semplicemente smesso di lavorare per diversi minuti. Ma sappiamo anche di un furto in un piccolo negozio di alimentari aperto tutta la notte, che è fallito perché tutti — compreso il ladro — sono svenuti contemporaneamente alle due del mattino, ora locale. Sembra che il ladro abbia perso i sensi battendo la testa contro il pavimento, e un cliente che si è risvegliato prima di lui è riuscito a impadronirsi della sua pistola. Ancora non abbiamo la minima idea di quante vittime ci siano state qui a Sydney, per non parlare del resto dell’Australia.»
«Paul, che mi dici delle allucinazioni? Hai già notizia anche di quelle?»
Una pausa, mentre la domanda di Shaw rimbalzava di satellite in satellite da Atlanta all’Australia. «Bernie, la gente non fa che parlarne. Non sappiamo quale percentuale della popolazione abbia sperimentato delle allucinazioni, ma sembra che siano un bel po’. Io stesso ne ho vissuta una molto vivida.»
«Grazie, Paul.» La grafica alle spalle di Shaw cambiò, mostrando il sigillo presidenziale degli Stati Uniti. «Il presidente Boulton si rivolgerà alla nazione fra quindici minuti, così ci hanno detto. Naturalmente la CNN vi trasmetterà il suo discorso per intero. Nel frattempo abbiamo un servizio da Islamabad, Pakistan. Yusef, ci sei…?»
«Lo vede» disse Jake sottovoce. «Non aveva niente a che fare con il CERN.»
Theo si sentiva contemporaneamente sollevato e sconvolto. Qualcosa aveva colpito l’intero pianeta, e di certo non poteva essere stato il loro esperimento.
Eppure…
Eppure, se la cosa non aveva nessuna relazione con l’esperimento dell’LHC, allora che cosa poteva averla provocata? Aveva ragione Shaw? Si trattava di chissà quale arma di terroristi? Erano trascorse appena un paio d’ore dal fenomeno. La squadra della CNN stava dimostrando una stupefacente professionalità, mentre Theo ancora non era riuscito a recuperare il suo equilibrio.
Spegni la consapevolezza dell’intera razza umana per due minuti, e qual è il dazio da pagare alla morte?
Quante automobili si erano scontrate?
Quanti aerei erano precipitati? Quanti deltaplanisti? Quanti paracadutisti erano svenuti, non riuscendo a tirare la cordicella?
Quante operazioni erano fallite? Quante nascite erano finite male?
Quanta gente era caduta dalle scale?
Naturalmente quasi tutti gli aerei erano in grado di proseguire il volo per un minuto o due senza l’intervento del pilota, a meno che non fossero in fase di decollo o di atterraggio. Su strade non trafficate le automobili potevano anche cavarsela sbandando e fermandosi senza grossi danni.
Eppure… eppure…
«La cosa sorprendente» disse Bernard Shaw alla TV «è che, per quanto ne sappiamo, la razza umana ha perso coscienza esattamente a mezzogiorno, ora della costa orientale. All’inizio sembrava che gli orari non coincidessero, ma noi abbiamo controllato gli orologi di coloro che ci hanno mandato i servizi con la nostra stessa ora, qui ad Atlanta, che naturalmente è regolata sul segnale dell’Istituto nazionale per le misure e la tecnologia di Boulder, Colorado. Tenendo conto che poteva esserci qualche orologio che non segnava proprio l’ora esatta, abbiamo scoperto che il fenomeno si è verificato alle dodici in punto, ora orientale, e…»
In punto, pensò Theo.
In punto.
Cristo!
Naturalmente il CERN usava un orologio atomico. E l’esperimento era programmato per le cinque esatte del pomeriggio, ora di Ginevra, il che equivaleva…
… alle dodici di Atlanta.
«Ormai da due ore abbiamo qui con noi l’astronomo Donald Poort del Georgia Tech» disse Shaw. «Doveva partecipare alla trasmissione Stamattina, sulla CNN, e siamo fortunati che sia già qui in studio. Il dottor Poort sembra un po’ pallido, vi prego di perdonarlo per questo. Lo abbiamo scaraventato in trasmissione prima ancora che avesse il tempo di sottoporsi a un minimo di trucco. Dottor Poort, grazie per avere accettato di unirsi a noi.»
Poort era un uomo che aveva da poco superato la cinquantina, con un viso magro e tirato. Aveva davvero un’aria pallida sotto i riflettori dello studio… come se non vedesse più il sole dai tempi dell’amministrazione Clinton. «Grazie, Bernie.»
«Ci racconti quello che è successo, dottor Poort.»
«Ecco, come lei ha fatto notare, il fenomeno si è verificato esattamente a mezzogiorno in punto. Naturalmente in ogni ora ci sono tremilaseicento secondi, perciò la probabilità che un evento casuale si verifichi precisamente all’ora spaccata — come dite voi giornalisti televisivi — è una su tremilaseicento. In altre parole, trascurabilmente piccola. Il che mi porta a sospettare che abbiamo a che fare con un evento causato dall’uomo, qualcosa che era programmato per accadere. Ma quanto a ciò che può averlo causato, non ho idea…»
Maledizione, pensò Theo. Stramaledizione. Doveva essere stato l’esperimento del grande collisore; non si poteva parlare di coincidenza quando la più grande collisione di particelle di energia nella storia del pianeta avveniva esattamente nello stesso momento dell’insorgere del fenomeno.
No. No, bisognava essere onesti. Non era un fenomeno, era un disastro… forse il più grave nella storia dell’umanità.
E in qualche modo era stato proprio lui, Theo Procopides, a provocarlo.
Gaston Béranger, direttore generale del CERN, comparve nella sala proprio in quel momento. «Ah, è qui!» disse, come se Theo mancasse da mesi.
Theo scambiò un’occhiata nervosa con Jake, poi si girò verso il direttore generale. «Salve, dottor Béranger.»
«Che diavolo ha combinato?» domandò Béranger in un francese rabbioso. «E dov’è Simcoe?»
«Lloyd ha accompagnato Michiko a prendere la figlia… è alla scuola Ducommun.»
«Che cosa è successo?» chiese di nuovo Béranger.
Theo allargò le braccia. «Non ne ho la minima idea. Non riesco a immaginare che cosa possa avere causato tutto questo.»
«Il… qualsiasi cosa sia successa esattamente all’ora programmata per l’inizio del vostro esperimento con l’LHC.»
Theo annuì, e indicò con il pollice il televisore. «Così sostiene Bernard Shaw.»
«E sulla CNN!» gemette il francese, come se tutto fosse ormai perduto. «Come hanno fatto a sapere del vostro esperimento?»
«Shaw non ha fatto il minimo riferimento al CERN. Ha solo…»
«Grazie a Dio! Senta, lei non dirà nulla a nessuno di ciò che stavate facendo, è chiaro?»
«Ma…»
«Nemmeno una parola. Il danno è nell’ordine dei miliardi di miliardi, se non di più. La nostra assicurazione non ne coprirà che una minima parte.»
Theo non conosceva bene Béranger, ma gli amministratori scientifici erano fatti senza dubbio della stessa pasta in tutto il mondo. E sentirlo parlare di responsabilità fece drizzare subito le antenne al giovane greco. «Dannazione, non potevamo prevedere in nessun modo che sarebbe successo tutto questo. Non esiste nessun esperto in grado di affermare che si è trattato di una conseguenza prevedibile del nostro esperimento. Ma qualcosa è avvenuto, qualcosa che non si era mai verificato prima, e noi siamo gli unici che hanno una sia pur minima chiave per capire che cosa può averlo provocato. Dobbiamo fare delle indagini.»
«Naturalmente faremo delle indagini» disse Béranger. «Ho già spedito più di quaranta ingegneri nel tunnel. Ma dobbiamo essere prudenti, e non solo nell’interesse del CERN. Lei pensa che non ci saranno azioni legali avviate individualmente e collettivamente contro ogni singolo membro della vostra squadra? Per quanto imprevedibile possa essere stato questo sviluppo, qualcuno sosterrà che è stato il risultato di una grave negligenza criminale, e noi ne saremo ritenuti personalmente responsabili.»
«Azioni legali?»
«Proprio così.» Béranger alzò la voce. «Signori. Signori, richiedo la vostra attenzione, per favore.»
I volti si girarono verso di lui.
«Ecco come gestiremo tutta questa faccenda» disse al gruppo. «Non si farà alcuna menzione di un possibile coinvolgimento del CERN con chiunque non faccia parte del centro. Se qualcuno chiama per posta elettronica o per telefono chiedendo informazioni sull’esperimento del collisore che avrebbe dovuto avere luogo oggi, rispondete che era stato procrastinato alle 19.30 per un’anomalia del computer e che, in conseguenza di ciò che è successo, di qualunque cosa si tratti, per oggi l’esperimento non avrà luogo affatto. E chiaro? Inoltre, nessuna comunicazione con la stampa, nel modo più assoluto; passerà tutto attraverso l’ufficio informazioni, avete capito? E per l’amor di Dio, nessuno attivi di nuovo il collisore senza la mia autorizzazione scritta. È tutto chiaro?»
Ci furono cenni di assenso.
«Ci occuperemo del problema» aggiunse Béranger. «Ve lo prometto. Ma dovremo lavorare insieme.» Abbassò il tono della voce e si voltò verso Theo. «Voglio rapporti ogni ora su tutto ciò che lei verrà a sapere.» Si girò per andarsene.
«Un attimo» disse Theo. «Potrebbe incaricare una segretaria di seguire la CNN? Sarebbe il caso che qualcuno tenesse d’occhio le trasmissioni, nel caso venga fuori qualcosa d’importante.»
«Mi gratifichi di un minimo di credito» disse Béranger. «Darò disposizioni di seguire non solo la CNN, ma World Service della BBC, il notiziario francese, Newsworld della CBC e qualsiasi altra emittente riusciremo a prendere via satellite; registreremo tutto su nastro. Voglio una relazione precisa su ciò che viene riferito, nel momento in cui succede; non voglio che qualcuno in seguito protesti, gonfiando i danni.»
«Io sono più interessato a capire che cosa ha provocato il fenomeno» disse Theo.
«Naturalmente controlleremo anche quello» disse Béranger. «Si ricordi, mi aggiorni ogni ora, e sia puntuale.»
Annuì, e Béranger se ne andò. Theo si strofinò le tempie. Dannazione, avrebbe voluto che Lloyd fosse lì. «Bene,» disse alla fine rivolto a Jake «credo che inizieremo una diagnostica completa di tutti i sistemi che si trovano qui in sala di controllo; dobbiamo sapere se qualcosa ha funzionato male. E poi mettiamo insieme un po’ di persone e vediamo di capire qualcosa di queste allucinazioni.»
«Posso convocare un po’ di gente» disse Jake.
Theo annuì. «Bene. Useremo la grande sala convegni al secondo piano.»
«Va bene» disse Jake. «Ci vediamo lì appena possibile.»
Theo annuì di nuovo, e Jake se ne andò. Sapeva che si sarebbe dovuto mettere in movimento subito, ma per un attimo si limitò a restare lì, ancora incapace di trovare la lucidità.
Michiko riuscì a riprendersi abbastanza da tentare di chiamare il padre di Tamiko a Tokyo — anche se lì non erano ancora le quattro del mattino — ma le linee telefoniche erano intasate. Non era il genere di messaggio che si aveva voglia di mandare per posta elettronica ma, insomma, se c’era un sistema di comunicazione internazionale ancora in funzione, quello era Internet, quel figlio della guerra fredda progettato per essere del tutto decentralizzato in modo che, seppure le bombe del nemico avessero distrutto non importa quanti nodi, i messaggi sarebbero potuti circolare ugualmente. Michiko usò uno dei computer della scuola e scrisse in fretta un breve testo in inglese… nel suo appartamento aveva una tastiera kanij, ma lì non ce n’era nessuna disponibile. Fu tuttavia Lloyd a spedire materialmente il messaggio: mentre cercava di spingere il tasto giusto, Michiko era crollata di nuovo.
Lloyd non sapeva cosa dire, né cosa fare. Normalmente la morte di un figlio era la crisi peggiore che un genitore potesse affrontare, ma certo Michiko non era la sola, oggi, ad affrontare una tragedia del genere. C’erano tanti morti, tanti feriti, tanta distruzione. Quello scenario di orrore non rendeva la perdita di Tamiko meno dura da sopportare, naturalmente, ma…
…ma c’erano delle cose che andavano fatte. Forse Lloyd non avrebbe mai dovuto lasciare il CERN; in fin dei conti l’esperimento che probabilmente aveva causato tutto ciò era suo e di Theo. Senza dubbio aveva accompagnato Michiko non solo per amore suo e di Tamiko, ma anche perché, almeno in parte, aveva sentito il bisogno di fuggire da ciò che non aveva funzionato a dovere, qualsiasi cosa fosse.
Ma adesso…
Adesso dovevano tornare al CERN. Se qualcuno poteva farsi un’idea di quello che era successo — non solo lì, ma in tutto il mondo, come indicavano i servizi radio e i commenti di altri genitori che gli erano giunti all’orecchio — quel qualcuno non poteva che essere del CERN. Non potevano aspettare che un’ambulanza venisse a prendere il corpo… potevano volerci ore, o giorni. D’altra parte la legge imponeva di non rimuovere il cadavere fino a che la polizia non avesse svolto le indagini di rito, anche se sembrava molto improbabile che il guidatore potesse essere ritenuto colpevole.
Alla fine, però, la signora Severin ritornò e si offrì volontaria, lei e il suo personale, per assistere il corpo di Tamiko fino all’arrivo della polizia.
Il volto di Michiko era rosso e gonfio, e i suoi occhi iniettati di sangue. Aveva pianto così tanto che non aveva più lacrime, ma ogni pochi minuti il suo corpo sobbalzava come se stesse ancora singhiozzando.
Anche Lloyd amava la piccola Tamiko… sarebbe diventata la sua figlia adottiva. Aveva passato così tanto tempo a confortare Michiko che non aveva trovato il tempo di piangere a sua volta; sarebbe venuto, il pianto, lo sapeva… ma adesso, proprio adesso, doveva essere forte. Usò l’indice per sollevare dolcemente il mento di Michiko. Aveva già le parole pronte — dovere, responsabilità, lavoro da svolgere, dobbiamo andare — ma a suo modo anche Michiko era forte, e saggia, e splendida, e lui l’amò con tutto il cuore, e non ebbe bisogno di pronunciare quelle parole. Lei riuscì ad annuire debolmente, con le labbra che tremavano. «Lo so» disse in inglese, con voce esile, rauca. «Lo so che dobbiamo tornare al CERN.»
L’aiutò mentre camminava, cingendole la vita con un braccio, e sostenendola sotto il gomito con l’altro. La nenia delle sirene non era mai cessata: ambulanze, vigili del fuoco, auto della polizia, che gemevano e urlavano il loro suono ora crescente, ora calante, un sottofondo sonoro continuo iniziato pochi minuti dopo il verificarsi del fenomeno. Raggiunsero la macchina di Lloyd nella luce calante della sera — molti dei lampioni non erano in funzione — e guidarono lungo le strade piene di detriti fino al CERN, con Michiko raggomitolata su se stessa per tutto il tempo.
Mentre guidavano, Lloyd pensò per un momento a un evento di cui gli aveva parlato una volta sua madre. Lui era un bambino, troppo giovane per ricordarsene: la notte in cui mancò l’energia elettrica, nel 1965, il grande blackout nel nordest americano. L’elettricità era mancata per ore. Quella notte sua madre era rimasta sola con lui; gli aveva detto che chiunque avesse vissuto quell’incredibile esperienza avrebbe ricordato per il resto della sua vita il punto in cui si trovava nel momento in cui era mancata la corrente.
La situazione, adesso, era la stessa. Chiunque avrebbe ricordato il luogo in cui si trovava quando quel blackout — un blackout di genere diverso — si era verificato.
Chiunque fosse sopravvissuto, cioè.
Quando Lloyd e Michiko fecero ritorno, Jake e Theo avevano radunato un gruppo di addetti all’LHC in una sala convegni al secondo piano del centro di controllo.
La maggior parte del personale del CERN viveva o nella città svizzera di Meyrin (che costeggiava il confine orientale del campus), a una dozzina di chilometri lungo la strada per Ginevra, oppure nelle città francesi di St. Genis o Thoiry, a nordovest del CERN. Ma provenivano da tutta Europa, così come dal resto del mondo. Le dodici facce che in quel momento fissavano Lloyd erano assai diverse. Anche Michiko si era unita al cerchio, ma era assente, con gli occhi sbarrati. Se ne stava seduta in una poltroncina, ondeggiando lentamente avanti e indietro.
Lloyd, come responsabile del progetto, prese la parola per primo. Fissò i presenti uno per uno. «Theo mi ha riferito quello che hanno detto alla CNN. Mi sembra piuttosto evidente che in tutto il mondo ci sono state una gran quantità di allucinazioni.» Respirò a fondo. Chiarezza, fermezza… ecco quello di cui aveva bisogno. «Vediamo se riusciamo a definire con precisione ciò che è successo. Vogliamo cominciare dal primo del cerchio? Non entrate nei particolari, limitatevi a una singola frase su quello che avete visto. Se non avete nulla in contrario prenderò degli appunti, d’accordo? Olaf, cominciamo con te?»
«Certo» rispose un uomo biondo e muscoloso. «Ero nella casa di villeggiatura dei miei genitori. Hanno uno chalet dalle parti di Sundvall.»
«In altre parole» disse Lloyd «era un posto che ti è familiare?»
«Oh, sì.»
«E quanto era accurata la visione?»
«Molto accurata. Era esattamente come lo ricordavo.»
«C’era qualcun altro, oltre a te, nella visione?»
«No… il che era piuttosto strano. L’unico motivo per cui vado là è per far visita ai miei genitori, e loro non c’erano.»
Lloyd ripensò all’immagine avvizzita di se stesso che aveva visto allo specchio. «Hai… hai visto te stesso?»
«In uno specchio, o qualcosa del genere, vuoi dire? No.»
«Va bene» disse Lloyd. «Grazie.»
La donna accanto a Olaf era di mezza età, e nera. Lloyd si sentì a disagio; sapeva che avrebbe dovuto conoscere il suo nome, ma non se lo ricordava. Alla fine si limitò a sorridere e disse: «Il prossimo.»
«Era il centro di Nairobi, credo» disse la donna. «Di notte. Era una serata calda. Mi sembra che fosse Dinesen Street, ma c’erano troppi edifici. E c’era anche un McDonald’s.»
«In Kenya non ci sono i McDonald’s?» chiese Lloyd.
«Certo, ma… voglio dire, l’insegna faceva capire che si trattava di un McDonald’s, ma il logo era sbagliato. Capisci, invece delle curve dorate c’era questa grossa M che era fatta di linee tutte dritte… aveva un aspetto molto moderno.»
«Perciò la visione di Olaf era quella di un luogo in cui si reca spesso, ma la tua era di un luogo in cui non eri mai stata prima, o almeno che non avevi mai visto?»
La donna annuì. «Credo di sì.»
Michiko era quattro posti più lontana, lungo il cerchio. Lloyd non riuscì a capire se seguiva o meno quello che stava succedendo.
«Tu che mi dici, Franco?»
Franco Della Robbia alzò le spalle. «Era Roma, di notte. Ma… non lo so, dev’essere stato una specie di videogioco, davvero. Qualcosa di videoregistrato.»
Lloyd si piegò in avanti. «Perché dici così?»
«Be’, era Roma, certo. Proprio dalle parti del Colosseo. E io guidavo una macchina… solo che non stavo guidando, non esattamente. La macchina sembrava procedere di sua iniziativa. E non potevo esserne proprio sicuro per la posizione in cui mi trovavo, ma ce n’erano parecchie che fluttuavano a venti centimetri da terra, più o meno.» Alzò di nuovo le spalle. «Come ho detto, una specie di simulazione.»
Sven e Antonia, che in precedenza, quello stesso giorno, avevano parlato entrambi di macchine volanti, annuirono con decisione. «Io ho visto la stessa cosa» disse Sven. «Certo, non era Roma… ma ho visto delle macchine che si muovevano sollevate da terra.»
«Anch’io» aggiunse Antonia.
«Affascinante» disse Lloyd. Si rivolse al giovane neolaureato, Jacob Horowitz. «Jake, tu che cosa hai visto?»
La voce di Jake era esile, stridula. Si passò nervosamente le mani lentigginose in mezzo ai capelli rossi. «La stanza era abbastanza indefinibile. Un laboratorio da qualche parte. Pareti gialle. Su una di esse c’era una tavola periodica, però, ed era scritta in inglese. E c’era anche Carly Tompkins.»
«Chi?» chiese Lloyd.
«Carly Tompkins. Almeno, mi è parso che fosse lei. Sembrava un po’ più vecchia rispetto all’ultima volta che l’ho vista.»
«Chi è Carly Tompkins?»
La risposta venne non da Jake, ma da Theo Procopides, che era seduto nel punto più lontano del cerchio. «Dovresti conoscerla, Lloyd… è canadese come te. Carly fa ricerca nel campo dei mesoni; l’ultima volta che ho sentito parlare di lei lavorava al TRIUMF.»
Jake confermò con un cenno della testa. «Proprio così. L’ho vista solo un paio di volte, ma sono piuttosto sicuro che fosse lei.»
Antonia, cui sarebbe toccato il turno successivo, alzò le sopracciglia. «Se Jake ha avuto una visione di Carly, chissà che Carly non abbia avuto una visione di Jake.»
Tutti guardarono l’italiana, colpiti dall’osservazione. Lloyd alzò appena le spalle. «C’è un modo per scoprirlo. Potremmo telefonarle.» Guardò Jake. «Hai il suo numero?»
Jake scosse la testa. «Come ho già detto, la conosco appena. Abbiamo partecipato insieme a qualche seminario, durante l’ultimo convegno della Società americana di fisica, e ho collaborato a una sua relazione sulla cromodinamica.»
«Se è iscritta alla SAF,» osservò Antonia «sarà nell’albo.» Trotterellò attraverso la sala e frugò su uno scaffale finché non trovò un volumetto con la copertina di semplice cartone. Scorse le pagine. «Eccola» disse. «Numero di casa e dell’ufficio.»
«Io… ecco, io non voglio chiamarla» disse Jake.
Lloyd rimase sorpreso dalla sua riluttanza, ma non indagò oltre. «Va bene. Tanto non saresti comunque tu a dover parlare con lei. Voglio vedere se sarà lei a fare il tuo nome spontaneamente.»
«Potrebbe essere difficile collegarsi» disse Sven. «I telefoni sono intasati da gente che vuole avere notizie di parenti e amici… per non parlare di tutte le linee abbattute dagli automobilisti.»
«Vale la pena di tentare» disse Theo. Si alzò, attraversò la sala e prese l’albo da Antonia. Poi fissò il telefono e guardò di nuovo i numeri sul volumetto. «Come si fa a chiamare il Canada da qui?»
«È come chiamare gli Stati Uniti» disse Lloyd. «Il prefisso è lo stesso: zero-uno.»
Le dita di Theo danzarono sulla tastiera, formando una lunga fila di numeri. Poi, a beneficio dei presenti, alzò le dita per indicare il numero di squilli. Uno. Due. Tre. Quattro…
«Oh, pronto. Carly Tompkins, prego. Salve, dottoressa Tompkins. La chiamo da Ginevra, dal CERN. Mi ascolti, un gruppo di noi si è riunito qui. Per lei è lo stesso se inserisco il viva voce?»
Una voce assonnata. «…se preferisce. Ma che succede?»
«Vogliamo sapere qual è stata la sua allucinazione quando c’è stato il blackout.»
«Che cosa? Mi sta prendendo in giro?»
Theo fissò Lloyd. «Non sa niente.»
Lloyd si schiarì la voce, poi prese la parola. «Dottoressa Tompkins, sono Lloyd Simcoe. Sono canadese anch’io, anche se ho lavorato fino al 2007 con il gruppo D-Zero al Fermilab, e da due anni mi trovo al CERN.» Fece una pausa, incerto su come proseguire. «Che ora è lì?»
«Quasi mezzogiorno.» Il rumore di uno sbadiglio soffocato. «Oggi è il mio giorno libero, e stavo dormendo. Che è tutta questa storia?»
«Perciò lei oggi non si è ancora alzata?»
«Già.»
«Ha un televisore nella stanza in cui si trova?» le domandò Lloyd.
«Sì.»
«Lo accenda e guardi il notiziario.»
La donna sembrò irritata. «E un po’ difficile che qui nella Colombia britannica riesca a prendere la TV svizzera.»
«Non è necessario che sia un’emittente svizzera. Si sintonizzi su un qualsiasi notiziario.»
L’intera sala sentì la Tompkins che sospirava nella cornetta. «Va bene, Solo un attimo.»
Riuscirono a sentire in sottofondo il suono ovattato di quello che probabilmente era Newsworld della CBC. Dopo un tempo che a tutti sembrò un’eternità, la Tompkins tornò al telefono.
«Oh. Mio Dio» esclamò. «Oh. Mio Dio.»
«Ma lei ha dormito senza interruzioni?»
«Sì, temo di sì» rispose la voce dall’altra parte del mondo. Fece una breve pausa. «Perché mi ha chiamato?»
«Nel notiziario che ha visto hanno già parlato delle visioni?»
«Joel Gotlib sta andando in onda adesso» disse lei, riferendosi presumibilmente a un giornalista canadese. «Sembra assurdo. Comunque a me non è successo niente del genere.»
«Va bene» disse Lloyd. «Ci scusi se l’abbiamo disturbata mentre dormiva, dottoressa Tompkins. Saremo…»
«Aspetta» disse Theo.
Lloyd guardò il suo giovane collega.
«Dottoressa Tompkins, mi chiamo Theo Procopides. Mi sembra che ci siamo incontrati un paio di volte a una conferenza.»
«Se lo dice lei» replicò la donna.
«Dottoressa Tompkins» proseguì Theo. «A me è successa la stessa cosa… neanch’io ho visto niente. Nessuna visione, nessun sogno, niente di niente.»
«Sogno?» disse la voce della donna. «Be’, adesso che me lo dice, credo di avere fatto un sogno. La cosa strana è che era a colori… io non sogno mai a colori. Ma mi ricordo che il tizio che era lì aveva i capelli rossi.»
Theo sembrò contrariato… era stato palesemente contento di scoprire che non era solo. Ma tutti gli altri alzarono gli occhi, e fissarono Jake.
«Non solo i capelli» aggiunse la Tompkins. «Aveva anche le mutande rosse.»
Il giovane Jake divenne adesso del colore dei suoi capelli. «Mutande rosse?» ripeté Lloyd.
«Proprio così.»
«Lei conosceva quest’uomo?»
«No, credo di no.»
«Non aveva l’aspetto di uno che aveva già incontrato?»
«Non mi pare.»
Lloyd si avvicinò al microfono. «E se fosse stato il padre di qualcuno che aveva già conosciuto? Assomigliava al padre di qualcuno?»
«Dove vuole arrivare?» domandò la Tompkins.
Lloyd sospirò, poi si guardò in giro, cercando di capire se qualcuno avesse da obiettare a che lui proseguisse. Nessuno lo fece. «Il nome Jacob Horowitz le dice niente?»
«Io non… oh, aspetti. Ma certo. Certo, certo. Ecco chi mi ricordava. Già, era Jacob Horowitz, ma, accidenti, avrei dovuto prendermi un po’ più cura di lui. Sembrava invecchiato di qualche decennio da quando l’ho visto l’ultima volta.»
Antonia emise un rantolo soffocato. Lloyd sentì che il cuore gli batteva più forte.
«Senta» disse la Tompkins. «Voglio accertarmi che tutti i miei familiari stiano bene. I miei genitori sono a Winnipeg… devo muovermi.»
«Possiamo richiamarla fra un po’?» chiese Lloyd. «Vede, qui con noi c’è Jacob Horowitz, e la sua visione sembra molto simile… in un certo senso. Ha detto che si trovava in un laboratorio…»
«Sì, esatto. Era un laboratorio.»
L’incredulità si fece strada nella voce di Lloyd. «Ed era in mutande?»
«Be’, non più, alla fine della visione… Senta, io devo andare.»
«Grazie» disse Lloyd. «Arrivederci.»
«Arrivederci.»
Il segnale tipico delle linee telefoniche svizzere risuonò dall’altoparlante. Theo allungò la mano e lo mise a tacere.
Jacob Horowitz appariva ancora decisamente imbarazzato. Lloyd fu lì lì per dirgli che probabilmente la metà dei fisici che conosceva lo avevano fatto in un laboratorio, prima o poi, ma il ragazzo rischiava di avere un crollo nervoso se qualcuno avesse appena provato a dire qualcosa. Lloyd tornò a far scorrere lo sguardo sul cerchio dei presenti. «Va bene» disse. «Va bene. Lo dirò io, perché so che lo pensate tutti. Qualunque cosa sia successa, ha provocato una sorta di effetto temporale. Le visioni non erano allucinazioni, erano vere e proprie immagini del futuro. Il fatto che Jacob Horowitz e Carly Tompkins abbiano entrambi visto la stessa cosa è un forte sostegno a questa ipotesi.»
«Ma la visione di Raoul era psichedelica, non l’ha detto qualcuno?» disse Theo.
«Già» confermò Raoul. «Come un sogno, o qualcosa del genere.»
«Come un sogno» ripeté Michiko. I suoi occhi erano ancora rossi, ma almeno stava reagendo agli stimoli del mondo esterno. Fu tutto ciò che disse, ma dopo un attimo Antonia colse il significato di quelle parole e lo elaborò. «Michiko ha ragione» disse la donna, che era un fisico anche lei. «Non c’è nessun mistero… in qualsiasi punto del futuro avvengono le visioni, Raoul doveva essere addormentato, e stava facendo un sogno vero e proprio.»
«Ma tutto questo è assurdo» obiettò Theo. «Insomma, io non ho avuto nessuna visione.»
«Quale è stata la tua esperienza?» gli domandò Sven, che non aveva sentito Theo parlarne prima.
«Era… non so, come una discontinuità, direi. All’improvviso è stato due minuti più tardi: non ho avuto la sensazione del passare del tempo, e niente che assomigliasse minimamente a una visione.» Theo incrociò le braccia sul petto ampio con aria di sfida. «Come lo spieghi?»
C’era una gran calma, nella sala. Le espressioni addolorate di un buon numero di volti fecero capire a Lloyd che anche loro erano giunti alla stessa conclusione, ma nessuno se la sentiva di esprimerla a voce alta. Lloyd scrollò appena le spalle. «Semplice,» disse al suo brillante, baldanzoso, ventisettenne collega di vecchia data, «fra vent’anni… o il giorno a cui appartengono le visioni…» Fece una pausa, poi allargò le braccia. «Mi dispiace, Theo, ma fra vent’anni tu sarai morto.»
La visione che Lloyd desiderava ascoltare più di ogni altra era quella di Michiko. Ma la donna era immobile e silenziosa — e lo sarebbe rimasta certamente per lungo tempo — completamente estraniata dalla situazione. Quando giunse il suo turno, Lloyd la saltò. Avrebbe voluto portarla a casa, ma era senza dubbio meglio che lei non restasse sola, e non era possibile che Lloyd, o chiunque altro, si assentasse per farle compagnia.
Nessuna delle altre visioni riferite dal piccolo campionario di persone riunite nella sala convegni coincideva con un’altra: non c’era nessuna indicazione che si riferissero allo stesso tempo o alla stessa realtà, anche se sembrava che quasi tutti fossero in vacanza, o in un giorno di libertà. Ma c’era la questione di Jake Horowitz e Carly Tompkins… separati da quasi mezzo pianeta eppure apparentemente in contatto fra loro. Naturalmente poteva trattarsi di una coincidenza. Eppure, se le visioni corrispondevano, non solo a grandi linee, ma nei minimi dettagli, quello era un aspetto significativo.
Lloyd e Michiko si erano ritirati nell’ufficio di lui. Michiko si era raggomitolata in una delle poltrone, e si era messa addosso la giacca a vento di Lloyd a mo’ di coperta. Lloyd prese la cornetta del telefono che si trovava sulla scrivania e compose un numero. «Bonjour» disse. «La polke de Genève? Je m’appelle Lloyd Simcoe; je suis avec CERN.»
«Oui, monsieur Simcoe» rispose una voce maschile, e passò all’inglese; gli svizzeri lo facevano spesso quando riconoscevano l’accento di Lloyd. «Che cosa possiamo fare per lei?»
«So che siete terribilmente occupati…»
«Un’affermazione riduttiva, monsieur. Siamo, come dite voi, impantanati.»
Con l’acqua alla gola, lo corresse mentalmente Lloyd. «Ma spero che uno dei vostri funzionari addetti alla raccolta delle deposizioni sia libero. Abbiamo una teoria a proposito delle visioni, e ci serve l’aiuto di qualcuno che sappia come raccogliere una testimonianza.»
«La collego con l’ufficio competente» disse la voce.
Mentre Lloyd aspettava, Theo si affacciò alla porta dell’ufficio. «Su World Service della BBC sostengono che molte persone hanno avuto visioni coincidenti» disse. «Per esempio, molte coppie sposate, anche se non si trovavano nella stessa stanza nel momento in cui si è verificato il fenomeno, hanno riferito esperienze simili.»
Lloyd annuì a quel frammento di informazione. «Però credo che ci sia sempre una possibilità di collusione, per qualche motivo, oppure, nonostante Carly e Jake, che la sincronizzazione delle visioni sia stata un fenomeno localizzato. Ma…»
Non finì la frase… in fin dei conti era a Theo che stava parlando, a colui che non aveva avuto visioni. Ma se Carly Tompkins e Jacob Horowitz — lei a Vancouver, lui dalle parti di Ginevra — avevano visto davvero la stessa identica cosa, allora non c’erano più dubbi: le visioni appartenevano allo stesso futuro, tessere di un mosaico del domani… un domani che non comprendeva Theo Procopides.
«Mi descriva la stanza in cui si trovava» disse l’esperta in deposizioni, una ispettrice svizzera di mezza età. Aveva un’agenda elettronica di fronte a sé, e indossava una maglietta polo piuttosto abbondante; di moda l’ultima volta alla fine degli anni ottanta, e ora tornata ciclicamente in voga.
Jacob Horowitz chiuse gli occhi per concentrarsi, tentando di ricordare ogni dettaglio. «È una specie di laboratorio. Pareti gialle. Luci fluorescenti. Banconi con il piano in formica. Una tavola degli elementi appesa al muro.»
«E c’è qualcun altro nel laboratorio?»
Jake annuì. Dio, perché avevano mandato un ispettore di sesso femminile? «Sì. C’è una donna… Una donna bianca, con i capelli neri. Dimostra sui quarantacinque anni.»
«E che cosa indossa questa donna?»
Jake deglutì. «Niente…»
L’ispettrice svizzera se ne era andata, e adesso Lloyd e Michiko stavano confrontando i rapporti delle visioni di Carly e di Jacob; Carly aveva accettato di farsi esaminare in modo analogo dalla polizia di Vancouver, e il risultato di quella deposizione era stata inviato al CERN per posta elettronica.
Nelle ore successive alla morte della figlia, Michiko si era un po’ ripresa. Stava chiaramente cercando di mettere a fuoco, di riprendersi, di fronteggiare una crisi più forte, ma ogni pochi minuti si ritraeva in se stessa e i suoi occhi si riempivano di lacrime. Tuttavia riuscì a leggere le due pagine trascritte senza inumidire troppo la carta.
«Non c’è dubbio» disse. «Coincidono in ogni particolare. Si trovavano nella stessa stanza.»
Lloyd tentò un debole sorriso. «Ragazzi» disse. Conosceva Michiko solo da due anni; non avevano mai fatto l’amore in laboratorio… ma nei suoi giorni di preparazione al dottorato, Lloyd e la sua ragazza di allora, Pamela Ridgley, avevano di certo riscaldato più di un bancone da lavoro. Poi, però, scosse la testa, stupito. «Un’occhiata sul futuro. Affascinante» Fece una pausa. «Immagino che qualcuno ci si arricchirà.»
Michiko scrollò appena le spalle. «Alla fine, forse. Quelli che hanno letto i listini di borsa del futuro potranno diventare ricchi… ma passeranno decenni. È un tempo molto lungo da attendere, perché ti ripaghi di tutto.»
Lloyd tacque per un po’, quindi disse: «Ancora non mi hai raccontato quello che hai visto tu… qual è stata la tua visione.»
Michiko distolse lo sguardo. «No» replicò. «Non te l’ho raccontato.»
Lloyd le sfiorò la guancia, ma non disse nulla.
«Nel momento… nel momento in cui avevo la visione, mi è sembrata magnifica» cominciò lei. «Voglio dire, ero disorientata e confusa, non capivo quello che stava succedendo. Ma la visione in sé era piena di gioia.» Riuscì a concedersi un pallido sorriso. «Solo che adesso, dopo quello che è accaduto…»
Lloyd non la sollecitò nemmeno questa volta. Rimase a sedere tranquillo, almeno esteriormente.
«Era notte fonda» disse alla fine Michiko. «Ero in Giappone; sono sicura che fosse una casa giapponese. Mi trovavo sul lettino di una bambina, seduta sul bordo. E questa bambina, forse di sei o sette anni, era seduta sul letto e parlava con me. Era bellissima, ma non era… non era…»
Se le visioni appartenevano a qualche decennio nel futuro, ovviamente non era Tamiko. Lloyd annuì dolcemente, risparmiandole di dover finire il racconto. Michiko tirò su col naso. «Ma… ma era mia figlia; era mia figlia senza dubbio. Una figlia che non ho ancora. Mi teneva la mano e mi chiamava okaasan; è la parola giapponese per mamma. Ho avuto l’impressione che la stessi mettendo a letto, augurandole la buonanotte.»
«Tua figlia…» disse Lloyd.
«Be’, nostra figlia, ne sono certa» disse Michiko. «Tua e mia.»
«Che ci facevi in Giappone?»
«Non lo so; una visita ai miei familiari, immagino. Mio zio Masayuki vive a Kyoto. A parte il fatto che avevamo una figlia, non ho avuto affatto la sensazione che la cosa si svolgesse nel futuro.»
«Questa bambina, lei aveva…»
Lloyd si interruppe. Quello che voleva chiederle era rozzo e volgare. «Aveva gli occhi a mandorla?» 0 magari si sarebbe ripreso in tempo e avrebbe riformulato la domanda in modo più elegante: «Aveva le pieghe epicantiche?» Ma Michiko non avrebbe capito. Avrebbe pensato che dietro le parole di Lloyd si nascondesse qualche pregiudizio, qualche sciocco equivoco sulla mescolanza razziale. Ma non era così. A Lloyd non interessava se i loro eventuali figli avrebbero avuto un aspetto orientale od occidentale. Potevano avere facilmente l’uno o l’altro, o anche, logicamente, un insieme dei due, e lui li avrebbe amati allo stesso modo, presumendo…
Presumendo, naturalmente, che fossero i suoi figli.
Le visioni sembravano appartenere a un tempo lontano nel futuro forse due decenni. E nella sua visione, di cui ancora non aveva messo a conoscenza Michiko, lui si trovava da qualche parte, forse nel New England, insieme a un’altra donna. Una donna bianca. E Michiko era a Kyoto, Giappone, con una figlia che poteva essere asiatica o caucasica, o una via di mezzo, a seconda di chi era il padre.
Questa bambina, lei aveva…
«Aveva che cosa?» chiese Michiko.
«Niente» rispose Lloyd, distogliendo lo sguardo.
«Che mi dici della tua visione?» gli domandò Michiko. «Che cosa hai visto?»
Lloyd respirò a fondo. Immaginava che prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, e…
«Lloyd, Michiko… venite giù nella sala convegni, ragazzi.» Era la voce di Theo, che aveva fatto di nuovo capolino. «Abbiamo appena registrato qualcosa sulla CNN che vi farà piacere sentire.»
Lloyd, Michiko e Theo entrarono nella sala, dove c’erano già altre quattro persone. Lou Waters, con i suoi bianchi capelli, saltellava in alto e in basso sullo schermo: il videoregistratore della sala era piuttosto antiquato — lo scarto di qualche funzionario — e la funzione di pausa era difettosa.
«Ah, bene» disse Raoul mentre entravano. «Guardate questo.» Toccò il tasto pausa del telecomando, e Waters si mise subito in azione.
«…David Houseman ha qualcosa di nuovo da raccontarci su questa storia. David?»
L’immagine cambiò, mostrando David Houseman, della CNN, in piedi davanti a una parete di orologi antichi. Perfino di fronte a una vicenda drammatica come quella, la CNN non rinunciava a ricercare le inquadrature più insolite.
«Grazie, Lou» disse Houseman. «Gran parte delle visioni della gente, naturalmente, non hanno nessun riferimento temporale, ma un certo numero di persone si è trovato all’interno di stanze con orologi o calendari alla parete, o a leggere giornali elettronici — pare che non esistano più quelli cartacei — tanto da consentirci di ipotizzare una data. A quanto sembra le visioni si riferivano a un tempo successivo di ventuno anni, sei mesi, due giorni e due ore rispetto al momento in cui hanno avuto luogo: riproducono il periodo fra le 2.21 e le 2.23 del pomeriggio, ora della costa orientale, di mercoledì 23 ottobre 2030. Le occasionali divergenze sono spiegabili: sembra che qualcuno leggesse giornali del giorno prima, o magari anche più vecchi… forse rileggevano vecchie edizioni. E i riferimenti cronologici, naturalmente, dipendono in gran parte dal fuso orario. Noi presumiamo che fra vent’anni la maggioranza delle persone vivrà ancora nella stessa fascia oraria in cui vive oggi, e quindi coloro che riferiscono orari diversi di parecchie ore da quelli che ci aspettiamo devono essersi trovati in altre fasce…»
Raoul premette di nuovo il tasto pausa.
«Ci siamo» disse. «Un numero consistente. Qualsiasi cosa abbiamo scatenato oggi, ha fatto sì che l’intera razza umana, chissà come, vivesse consapevolmente due minuti della sua vita di ventuno anni dopo.»
Theo tornò al suo ufficio, dalla cui finestra risaltava il buio della notte. Tutto quel parlare di visioni era seccante… soprattutto perché lui non ne aveva avute. Lloyd poteva avere ragione? Theo poteva essere morto, ventuno anni dopo? Aveva solo ventisette anni, per l’amor del cielo; fra vent’anni non avrebbe nemmeno raggiunto i cinquanta. Non fumava… affermazione di scarsa rilevanza per un qualsiasi nordamericano, ma significativa per un greco. Si teneva in esercizio regolarmente. Perché mai doveva morire così presto? Se non aveva avuto visioni, doveva esserci un’altra spiegazione.
Il suo telefono fece bip. Theo sollevò la cornetta. «Pronto?»
«Pronto» disse una voce femminile, in inglese. «Parlo con, ehm, Theodosios Procopides?» Inciampo sul nome.
«Sì.»
«Mi chiamo Kathleen DeVries» disse la donna. «Mi sorto domandata a lungo se chiamarla o no. Telefono da Johannesburg.»
«Johannesburg? Intende dire nel Sudafrica?»
«Per il momento, almeno» replicò lei. «Se si deve credere alle visioni, entro i prossimi ventuno anni verrà denominato ufficialmente Azania.»
Theo attese in silenzio che la donna proseguisse. Dopo un attimo lo fece. «E proprio per le visioni che la sto chiamando. Vede, la mia riguardava lei.»
Theo sentì il suo cuore che affrettava i battiti. Che splendida notizia! Forse lui non aveva avuto una visione per un motivo qualsiasi, ma quella donna lo aveva visto ventuno anni nel futuro. Naturalmente doveva essere vivo; naturalmente Lloyd si sbagliava quando aveva detto che Theo sarebbe morto prima.
«Sì?» disse Theo, senza fiato.
«Ummm, mi dispiace di averla disturbata» disse la donna. «Posso… posso chiederle che cosa mostrava la sua visione?»
Theo lasciò andare il respiro. «Io non ho avuto nessuna visione» rispose.
«Oh. Oh, mi dispiace di sentirlo. Ma… be’, ecco, credo che non sia stato un errore.»
«Che cosa non è stato un errore?»
«La mia visione. Ero qui, a casa mia, a Johannesburg, e leggevo il giornale dopo aver mangiato… solo che non era stampato su carta, ma su quello che sembrava un foglio sottile di plastica, una specie di schermo di lettura computerizzato, credo. Comunque si dà il caso che l’articolo che stavo leggendo fosse… be’, mi dispiace che non ci sia un altro modo per dirglielo. Era sulla sua morte.»
Una volta Theo aveva letto un racconto di Lord Dunsany in cui si parlava di un uomo che desiderava ardentemente vedere il giornale dell’indomani, e quando alla fine il suo desiderio veniva esaudito lui scopriva, con sua grande sorpresa, che conteneva il suo annuncio funebre. Il colpo subito nel leggere quella notizia era stato sufficiente per ucciderlo, e naturalmente la notizia veniva pubblicata nell’edizione dell’indomani. Ma questo… questo non era il giornale di domani, era un giornale di oltre vent’anni dopo.
«La mia morte» ripeté Theo, come se si fossero dimenticati di insegnargli quelle due parole nelle lezioni d’inglese.
«Sì, proprio così.»
Theo riprese un po’ di coraggio. «Senta, come faccio a sapere che questo non è uno scherzo o una sua invenzione?»
«Mi dispiace: so che non avrei dovuto chiamare. Sarò…»
«No, no, no. Non riattacchi. Anzi, mi faccia annotare il suo nome e il numero di telefono. Sul display del telefono c’è quel dannato messaggio: ‘chiamata da fuori distretto’. Lasci che sia io a richiamarla; questa telefonata le deve costare una fortuna.»
«Mi chiamo, come le ho detto, Kathleen DeVries. Faccio l’infermiera in una casa di riposo.» Gli comunicò il suo numero di telefono. «Ma, sul serio, sono contenta di pagare io questa telefonata. Onestamente, non voglio niente da lei, e non sto cercando di imbrogliarla. Ma, ecco… vede, io ho a che fare tutti i giorni con la morte delle persone. Qui ne muore almeno una a settimana,-ma per lo più sono ottantenni o novantenni, qualche volta centenari. Ma lei… quando morirà, lei avrà appena quarantotto anni, ed è davvero un’età troppo giovane per morire. Ho pensato di chiamarla per farglielo sapere, forse lei riuscirà in qualche modo a prevenire la sua morte.»
Theo rimase silenzioso per diversi secondi. «E così, che… di che cosa morirò, secondo il necrologio?» Per un bizzarro istante Theo si sentì in qualche modo compiaciuto che il suo decesso meritasse una citazione su un giornale internazionale. Fu sul punto di chiedere se per caso le prime quattro parole dell’articolo fossero ‘insignito del premio Nobel’. «So che dovrei abbassare il livello del colesterolo; è stato un attacco cardiaco?»
Seguì un lungo silenzio. «Ecco, dottor Procopides, mi dispiace. Immagino che avrei fatto meglio a essere più chiara. Non stavo leggendo un necrologio. Era un servizio di cronaca.» Theo riuscì a sentirla mentre deglutiva. «Un articolo sul suo assassinio.»
Theo rimase muto. Avrebbe potuto ripetere quel termine, in segno di incredulità, ma sarebbe stato inutile.
Aveva ventisette anni, era in buona salute. Come aveva pensato qualche attimo prima, naturalmente non sarebbe morto di cause naturali in appena ventuno anni. Ma… un assassinio?
«Dottor Procopides? È ancora lì?»
«Sì.» Per il momento.
«Mi… mi dispiace, dottor Procopides. So che per lei deve essere un brutto colpo.»
Theo tacque per qualche secondo ancora, quindi disse: «L’articolo che lei stava leggendo… diceva chi mi ha ucciso?»
«Temo di no. È un delitto insoluto, a quanto pare.»
«Be’, che dice l’articolo?»
«Ho preso appunti su tutto quello che sono riuscita a ricordare; posso farglieli avere per posta elettronica, ma, ecco, lasci che glieli legga adesso. Si ricordi, è una ricostruzione; credo che sia abbastanza accurata, ma non posso garantire per ogni parola.» Fece una pausa, si schiarì la gola, poi proseguì. «Il titolo diceva: Fisico assassinato con un colpo di pistola.»
Assassinato, pensò Theo. Dio!
La DeVries proseguì. «La località indicata è Ginevra. Diceva: Theodosios Procopides, un fisico greco che lavorava al CERN, il Centro europeo per la fisica delle particelle, è stato trovato oggi colpito a morte da un’arma da fuoco. Procopides, laureato a Oxford, era il direttore del Collisore tachioni-tardioni del…»
«Lo ripeta» la interruppe Theo.
«Il Collisore tachioni-tardioni» ripeté la donna. Pronunciava male il termine ‘tachioni’, con la C morbida invece che dura. «Non avevo mai sentito nominare prima queste parole.»
«Non esiste un collisore simile» disse Theo. «Almeno, non ancora. Vada avanti, per favore.»
«…il direttore del Collisore tachioni-tardioni del CERN. Il dottor Procopides lavorava al CERN da ventitré anni. Non è stata fatta nessuna ipotesi sul movente, ma è stato escluso subito quello della rapina, visto che il dottor Procopides aveva ancora in tasca il portafogli. Il fisico è stato ucciso apparentemente fra mezzogiorno e l’una di ieri, ora locale. Le indagini proseguono. Il dottor Procopides lascia…»
«Sì? Sì?»
«Mi dispiace, è tutto qui.»
«Vuole dire che la sua visione è terminata prima che finisse di leggere l’articolo?»
Seguì un breve silenzio. «Be’, non proprio. Il resto dell’articolo era fuori schermo, e invece di toccare il pulsante pagina giù — lo vedevo benissimo a lato del pannello di lettura — sono andata a selezionare un altro articolo.» Fece una pausa. «Mi dispiace, dottor Procopides. Io — cioè, la me stessa del 2009 — ero interessata a ciò che diceva il resto dell’articolo, ma la mia versione del 2030 non lo sembrava altrettanto. Ho cercato di imporle — di imporre a me — di toccare il pulsante pagina giù, ma non è servito a niente.»
«E così lei non sa chi mi ha ucciso, e perché?»
«Mi dispiace veramente.»
«E il giornale che lei stava leggendo… è sicura che fosse quello corrente? Insomma, quello del 23 ottobre 2030?»
«Per dire la verità no. C’era… come si chiama? La barra di stato? C’era una barra di stato in cima al pannello di lettura, in cui erano scritti la data e il nome del giornale in modo piuttosto evidente: The Johannesburg Star, martedì 22 ottobre 2030. Perciò credo che fosse il giornale di ieri, per così dire.» Si interruppe di nuovo. «Mi dispiace di essere io a doverle comunicare una notizia così triste.»
Theo rimase seduto in silenzio per un poco, tentando di assimilare tutto ciò. Era già difficile mandare giù il fatto che sarebbe morto fra poco più di vent’anni, ma l’idea che qualcuno potesse ucciderlo era qualcosa di veramente insopportabile.
«Signora DeVries, la ringrazio» disse. «Se le viene in mente qualche altro particolare — qualsiasi cosa — la prego, la supplico, me lo faccia sapere. E per favore mi mandi per fax la trascrizione di cui parlava.» Le diede il suo numero di fax.
«Lo farò» disse lei. «Io… mi dispiace davvero. Lei ha l’aria di un giovane per bene. Spero che riesca a scoprire chi lo ha fatto — chi lo farà — e che trovi un modo per impedirlo.»
Era ormai quasi mezzanotte. Lloyd e Michiko stavano percorrendo il corridoio diretti verso l’ufficio di lui quando sentirono la voce di Jake Horowitz che li chiamava da una porta aperta. «Ehi, Lloyd, venga a dare un’occhiata.»
Entrarono nella stanza. Il giovane Jake era in piedi accanto a un televisore. Lo schermo era pieno di neve.
«Neve» disse Lloyd, disponibile, mentre attraversava la stanza per raggiungere Jake.
«Già.»
«Quale canale stai cercando di prendere?»
«Nessun canale. Sto riguardando un nastro.»
«Di che cosa?»
«Si dà il caso che questa sia la telecamera della sicurezza collocata sul cancello principale del campus del CERN.» Premette il tasto eject; la cassetta VHS schizzò fuori. Ne inserì un’altra. «E questa è la telecamera della sicurezza che si trova al Microcosmo.» Premette il tasto play; lo schermo tornò a riempirsi di neve.
«Sei sicuro che sia il videoregistratore giusto?» In Svizzera usavano il sistema di registrazione PAL e, anche se gli apparecchi multistandard erano comuni, al CERN ce n’erano alcuni che leggevano solo il sistema NTSC.
Jake annuì. «Ne sono sicuro. Mi ci è voluto un bel po’ di tempo per trovarne uno che mostrasse quello che c’era veramente sul nastro… quasi tutti i videoregistratori, se non c’è un segnale video, mostrano lo schermo di un bel blu compatto.»
«Be’, se è il videoregistratore giusto, allora deve essersi ci qualcosa che non va nei nastri.» Lloyd aggrottò la fronte. «Forse c’è stato un impulso elettromagnetico associato al… a quello che diavolo è stato. Può avere cancellato i nastri.»
«All’inizio ho pensato anch’io la stessa cosa» disse Jake. «Ma guardi questo.» Premette dal telecomando il pulsante per riavvolgere il nastro. La neve accelerò il suo turbinio sullo schermo e la sigla REV — l’abbreviazione era la stessa in molte lingue europee — comparve nell’angolo superiore destro. Dopo circa mezzo minuto improvvisamente apparve un’immagine che mostrava l’Esposizione del Microcosmo, la mostra permanente del CERN nella quale si spiegava ai turisti la fisica delle particelle. Jake fece riavvolgere un po’ il nastro, poi tolse il dito dal pulsante.
«Vede?» disse. «Siamo più indietro sul nastro… guardi l’ora indicata.» Nel centro dello schermo, verso il basso, c’era una lettura digitale sovrapposta all’immagine, con il minutaggio che cresceva: 16h58m22s, 16h58m23s, 16h58m24s…
«Poco più di un minuto e mezzo e avrà inizio il fenomeno» disse Jake. «Se ci fosse stato un impulso elettromagnetico, o qualcosa del genere, avrebbe cancellato anche il resto del nastro.»
«E allora che cosa vuoi dire?» gli chiese Lloyd. «Che la registrazione è stata disturbata proprio all’inizio del fenomeno?» Gli piaceva l’approccio di Jake a ciò che era avvenuto.
«Sì… e ritorna normale esattamente un minuto e quarantatre secondi dopo. La stessa cosa succede su tutti i nastri che ho controllato; un minuto e quarantatrè secondi di elettricità statica.»
«Lloyd, Jake… venite subito!» Era la voce di Michiko; i due uomini si voltarono e la videro fare grandi cenni dalla porta. Le corsero dietro fino alla porta della stanza successiva… la sala di ritrovo, che aveva il suo televisore sempre sintonizzato sulla CNN.
«…e naturalmente ci sono state centinaia di migliaia di riprese video fatte nel periodo in cui la mente delle persone era altrove» disse la conduttrice Petra Davies. «Impianti di sorveglianza, videocamere amatoriali lasciate in funzione, registrazioni di studi televisivi — compresi i nostri stessi materiali d’archivio, che la Commissione federale sulle comunicazioni ci impone di produrre — e altre ancora. Presumevamo che avrebbero mostrato chiaramente la gente priva di sensi, o che cadeva a terra…»
Lloyd e Jake si scambiarono un’occhiata. «Ma» proseguì la Davies «nessuna mostra niente. O, per essere più precisi, mostrano solo neve… chiazze bianche e nere che offuscano lo schermo. Per quanto ci risulta, ogni video realizzato in qualsiasi parte del mondo durante il Cronolampo mostra solo neve esattamente per un minuto e quarantatrè secondi. Nello stesso modo tutti gli altri strumenti di registrazione di cui disponiamo, come quelli collegati alle stazioni meteorologiche che utilizziamo per le previsioni del tempo, non hanno registrato dati durante il periodo in cui tutti hanno perso coscienza. Se qualcuno che ci segue in questo momento ha un nastro o una registrazione qualsiasi effettuata in quel periodo, nella quale si veda un’immagine, ci piacerebbe che si mettesse in contatto con noi. Potete chiamarci sul numero gratuito…»
«Incredibile» disse Lloyd. «Ti viene proprio voglia di chiederti che cosa sia successo esattamente in quei due minuti.»
Jake annuì. «Proprio così.»
«’Cronolampo’, eh?» disse Lloyd, assaporando il termine che aveva usato la conduttrice. «Non è un brutto nome.»
Jake annuì. «Di certo è migliore di ‘Il disastro del CERN’ o qualcosa del genere.»
«Su questo non c’è dubbio.»
Theo si appoggiò alla poltrona del suo ufficio, le mani dietro la testa, fissando la costellazione di fori nei pannelli acustici del soffitto, e pensando a quello che gli aveva appena detto quella DeVries.
Non era come sapere che saresti morto in un incidente. Se qualcuno ti avesse preavvertito che saresti stato investito da un’auto nella tale strada alla tale ora, be’, allora ti sarebbe bastato evitare di trovarti in quel luogo in quel momento e — voilà — crisi evitata. Ma se qualcuno ce l’ha con te e vuole ucciderti, prima o poi lo farà. Il semplice fatto di non trovarsi lì, o dovunque avrebbe avuto luogo il delitto (l’articolo del Johannesburg Sfar non indicava una località precisa) il 21 ottobre 2030 non sarebbe stato sufficiente a salvare Theo.
Il dottor Procopides lascia…
Lascia chi? I genitori? Suo padre avrebbe avuto ottantadue anni e sua madre settantanove. Il padre di Theo aveva avuto un attacco di cuore qualche anno prima, ma da allora aveva tenuto scrupolosamente sotto controllo il colesterolo, rinunciando al suo saganaki e alle sue insalate di feta che amava tanto. Certo, per allora potevano essere ancora vivi.
Come l’avrebbe presa il suo papà? Non è normale che un padre sopravviva al figlio. Avrebbe pensato di avere già vissuto una vita lunga e soddisfacente? Avrebbe rinunciato alla vita, morendo dopo pochi mesi, e lasciando mamma tutta sola a sopportarne il peso? Certo, Theo sperava che i suoi genitori fossero ancora vivi, dopo ventuno anni, ma…
Il dottor Procopides lascia…
… la moglie e i figli?
Era questo che si diceva di solito nei necrologi. Ma sua moglie… sua moglie Anthoula, magari, una bella ragazza greca. Questo avrebbe reso felice papà.
A parte che…
A parte che Theo non conosceva nessuna bella ragazza greca… anzi nessuna bella ragazza, di nessuna nazionalità. Almeno — gli nacque un pensiero, ma lo ricacciò indietro — almeno nessuna che fosse libera.
Si era dedicato al suo lavoro. Prima impegnandosi a ottenere buoni voti per poter studiare a Oxford, poi guadagnandosi il dottorato, e infine riuscendo a farsi assegnare al CERN. Oh, c’erano state delle donne, naturalmente… studentesse americane quando era ancora ad Atene, avventure di una notte insieme agli amici e una volta, in Danimarca, addirittura una prostituta. Ma aveva sempre pensato che ci sarebbe stato tempo in seguito per l’amore, per il matrimonio, per i figli.
Ma quando sarebbe venuto quel momento?
Si era realmente domandato se quell’articolo cominciasse con le parole ‘insignito del premio Nobel’. Non cominciava così, ma lui se lo era domandato… e, se doveva essere onesto con se stesso, era una domanda molto seria. Un Nobel significava l’immortalità, significava essere ricordato per sempre.
L’esperimento del grande collisore al quale lui e Lloyd avevano lavorato per anni avrebbe dovuto produrre il bosone di Higgs; se lo avessero prodotto, ne sarebbe certamente seguito il Nobel. Invece non avevano raggiunto quell’obiettivo.
Quell’obiettivo… come se avessero potuto accontentarsi di un solo obiettivo.
Morto fra ventuno anni. Chi lo avrebbe ricordato?
Era tutto così assurdo. Così incredibile.
Lui era Theodosios Procopides, per l’amor di Dio. Era immortale.
Certo che lo era. Certo che lo era. Chi non lo era, a ventisette anni?
Una moglie. Dei bambini. Di certo il necrologio li menzionava. Di certo, se la signora DeVries avesse premuto il tasto giusto, avrebbe letto i loro nomi, e magari la loro età.
Ma un attimo… un attimo!
Quante pagine ci sono in un giornale tipico di una grande città? Duecento, diciamo. Quanti lettori? La circolazione media di un quotidiano importante può essere di circa mezzo milione di copie. Naturalmente la DeVries aveva detto di aver letto il giornale di ieri, ma non poteva essere stata l’unica a leggere quell’articolo durante l’incursione di due minuti nel futuro.
Per di più, Theo sarebbe stato ucciso, a quanto sembrava, proprio in Svizzera — l’articolo parlava di Ginevra — eppure la vicenda era apparsa su un giornale sudafricano. Il che significava che doveva essere apparsa anche su altri giornali e newsgroup in tutto il mondo, magari con differenti resoconti dei fatti. Certamente la Tribune de Genève avrebbe pubblicato un servizio più dettagliato. Dovevano esserci centinaia — forse migliaia — di persone che avevano letto la notizia della sua morte.
Poteva mettere un annuncio per contattarle, su Internet e sui giornali più diffusi. Scoprire di più… e accertarsi al di là di ogni dubbio se quello che aveva detto la DeVries era vero.
«Guardi qui» disse Jake Horowitz, sbattendo l’agenda elettronica sulla scrivania di Lloyd; mostrava una pagina Web.
«Che cos’è?»
«Materiale dall’Ufficio geologico degli Stati Uniti. Letture dei sismografi.»
«Ah, si?»
«Guardi le prime letture di oggi.»
«Santo Dio!»
«Proprio così. Per quasi due minuti, con inizio alle 17.00, ora dell’Europa centrale, i sensori non hanno registrato niente. 0 indicano disturbo zero — cosa impossibile, perché la Terra trema sempre leggermente, anche per semplici interazioni di marea con la Luna — oppure non hanno registrato dati. Proprio come le videocamere: nessuna registrazione di ciò che è accaduto veramente durante quei due minuti. E ho controllato anche i diversi servizi nazionali di previsioni meteorologiche. I loro strumenti di misurazione — velocità del vento, temperatura, pressione dell’aria e via dicendo — non indicano niente per tutta la durata del Cronolampo. E anche la NASA e l’ESA segnalano periodi morti nella telemetria dei loro satelliti durante quei due minuti.»
«Come può essere?» domandò Lloyd.
«Non lo so» rispose Jake, passandosi una mano sui capelli rossi. «Ma chissà come, ogni telecamera, ogni sensore, ogni strumento di registrazione in qualsiasi parte del mondo è diventato semplicemente inattivo per tutta la durata del Cronolampo.».
Theo sedeva alla scrivania del suo ufficio, con un Paperino di plastica che lo guardava dalla sommità del monitor, pensando a come trasformare in un testo quello che voleva dire. Decise di essere semplice e immediato. In fondo quello che gli occorreva era rendere 1 informazione disponibile sotto forma di un annuncio da inserire nella piccola pubblicità di centinaia di giornali di tutto il mondo; se non fosse stato conciso gli sarebbe costata una fortuna. Aveva tre tastiere: una francese del tipo AZERTY, una inglese del tipo QWERTY, e una greca. Si servì di quella inglese.
Theodosios Procopides, nato ad Atene, dipendente del CERN, verrà ucciso il 21 ottobre 2030. Se la tua visione ha qualche riferimento a questo delitto, per favore contatta procopides@cern.ch
Pensò di lasciarlo così, poi aggiunse una frase finale: ‘Sto cercando di prevenire la mia morte’.
Poteva tradurlo in greco e in francese da solo; in teoria il suo computer poteva farlo per lui in qualsiasi altra lingua, ma se c’era una cosa che la sua vita al CERN gli aveva insegnato era che le traduzioni del computer erano spesso inadeguate… ricordava ancora lo sgradevole incidente del banchetto di Natale che era diventato banco di Natale. No, avrebbe richiesto l’aiuto dei diversi dipendenti del CERN, anche per farsi consigliare quali fossero i giornali più importanti dei vari paesi.
Una cosa, però, poteva farla subito: trasmettere il suo annuncio ai diversi newsgroup. Lo fece prima ancora di andare a casa a dormire.
Finalmente, all’una del mattino, Lloyd e Michiko se ne andarono dal CERN. Anche questa volta lasciarono la Toyota di lei nel parcheggio: accadeva spesso che chi lavorava fino a tardi rimediasse un passaggio da un collega.
Michiko lavorava per la Sumitomo Electric. Era un ingegnere specializzato nella tecnologia dell’acceleratore superconduttore, assegnata al CERN con contratto a lungo termine; lo stesso CERN aveva acquistato dalla Sumitomo diversi componenti per il grande collisore. Il suo datore di lavoro aveva procurato a lei, e a Tamiko, uno splendido appartamento sulla rive droite di Ginevra. Lloyd era pagato meno bene e nessuno gli aveva assegnato un appartamento; abitava nella cittadina di St. Gems. A lui piaceva vivere in Francia, benché lavorasse quasi sempre in Svizzera; il CERN aveva un permesso speciale che consentiva ai suoi dipendenti di passare da una nazione all’altra senza mostrare il passaporto alla frontiera.
Lloyd aveva preso in affitto l’appartamento già ammobiliato; anche se lavorava al CERN da due anni, non lo considerava casa sua, e l’idea di acquistare dei mobili, che poi gli sarebbe costato una fortuna portare in Nord America, per lui non aveva alcun senso. L’arredamento era un po’ antiquato, ma almeno ben coordinato: legno scuro, tappeto color arancio bruciato, pareti rosso cupo. Dava una sensazione di intimità e di calore, anche se l’ambiente sembrava più piccolo di quanto non fosse realmente. Ma Lloyd non aveva nessun legame emotivo con il suo appartamento… non era mai stato sposato, né aveva vissuto con qualcuno dell’altro sesso e, negli ultimi venticinque anni, da quando aveva lasciato la sua città, aveva avuto undici residenze diverse. Eppure quella sera non c’era il minimo dubbio che dovessero recarsi a casa sua, e non in quella di Michiko. Nell’appartamento di lei ci sarebbe stato troppo di Tamiko, troppo perché lei fosse in grado di affrontarlo subito.
L’appartamento di Lloyd era situato all’interno di un palazzo vecchio di quarant’anni, riscaldato con radiatori elettrici. Sedettero sul divano. Lui le mise un braccio sopra la spalla e cercò di consolarla. «Mi dispiace» le disse.
Il volto di Michiko era ancora gonfio. Aveva dei momenti di calma, ma all’improvviso scoppiava a piangere, e sembrava che non dovesse mai smettere. Michiko annuì appena.
«Non c’era modo di prevedere tutto questo» disse Lloyd. «Nessun modo per evitarlo.»
Ma Michiko scosse la testa. «Che razza di madre sono?» disse. «Ho portato mia figlia dall’altra parte del mondo, lontana dai suoi nonni, da casa sua.»
Lloyd non disse nulla. Che poteva dire? Che gli era sembrata una cosa meravigliosa da fare? Venire a studiare in Europa, anche se solo all’età di otto anni, sarebbe stata un’esperienza fantastica per qualunque bambino. E certo portare Tamiko in Svizzera era stata una giusta idea.
«Dovrei provare a chiamare Hiroshi» disse Michiko. Hiroshi era il suo ex marito. «Accertarmi che abbia ricevuto la mia email.»
Lloyd ebbe voglia di farle notare che Hiroshi non avrebbe dimostrato maggiore interesse per sua figlia, adesso che era morta, di quanto ne avesse mai dimostrato quando era viva. Anche se non lo aveva mai conosciuto, Lloyd odiava Hiroshi, a numerosi e diversi livelli. Odiava che Hiroshi avesse reso così triste la sua Michiko… non solo una volta o due, ma per anni. Lloyd soffriva nel pensarla a trascinare la sua vita senza un sorriso sul volto, senza gioia nel cuore. Se poi doveva essere onesto con se stesso fino in fondo, odiava Hiroshi perché l’aveva avuta per prima. Ma non disse nulla. Si limitò ad accarezzare i capelli neri e lucidi di Michiko.
«Non voleva che la portassi qui» disse lei, tirando su col naso. «Voleva che restasse a Tokyo, che frequentasse una scuola giapponese.» Si asciugò gli occhi. «Una scuola giusta, diceva.» Una pausa. «Se solo gli avessi dato retta.»
«Il fenomeno ha riguardato tutto il mondo» disse Lloyd dolcemente. «Non sarebbe stata più al sicuro a Tokyo che a Ginevra. Non puoi biasimarti.»
«Non mi biasimo» disse Michiko. «Io…»
Si interruppe da sola. Lloyd non poté evitare di domandarsi se fosse stata sul punto di dire: «Io biasimo te.»
Michiko non era venuta al CERN per stare con Lloyd, ma entrambi non avevano il minimo dubbio che lui fosse la ragione per cui aveva deciso di rimanere. Michiko aveva chiesto alla Sumitomo di farla restare lì, una volta terminata l’installazione dell’attrezzatura di cui lei era responsabile. Per i primi due mesi Tamiko era rimasta in Giappone, ma Michiko, una volta presa la decisione di prolungare la sua permanenza, aveva fatto in modo che sua figlia la raggiungesse in Europa.
Anche Lloyd aveva voluto bene a Tamiko. Sapeva che il ruolo di patrigno era sempre difficile, ma insieme a lei era riuscito a superare il problema. Non tutti i ragazzi approvano che un genitore divorziato si trovi un nuovo compagno; la stessa sorella di Lloyd aveva rotto con il fidanzato perché i suoi due figli piccoli non volevano un altro uomo nella sua vita. Ma una volta Tamiko aveva detto a Lloyd che lui le piaceva perché faceva sorridere sua madre.
Lloyd guardò Michiko. Era così triste che si domandò se l’avrebbe mai vista sorridere di nuovo. Anche lui aveva voglia di piangere, ma c’era qualcosa di stupido e di maschile che gli impediva di farlo mentre piangeva anche lei. Si tenne tutto dentro.
Lloyd si domandò quali effetti avrebbe avuto tutto ciò sul loro prossimo matrimonio. La sua proposta di sposare Michiko si basava semplicemente sul fatto che l’amava, in modo totale e assoluto. E non dubitava che anche Michiko lo amasse, però, a qualche livello, doveva esserci stato un motivo secondario perché Michiko volesse a sua volta sposarlo. Per quanto fosse una donna moderna e libera (e, secondo la mentalità giapponese, Michiko era davvero una donna moderna), lei doveva essere, in un modo o nell’altro, in cerca di un padre per sua figlia, di qualcuno che l’aiutasse a farla crescere, che costituisse una presenza maschile nella sua vita.
Michiko cercava veramente un marito? Oh, certo, lei e Lloyd erano una coppia coi fiocchi… ma molte coppie lo erano in assenza di matrimonio, o di un rapporto consolidato. Avrebbe voluto ancora sposarlo?
E, naturalmente, c’era quell’altra donna, quella della sua visione, la prova vivida e tangibile…
La prova che, così come il matrimonio dei suoi genitori si era concluso con un divorzio, altrettanto sarebbe successo a quello che avrebbe dovuto contrarre con Michiko.
NOTIZIARIO
Il numero dei morti continua a crescere dopo il fenomeno del Cronolampo di ieri. A Caracas, Venezuela, Guil ermo Garmendia, 36 anni, apparentemente sconvolto dal a morte della moglie Maria, 34 anni, ha sparato ai due fgli Ramon, 7 anni, e Salvador, 5 anni, uccidendoli, poi si è suicidato.
Il governo di Queensland, Australia, ha dichiarato lo stato uffciale di emergenza a seguito del Cronolampo.
La Bondplus Corporation di San Rafael, California, sta vivendo un momento di grande confusione. Il direttore esecutivo, il direttore fnanziario e l’intero consiglio di amministrazione hanno perso la vita quando il jet del a compagnia si è schiantato al suolo durante il Cronolampo. La Bondplus era impegnata a difendersi dall’offerta pubblica di acquisto del a sua rivale, la Jasmine Adhesives.
Una richiesta di risarcimento di un miliardo di dollari (canadesi) è stata avanzata contro la Commissione dei trasporti pubblici di Toronto a vantaggio dei pedoni feriti o uccisi durante il Cronolampo. Nel a richiesta si afferma che la Commissione ha peccato di negligenza per non aver provvisto il fondo del e scale e degli ascensori di pavimenti imbottiti, atti a proteggere le persone in caso di caduta.
Il crollo verticale del o yen giapponese ha precipitato in un’altra crisi l’economia di quel paese; da indicazioni del Cronolampo, infatti, pare che nel 2030 lo yen varrà appena la metà del a sua attuale quotazione contro il dol aro.
La corsa era partita.
Theo era a capo chino, concentrato sui logaritmi del computer sparpagliati sulla sua scrivania. Doveva esserci una risposta… una spiegazione razionale per quello che era successo. In tutto il campus del CERN i fisici stavano facendo indagini e ricerche, discutendo ogni possibile spiegazione.
La porta dell’ufficio di Theo si aprì ed entrò Michiko Komura, con in mano alcuni fogli di carta. «So che stai cercando informazioni sul tuo assassinio» gli disse.
Theo sentì che il suo cuore accelerava i battiti. «Sai qualcosa?»
«Io?» Michiko aggrottò la fronte. «No. No, mi dispiace.»
«Oh.» Un battito più forte. «E allora perché me ne parli?»
«Ecco, ci ho pensato sopra, tutto qui. Tu non puoi essere il solo disperato che ha bisogno di sapere qualcosa di più sul proprio futuro.»
«Immagino di sì.»
«E, insomma, a me sembra che dovrebbe esserci un sistema centralizzato per coordinare tutto questo. Voglio dire, stamattina ho visto il tuo newsgroup che inviava posta… e non era affatto l’unico a farlo.»
«Eh?»
«Ci sono migliaia di persone che cercano informazioni sul proprio futuro. Naturalmente non tutti cercano notizie sulla propria morte, ma… ecco qui, lascia che ti legga qualcuno dei messaggi.»
Si mise a sedere e cominciò a leggere i fogli di carta. «‘Chiunque abbia la minima informazione sul futuro di Marcus Whyte è pregato di mettersi in contatto con…’ ‘Studente universitario cerca consigli per la carriera: se la vostra visione indica qualche orientamento sui lavori che saranno più richiesti nel 2030, vi prego di farmelo sapere’. ‘Si cercano informazioni sul futuro del Comitato internazionale della Croce rossa…’»
«Affascinante» disse Theo. Sapeva ciò che stava facendo Michiko: si seppelliva in qualcosa — qualsiasi cosa — pur di non pensare alla perdita di Tamiko.
«Vero?» replicò lei. «E sul Web ci sono già un bel po’ di bacheche di annunci… offerte di grandi aziende interessate a informazioni che possano essere utili. Non sapevo che si potesse inserire con tanta velocità un banner pubblicitario, ma immagino che se sei disposto a pagare niente sia impossibile.» Fece una pausa e distolse lo sguardo; senza dubbio il pensiero di Tamiko le aveva attraversato la mente… sfortunatamente certe cose rimanevano impossibili, a qualsiasi prezzo. Dopo un attimo, Michiko riprese: «In effetti, lo sai, non dovresti diffondere in pubblico la notizia del tuo futuro omicidio. Stavo dicendo a Lloyd proprio questa mattina che le compagnie di assicurazione sulla vita saranno già impegnate a raccogliere tutte le informazioni possibili su chiunque morirà entro i prossimi vent’anni, in modo da potere abbassare i premi.»
Theo sentì che lo stomaco gli si stava agitando. Non ci aveva pensato. «Così tu pensi che qualcuno dovrebbe coordinare tutto questo?» le chiese.
«Be’, non qualcosa di corporativo… non vorrei che mi sentissero i miei capi della Sumitomo, ma a me non interessa quali compagnie diventeranno ricche. Però gli impiegati, le persone… quelli che cercano di sapere come sarà il loro futuro, di dare un senso alle loro visioni… io credo che bisognerebbe aiutarli.»
«Tu e io?»
«Be’, non solo noi. Tutto il CERN.»
«Béranger non sarebbe mai d’accordo» disse Theo scuotendo la testa. «Non vuole che ammettiamo il minimo coinvolgimento.»
«Non sarà necessario. Possiamo offrirci volontari per coordinare un database. I computer non ci mancano e, in fin dei conti, il CERN può vantare una lunga storia di altruismo informatico. E poi il World Wide Web è stato creato qui.»
«E allora che proponi?» chiese Theo.
Michiko alzò appena le spalle. «Un archivio centralizzato. Un sito Web con un modello da compilare: descrivi la tua visione, qualcosa del genere, più o meno duecento parole. Potremmo indicizzare tutte le descrizioni in modo che la gente possa effettuarvi delle ricerche attraverso parole chiave e operatori booleiani. Sai, tutte le visioni che riguardano Aberdeen, ma non gli eventi sportivi. Roba del genere. Naturalmente il programma di indicizzazione dovrebbe creare dei riferimenti incrociati automatici da hockey, baseboru e via dicendo a termini generici come ‘eventi sportivi’. Aiuterebbe non solo te, ma un bel po’ di altre persone.»
Theo si scoprì ad annuire. «La cosa ha senso. Ma perché limitare la dimensione degli interventi? Voglio dire, lo spazio in rete non costa molto. Io incoraggerei la gente a essere il più particolareggiata possibile nei suoi resoconti. Dopotutto quello che può sembrare irrilevante alla persona che ha avuto la visione potrebbe essere di vitale importanza per qualcun altro.»
«Giusta osservazione» disse Michiko. «Finché rimane in vigore il divieto di Béranger di usare l’LHC io non ho poi molto da fare, perciò lavorerò su questa idea. Però mi servirà un po’ d’aiuto. Lloyd non è abile quando si tratta di programmare; pensavo che forse tu potresti darmi una mano.» La collaborazione di Theo e di Lloyd era iniziata perché a Lloyd serviva qualcuno con maggiore esperienza in materia di programmazione rispetto a lui, per codificare le sue idee in fatto di fisica e trasformarle in esperimenti da mettere in pratica tramite ALICE.
Theo stava già pensando a come impostare il progetto. Potevano annunciarlo in una conferenza stampa… quella donna delle pubbliche relazioni che si era fatta male sbattendo la testa durante la sua visione poteva spedire il comunicato nei luoghi giusti. Ma nella conferenza stampa potevano usare come esempio il caso di Theo… sarebbe stato il modo perfetto per accertarsi che il suo problema ricevesse attenzione a livello mondiale. «Certo» disse Theo. «Ci puoi contare.»
Dopo che Michiko se ne fu andata, Theo tornò al suo computer e controllò la posta elettronica. C’erano le solite cose, compresa la pubblicità non richiesta di qualche industria della Mauritania. Il governo della Mauritania aveva messo a segno un bel colpo: essendo uno dei pochi paesi che non aveva messo al bando lo spamming delle ditte nazionali, aveva attratto verso i propri lidi migliaia di insediamenti industriali.
Theo controllò gli altri messaggi. Un appunto da un amico di Sorrento, Una richiesta di fotocopia di un documento del quale Theo era coautore; almeno qualche ricercatore del MIT era tornato tranquillamente al lavoro. E…
Sì! Altre notizie sul suo omicidio.
Venivano da una donna di Montreal. Era di lingua francese, ma nata in Francia, non in Canada, e così seguiva con interesse ciò che avveniva in patria. Naturalmente il CERN era a cavallo del confine franco-svizzero, e anche se Ginevra era la città più vicina, un omicidio avvenuto nell’impianto riguardava tranquillamente sia l’una che l’altra nazione.
La sua visione aveva incluso la lettura dell’articolo di Le Monde sull’omicidio di Theo. I fatti collimavano tutti con quanto gli aveva comunicato Kathleen DeVries… la prima conferma per Theo che la donna sudafricana non gli aveva fatto uno scherzo. Ma le parole dell’articolo, così come gliele aveva riferite lei, erano completamente diverse. Non era una semplice trascrizione di ciò che aveva letto la DeVries; al contrario, era un articolo del tutto differente. E conteneva un fatto saliente che invece mancava nella relazione da Johannesburg. Secondo la donna francese, il nome dell’investigatore che avrebbe indagato sull’assassinio di Theo era Helmut Drescher; della polizia di Ginevra.
La donna concludeva la sua email con ‘bonne chance!’.
Bonne chance. Buona fortuna. Sì, gliene sarebbe servita un bel po’.
Theo conosceva a memoria il numero per le chiamate d’emergenza alla polizia di Ginevra, 1-1-7; per la verità era scritto su una targhetta adesiva fissata a tutti i telefoni del CERN. Però non aveva idea di quale fosse il numero del servizio informazioni. Controllò la rubrica elettronica in memoria nel telefono, trovò il numero e lo compose.
«Allo» disse Theo. «Detective Helmut Drescher, s’il vous pláit.»
«Non abbiamo nessun investigatore che si chiami così» rispose il poliziotto all’altro capo del filo.
«Potrebbe ricoprire un altro incarico. Una posizione minore.»
«Qui non c’è nessuno con quel nome» disse la voce.
Theo rifletté. «Avete un elenco degli altri dipartimenti di polizia in Svizzera? C’è qualche modo per controllare?»
«Non ho niente del genere con me; dovremo fare qualche ricerca.»
«Potete farlo?»
«Qual è lo scopo della sua richiesta?»
Theo decise che la franchezza — o, quanto meno, una buona parte di franchezza — era la politica migliore. «Sta investigando su un omicidio, e io ho delle informazioni per lui.»
«D’accordo; lo cercherò. Come posso mettermi in contatto con lei?»
Theo gli lasciò nome e numero di telefono, ringraziò il funzionario, poi riappese. Decise di tentare un approccio più diretto, digitando il nome di Drescher nella rubrica.
Gli andò bene. A Ginevra c’era un solo Helmut Drescher, abitante in Rue Jean-Dassier.
Compose il numero.
NOTIZIARIO
I dipendenti ospedalieri in sciopero del a Polonia hanno deciso all’unanimità di tornare al lavoro oggi. «La nostra causa è giusta, e riprenderemo la lotta, ma per il momento il nostro dovere verso l’umanità ha maggiore importanza» ha affermato il responsabile sindacale, Stefan Wyszynski.
La Cineplex/Odeon, una grande catena di cinematograf, ha annunciato che offrirà dei biglietti di ingresso gratuito a tutti coloro che si trovavano nel e sale durante il Cronolampo. Anche se, a quanto sembra, la proiezione è proseguita regolarmente durante l’evento, gli spettatori sono rimasti in stato d’incoscienza, perdendo circa due minuti del flm. Ci si aspetta che altre catene concorrenti seguano l’iniziativa.
Dopo avere ricevuto, nelle ultime 24 ore, un numero record di richieste, l’Uffcio brevetti degli Stati Uniti ha chiuso il servizio fno a nuovo avviso; in attesa di una decisione del Congresso sulla paternità dei brevetti di cui si possa avere avuto notizia nel e visioni.
II Comitato per l’investigazione scientifca sui fenomeni paranormali ha indetto una conferenza stampa, sottolineando che, anche se non è stata ancora trovata una spiegazione per il Cronolampo, non c’è motivo di invocare cause soprannaturali.
La European Mutual, la più grande compagnia di assicurazioni dell’Unione europea, ha dichiarato bancarotta.
Il momento giunse prima di quanto avessero pensato. Lo shock del giorno precedente aveva provocato le doglie a MarieClaire Béranger. Gaston la portò all’ospedale di Thoiry; la coppia viveva a Ginevra, ma per loro era importante dal punto di vista emotivo che il loro figlio nascesse in terra francese.
Come direttore generale del CERN, Gaston aveva un ottimo stipendio, e Marie-Claire, avvocato, aveva anche lei un buon reddito. Eppure era rassicurante sapere che, a prescindere dalle loro condizioni economiche, Marie-Claire avrebbe ricevuto tutta l’assistenza medica di cui aveva bisogno mentre era in attesa. Gaston aveva sentito dire che negli Stati Uniti molte donne in gravidanza vedevano un dottore per la prima volta il giorno del parto. Non c’era da stupirsi che in quel paese vi fosse un tasso di mortalità infantile molto più alto di quello della Svizzera o della Francia. No, loro avevano intenzione di dare a loro figlio il meglio di tutto. Gaston sapeva già che era un maschio, e non a causa della visione. Marie-Claire aveva quarantadue anni, e il loro medico aveva prescritto una serie di ecografie durante la gravidanza; avevano visto con chiarezza il sesso del piccolo.
Naturalmente non c’era stato modo di nascondere la visione a sua moglie; Gaston non era comunque il tipo capace di avere segreti con lei, ma in questo caso era stato proprio impossibile. Anche lei aveva avuto una visione analoga: la stessa discussione con Marc, ma dal suo punto di vista. Gaston era contento che Lloyd Simcoe, parlando con quello studente neolaureato e con la scienziata canadese, fosse riuscito a provare che le visioni erano sincronizzate; Marie-Claire e Gaston avevano giurato di tenerle per sé.
Eppure fra loro c’era stata una discussione, anche se avevano fatto parte entrambi della stessa scena. MarieClaire aveva chiesto a Gaston di descriverle che aspetto avesse a distanza di vent’anni. Gaston aveva omesso qualche dettaglio, tra cui il suo aumento di peso; sua moglie si era lamentata per mesi di quanto la gravidanza l’avesse fatta ingrassare, giurando che aveva tutta l’intenzione di recuperare la linea al più presto.
Da parte sua, Gaston era rimasto sorpreso nel sapere da lei che nel 2030 avrebbe avuto la barba; non se l’era mai fatta crescere, e adesso che i suoi baffi cominciavano a tingersi di grigio era convinto che in futuro non avrebbe avuto né l’una né gli altri. Marie-Claire gli aveva anche detto che aveva ancora tutti i capelli: ma che quell’affermazione fosse semplicemente la verità, o una gentilezza da parte della moglie, o il segno che nella terza decade del secolo sarebbe stato più facile curare la calvizie, Gaston non poteva stabilirlo con certezza.
L’ospedale era affollato di pazienti, molti dei quali su lettighe nei corridoi; probabilmente si trovavano lì fin dall’evento del giorno prima. D’altra parte, quasi tutti gli incidenti, o erano stati subito fatali, non richiedendo visite in ospedale, oppure avevano comportato solo contusioni o bruciature; in proporzione, erano stati ricoverati pochi pazienti. Grazie al cielo il reparto ostetricia era appena più affollato del solito. MarieClaire venne portata dentro su una poltrona a rotelle guidata da un’infermiera; Gaston camminò accanto a sua moglie, stringendole la mano.
Naturalmente Gaston era un fisico… o, quanto meno, lo era stato una volta; i suoi diversi incarichi amministrativi gli impedivano di svolgere di persona la ricerca scientifica vera e propria da più di una dozzina di anni. Non aveva la minima idea di che cosa avesse provocato le visioni. Oh, certo, erano riferite con ogni probabilità all’esperimento dell’LHC; la coincidenza cronologica era troppo evidente per ignorarla. Ma qualunque ne fosse la causa, e per quanto spiacevole fosse stata la sua visione, Gaston non ne era rimasto rammaricato. Era stato un avvertimento, un appello a tenere gli occhi aperti, un portento. E lui ne avrebbe tenuto conto… non avrebbe permesso che le cose andassero in quel modo. Sarebbe stato un buon padre; avrebbe dedicato a suo figlio tutto il tempo possibile.
Strinse più forte la mano della moglie.
Si diressero verso la sala parto.
La casa era grande e di bell’aspetto… e anche, vista la vicinanza al lago, piuttosto costosa. Le sue linee esterne facevano pensare a uno chalet, ma si trattava evidentemente di un’apparenza: l’edilizia della Ginevra cosmopolita era lontana dagli chalet svizzeri quanto quella di Manhattan dalle fattorie rurali. Theo suonò il campanello e attese, le mani in tasca, finché non vennero ad aprire.
«Lei deve essere il signore del CERN» disse la donna. Anche se Ginevra si trovava nella regione francofona della Svizzera, l’accento della donna era tedesco. Come quartier generale di numerose organizzazioni internazionali, Ginevra attirava gente da tutte le parti del mondo.
«Esatto» disse Theo. Poi, sperando di indovinare, aggiunse: «Frau Drescher.»
Aveva forse quarantacinque anni, era magra e molto graziosa, con i capelli che a Theo sembrarono di un biondo naturale. «Mi chiamo Theo Procopides. Grazie per avermi consentito di venire.»
Frau Drescher alzò appena le spalle magre. «Di regola non lo avrei fatto, naturalmente… un estraneo che mi chiama al telefono. Ma sono stati due giorni molto strani.»
«Davvero» disse Theo. «È in casa Herr Drescher?»
«Non ancora. A volte il suo lavoro lo tiene fuori fino a tardi.»
Theo sorrise con indulgenza. «Posso immaginarlo. Il lavoro in polizia deve essere molto impegnativo.»
La donna aggrottò la fronte. «Lavoro in polizia? Ma lei che cosa pensa che faccia mio marito, esattamente?»
«È un funzionario di polizia, no?»
«Helmut? Lui vende scarpe; ha un negozio in rue du Rhòne.»
In vent’anni la gente poteva anche cambiare lavoro, certo… ma da commerciante a investigatore? Non proprio una storia alla Horatio Alger, ma pur sempre decisamente improbabile. E per di più gli eleganti negozi di rue du Rhòne erano inavvicinabili, come prezzi; lo stesso Theo non poteva fare altro che guardare le vetrine. Bisognava avere un crollo verticale degli incassi per diventare poliziotto dopo avere avuto un’attività commerciale in quella parte della città.
«Mi dispiace. Io credevo proprio… suo marito è l’unico Helmut Drescher nell’elenco telefonico di Ginevra. Conosce qualcuno che abbia lo stesso nome?»
«No, a meno che non intenda mio figlio.»
«Suo figlio?»
«Lo chiamiamo Moot, ma si chiama Helmut jr.»
Ma certo… il padre lavorava in un negozio di scarpe e il figlio faceva il poliziotto. E naturalmente il numero di telefono di un poliziotto non appariva sull’elenco.
«Ah, mi sono sbagliato. Deve essere lui. Può dirmi come posso mettermici in contatto?»
«E nella sua stanza.»
«Vuole dire che abita qui?»
«Certamente. Ha appena sette anni.»
Theo si prese a calci mentalmente; stava ancora lottando con la realtà delle immagini del futuro… forse il fatto che lui non ne avesse avuta una poteva scusarlo per non, avere capito fino in fondo il concetto di distanza temporale, ma si sentì lo stesso un idiota.
Se adesso il giovane Moot aveva sette anni, ne avrebbe avuti ventotto nel momento della morte di Theo… appena un anno di più della sua età attuale. Ed era inutile chiedergli se da grande voleva diventare un poliziotto… tutti i bambini di sette anni lo vogliono.
«Non vorrei sembrarle invadente,» disse Theo «ma se non ha nulla in contrario ci terrei a vederlo.»
«Non lo so. Forse dovrei aspettare l’arrivo di mio marito.»
«Se preferisce» disse Theo.
Lei lo guardò come se si fosse aspettata una maggiore insistenza; la sua disponibilità ad aspettare sembrò dissolvere i timori della donna. «E va bene,» disse «venga su. Ma devo avvisarla: Moot è molto riservato da quel… da quando è successa quella cosa, ieri, qualunque cosa fosse. E stanotte non ha dormito bene, perciò è un po’ nervoso.»
Theo annuì. «Capisco.»
Lo lasciò entrare. Era una casa luminosa, ariosa, con una straordinaria vista sul lago Lemano; Helmut senior, a quanto sembrava, vendeva un bel po’ di scarpe.
La scala consisteva di gradini orizzontali di legno, senza sostegni verticali. Frau Drescher si diresse verso la base della scala e chiamò: «Moot! Moot! C’è qualcuno che vuole vederti!» Poi tornò a rivolgersi a Theo. «Non vuole sedersi?»
Indicò con un gesto della mano una bassa poltrona di legno con i cuscini bianchi, affiancata da un divano dello stesso tipo. Theo si accomodò. La donna tornò ai piedi delle scale, ora alle spalle di Theo, e gridò di nuovo: «Moot! Vieni giù. C’è una persona che vuole parlare con te.» Tornò di fronte a Theo e alzò le spalle in un gesto di scusa, come a dire ‘più di questo una mamma non può fare’.
Finalmente si sentì il suono di un passo leggero sui gradini di legno. Il ragazzo scese rapidamente; magari non aveva troppa voglia di rispondere all’appello di sua madre, ma, come tutti i bambini, le scale le scendeva sempre di corsa.
«Ah, Moot,» disse sua madre «questo è il signor Proco…»
Theo si era voltato per osservare il ragazzo da sopra la spalla. Nel momento in cui Moot vide Theo, si mise a strillare e corse subito su, così rapido che la struttura aperta della scala vibrò visibilmente.
«Cosa c’è che non va?» gli gridò dietro sua madre.
Quando raggiunse il piano superiore, il ragazzo richiuse una porta sbattendola dietro di sé.
«Sono mortificata» disse frau Drescher, rivolgendosi a Theo. «Non capisco che cosa gli sia preso.»
Theo chiuse gli occhi. «Io sì, credo» replicò. «Non le ho raccontato tutto, frau Drescher. Io… fra ventuno anni io sarò morto. E suo figlio, Helmut Drescher, sarà un investigatore della polizia di Ginevra. Sarà lui a svolgere le indagini sul mio omicidio.»
Frau Drescher divenne pallida come il manto nevoso del Monte Bianco. «Mein Gott» esclamò. «Mein Gott.»
«Lei deve lasciarmi parlare con Moot» disse Theo. «Lui mi ha riconosciuto… il che significa che la sua visione deve avere qualcosa a che fare con me.»
«Ma è appena un bambino.»
«Lo so… però ha delle informazioni sul mio omicidio. Ho bisogno di conoscere ciò che sa.»
«Un bambino non può capire niente di tutto questo.»
«La prego, frau Drescher. La prego… è della mia vita, che stiamo parlando.»
«Non direbbe niente di questa… di questa visione» ribatté la donna. «Evidentemente lo ha spaventato, non ne parlerebbe.»
«Per favore, devo sapere ciò che ha visto.»
Lei ci pensò per qualche secondo poi, quasi tenendo a freno il buon senso, disse: «Venga con me.»
Si avviò verso la scala. Theo la seguì, qualche gradino più indietro. Al piano superiore c’erano quattro stanze: un bagno, con la porta aperta, due camere da letto, anch’esse con le porte aperte, e una quarta stanza con un poster del primo Rocky fissato col nastro adesivo sulla porta chiusa. Frau Drescher indicò a Theo di fare qualche passo indietro lungo il corridoio. Lui lo fece, e la donna bussò leggermente alla porta.
«Moot! Moot, sono mamma. Posso entrare?»
Nessuna risposta.
Lei allungò la mano verso la maniglia color ottone e la girò lentamente, poi socchiuse appena la porta. «Moot?»
Una voce soffocata, come se il ragazzo fosse sdraiato a faccia in giù sul cuscino: «Quell’uomo è ancora qui?»
«Non entrerà, te lo prometto.» Una pausa. «L’hai visto da qualche parte?»
«Ho visto quella faccia. Quel mento.»
«Dove?»
«In una stanza. Era sdraiato su un letto.» Un’altra pausa. «Solo che non era un letto; era fatto di metallo. E c’era una cosa sopra, una specie di piastra, come quella dove servi l’arrosto.»
«Un vassoio?» chiese frau Drescher.
«Aveva gli occhi chiusi, ma era lui, e…»
«E che cosa?»
Silenzio.
«Puoi dirlo, Moot. Puoi dirlo a mamma.»
«Non aveva la camicia, e nemmeno i pantaloni. E c’era quel tizio con il camice bianco, come quelli che ci mettiamo quando facciamo lezione di arte. Però aveva un coltello, e stava…»
Theo, in piedi nel corridoio, trattenne il fiato.
«Aveva una specie di coltello, e stava… stava…»
Mi stava sezionando, pensò Theo. Un’autopsia, con l’investigatore che osservava mentre il medico legale la eseguiva.
«Era così brutto» disse il ragazzo.
Theo mosse piano qualche passo in avanti, fermandosi sulla soglia dietro frau Drescher. Il ragazzo era proprio sdraiato sul letto a pancia in giù.
«Moot…» disse Theo, con un filo di voce. «Moot, mi dispiace che tu abbia visto tutto questo, ma… io devo sapere. Devo sapere cosa stava dicendo quell’uomo.»
«Non voglio parlarne» disse Moot.
«Lo so… lo so. Ma per me è molto importante. Ti prego, Moot. Ti scongiuro. Quell’uomo con il camice bianco, lui era un dottore. Per favore, raccontami quello che stava dicendo.»
«Devo farlo?» chiese il ragazzo alla madre.
Theo riuscì a leggere sul volto della donna il conflitto fra emozioni contrastanti. Da una parte voleva proteggere suo figlio da una situazione sgradevole; dall’altra c’era però qualcosa di più importante che la teneva in una condizione di stallo. Alla fine rispose: «No, non devi… ma sarebbe molto utile.» Attraversò la stanza, sedette sul bordo del letto e accarezzò i capelli biondi e corti del figlio. «Vedi, il signor Procopides qui, lui è in un mare di guai. Qualcuno lo ucciderà. Ma forse tu puoi evitare che questo avvenga. Lo faresti, non è vero, Moot?»
Adesso fu il volto del ragazzo a esprimere pensieri in conflitto fra loro. «Credo di sì» disse alla fine. Sollevò appena la testa, guardò verso Theo, poi distolse subito lo sguardo.
«Moot?» disse sua madre, incitandolo con dolcezza.
«Si tinge i capelli» disse il ragazzo, come se fosse una cosa odiosa da dire. «È tutto grigio.»
Theo annuì. Il giovane Helmut non capiva. Come poteva? A sette anni, trasportato all’improvviso dal luogo in cui si trovava… forse un’aula, o un parco giochi, o magari la sua stessa, confortevole camera da letto. Trasportato da lì in un obitorio, a guardare un cadavere che veniva sezionato, a vedere il sangue denso e scuro che fluiva lungo la scanalatura del suo giaciglio metallico.
«Ti prego» disse Theo. «Io… ecco, io ti prometto di non tingermi più i capelli.»
Il ragazzo rimase tranquillo per un bel po’, quindi parlò in modo esitante, incerto.
«Usavano un sacco di parole strane. Molte non le ho capite.»
«Parlavano in francese?»
«No, in tedesco. Quell’altro tizio, lui non aveva un accento, come non ce l’ho io.»
Theo accennò un sorriso; l’accento di Moot era in effetti piuttosto lieve, almeno a suo parere. D’altra parte i due terzi della popolazione svizzera parlavano tedesco, e appena il diciotto per cento si esprimeva regolarmente in francese. Certo, Ginevra si trovava nella parte francofona del paese, ma non c’era da stupirsi se due residenti di lingua tedesca parlavano la loro lingua quando si trovavano da soli.
«Hanno detto qualcosa su una ferita di entrata?»
«Che cosa?»
«Una ferita di entrata.» In quel momento Moot e Theo stavano parlando francese; Theo sperava di sapersi esprimere correttamente in quella lingua. «Capisci, il punto da dove è entrato il proiettile.»
«I proiettili» corresse il ragazzo.
«Scusa?»
«I proiettili. Ce n’erano tre.» Guardò sua madre. «E questo che ha detto l’uomo con il camice bianco.»
Tre proiettili, pensò Theo. Qualcuno mi voleva veramente morto.
«E le ferite di entrata?» chiese Theo. «Hanno detto da dove sono entrate le pallottole?»
«Nel petto.»
Perciò dovrei vedere l’assassino, pensò Theo. «C’è qualcos’altro che puoi dirmi?»
«Io ho detto qualcosa» rispose il ragazzo.
«Che cosa?»
«Cioè, mi è sembrato di dire qualcosa. Ma non era la mia voce. Era molto profonda, capisce.»
Era cresciuto. Certo che era profonda. «Che cosa hai detto?»
«Che lei era stato ucciso a bruciapelo.»
«Come facevi a saperlo?»
«Non lo so… non so perché l’ho detto. E come se le parole mi fossero venute fuori da sole.»
«E il medico legale… l’uomo con il camice, ha replicato qualcosa quando tu hai detto così?»
Adesso il ragazzo si era messo a sedere sul letto, e li guardava. «No. Ha annuito, o qualcosa del genere. Come se fosse d’accordo con me.»
«Be’, allora è stato lui a dire qualcosa che ti ha fatto affermare che mi avevano sparato a bruciapelo?»
«Non capisco» rispose il ragazzo. «Mamma, devo farlo?»
«Ti prego» disse frau Drescher. «Ti darò un gelato come dessert. Per favore, aiuta questo gentile signore per qualche altro minuto.»
Il ragazzo aggrottò la fronte, come se stesse assaporando il gusto del gelato. Poi disse: «Ha detto che lei era stato ucciso durante un incontro di pugilato.»
Theo ne fu sbalordito. Poteva essere arrogante, poteva essere invadente, ma nella sua vita di adulto non aveva mai colpito un altro essere umano. Al contrario, si considerava piuttosto un pacifista, e dopo essersi laureato aveva rifiutato parecchie offerte piuttosto lucrose da parte di società che lavoravano per la difesa. In tutta la sua vita non aveva mai assistito a un incontro di pugilato; lo riteneva non tanto uno sport, quando un’esibizione di violenza animalesca.
«Sei sicuro che abbia detto così?» gli domandò Theo. Tornò a fissare il poster di Rocky sulla porta, poi la parete sopra il letto di Moot, dove campeggiava un altro poster del campione dei pesi massimi Evander Holyfield. Magari il ragazzo stava confondendo i suoi sogni con la sua visione?
«Ah-ah» disse Moot.
«Ma perché mi avrebbero sparato durante un incontro di pugilato?»
Il ragazzo alzò le spalle.
«Ti ricordi qualcos’altro?»
«Ha detto che qualcosa era molto piccolo.»
«Qualcosa era piccolo?»
«Già. Appena nove millimetri.»
Theo fissò la madre. «Sono le dimensioni della canna di un’arma da fuoco. Credo che si riferiscano al calibro.»
«Io detesto le armi da fuoco» disse frau Drescher.
«Anch’io» aggiunse Theo. Tornò a guardare il ragazzo. «Che altro hanno detto?»
«Glock. Quell’uomo continuava a ripetere Glock.»
«È un tipo di pistola. Hanno detto qualcos’altro?»
«Qualcosa sulla labbistica…»
«Lab… Vuoi dire la balistica?»
«Credo di sì. Dovevano mandare i proiettili alla labbistica. È una città?»
Theo scosse la testa. «Hanno detto qualcos’altro a proposito dei proiettili?»
«Erano americani. L’uomo ha detto che sulla scatola c’era scritto ‘Remington’, e io ho detto qualcosa come… lo sapevo quello che dicevo quando parlavo di proiettili americani, e l’altro ha annuito…»
«Hanno detto qualcos’altro? Qualsiasi cosa, mentre mi guardavano dentro il petto?»
Il volto del ragazzo era pallido. «C’era tanto sangue. E tutte le budella. Io…»
Frau Drescher strinse a sé il figlio. «Mi dispiace, herr Procopides, ma credo che sia abbastanza.»
«Ma…»
«No. Bisogna che adesso se ne vada.»
Theo espirò a fondo. Infilò la mano in tasca, ne tirò fuori uno dei suoi biglietti da visita e lo allungò verso il letto. «Moot, questo è il modo per metterti in contatto con me. Ti prego, tieni questo biglietto. In qualsiasi momento — voglio dire, anche fra qualche anno — se ti viene in mente qualcosa che pensi dovrei sapere, ti prego di telefonarmi. Per me è molto importante.»
Il ragazzo fissò il rettangolino di cartone; probabilmente non ne aveva mai tenuto in mano uno in vita sua.
«Prendilo. Prendi questo biglietto. Puoi tenerlo.»
Moot allungò la mano esitante verso di lui.
Theo diede un altro biglietto alla madre, li ringraziò entrambi e se ne andò.
NOTIZIARIO
Darren Sunday, stel a del a serie televisiva NBC Dale Rice, è morto oggi per le ferite riportate in una caduta durante il fenomeno. La produzione del a serie, che era proseguita durante l’assenza di Sunday, è stata sospesa.
La Commissione autostrade di New York riferisce che le settantadue automobili ammucchiate nei pressi dell’uscita 34 (Canandaigua) non sono ancora state rimosse; la carreggiata in direzione ovest è ancora bloccata in quel punto. Gli automobilisti sono invitati a scegliere itinerari alternativi.
Un gruppo di diecimila musulmani di Londra, Inghilterra, le cui preghiere private erano state interrotte dal Cronolampo, si sono radunati oggi a Piccadil y Circus per rivolgersi verso La Mecca e pregare en masse.
Papa Benedetto XVI ha annunciato un intenso programma di visite internazionali. Invita i cattolici e i non cattolici a partecipare al e sue messe, che hanno lo scopo di portare conforto a coloro che hanno perso i propri cari nel corso del Cronolampo. Alla richiesta se il Cronolampo abbia costituito un miracolo, il pontefce si è riservato di esprimere un giudizio.
Il Fondo per l’infanzia del e Nazioni Unite è intervenuto per aiutare le agenzie nazionali di adozione, incapaci di far fronte da sole alla ricerca di al oggi per i bambini rimasti orfani durante il Cronolampo.
Anche se il CERN era in piena attività — ogni ricercatore aveva una sua teoria preferita su ciò che era accaduto — Lloyd e Michiko andarono a casa presto; nessuno poteva biasimarli dopo quanto era successo alla figlia di Michiko. Per ‘casa’, anche questa volta senza discussioni — non ce n’era bisogno — si intese l’appartamento di Lloyd a St. Genis.
Michiko piangeva ancora, di tanto in tanto, e Lloyd aveva finalmente trovato il tempo di chiudere la porta dell’ufficio, appoggiare la testa sulla scrivania e piangere anche lui senza freni. A volte piangere aiuta a lenire il dolore; non in questo caso.
Mangiarono presto; Lloyd cucinò delle piccole bistecche che aveva in frigo. Michiko, chiaramente desiderosa di fare qualcosa — qualsiasi cosa — per tenere la mente occupata, si dedicò alle pulizie di casa.
Poi, quando ebbero finito di cenare, mentre Michiko beveva il suo tè e Lloyd il suo caffè, la questione che lui aveva sempre temuto venne finalmente a galla.
«Che cosa hai visto?» gli chiese Michiko.
Lloyd aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse.
«Oh, andiamo» disse Michiko, leggendogli chiaramente in faccia. «Non può essere stata così brutta.»
«Lo è stata» disse Lloyd.
«Che cosa hai visto?»
«Io…» Chiuse gli occhi. «Io stavo insieme a un’altra donna.»
Michiko sbatté gli occhi più volte. Alla fine, con voce gelida, disse: «Mi stavi tradendo?»
«No… no.»
«E allora?»
«Io ero… Dio, tesoro, mi dispiace tanto… ero sposato con un’altra donna.»
«Come facevi a sapere che eravate sposati?»
«Eravamo a letto insieme, e tutti e due portavamo la stessa fede. E ci trovavamo in un cottage nel New England.»
«Magari era casa sua.»
«No. Ho riconosciuto alcuni dei miei mobili.»
«Eri sposato con qualcun’altra» disse Michiko, come se cercasse di assimilare il concetto. Aveva subito un colpo molto duro da poco tempo, e forse non era in grado di assorbirne un altro.
Lloyd annuì. «Noi, tu e io, dobbiamo avere divorziato. Oppure…»
«Oppure?»
Lui si strinse nelle spalle. «0 forse non ci siamo mai sposati.»
«Non mi ami ancora?»
«Certo che ti amo. Certo. Ma… ascolta, io non volevo avere quella visione. Non mi sono divertito affatto. Ti ricordi quando parlavamo delle nostre promesse di matrimonio? Ti ricordi quando discutevamo se lasciare o meno la frase ‘finché morte non ci separi’? Tu sostenevi che era fuori moda, che nessuno la pronuncia più. E poi, tu sei già stata sposata. Invece io insistevo che era meglio lasciarla. Era quello che desideravo. Io volevo una unione che durasse per sempre. Non come i miei genitori… e non come il tuo primo matrimonio.»
«Eri nel New England» ripeté Michiko, ancora incapace di accettare l’idea. «E io… io ero a Kyoto.»
«Con una bambina» aggiunse Lloyd. Fece una pausa, incerto se dare voce alla domanda che lo tormentava. Poi lo fece, e parlò senza guardarla negli occhi. «Che aspetto aveva la bambina?»
«Capelli neri e lunghi» rispose Michiko.
«E?»
Michiko distolse lo sguardo. «Lineamenti asiatici. Sembrava giapponese.» Si interruppe. «Ma questo non significa niente; tanti figli di coppie miste assomigliano a un genitore più che all’altro.»
Lloyd sentì il cuore in subbuglio. «Credevo che fossimo fatti l’uno per l’altra» disse a bassa voce. «Credevo…»
Lasciò perdere, incapace di proseguire dicendo: «Credevo che tu fossi la mia anima gemella.» Gli bruciavano gli occhi; e così sembrava anche per quelli di lei. Michiko se li asciugò con il dorso della mano.
«Ti amo, Lloyd» disse.
«Anch’io, ma…»
«Sì» disse lei. «Ma…»
Si sporse verso di lei e le toccò la mano, che era appoggiata sul tavolo. Lei gli strinse le dita. Rimasero in silenzio per un lungo tempo.
Theo restò seduto per un po’ nella macchina parcheggiata di fronte alla casa dei Drescher, con la mente in subbuglio. Era stato colpito da una Glock 9mm; era abbastanza sicuro, dai film polizieschi che aveva visto, che la Glock fosse un’arma semiautomatica, molto diffusa tra le forze di polizia di tutto il mondo. Però i proiettili erano americani; magari a premere il grilletto era stato un americano. Naturalmente, con ogni probabilità Theo non conosceva ancora colui che un giorno lo avrebbe ucciso, chiunque fosse. Di certo non poteva esserci nessuna relazione fra il suo attuale giro di amici, conoscenti e colleghi, e quello stesso giro di due decenni più tardi.
Però Theo già conosceva un bel po’ di americani.
Nessuno bene. Nessuno a parte Lloyd Simcoe.
Certo, Lloyd non era esattamente americano. Era nato in Canada. E nemmeno ai canadesi piacevano le armi da fuoco… non avevano un secondo emendamento, o quale che fosse l’articolo di legge che consentiva agli americani di andare in giro armati.
Ma Lloyd aveva vissuto negli Stati Uniti per diciassette anni prima di arrivare al CERN, all’inizio ad Harvard, poi come sperimentatore al Tevatron del Fermilab di Chicago. E, per ammissione dello stesso Lloyd, al momento delle visioni si sarebbe trovato nuovamente negli Stati Uniti. Dove poteva procurarsi una pistola abbastanza facilmente.
Ma no… Lloyd aveva un alibi. Era nel New England quando Theo era stato… come dicono gli americani? Quando Theo era stato fatto fuori.
A parte che…
A parte che Theo era stato/sarebbe stato ucciso il 21 ottobre, mentre la visione di Lloyd, come quella di chiunque altro, si riferiva al 23 ottobre.
Lloyd aveva raccontato a Theo la sua visione… aveva detto di non averla ancora raccontata a Michiko, ma poi, dietro insistenza di Theo, aveva ceduto, raccomandando però al giovane greco che non lo riferisse a nessuno. Lloyd gli aveva raccontato che nella sua visione stava facendo l’amore con una donna anziana, forse la sua moglie del futuro.
Le persone anziane non fanno l’amore tanto spesso, pensò Theo. Probabilmente lo fanno soltanto in particolari occasioni. Come quando uno di loro è appena tornato dopo una lunga assenza. Dalla Svizzera al New England sono appena sei ore di volo… oggi. Fra vent’anni potrebbero essere ancora meno No, Lloyd poteva benissimo essersi trovato al CERN il lunedì, ed essere tornato a casa nel New Hampshire, o dove diavolo fosse, il mercoledì. D’altra parte a Theo non venne in mente la minima ragione per cui Lloyd volesse ucciderlo.
A parte che, naturalmente, nel 2030 sembrava essere Theo, e non Lloyd, il direttore di quello che aveva tutto l’aspetto di un acceleratore di particelle incredibilmente avanzato: il Collisore tachioni-tardioni. In passato la gelosia accademica e professionale aveva condotto all’omicidio in più di un’occasione.
E poi, naturalmente, c’era il fatto che Lloyd e Michiko non stavano più insieme. Se doveva essere onesto con se stesso, anche Theo aveva messo gli occhi su Michiko. Chi non lo avrebbe fatto? Lei era una donna bellissima, brillante, dolce e spiritosa. E poi era più vicina alla sua età che a quella di Lloyd. Poteva avere avuto un ruolo nella loro separazione?
Così come aveva spinto Lloyd a raccontargli la sua visione, Theo aveva fatto la stessa cosa con Michiko: lui anelava a conoscerle, nel tentativo di sperimentare per via mediata ciò che chiunque altro era stato così fortunato da vedere. Nella sua visione Michiko si trovava a Kyoto, forse, come aveva detto, in visita con la figlia allo zio di lei. Magari Lloyd poteva avere approfittato della sua assenza temporanea da Ginevra per venire a regolare un vecchio conto con Theo.
Theo si odiava per il solo fatto di prendere in considerazione una possibilità del genere. Lloyd era stato il suo mentore, il suo socio. Avevano sempre parlato di dividere insieme un premio Nobel. Però…
Però non si parlava di Nobel nei due articoli che aveva trovato sulla sua morte. Naturalmente questo non significava che non potessero averlo assegnato al solo Lloyd, ma…
La madre di Theo era diabetica; quando le era stato diagnosticato, Theo aveva fatto delle ricerche sul diabete. Cominciarono a venire fuori i nomi di Banting e Best, i due ricercatori canadesi che avevano scoperto l’insulina. A dire il vero erano anch’essi una coppia di scienziati a volte associati a Lloyd e Theo; come Crick e Watson, Banting e Best avevano età diverse: Banting era chiaramente il ricercatore anziano. Ma anche se Crick e Watson erano stati entrambi premiati con il Nobel, Banting aveva diviso il suo non con il suo vero collega di ricerca, il giovane Best, ma con J.R.R. Macleod, il capo di Banting. Forse Lloyd avrebbe vinto il Nobel… non per la scoperta del bosone di Higgs, che non si era materializzato, ma piuttosto per una spiegazione dell’effetto di dislocazione temporale. E forse non lo avrebbe diviso con il suo giovane partner, ma con il suo superiore… con Béranger, o con qualcun altro della gerarchia del CERN. Che conseguenza avrebbe avuto sulla loro amicizia, sulla loro collaborazione? Quali gelosie e rancori avrebbero amareggiato il loro rapporto da qui al 2030?
Follia. Paranoia. Eppure…
Eppure, se qualcuno doveva uccidere Theo all’interno dei confini del CERN — l’affermazione di Moot Drescher di una sparatoria in una sorta di palazzetto dello sport appariva piuttosto dubbia — allora quel qualcuno doveva essere in grado di accedere liberamente al campus. Il CERN non era esattamente un impianto di massima sicurezza, ma non consentiva nemmeno l’accesso a chiunque chiedesse di oltrepassare i cancelli.
No, il suo assassino doveva essere qualcuno che poteva entrare al CERN. Qualcuno con cui Theo potesse incontrarsi faccia a faccia. E qualcuno che non lo voleva solo morto, ma che doveva chiaramente dare sfogo alla sua rabbia repressa, imbottendo di proiettili il corpo di Theo.
Lloyd e Michiko si erano spostati sul divano in soggiorno; i piatti potevano aspettare.
Dannazione, pensò Lloyd, perché doveva succedere tutto questo? Tutto andava così bene, e adesso…
E adesso sembrava che ogni cosa dovesse cadere a pezzi.
Lloyd non era giovane. Non avrebbe mai voluto sposarsi così tardi, ma…
Ma il lavoro era venuto prima di ogni altra cosa, e…
No. No, non era così. Siamo onesti. Guardiamo in faccia la realtà.
Lui pensava a se stesso come a un uomo buono, dolce e gentile, ma…
Ma, per dire la verità, non era educato, non era sciolto; era stato facile per Michiko migliorare il suo guardaroba perché, naturalmente, quasi ogni cambiamento non poteva che essere per il meglio.
Oh, certo, le donne — e gli uomini, quanto a questo — dicevano che era un buon ascoltatore. Ma Lloyd sapeva che non si trattava tanto di saggezza, quanto piuttosto del fatto che proprio non sapeva cosa dire. Così se ne restava seduto a guardare, osservando le vette e gli abissi delle vite dell’altra gente, gli alti e i bassi, le rotte e i travagli di coloro la cui esistenza aveva più varietà, più eccitazione, più angoscia della sua.
Lloyd Simcoe non era un conquistatore di cuori femminili, non era un affabulatore, non aveva la reputazione di essere un maestro nei discorsi del dopo cena. Era semplicemente uno scienziato, uno specialista in plasma dei gluoni del quark, un povero imbranato che da bambino non sapeva tenere in mano la mazza da baseball, che aveva trascorso la sua adolescenza con il naso sepolto nei libri mentre i suoi coetanei erano fuori ad affilare le loro capacità in mille situazioni differenti.
Gli anni erano trascorsi… aveva raggiunto i trenta, i quaranta, e adesso si avvicinava ai cinquanta. Oh, certo, aveva avuto successo nel lavoro, e ogni tanto aveva anche avuto qualche appuntamento galante, e poi c’era stata Pam, tanti anni prima, ma niente che desse l’impressione di essere duraturo, nessuna relazione che sembrasse destinata a reggere all’assalto del tempo.
Fino a questa, la relazione con Michiko.
Gli era sembrata giusta. Il modo in cui lei rideva alle sue battute, e lui a quelle di Michiko. Il modo in cui, pur essendo cresciuti in ambienti sociali così diversi — lui nella conservatrice, contadina Nuova Scozia, lei nella cosmopolita, travolgente Tokyo — condividevano la stessa politica, la stessa morale, le stesse idee e opinioni, come se — di nuovo quel termine, non richiesto — come se loro due fossero anime gemelle, destinate da sempre a vivere insieme. Sì, lei era stata sposata e divorziata, certo, aveva — aveva avuto — una figlia, eppure Lloyd e Michiko sembravano assolutamente in sintonia, giusti l’uno per l’altra.
Ma adesso…
Adesso sembrava che anche quella fosse un’illusione. Il mondo poteva anche continuare a discutere, per decidere quale realtà riflettessero le visioni, se mai ce n’era una, ma Lloyd le aveva già accettate come un dato di fatto, descrizioni reali del domani, l’unico inalterabile continuum spaziotemporale nel quale era sempre stato convinto di trovarsi.
Eppure doveva spiegarle ciò che provava: lui, Lloyd Simcoe, l’uomo di poche parole, il buon ascoltatore, il bravo ragazzo, colui al quale si rivolgevano gli altri quando avevano dei dubbi. Doveva spiegarle quello che passava nella sua mente, e perché la visione di un matrimonio dissolto ventuno anni — ventuno anni! — più tardi lo paralizzava fino a quel punto, e avvelenava ciò che era stato convinto di possedere.
Guardò Michiko, abbassò lo sguardo, tentò di nuovo di fissare i suoi occhi, poi li focalizzò su un punto vuoto della parete rosso vino dell’appartamento.
Non aveva mai parlato di quello a nessuno… nemmeno a sua sorella Dolly, almeno non finché erano ragazzi. Respirò a fondo, poi comincio, gli occhi sempre puntati sulla parete. «Quando avevo otto anni, i miei genitori chiamarono me e mia sorella in soggiorno.» Deglutì. «Era un sabato pomeriggio. Da settimane aleggiava una grande tensione in casa. E un modo adulto di esprimersi: ‘aleggiava una grande tensione’. Da bambino, tutto quello che capivo era che papà e mamma non si parlavano. Oh, quando dovevano parlare lo facevano, ma sempre in tono aggressivo. E tutto si concludeva sempre con qualche frase soffocata, come ‘se le cose stanno così…’, ‘io non ho intenzione…’, ‘non ti permettere…’. Roba del genere. Quando capivano che potevamo sentirli cercavano di assumere un tono più civile, ma noi sentivamo molto più di quanto loro credessero.»
Rivolse un’occhiata fuggevole a Michiko, poi tornò a fissare la parete. «Insomma, ci chiamarono in soggiorno. ‘Lloyd, Dolly… venite qui!’ Era mio padre. E, sai, quando ci gridava di venire, di solito significava che dovevamo aspettarci qualche problema: non avevamo rimesso a posto i giocattoli, oppure un vicino si era lamentato per qualcosa che avevamo fatto, una cosa qualsiasi. Be’, io uscii dalla stanza, e Dolly dalla sua, e in qualche modo ci guardammo in faccia, sai, appena un’occhiata, appena un momento di paura condivisa.» Adesso fissò Michiko, come aveva fatto con sua sorella tanti anni prima.
Lloyd prosegui: «Scendemmo le scale, e loro due erano lì: papà e mamma. E stavano tutti e due in piedi, e anche noi rimanemmo in piedi. Ci rimanemmo per tutto il tempo, come se stessimo aspettando un fottuto autobus. Per un po’ loro restarono in silenzio, come se non sapessero cosa dire. Poi, alla fine, fu mia madre a parlare. Disse: ‘Vostro padre se ne va.’ Proprio così. Nessun preambolo, nessuna frase per addolcire la pillola. ‘Vostro padre se ne va’.
«Poi parlò lui. ‘Troverò una sistemazione da queste parti. Potrete vedermi tutti i fine settimana’.
«E mia madre aggiunse, come se fosse necessario: ‘Vostro padre e io non andiamo più d’accordo’.»
Lloyd tacque.
Michiko assunse un’espressione comprensiva. «Lo hai visto spesso, dopo che se n’è andato?» gli domandò alla fine.
«Non se n’è più andato.»
«Ma i tuoi genitori hanno divorziato»
«Sì… sei anni dopo. Ma dopo quel grande annuncio, lui non se ne andò via. Rimase a casa.»
«Quindi si sono riconciliati?»
Lloyd alzò appena le spalle. «No. No, i litigi continuarono. Ma non si parlò più del fatto che lui se ne andasse. Noi, Dolly e io, continuammo ad aspettare il colpo di grazia, che lui lasciasse casa. Per mesi — davvero, per tutti i sei anni che durò ancora il loro matrimonio — noi eravamo convinti che se ne potesse andare in ogni momento. Non era mai stata menzionata una data limite, dopotutto… loro non avevano mai detto quando se ne sarebbe andato. E quando alla fine si divisero fu quasi un sollievo. Io volevo bene a mio padre e a mia madre, ma avere quella spada di Damocle sopra la testa per tanto tempo era stata una cosa impossibile da sopportare.» Fece una pausa. «E un matrimonio come quello, uno finito male… mi dispiace, Michiko, ma credo che non potrei mai affrontare di nuovo una situazione del genere.»
NOTIZIARIO
L’uffcio del Procuratore di Los Angeles ha deciso di non perseguire tutti i casi di reati minori, per consentire al personale di dedicarsi al a valanga di nuove denunce per sciacal aggio verifcatesi subito dopo il Cronolampo.
Il Dipartimento di flosofa dell’Università di Witwatesrand, Sud Africa, riferisce di un numero record di richieste di iscrizione ai corsi.
Amtrak negli Stati Uniti, Via Rail in Canada e British Rail segnalano un enorme aumento del volume dei passeggeri. Nessuno dei treni gestiti da queste società è deragliato durante il Cronolampo.
La Chiesa delle sacre visioni, nata ieri a Stoccolma, Svezia, afferma oggi di avere dodicimila aderenti sparsi in tutto il mondo; questo ne fa la religione del pianeta con il tasso di crescita più veloce.
L’Associazione dei notai americani riferisce di un enorme aumento nelle richieste di nuovi testamenti, o di modifca di quel i vecchi.
Il giorno successivo Theo e Michiko erano impegnati a configurare il loro sito Web per coloro che volessero riferire le loro visioni. Avevano deciso di chiamarlo progetto Mosaico, sia in onore del primo browser popolare (ma ormai da lungo tempo abbandonato) che in segno di riconoscimento del fatto ormai accertato, grazie agli sforzi dei ricercatori e dei giornalisti di tutto il mondo, che la visione di ogni individuo rappresentava davvero la tessera di un enorme ritratto a mosaico del 2030.
Theo aveva una tazza di caffè. Lo sorseggiò, poi disse: «Posso farti una domanda sulla tua visione?»
Michiko guardò le montagne fuori dalla finestra. «Certo.»
«Quella bambina che era con te, tu pensi che sia tua figlia?» Per poco non aveva detto ‘è la tua nuova figlia’, ma per fortuna aveva censurato il pensiero prima di formularlo.
Michiko sollevò appena le spalle magre. «Sembra di sì.»
«Ed è anche la… figlia di Lloyd?»
Michiko sembrò sorpresa da quella domanda. «Ma certo» rispose, non senza qualche esitazione nella voce.
«Perché Lloyd…»
Michiko si irrigidì. «Te l’ha raccontata la sua visione, no?»
Theo si rese conto di avere commesso una gaffe. «No, non esattamente. Solo che era nel New England…»
«Con una donna che non ero io. Sì, lo so.»
«Sono sicuro che non significa niente. Io non credo che le visioni si avvereranno.»
Michiko tornò a fissare le montagne. Anche Theo si era accorto di guardarle spesso. C’era qualcosa di solido in loro… di permanente, di immutabile. Aveva scoperto che guardarle lo calmava, sapere che c’erano cose che duravano non poche decine di anni, ma millenni.
«Ascolta,» disse lei «ho già divorziato una volta. Non sono così ingenua da pensare che tutti i matrimoni possano durare per sempre. Forse Lloyd e io ci lasceremo, a un certo momento. Chi può dirlo?»
Theo distolse lo sguardo, incapace di affrontare i suoi occhi, incerto su quale sarebbe stata la reazione di lei alle parole che gli ribollivano dentro. «Sarebbe un idiota se ti lasciasse andare» disse.
La sua mano era appoggiata sul tavolo. All’improvviso Theo sentì la mano di Michiko sulla sua, che l’accarezzava dolcemente sul dorso. «Be’, grazie» disse la donna. Lui la guardò e vide che sorrideva. «Questa è la cosa più carina che mi sia mai stata detta.»
Theo ritrasse la mano… ma non prima di qualche dolcissimo secondo in più del necessario.
Lloyd Simcoe lasciò il centro di controllo dell’LHC e si diresse verso l’edificio amministrativo principale. Normalmente gli ci volevano quindici minuti per effettuare il tragitto, ma quello finì col durare mezz’ora, perché lui venne fermato tre volte da fisici che andavano nella direzione opposta e che volevano rivolgergli delle domande sull’esperimento che forse aveva causato la dislocazione temporale, o proporgli modelli teorici per spiegare il Cronolampo. Era una splendida giornata di primavera… fredda, ma con grandi masse di nuvole nel cielo azzurro e limpido che rivaleggiavano con le vette a oriente del campus.
Alla fine entrò nell’edificio e si diresse verso l’ufficio di Béranger. Naturalmente aveva preso un appuntamento (per il quale era adesso in ritardo di quindici minuti); il CERN era una struttura molto complessa, e non c’era modo di piombare all’improvviso nell’ufficio del direttore generale.
La segretaria di Béranger disse a Lloyd di accomodarsi, e lui lo fece. La finestra al terzo piano dava proprio sul campus. Béranger si alzò da dietro la scrivania e prese posto su una sedia del lungo tavolo per conferenze, gran parte del quale era ricoperto da fogli con calcoli sperimentali sul Cronolampo. Lloyd sedette dal lato opposto.
«Oui?» disse Béranger. «Sì? Che succede?»
«Voglio uscire allo scoperto» disse Lloyd. «Voglio raccontare al mondo il nostro ruolo in quello che è successo.»
«Absolument pas» disse Béranger. «Non se ne parla nemmeno.»
«Dannazione, Gaston, prima o poi dovremo farlo.»
«Lei non sa se è colpa nostra, Lloyd. Non può provarlo… e nemmeno qualcun altro. Immagino che i telefoni saranno diventati bollenti, naturalmente: immagino che ogni scienziato del mondo stia ricevendo telefonate dai media, che vogliono opinioni su ciò che è successo. Ma ancora nessuno l’ha collegato a noi… e c’è da sperare che nessuno lo farà.»
«Oh, andiamo! Theo dice che lei è piombato al centro di controllo dell’LHC subito dopo il Cronolampo… lei ha capito fin dal primo momento che era colpa nostra.»
«Questo è stato quando ritenevo che fosse un fenomeno localizzato. Ma una volta saputo che era a livello mondiale, ho riconsiderato la cosa. Crede che noi fossimo l’unico centro all’opera su qualcosa di interessante in quel momento? Ho controllato. Il KEK, in Giappone, stava svolgendo un esperimento che ha avuto inizio appena cinque minuti prima del Cronolampo; anche il Centro dell’acceleratore lineare di Stanford stava facendo collidere delle particelle. L’Osservatorio sui neutrini di Sudbury ha rilevato un’esplosione poco prima delle 17.00; e a quella stessa ora in Italia c’è stato anche un terremoto di intensità tre punto quattro della scala Richter. Un nuovo reattore a fusione è entrato in attività in Indonesia esattamente alle 17.00, ora dell’Europa centrale. E la Boeing stava effettuando una serie di test sui motori a razzo.»
«Né il KEK, né Stanford sono in grado di produrre livelli di energia avvicinabili a quelli che può produrre il grande collisore» obiettò Lloyd. «E gli altri sono eventi tutt’altro che insoliti. Lei si sta attaccando alle pagliuzze.»
«No» replicò Béranger. «Io sto svolgendo un’indagine appropriata. Lei non è sicuro — non a livello di certezza morale — che siamo stati noi, e finché non ne avrà la certezza, non dirà una sola parola.»
Lloyd scosse la testa. «So che lei passa il tempo in mezzo alle scartoffie, ma credevo che nel suo cuore lei fosse ancora uno scienziato.»
«Io sono uno scienziato» disse Béranger. «Qui si parla di scienza… di buona scienza, nel modo in cui si suppone debba essere fatta. Lei è pronto a fare un annuncio prima ancora che tutti i fatti siano stati accertati. Io no.» Fece una pausa, respirò a fondo. «Mi ascolti,» disse «la fede della gente nella scienza e già stata scossa abbastanza in questi ultimi anni. Troppe cose spacciate per scienza si sono poi rivelate degli inganni o delle montature.»
Lloyd lo guardò.
«Percival Lowell — al quale servivano solo delle lenti migliori e un’immaginazione un po’ meno fervida — affermò di avere visto dei canali su Marte. Invece lì non ci sono canali.
«Stiamo ancora lottando contro le conseguenze di qualche idiota che a Roswell ha avuto la buona idea di affermare che ciò che stava vedendo era il relitto di un’astronave aliena, invece che un semplice pallone meteorologico.
«Si ricorda dei Tasaday? Quella tribù scoperta negli anni settanta in Nuova Guinea che sembrava rimasta all’età della pietra, e della quale si disse che non aveva una parola per ‘guerra’? Gli antropologi sono piovuti lì da tutte le parti per studiarli. C’era solo un problema… era tutta una montatura. Ma gli scienziati hanno pensato solo a partecipare alle trasmissioni televisive, e si sono ben guardati dal cercare delle prove scientifiche.»
«Io non ho nessuna intenzione di andare in TV» obiettò Lloyd.
«Poi abbiamo annunciato al mondo la fusione fredda» proseguì Gaston, ignorandolo. «Se lo ricorda? La fine della crisi energetica, la fine della povertà! Più energia di quanta ne sarebbe mai servita al genere umano. Solo che non era vero… Fleischmann e Pons erano stati un po’ troppo precipitosi.
«Quindi abbiamo cominciato a parlare di vita su Marte… il meteorite antartico con dei supposti microfossili, la prova che l’evoluzione era iniziata su un pianeta diverso dalla Terra. Invece gli scienziati avevano parlato troppo presto anche stavolta, e i fossili non erano affatto fossili, ma semplici formazioni rocciose.»
Gaston prese fiato. «Qui bisogna essere prudenti, Lloyd. Ha mai sentito parlare qualcuno dell’Istituto per la ricerca sulla creazione? Sparano delle fandonie incredibili sull’origine della via, ma alle loro conferenze si vede la gente che annuisce ed è d’accordo con loro… i creazionisti affermano che gli scienziati non sanno quello che dicono, e hanno ragione, la metà delle volte non lo sappiamo. Apriamo bocca troppo presto, tutti alla disperata ricerca del primato, del successo. Ma ogni volta ci sbagliamo… ogni volta che affermiamo di avere fatto un passo avanti decisivo nella cura contro il cancro o di avere risolto un mistero fondamentale dell’universo, e poi aspettiamo una settimana, un anno, un decennio e diciamo, scusate, ci siamo sbagliati, non abbiamo verificato i fatti, non sapevamo di che cosa stavamo parlando… ogni volta che avviene una cosa del genere diamo fiato agli astrologi e ai creazionisti e ai seguaci della New Age e a tutti quegli artisti e ciarlatani disonesti, e ai semplici svitati. Noi siamo scienziati, Lloyd… dovremmo essere l’ultimo bastione del pensiero razionale, della prova verificabile, riproducibile, irrefutabile, eppure siamo proprio noi i nostri peggiori nemici. Lei vuole uscire allo scoperto… vuole confessare che è stato il CERN a farlo, che siamo stati noi a spostare nel tempo la consapevolezza dell’uomo, che noi possiamo vedere il futuro, possiamo consegnare all’umanità il dono del domani. Ma io non ne sono convinto, Lloyd. Lei mi ritiene semplicemente un amministratore che sta cercando di coprirsi le chiappe, anzi, che sta cercando di coprire le chiappe di tutti noi, e dei nostri assicuratori. Ma non è così… o, per essere onesto, non è del tutto così; dannazione, Lloyd… a me dispiace, mi dispiace più di quanto lei possa lontanamente immaginare, di quello che è accaduto alla figlia di Michiko. MarieClaire ha partorito ieri; io non dovrei nemmeno essere qui — grazie a dio sua sorella è venuta a stare con noi — ma c’è così tanto da fare. Adesso ho un figlio, e anche se ce l’ho solo da poche ore, non potrei sopportare l’idea di perderlo. Ciò che ha dovuto affrontare Michiko, ciò che lei sta affrontando, per me è al di là di ogni capacità di immaginazione. Ma io per mio figlio voglio un mondo migliore. Voglio un mondo in cui la scienza sia rispettata, in cui gli scienziati parlino sulla base di dati certi e non su ardite speculazioni, in cui, quando qualcuno riferisce un fatto scientifico, la gente drizzi le orecchie e segua con attenzione perché le viene rivelato qualcosa di nuovo e fondamentale sul modo in cui funziona l’universo… invece di starsene lì con gli occhi sbarrati a dire, Gesù, chissà che ci verranno a raccontare questa settimana. Lei non può affermare come dato di fatto — come dato di fatto certo e inconfutabile — che il CERN abbia qualcosa a che fare con quanto è successo, e fino a che lei… fino a che io non lo saprò con certezza, nessuno convocherà conferenze stampa. È chiaro?»
Lloyd aprì la bocca per protestare, la richiuse, poi la riaprì. «E se riuscissi a dimostrare che il CERN ha qualche cosa a che vedere con quello che è successo?»
«Lei non riattiverà l’LHC… non ai livelli 1150-TeV. Io sto rivedendo la coda di attesa per gli esperimenti. Chiunque voglia usare l’acceleratore per collisioni protone-protone potrà farlo, una volta che avremo concluso tutte le indagini diagnostiche, ma nessuno lo attiverà per collisioni nucleari finché non lo dirò io.»
«Ma…»
«Niente ma, Lloyd» lo interruppe Béranger. «Ora, la prego, ho una montagna di lavoro da svolgere. Se non c’è altro…»
Lloyd scosse la testa e lasciò l’ufficio, uscì dal palazzo e se ne tornò indietro.
Altre persone fermarono Lloyd durante il ritorno; sembrava che venisse fuori una nuova teoria ogni pochi minuti, e che altrettanto rapidamente si buttassero via quelle vecchie. Finalmente riuscì a tornare nel suo ufficio. Ad attenderlo sulla scrivania c’era il rapporto iniziale della squadra di ingegneri che aveva ispezionato tutti i ventisette chilometri della galleria dell’acceleratore, in cerca di anomalie nell’apparecchiatura che potessero essere state responsabili dello sfasamento temporale. Ma fino a quel momento non era venuto fuori niente di insolito. Anche ALICE e CMS avevano ricevuto un certificato di buona salute, superando tutti i possibili esami diagnostici ai quali erano stati sottoposti fino a quel momento.
C’era inoltre in attesa per lui una copia della prima pagina della Tribune de Genève; qualcuno l’aveva lasciata lì, segnando con un circolo un articolo in particolare:
MORTO UN UOMO CHE HA AVUTO LE VISIONI
Il futuro non è fisso, afferma una studiosa
Mobile, Alabama (AP): James Punter, 47 anni, è morto in un incidente d’auto avvenuto oggi sulla I-65. Punter aveva in precedenza raccontato a suo fratello Dennis, 44 anni, di avere avuto una visione precognitiva.
‘Jim mi aveva detto tutto’ ha affermato Dennis. ‘Era a casa — la stessa casa in cui viveva oggi — nel futuro. Si stava facendo la barba ed è morto di spavento quando ha visto se stesso nel o specchio, invecchiato e rugoso’.
La morte di Punter ha implicazioni piuttosto vaste, afferma Jasmine Rose, professoressa di flosofa presso l’Università statale di New York a Brockport.
’Fin da quando si sono verifcate le visioni, noi ci siamo domandati se esse riproducessero il futuro reale o soltanto un possibile futuro, o se ancora si trattasse di semplici al ucinazioni’ ha affermato la professoressa. ‘La morte di Punter indica chiaramente che il futuro non è fsso; lui aveva avuto una visione eppure non è più fra noi per vederla avverarsi’.
Lloyd era ancora infuriato per il suo incontro con Béranger, e si trovò a fare a pezzi la pagina del giornale e a gettarla dall’altra parte della stanza.
Una professoressa di filosofia!
La morte di Punter non provava un bel niente, naturalmente. Il suo racconto era del tutto aneddotico. Non c’era nessuna prova a sostegno: nessuna visione di TV o giornali che potesse essere messa a confronto con relazioni analoghe di altre persone, e poi, a quanto sembrava, nessun altro lo aveva visto nelle sue visioni. Un uomo di quarantasette anni poteva benissimo essere morto, fra ventuno anni. Poteva essersi inventato la visione — per di più una visione alquanto priva di fantasia — piuttosto che rivelare di non averne avuta una. Come aveva affermato Michiko, nel momento in cui aveva raccontato di non avere avuto una visione Theo si era probabilmente giocato le sue possibilità di ottenere un’assicurazione sulla vita. Magari Punter aveva deciso che era meglio far finta di avere avuto una visione piuttosto che ammettere che non sarebbe sopravvissuto.
Lloyd sospirò. Ma non potevano chiamare uno scienziato, per scrivere quell’articolo? Qualcuno che sapesse capire il valore di una prova scientifica?
Una professoressa di filosofia. Ma per piacere!
Michiko si occupava di quasi tutto il lavoro per l’organizzazione del sito Web; Theo lavorava nella stessa stanza, su un altro PC, a simulazioni computerizzate della collisione dell’LHC, rendendosi disponibile quando Michiko aveva bisogno di lui. Naturalmente il CERN garantiva la tecnologia più aggiornata, ma c’era sempre molto lavoro da fare a mano, fra cui scrivere le descrizioni di varie lunghezze da sottomettere alle centinaia di differenti motori di ricerca disponibili in tutta la rete. Michiko ipotizzava che per il giorno dopo avrebbe avuto tutto pronto.
Una finestra si aprì sul monitor di Theo, comunicando gli che aveva nuova posta. Di regola avrebbe ignorato l’annuncio, rinviando la lettura a un momento successivo, ma la riga con il subject richiedeva attenzione immediata: ‘Betreff: Ihre Ermordung’, tedesco per ‘Re: il tuo omicidio’.
Theo ordinò al computer di aprire il messaggio. Era tutto in tedesco, ma non ebbe problemi a leggerlo. Tuttavia Michiko, che leggeva da sopra la sua spalla, non conosceva il tedesco, e così Theo tradusse per lei.
«Viene da una donna di Berlino» disse Theo. «Dice qualcosa come: ‘Ho visto il tuo messaggio ritrasmesso da un newsgroup a cui sono iscritta. Be’, una persona che vive nel mio stesso condominio sa qualcosa. Tutti noi’… qualcosa come, ci siamo ritrovati, ci siamo riuniti… ‘ci siamo riuniti nell’atrio dopo quello che è successo, e abbiamo comunicato le rispettive visioni. Un tizio — non lo conosco benissimo, ma abita al piano di sopra — nella sua visione stava guardando una trasmissione televisiva sull’omicidio di un fisico a Lucerna, mi sembrava che avesse detto così, ma quando ho letto il tuo messaggio ho capito che aveva detto CERN, che io non avevo mai sentito nominare, devo confessarlo. In ogni caso gli ho ritrasmesso una copia cieca del tuo messaggio, ma non so se si metterà in contatto con te o no. Si chiama Wolfgang Rusch, e puoi trovarlo a…’ Ecco quello che dice.»
«Che cosa hai intenzione di fare?»
«Che altro potrei fare? Mettermi in contatto con questo tipo.» Sollevò il telefono, digitò il codice personale per effettuare telefonate internazionali a suo carico, poi compose il numero che ancora lampeggiava sullo schermo.
NOTIZIARIO
Nel e Filippine è stata indetta una giornata di lutto nazionale per onorare il presidente Maurice Maung e tutti gli altri flippini che sono morti durante il Cronolampo.
Un gruppo chiamato Coalizione del 21 aprile sta già facendo pressioni sul Congresso perché approvi la costruzione di un monumento commemorativo nel parco di Washington dedicato agli americani uccisi durante il Cronolampo. Il gruppo propone un gigantesco mosaico che rappresenti Times Square di New York City come sarà presumibilmente nel 2030, sulla base del e descrizioni di migliaia di persone le cui visioni hanno contribuito a rappresentarla. Ogni tessera del mosaico corrisponderebbe a un individuo che è deceduto nell’evento, con l’incisione a laser del suo nome e cognome.
La Castle Rock Entertainment ha annunciato il rinvio dell’uscita, prevista per l’estate, del suo reclamizzato kolossal, Catastrofe, ‘a un’occasione più opportuna’.
Secondo un sondaggio del Maclean, il sentimento separatista in Quebec è ai suoi minimi storici, l’apparente certezza che fra ventuno anni il Quebec farà ancora parte del Canada ha fatto sì che anche i più estremisti gettassero la spugna’, si legge in un editoriale del Maclean.
La Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha ammesso al a vendita libera in farmacia per un anno undici antidepressivi che in precedenza richiedevano la ricetta medica; si tratta di una misura di emergenza volta a snellire il lavoro dei medici al e prese con i feriti del Cronolampo.
Quella sera Lloyd e Michiko erano di nuovo seduti sul divano nell’appartamento di lui; sul tavolino c’era una pila alta cinque centimetri di stampe e relazioni che Lloyd si era portato a casa. Michiko non aveva ancora pianto, da quando erano arrivati, ma Lloyd sapeva che lo avrebbe fatto prima di addormentarsi, come era successo nelle ultime due sere. Lui stava cercando di comportarsi nel modo giusto: non voleva evitare il problema di Michiko — il che, lo sapeva bene, era come negare che Tamiko fosse mai esistita — ma si limitava ad affrontare il discorso solo se era la stessa Michiko a cominciare.
E, naturalmente, aveva tutta l’intenzione di evitare il problema del loro matrimonio, e delle loro visioni, e tutti i dubbi che turbavano le loro menti, e così si limitarono a restare seduti, e lui la confortò quando ce n’era bisogno, e parlarono di altre cose.
«Oggi Gaston Béranger mi ha fatto un pistolotto sul ruolo della scienza» disse Lloyd. «E, accidenti a lui, mi ha fatto pensare che forse ha ragione. Abbiamo fatto affermazioni eccessive, noi scienziati. Abbiamo deliberatamente usato termini tendenziosi, facendo credere alla gente che facciamo cose che invece non facciamo.»
«Riconosco che non abbiamo sempre svolto un buon lavoro, nel presentare al pubblico le verità scientifiche» disse Michiko. «Ma… ma se il CERN è responsabile… se tu…»
Se tu sei responsabile…
Non c’era dubbio che fosse questa la frase che Michiko aveva iniziato e poi troncato a metà. Se fu sei responsabile…
Sì, se lui era responsabile… se il suo esperimento, suo e di Theo, era in qualche modo responsabile di tutte quelle morti, di tutta quella distruzione, della morte di Tamiko…
Lloyd aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai reso triste Michiko, che non le avrebbe mai fatto ciò che le aveva fatto Hiroshi. Ma se era stato quell’esperimento a provocare, per quanto involontariamente, per quanto indirettamente, la morte di Tamiko, allora aveva fatto a Michiko più male di quanto gliene avessero mai fatto tutta l’indifferenza e la trascuratezza di Hiroshi.
Wolfgang Rusch era parso riluttante a parlare al telefono, e alla fine Theo aveva affermato a chiare lettere che si sarebbe recato a Berlino per vederlo. La capitale tedesca distava appena ottocentosettanta chilometri da Ginevra. Theo poteva prendere l’automobile e raggiungerla in una giornata, ma prima decise di chiamare un’agenzia di viaggi, nella remota ipotesi che si potesse trovare un posto in aereo a poco prezzo.
Scoprì che c’era una grande abbondanza di posti.
Sì, c’era stata una leggera riduzione nelle tariffe delle compagnie aeree di tutto il mondo… alcuni aeroplani erano precipitati, anche se quasi tutti i tremila e cinquecento che erano in viaggio durante il Cronolampo avevano proseguito felicemente il volo senza l’intervento del pilota. E, sì, c’era un buon numero di persone che non avevano altra scelta se non quella di prendere l’aereo per risolvere problemi familiari.
Però, secondo l’agenzia, tutti gli altri se ne stavano a casa. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo si rifiutavano di prendere l’aereo… e chi poteva biasimarle? Se si fosse verificato di nuovo l’effetto blackout, altri apparecchi sarebbero precipitati sulle autostrade. La Swissair aveva rinunciato alle consuete limitazioni: non chiedevano più la prenotazione, né un soggiorno minimo, offrivano punteggi quadruplicati agli utenti più assidui, oltre a garantire un posto di prima classe a ogni nuovo viaggiatore, con un servizio di lusso senza costi aggiuntivi; altre compagnie aeree offrivano facilitazioni analoghe. Theo prenotò un volo e giunse in Germania meno di novanta minuti dopo. Aveva sfruttato al meglio il tempo del viaggio, annotando sul suo computer portatile alcune simulazioni di collisione dei nuclei del piombo.
Quando raggiunse l’appartamento di Rusch, erano appena passate le otto di sera. «La ringrazio per avermi ricevuto» disse Theo.
Rusch era sui trentacinque: magro, capelli biondi, occhi del colore della grafite. Si fece di lato per lasciare entrare Theo nel piccolo appartamento, ma non sembrò affatto contento di avere un visitatore in casa. «Devo dirglielo» esordì, in inglese. «Vorrei che lei non fosse venuto. Questo è un momento molto difficile per me.»
«Eh?»
«Ho perso mia moglie durante… come diavolo lo chiamate? La stampa tedesca l’ha definito Der Zwischenfall… l’incidente.» Scosse la testa. «A me sembra un nome del tutto inadeguato.»
«Mi dispiace.»
«Ero in casa quando è successo. Di martedì non insegno.»
«Insegna?»
«Sono professore associato di chimica. Ma mia moglie… è rimasta uccisa mentre tornava a casa dal lavoro.»
«Sono davvero dispiaciuto» disse Theo con sincerità.
Rusch alzò le spalle. «Questo non la riporterà indietro.»
Theo annuì, concedendo il punto all’altro. Fu contento, comunque, che Béranger avesse impedito a Lloyd di rendere pubblico il coinvolgimento del CERN nell’incidente… era convinto che Rusch, se lo avesse saputo, non gli avrebbe nemmeno parlato.
«Come mi ha trovato?»
«Informazione riservata… Ne ho ricevute parecchie. La gente sembra affascinata dalla mia… dalla mia ricerca. Qualcuno mi ha scritto un’email dicendomi di avere saputo che lei, nella sua visione, ha visto alla televisione qualcosa che riguarda la mia morte.»
«Chi è stato?»
«Uno dei suoi vicini. Non credo che importi sapere chi è.» In effetti Theo non era legato alla segretezza, ma non gli sembrava nemmeno prudente rivelare il nome della sua fonte. «Per favore,» disse «ho fatto un lungo viaggio, con una spesa considerevole, per parlare con lei. Dev’esserci qualcosa di più che lei può dirmi, rispetto a quanto mi ha detto al telefono.»
Rusch sembrò ammorbidirsi un poco. «Credo di sì. La prego di scusarmi. Lei non ha idea di quanto amassi mia moglie.»
Theo diede un’occhiata alla stanza. C’era una foto su una libreria bassa: Rusch, almeno una decina di anni più giovane di adesso, e una splendida ragazza dai capelli neri. «È lei?» gli domandò.
Sembrò che il cuore di Rusch avesse mancato un battito… quasi che Theo avesse indicato sua moglie in carne e ossa, miracolosamente restituita alla vita. Ma poi i suoi occhi si posarono sulla fotografia. «Sì» rispose.
«È bellissima.»
«Grazie» farfugliò Rusch.
Theo attese qualche secondo, poi riprese, semplicemente: «Ho parlato con qualcuno che ha letto articoli di giornale o su Internet riguardo al mio… al mio omicidio, ma lei è il primo che abbia davvero visto qualcosa in TV. La prego, che cosa può dirmi in proposito?»
Alla fine Rusch fece cenno a Theo di sedersi, cosa che lui fece, accanto alla fotografia della defunta frau Rusch. Sul tavolino c’era un vassoio pieno di grappoli d’uva… probabilmente una delle nuove varietà geneticamente modificate che rimanevano fresche e saporite anche fuori dal frigo.
«Non c’è molto da dire» cominciò Rusch. «Anche se, adesso che ci ripenso, c’era una cosa strana. Il notiziario non era in tedesco. Anzi, era proprio in francese. E qui in Germania non si prendono molte emittenti francesi.»
«C’erano le lettere di qualche sigla, o un logo della rete?»
«Oh, probabilmente… ma non ci ho fatto troppo caso.»
«Il giornalista… lo ha riconosciuto?»
«La giornalista. No. Era in gamba, però. Molto sveglia. Ma non c’è da stupirsi che non l’abbia riconosciuta; non aveva certamente più di trent’anni, il che vuol dire che oggi deve averne meno di dieci.»
«C’era scritto il suo nome in sovrimpressione? Se riesco a rintracciarla oggi, naturalmente la sua visione sarà quella in cui legge quel notiziario, e magari si ricorderà qualcosa che lei non ricorda.»
«Non stavo seguendo un notiziario dal vivo: era registrato. La mia visione è iniziata con me che mandavo il nastro avanti veloce, però non usavo un telecomando. Direi che il registratore rispondeva alla mia voce. Il nastro era in avanzamento veloce, ma non era una videocassetta; l’immagine accelerata era assolutamente scorrevole, senza effetto neve o salti d’immagine.» Fece una pausa. «Comunque, appena è apparsa una grafica dietro la giornalista che mostrava una sua fotografia — era lei, mi è sembrato, anche se naturalmente più vecchio — ho bloccato l’avanzamento e ho cominciato a guardare. Le parole della grafica dicevano: ‘Un savant tue’… morte di uno scienziato. Immagino che quel titolo mi abbia incuriosito, lei capisce, essendo uno scienziato anch’io.»
«E ha guardato tutto il servizio?»
«Sì.»
Un pensiero trafisse il cervello di Theo. Se Rusch aveva seguito l’intero servizio, allora doveva essere durato meno di due minuti. Naturalmente tre minuti erano un’eternità, in televisione, ma…
Ma la sua intera vita raccontata in meno di un minuto e quarantatrè secondi…
«Che diceva la giornalista?» chiese Theo. «Qualsiasi cosa lei possa ricordare mi sarà molto utile.»
«Onestamente non ricordo molto. Io sembravo interessato, ma… insomma, io credo di essere stato preda del panico. Voglio dire, che diavolo stava succedendo? Io ero seduto al tavolo della cucina, proprio lì, a sorseggiare il caffè e a leggere alcuni compiti degli studenti, quando all’improvviso cambia tutto. L’ultima cosa che mi interessava era prestare attenzione ai particolari di un servizio su qualcuno che nemmeno conoscevo.»
«Mi rendo conto che lei deve essersi sentito molto disorientato» disse Theo, ma non avendo avuto una visione lui stesso ebbe il forte sospetto che in realtà non se ne rendesse affatto conto. «Però, come le ho detto, qualunque particolare le venga in mente mi sarebbe utilissimo.»
«Be’, la donna ha detto che lei era uno scienziato… un fisico, mi pare. È giusto?»
«Sì.»
«E ha detto che lei aveva — avrà — quarantotto anni.»
Theo annuì.
«E ha detto che le avevano sparato.»
«Ha detto dove?»
«Ah, al petto, mi sembra.»
«No, no. Intendevo dove mi hanno sparato… in quale posto.»
«Temo di no.»
«È stato al CERN?»
«Ha detto che lei lavorava al CERN, ma… non ricordo di averla sentita dire che quello è il luogo in cui lei è stato ucciso. Mi dispiace.»
«Ha fatto cenno a un palazzetto dello sport? A un incontro di pugilato?»
Rusch sembrò sorpreso da quella domanda. «No.»
«Ricorda qualcos’altro?»
«No, mi dispiace.»
«Qual è stato il servizio che è andato in onda subito dopo il mio?» Non sapeva perché gli avesse fatto quella domanda… forse per vedere a quale gradino lo avevano collocato nella scala della gerarchia sociale.
«Mi spiace, non lo so. Non ho seguito il resto del notiziario. Quando è finito il servizio su di lei hanno mandato la pubblicità… di una ditta che crea bambini progettati su misura: quello mi affascinava — affascinava il me stesso del 2009 — ma il me stesso del 2030 non sembrava minimamente interessato, e ha spento il… be’, non era proprio un televisore, naturalmente: era una specie di schermo piatto luminoso, appeso al muro… lui ha pronunciato la parola ‘spegni’ e quello è diventato buio, proprio così, all’improvviso. Poi lui — io — noi ci siamo voltati e… credo che fosse la stanza di un albergo, c’erano due grossi letti. Sono andato a sdraiarmi su uno dei letti, tutto vestito. E ho trascorso il resto del tempo a fissare il soffitto, finché la mia visione è finita e mi sono ritrovato al tavolo della cucina.» Fece una pausa. «Avevo un grosso bernoccolo sulla testa, naturalmente; all’inizio della visione avevo sbattuto contro il tavolo. E mi ero anche versato il caffè bollente sulla mano; devo aver rovesciato la tazza quando sono caduto in avanti. Sono stato fortunato di non essermi procurato una brutta bruciatura. Mi ci è voluto un bel po’ prima di ritrovare la lucidità, e poi mi sono reso conto che tutti i residenti del palazzo avevano avuto lo stesso tipo di allucinazione. Allora ho cercato di chiamare mia moglie, solo per scoprire che… che…» Deglutì a fatica. «Ci hanno messo un po’ a trovarla o, almeno, a mettersi in contatto con me. Stava salendo una ripida rampa di scale, mentre risaliva dalla metropolitana. Era quasi arrivata in cima, secondo alcuni testimoni, poi ha perso i sensi ed è caduta all’indietro per sei o sette gradini. Cadendo si è spezzata il collo.»
«Mio Dio» esclamò Theo. «Mi dispiace.»
Stavolta Rusch annuì, accettando semplicemente il commento.
Tra i due non c’era altro da dire, e per di più Theo doveva tornare all’aeroporto; non voleva sobbarcarsi la spesa di una stanza d’albergo a Berlino.
«La ringrazio molto per avermi dedicato il suo tempo» disse Theo. Infilò la mano in tasca e ne trasse un biglietto da visita. «Se le viene in mente qualche altra cosa che ritiene possa essermi utile, le sarei molto grato se mi telefonasse o mi inviasse un’email.» Porse a Rusch il cartoncino.
L’uomo lo prese, ma non lo degnò di uno sguardo. Theo se ne andò.
Il giorno dopo Lloyd si recò di nuovo nell’ufficio di Béranger. Questa volta il tragitto richiese ancora più tempo: Lloyd venne atteso al varco da un gruppo che sosteneva la teoria del campo unificato, e che era diretto verso il Centro computer. Quando finalmente riuscì a raggiungere l’ufficio di Béranger, Lloyd esordì: «Mi dispiace, Gaston, lei può cacciarmi, ma io ho intenzione di rendere nota la faccenda.» «Mi sembrava di avere detto chiaramente…» «Dobbiamo renderla nota. Mi ascolti, ho appena avuto una conversazione con Theo. Lo sa che ieri è stato in Germania?»
«Non posso tenere nota dell’andirivieni di tremila dipendenti.»
«È stato in Germania… ha avuto un’informazione dell’ultima ora e ha trovato un volo a tariffa economica. Perché? Perché la gente ha paura di volare. Il mondo intero è ancora paralizzato, Gaston. Tutti hanno paura che la dislocazione temporale si ripeta di nuovo. Controlli i notiziari alla TV, se non mi crede; io l’ho fatto. Evitano ogni attività sportiva, prendono la macchina solo quando non possono proprio farne a meno, e non viaggiano in aereo. È come se… come se aspettassero il colpo di grazia.» Lloyd ripensò di nuovo a suo padre, quando aveva annunciato che se ne sarebbe andato via. «Ma questo non succederà, no? Finché non replicheremo ciò che stavamo facendo non c’è alcun modo in cui si possa ripetere il fenomeno. Non possiamo lasciare il mondo in sospeso. Abbiano già fatto abbastanza danni. Non possiamo permettere che la gente abbia paura di vivere la propria vita, di tornare a un’esistenza — per quanto possibile — simile a quella di prima.»
Béranger sembrò riflettere su quell’affermazione.
«Andiamo, Gaston. Prima o poi qualcuno lo verrà a sapere.»
Béranger sospirò. «Lo so. Crede che non lo sappia? Non voglio fare dell’ostruzionismo. Ma dobbiamo pensare alle conseguenze… alle conseguenze legali.»
«Sarà certamente meglio che lo comunichiamo spontaneamente, invece di attendere che qualcuno lo venga a sapere e diffonda la notizia.»
Béranger fissò a lungo il soffitto. «Io so che non le piaccio» disse, evitando di incontrare lo sguardo di Lloyd, il quale aprì la bocca per replicare, ma fu tacitato dalla mano alzata di Béranger. «Non si prenda il disturbo di negarlo. Non ci siamo mai frequentati, non siamo mai stati amici. In parte è una cosa naturale, certo… succede in tutti i centri scientifici del mondo. Scienziati convinti che gli amministratori esistano solo per mettergli i bastoni fra le ruote. Amministratori che si comportano come se gli scienziati fossero un inconveniente, invece che il cuore e l’anima della struttura. Ma c’è qualcosa di più, vero? Qualunque fosse il nostro incarico, io non le piacerei lo stesso. Prima non mi ero mai soffermato a riflettere su queste cose. Sapevo sempre che a qualcuno non piacevo e non sarei mai piaciuto, ma non pensavo che fosse colpa mia.» Si interruppe, poi si strinse appena nelle spalle. «Ma forse lo è. Io non le ho mai detto che cosa c’era nella mia visione… e non ho intenzione di dirglielo adesso. Ma mi ha fatto pensare. Forse sono in guerra con lei da troppo tempo. Lei è convinto che dovremmo rivelare tutto all’opinione pubblica? Cristo, io non so se sia la cosa giusta da fare oppure no. Non sono nemmeno convinto che non farlo sia la cosa giusta.»
Fece un’altra pausa. «A proposito, abbiamo trovato un parallelo… qualcosa da gettare in pasto alla stampa se dovesse mettere il naso qui, un’analogia per dimostrare perché non siamo colpevoli.»
Lloyd sollevò le ciglia.
«Il crollo del ponte di Tacoma Narrows» disse Béranger.
Lloyd annuì. Il mattino presto del 7 novembre 1940 il ripiano del ponte sospeso di Tacoma Narrows, nello stato di Washington, cominciò a ondeggiare. Ben presto l’intero ponte si mise a oscillare su e giù, deformandosi in modo vistoso, e alla fine crollò. Gli studenti di fisica dei licei di tutto il mondo avevano visto il filmato, e per decenni era stata data la spiegazione più attendibile: che forse il vento aveva generato una risonanza naturale con il ponte, facendo sì che oscillasse a ondate.
I progettisti del ponte avrebbero dovuto sicuramente prevedere tutto ciò, aveva detto allora la gente; in fin dei conti la risonanza richiede grande precisione — se non fosse così qualsiasi cantante potrebbe frantumare un bicchiere di vino — e i venti casuali quasi certamente non possono produrla. No, nel 1990 venne dimostrato che il ponte di Tacoma Narrows era crollato a causa della fondamentale non-linearità dei ponti di sospensione, una conseguenza della teoria del caos: una branca della scienza che non esisteva quando il ponte venne costruito. Agli ingegneri che lo avevano progettato non si poteva addossare nessuna responsabilità; non avevano alcun modo, in base alle conoscenze di allora, di prevedere o evitare il crollo.
«Se tutto si fosse limitato alle visioni,» proseguì Béranger «lei lo capisce, non avremmo bisogno di proteggerci il culo; anzi, sospetto che molti le sarebbero grati. Ma ci sono stati tutti quegli incidenti automobilistici, e la gente che è caduta dalle scale, e via dicendo. È preparato a farsi carico dello sdegno? Perché non sarò io a fare da scudo, e nemmeno il CERN. Quando giungeremo al dunque, per quanto parliamo del ponte di Tacoma Narrows e delle conseguenze imprevedibili, l’opinione pubblica vorrà un capro espiatorio umano specifico, e sa che toccherà a lei, Lloyd. È stato il suo esperimento.»
Il direttore generale smise di parlare. Lloyd considerò la situazione, poi disse: «Posso farcela.»
Béranger annuì una volta. «Bien. Convocheremo una conferenza stampa.» Guardò fuori dalla finestra. «Penso che sia ora di dire la verità.»