LIBRO II Primavera 2009

Il libero arbitrio è un’illusione.

È sinonimo di percezione incompleta.

WALTER KUBILIUS

12

Quinto giorno: sabato 25 aprile 2009

L’edificio amministrativo del CERN aveva ogni sorta di aule per seminari e di spazi per incontri. Per la conferenza stampa si servirono di una sala con duecento posti… nessuno dei quali era vuoto. Gli addetti alle pubbliche relazioni non avevano dovuto fare altro che annunciare a giornali e televisioni che il CERN stava per fare un annuncio di grande importanza sulla causa della dislocazione temporale, e i giornalisti erano giunti da tutta Europa, più uno dal Giappone, uno dal Canada e sei dagli Stati Uniti.

Béranger aveva tenuto fede alla parola data: aveva lasciato il podio a Lloyd; se doveva esserci un capro espiatorio, sarebbe stato lui. Lloyd salì sul podio e si schiarì la gola. «Benvenuti a tutti» disse. «Mi chiamo Lloyd Simcoe.» Uno degli addetti alle pubbliche relazioni del CERN gli aveva consigliato di sillabare il cognome, e lui lo fece: «Scritto S-l-M-C-O-E, e Lloyd comincia con una doppia L.» A tutti i giornalisti era stato fornito un dischetto DVD con le dichiarazioni di Lloyd e le note biografiche, ma molti di loro dovevano preparare il servizio immediatamente, e non avrebbero avuto il tempo di consultare il materiale informativo ricevuto. «La mia specializzazione è lo studio del plasma dei gluoni del quark. Sono cittadino canadese, ma ho lavorato per molti anni negli Stati Uniti all’acceleratore del Laboratorio nazionale Fermi. Da due anni mi trovo qui al CERN, e sto portando avanti un importante esperimento con il Grande collisore per Adroni.»

Fece una pausa; cercava di guadagnare tempo, per calmare lo stomaco agitato. Non che avesse paura di parlare in pubblico; aveva trascorso fin troppi anni come professore universitario, perché gliene fosse rimasta traccia. Ma non aveva modo di sapere quale sarebbe stata la reazione a ciò che stava per dire.

«Questo è il mio socio, il dottor Theodosios Procopides» riprese Lloyd.

Theo si alzò appena dalla sedia accanto al podio. «Theo» disse quest’ultimo, con un sorriso appena accennato all’uditorio. «Chiamatemi Theo.»

Una grande famiglia felice, pensò Lloyd. Sillabò lentamente nome e cognome di Theo a beneficio dei giornalisti, poi respirò a fondo e ricominciò. «Noi stavamo effettuando un esperimento qui, il 21 aprile, esattamente alle 16.00, ora del meridiano di Greenwich.»

Fece un’altra pausa e fissò le singole facce. Non ci volle molto perché la notizia facesse effetto. I giornalisti cominciarono subito a urlare domande, e gli occhi di Lloyd vennero aggrediti dai riflettori delle telecamere. Lui alzò le mani, con i palmi in avanti, aspettando che i giornalisti si calmassero.

«Sì,» disse «sì, io sospetto che abbiate ragione. Abbiamo motivo di ritenere che il fenomeno della dislocazione temporale abbia a che fare con il lavoro che stavamo effettuando con il Grande collisore per Adroni.»

«Come può essere successo?» chiese Klee, un corrispondente della CNN pagato un tanto a riga.

«Ne è sicuro?» chiese Jonas, corrispondente della BBC.

«Come mai non lo avete reso pubblico prima?» domandò l’inviato della Reuters.

«Risponderò prima all’ultima domanda» disse Lloyd. «Anzi, per essere precisi, lascerò che sia il dottor Procopides a rispondere.»

«Grazie» disse Theo, alzandosi in piedi, adesso, e avvicinandosi al microfono. «La, ehm, la ragione per cui non ne abbiamo dato comunicazione subito è che non avevamo un modello teorico che spiegasse quanto è accaduto.» Fece una pausa. «In tutta franchezza, non lo abbiamo ancora; in fin dei conti sono passati appena quattro giorni dal Cronolampo. Ma il fatto è che noi abbiamo creato la collisione di particelle con la più alta quantità di energia nella storia di questo pianeta, che si è verificata esattamente — al secondo — nel momento in cui è iniziato il fenomeno. Non possiamo ignorare che una relazione casuale potrebbe esistere.»

«Come fa a essere sicuro che i due fatti abbiano una correlazione?» domandò una donna della Tribune de Genève.

Theo alzò le spalle. «Non ci viene in mente nulla, nell’esperimento, che abbia potuto provocare il Cronolampo. Ma d’altra parte non riusciamo a pensare a nient’altro che al nostro esperimento, come causa del fenomeno. Sembra proprio che il nostro lavoro sia il candidato più probabile.»

Lloyd diede un’occhiata al dottor Béranger, il cui volto da falco era impassibile. Quando avevano messo a punto i dettagli della conferenza stampa, all’inizio Theo aveva detto ‘l’imputato più probabile’, e Béranger aveva imprecato per la scelta di quel termine. Ma poi ci si era accorti che non faceva alcuna differenza. «Così voi ammettete le vostre responsabilità?» chiese Klee. «Riconoscete che tutte le morti sono avvenute per colpa vostra?»

Lloyd sentì lo stomaco che gli si torceva, e notò un’espressione corrucciata sul viso di Béranger. Il direttore generale aveva l’aria di uno pronto a balzare in piedi e a prendere in mano la conferenza.

«Noi ammettiamo che il nostro esperimento appare come la causa più probabile» disse Lloyd, spostandosi per mettersi accanto a Theo. «Ma affermiamo anche che non c’era modo — assolutamente nessuno — di prevedere nulla che fosse nemmeno lontanamente simile a quello che è avvenuto, come conseguenza di ciò che abbiamo fatto. Tutto questo era assolutamente imprevisto… e imprevedibile. Era, molto semplicemente, quello che le compagnie di assicurazione definiscono un atto di Dio.»

«Ma tutte quelle morti…» strillò un giornalista.

«E i danni alla proprietà…» gridò un altro.

Lloyd tornò a sollevare le mani. «Sì, lo sappiamo. Credetemi, siamo intimamente vicini a tutti coloro che sono rimasti feriti, o che hanno perso una persona cara. Una bambina alla quale volevo molto bene è morta investita da un’auto senza controllo; darei qualsiasi cosa per riaverla indietro. Ma non avrei potuto prevedere…»

«Ma certo che avrebbe potuto» strepitò Jonas. «Se non avesse fatto l’esperimento, non sarebbe successo niente.»

«Con tutto il rispetto, signore, questo è irrazionale» replicò Lloyd. «Gli scienziati fanno esperimenti in continuazione, e vengono sempre prese tutte le ragionevoli precauzioni. Il CERN, come sapete, ha un ruolino invidiabile, in fatto di sicurezza. Ma la gente non può semplicemente smettere di fare le cose… la scienza non può smettere di andare avanti. Noi non sapevamo che sarebbe successo; non potevamo saperlo. Però stiamo informando l’opinione pubblica, lo stiamo raccontando a tutto il mondo. So che la gente teme che l’evento si riproponga di nuovo, che in qualsiasi momento la loro consapevolezza possa essere trasportata ancora una volta nel futuro. Ma non sarà così; noi ne siamo stati la causa, e possiamo assicurarvi — assicurare tutti — che non c’è il minimo pericolo che un fatto del genere si ripeta nuovamente.»


La stampa si riempì, naturalmente, di proteste sdegnate: editoriali sugli scienziati che giocherellano con cose in cui gli uomini non dovrebbero mettere il naso. Ma, per quanto ci provassero, nemmeno la più squallida rivista scandalistica riuscì a trovare uno scienziato credibile disposto ad affermare che esistesse un qualsiasi motivo per sospettare che l’esperimento del CERN poteva avere provocato lo spostamento della consapevolezza nel tempo. Naturalmente questo generò qualche tiepido commento sull’omertà dei fisici, ma ben presto le opinioni passarono dall’accusa aperta ai membri del CERN, all’accettazione del fatto che si era trattato di qualcosa di assolutamente imprevedibile, di totalmente nuovo.

Per Lloyd e Michiko continuò a essere un momento, difficile. Michiko era volata a Tokyo insieme al corpo di Tamiko. Naturalmente Lloyd si era offerto di accompagnarla, ma non parlava giapponese. Di norma, coloro che parlavano inglese avrebbero educatamente cercato di trovargli una sistemazione, ma in circostanze così drammatiche era abbastanza chiaro che Lloyd sarebbe stato escluso da quasi tutte le conversazioni. E poi c’era anche il disagio della situazione in sé: Lloyd non era il patrigno di Tamiko, perché non era sposato con Michiko. Toccava a Michiko e a Hiroshi, a dispetto di tutti i dissapori del passato, piangere sulla figlia e seppellirla. Per quanto anche lui fosse distrutto da ciò che era accaduto alla bambina, Lloyd dovette ammettere che poteva fare ben poco per essere di qualche aiuto a Michiko in Giappone.

E così, mentre lei volava a oriente verso la sua patria, Lloyd rimase a Ginevra, tentando di far capire a un’umanità sconcertata l’aspetto scientifico di quanto era avvenuto.


«Dottor Simcoe,» disse Bernard Shaw «forse lei può spiegarci quello che è successo?»

«Ma certo» disse Lloyd mettendosi a suo agio. Si trovava nella sala delle teleconferenze del CERN, con una telecamera non più grande di un ditale che lo guardava dalla sommità di un treppiede malmesso. Shaw, naturalmente, si trovava nella sede CNN di Atlanta. Lloyd aveva in programma per la giornata altre cinque interviste analoghe, una delle quali in francese. «Molti di voi avranno sentito nominare il termine ‘spaziotempo’, o ‘continuum spaziotemporale’. Si riferisce alla combinazione delle tre dimensioni, lunghezza, larghezza, altezza, e della quarta dimensione, il tempo.»

Lloyd fece un cenno al tecnico, una donna, che stava in piedi fuori campo, e sul monitor alle sue spalle apparve l’immagine di un uomo dai capelli neri. «Questo è Hermann Minkowski» disse Lloyd. «È colui che avanzò per primo il concetto di continuum spaziotemporale.» Una pausa. «È difficile illustrare direttamente il concetto delle quattro dimensioni, ma se semplifichiamo togliendo una dimensione spaziale, allora diventa più facile.»

Fece un altro cenno e l’immagine cambiò.

«Questa è una mappa dell’Europa. Naturalmente l’Europa ha tre dimensioni, ma siamo tutti abituati a servirci di mappe bidimensionali. E Hermann Minkowski è nato a Kaunas, nel 1864, in quella che oggi si chiama Lituania.»

Una luce si accese all’interno della Lituania.

«Eccola. Facciamo finta, tuttavia, che la luce non sia Kaunas, ma Minkowski stesso, nato nel 1864.»

Nell’angolo in basso a destra della mappa apparve la scritta 1864.

«Se torniamo indietro di qualche anno, possiamo vedere che prima di quel punto non c’è nessun Minkowski.» La data della mappa cambiò in 1863, poi 1862, poi 1861 e non c’era più traccia di Minkowski.

«Adesso torniamo al 1864.»

La mappa obbedì, con la luce di Minkowski che brillava alla latitudine e longitudine di Kaunas.

«Nel 1878,» disse Lloyd «Minkowski si recò a Berlino per frequentare l’università.»

La mappa del 1864 scivolò via come se fosse il foglio di un calendario: quella successiva indicava la data del 1865. In rapida successione scorsero altre mappe, indicate con gli anni dal 1866 al 1877, ciascuna delle quali con la luce di Minkowski a Kaunas, o nei dintorni, ma quando apparve quella del 1878, la luce si era spostata di quattrocento chilometri a ovest, su Berlino.

«Minkowski non rimase a Berlino» proseguì Lloyd. «Nel 1881 si trasferì a Kònigsberg, nei pressi dell’attuale confine polacco.»

Altre tre mappe scivolarono via, e quando apparve quella con l’anno 1881, la luce di Minkowski si era spostata di nuovo.

«Nei successivi diciannove anni il nostro Hermann si spostò da un’università all’altra, tornando a Kònigsberg nel 1894, poi recandosi a Zurigo qui in Svizzera nel 1896, e infine all’università di Gòttingen, nella Germania centrale, nel 1902.»

Il cambiare delle mappe illustrò i suoi spostamenti.

«E rimase a Gòttingen fino al giorno della sua morte, il 12 gennaio 1909.»

Scorsero altre mappe, ma la luce rimase fissa.

«E naturalmente, dopo il 1909, lui non c’è più.»

Scivolarono via le mappe con le date 1910, 1911,1912, ma nessuna aveva la luce.

«Ora» disse Lloyd «che succede se prendiamo le nostre mappe, le sovrapponiamo in ordine cronologico e le pieghiamo appena, in modo da vederle obliquamente?»

La grafica computerizzata sullo schermo alle sue spalle eseguì l’operazione.

«Come potete vedere, la luce che indica gli spostamenti di Minkowski forma un tracciato nel tempo. Comincia quaggiù, in Lituania, si sposta verso la Germania e la Svizzera e alla fine si conclude qui, a Gòttingen.»

Le mappe erano sovrapposte l’una all’altra, formando un cubo, e la linea della vita di Minkowski, che s’intrecciava all’interno del cubo, era visibile attraverso di esso, simile alla risalita da una tana verso l’alto da parte di una talpa luminescente.

«Questo tipo di cubo, che mostra il tracciato della vita di una persona attraverso lo spaziotempo, si chiama cubo di Minkowski: lo stesso buon vecchio Hermann fu il primo a disegnare una cosa del genere. Naturalmente se ne può disegnare uno per ogni individuo. Ecco quello mio.»

La mappa cambiò, mostrando il mondo nella sua interezza.

«Io sono nato in Nuova Scozia, Canada, nel 1964, mi sono spostato a Toronto, poi all’università di Harvard, ho lavorato per anni al Fermilab nell’Illinois, e poi sono finito qui al CERN, sul confine franco-svizzero.»

Le mappe si sovrapposero, formando un cubo con all’interno un tracciato luminoso ondeggiante.

«E, naturalmente, nello stesso cubo si può indicare il tracciato della vita di altre persone.»

Cinque altri tracciati luminosi, ciascuno di un colore differente, si formarono dentro il cubo. Alcuni iniziavano prima di quello di Lloyd, altri terminavano prima di raggiungere la sommità «La sommità del cubo, qui» proseguì Lloyd «rappresenta l’oggi, il 25 aprile 2009. E, com’è evidente, siamo tutti d’accordo che oggi è oggi. Cioè, tutti noi ricordiamo ieri, ma riconosciamo che è passato; e tutti noi non sappiamo niente del domani. Stiamo tutti guardando collettivamente questo particolare strato del cubo.» La faccia superiore del cubo si illuminò.

«Potete immaginare l’occhio della mente collettiva dell’umanità che guarda quel particolare strato.» Il disegno di un occhio umano, completo di ciglia, galleggiò sopra il cubo, parallelo alla sommità. «Ma ecco quello che è successo durante il Cronolampo: l’occhio della mente si è spostato lungo il cubo verso il futuro, e invece di guardare lo strato che rappresenta il 2009, si è ritrovato a guardare quello che rappresenta il 2030.»

Il cubo si allungò verso l’alto, e gran parte dei tracciati luminosi di diversi colori proseguirono il loro movimento insieme al cubo. L’occhio fluttuante balzò all’insù, e il piano illuminato si trovò adesso molto vicino alla sommità del cubo allungato. «Per due minuti abbiamo osservato un altro punto lungo il tracciato della nostra vita.»

Bernard Shaw si agitò sulla sedia. «Quindi lei ci sta dicendo che lo spaziotempo è come un gruppo di inquadrature cinematografiche impilate una sull’altra, e che ‘adesso’ è l’inquadratura attualmente illuminata?»

«L’analogia è buona» disse Lloyd. «In effetti mi aiuta ad arrivare al punto successivo, che è questo: diciamo che state vedendo Casablanca, che si dà il caso sia il mio film preferito. E diciamo che questo particolare momento è quello proiettato sullo schermo proprio adesso.» Alle spalle di Lloyd Humphrey Bogart stava dicendo: «L’hai suonata per lei, puoi suonarla per me. Se va bene per lei, va bene anche per me.»

Dooley Wilson evitò lo sguardo di Bogart. «Non ricordo le parole.»

Bogart, a denti stretti: «Suonala!»

Wilson rivolse gli occhi al soffitto e cominciò a suonare As Time Goes By, mentre le sue dita volavano sulla tastiera.

«Ora» disse Lloyd, seduto davanti allo schermo, «solo perché questa inquadratura è quella che state attualmente vedendo» — e quando disse ‘questa’ l’immagine si bloccò su Dooley Wilson — «non significa che quest’altra inquadratura sia meno fissa o reale.».

Improvvisamente l’immagine cambiò. Un aereo che scompariva nella nebbia. Un azzimato Claude Rains guardava Bogart. «Potrebbe essere una buona idea, se sparissi da Casablanca per un po’» disse. «A Brazzaville c’è una guarnigione della Francia libera. Potrei trovarmi costretto a procurarti un passaggio.»

Bogey sorrise appena. «Il mio visto di transito? Potrei sempre prendermi una vacanza. Ma non fa nessuna differenza, quanto alla nostra scommessa. Mi devi sempre diecimila franchi.»

Rains inarcò le ciglia. «E diecimila franchi dovrebbero pagare le nostre spese.»

«Le nostre spese?» chiese Bogey, sorpreso.

Rains annuì. «Ah-ah.»

Lloyd guardò le loro schiene che si allontanavano nella notte. «Louis,» dice Bogart, con una voce fuori campo che Lloyd sapeva essere stata aggiunta in post-produzione, «questo potrebbe essere l’inizio di una splendida amicizia.»

«Vede?» disse Lloyd, tornando a fissare la telecamera, e Shaw. «Lei può benissimo vedere Sam che suona As Time Goes By per Rick, ma il finale è già fissato. La prima volta che vede Casablanca, lei se ne sta seduto in punta di poltrona domandandosi se Ilsa andrà con Victor Laszlo o se invece resterà con Rick Blaine. Ma la risposta è sempre stata, e sempre sarà, la stessa: in questo mondo impazzito i problemi di due persone insignificanti non contano un fico secco.»

«Lei sta dicendo che il futuro è immutabile come il passato?» chiese Shaw, apparendo più perplesso di quanto fosse di solito.

«Esattamente.»

«Ma, dottor Simcoe, con tutto il dovuto rispetto, questo sembra non avere senso. Voglio dire, e il libero arbitrio?»

Lloyd incrociò le braccia sul petto. «Non esiste una cosa come il libero arbitrio.»

«Ma certo che esiste» ribatté Shaw.

Lloyd sorrise. «Sapevo che lo avrebbe detto. 0, più precisamente, chiunque guardi i nostri cubi di Minkowski dall’esterno sapeva che lo avrebbe detto… perché era già scolpito nella pietra.»

«Ma come può essere? Noi prendiamo un milione di decisioni al giorno; ognuna di esse modella il nostro futuro.» «Lei ha preso un milione di decisioni ieri, ma esse sono immutabili… non c’è modo di cambiarle, per quanto possiamo pentirci di alcune di esse. E prenderà un milione di decisioni domani. Non c’è nessuna differenza. Lei crede di avere il libero arbitrio, ma non ce l’ha.»

«Allora, vediamo se ho capito bene, dottor Simcoe. Lei contesta che le visioni siano solo uno dei possibili futuri. Sono invece del futuro… l’unico che esiste.»

«Assolutamente. Noi viviamo realmente in un universo che è come il cubo di Minkowski e il concetto di ‘adesso’ è davvero un’illusione. Il futuro, il presente e il passato sono ugualmente reali e ugualmente immutabili.»


«Dottor Simcoe?»

13

Era pomeriggio tardi; Lloyd aveva finalmente concluso l’ultima intervista della giornata, e anche se aveva una pila di rapporti da leggere prima di andare a dormire, in quel momento stava percorrendo una delle grigie stradine di St. Genis. Era diretto verso un forno e un negozio di formaggi, per acquistare del pane e una porzione di Appenzeller, la sua colazione dell’indomani.

Un uomo massiccio sui trentacinque anni gli si avvicinò. Portava gli occhiali — cosa ragionevolmente insolita nel mondo evoluto in cui la correzione tramite laser era stata così perfezionata — e un maglione blu scuro. Aveva i capelli tagliati abbastanza corti, come quelli di Lloyd.

Lloyd avvertì una fitta di panico. Probabilmente era sconsiderato stare da solo in pubblico dopo che il mondo aveva visto la sua faccia alla TV. Guardò a destra e a sinistra, valutando eventuali vie di fuga. Non ce n’erano. «Sì?» disse, esitante.

«Il dottor Lloyd Simcoe?» L’uomo parlava inglese, ma con un accento francese.

Lloyd deglutì. «Sono io.» L’indomani avrebbe dovuto parlare con Béranger perché gli fornisse una scorta.

All’improvviso la mano dell’uomo trovò quella di Simcoe e cominciò a stringergliela calorosamente. «Dottor Simcoe, io voglio ringraziarla!» L’uomo alzò la mano sinistra, come per prevenire un’obiezione. «Sì, sì, lo so, lei non aveva intenzione di provocare ciò che è successo, e so che molta gente ha sofferto per questo. Ma devo dirglielo, quella visione è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Ha cambiato del tutto la mia vita.»

«Ah» fece Lloyd, ritirando la mano. «Mi fa piacere.» «Sì, signore, prima di quella visione io ero un uomo diverso. Non ho mai creduto in Dio… mai, nemmeno da bambino. Ma nella mia visione io mi trovavo in una chiesa, e pregavo insieme a un’intera congregazione di persone.» «La preghiera del mercoledì sera?» «È proprio ciò che ho detto, dottor Simcoe! Voglio dire, non nel momento in cui avevo la visione, ma più tardi, dopo che hanno annunciato sui notiziari a quale periodo si riferivano le visioni. La preghiera del mercoledì sera! Io! Io, fra tanta gente! Be’, non potevo negare che stava accadendo, che in qualche momento fra adesso e allora io avrei trovato la mia strada. Così ho preso una Bibbia… sono andato in una libreria e ne ho comprata una. Non avrei mai pensato che ce ne fossero così tante edizioni! E tante traduzioni diverse! Comunque ne ho scelta una di quelle che avevano le vere parole di Gesù stampate in rosso e ho cominciato a leggerla. Mi sono detto, ma sì, tanto prima o poi dovrò farlo, tanto vale vedere di che si tratta. E ho continuato a leggere… ho letto anche tutte quelle discendenze, tutti quegli splendidi nomi, così musicali: Obadia. Gebedia… che nomi straordinari! Oh, certo, dottor Simcoe, se non avessi avuto la visione, dopo ventuno anni avrei trovato comunque la strada, ma lei mi ha consentito di trovarla adesso, nel 2009. Non mi sono mai sentito così in pace, così amato. Lei mi ha fatto davvero un grande favore.»

Lloyd non seppe che cosa dire. «Grazie.» «No, signore… grazie a lei!» E tornò a stringergli vigorosamente la mano, poi proseguì rapidamente per la sua via.


Lloyd tornò a casa verso le nove di sera. Gli mancava molto Michiko e pensò di telefonarle, ma a Tokyo erano le cinque di mattina… troppo presto per chiamare. Ripose il pane e il formaggio e si sedette per guardare un po’ di televisione, per rilassarsi qualche minuto prima di esaminare la pila di rapporti.

Scorse i canali finché fu attratto da qualcosa su un notiziario della TV svizzera: una discussione sul Cronolampo. La conduttrice era in collegamento via satellite con gli Stati Uniti. Lloyd riconobbe l’uomo intervistato dalla grande criniera di capelli bruno rossicci: l’Incredibile Alexander, maestro di illusionismo e detrattore dei supposti poteri psichici. Lloyd lo aveva visto diverse volte in televisione, anche nel suo Tonight Show. Si chiamava Raymond Alexander ed era professore alla Duke.

L’intervista aveva evidentemente subito qualche aggiunta in fase di post-produzione: la giornalista parlava in francese, ma Alexander rispondeva in inglese, e la voce dell’interprete si sovrapponeva alla sua, fornendo la versione francese di ciò che stava dicendo l’americano. Le vere parole di Alexander si sentivano appena in sottofondo.

«Lei avrà certamente sentito» disse l’intervistatrice «l’affermazione di quel tipo del CERN secondo cui le visioni mostrano il solo e unico vero futuro.»

Lloyd si drizzò a sedere.

«Oui,» disse la voce del traduttore. «Ma questo è palesemente assurdo. Si può facilmente dimostrare che il futuro è malleabile.» Alexander si agitò sulla sedia. «Nella mia visione mi trovavo a casa mia. E sulla scrivania, allora come adesso, c’era questo.» Nello studio, di fronte a lui, c’era un tavolo. Alexander allungò la mano e prese un fermacarte. La telecamera zumò sull’oggetto: era un blocco di malachite con sopra un piccolo triceratopo d’oro.

«Ora, questo sarà anche pacchiano,» disse Alexander «ma io sono piuttosto affezionato a questo piccolo fermacarte; è il ricordo di un bellissimo viaggio al Dinosaur National Monument. Però non sono affezionato a lui come lo sono alla razionalità.»

Allungò la mano sotto il tavolo e prese un pezzo di tela ruvida, poi vi sistemò sopra il fermacarte. Quindi prese un martello da sotto il tavolo e, sempre sotto l’occhio della telecamera, ridusse in pezzi il fermacarte, frantumando la malachite e trasformando il piccolo dinosauro — che non poteva essere di metallo solido — in un blocco dalla forma irriconoscibile.

Alexander sorrise con aria di trionfo alla telecamera: una volta ancora prevaleva la ragione. «Questo fermacarte si trovava nella mia visione; questo fermacarte non esiste più. Perciò, qualsiasi cosa mostrasse quella visione, non si tratta certamente dell’immagine di un futuro immutabile.»

«Naturalmente» obiettò l’intervistatrice «noi abbiamo solo la sua parola che il fermacarte facesse parte della sua visione.»

Alexander sembrò infastidito e irritato che qualcuno mettesse in dubbio la sua onestà. Poi annuì. «Lei ha ragione a essere scettica… il mondo sarebbe migliore se fossimo tutti un po’ meno creduloni. Il fatto è che chiunque di noi può fare questo esperimento. Se nella vostra visione avete visto un mobile che possedete attualmente, distruggetelo, oppure vendetelo. Se nella visione appare la vostra mano, fatevi un tatuaggio. Se qualcuno vi ha visto, e ha notato che avevate la barba, sottoponetevi a elettrolisi facciale in modo che non possa più ricrescervi.»

«Elettrolisi facciale!» esclamò la conduttrice. «Mi sembra una misura piuttosto estrema.»

«Se la vostra visione vi ha turbato, e volete essere sicuri che non si avvererà, questo può essere un modo per farlo. Naturalmente il sistema più efficace per confutare le visioni su larga scala sarebbe trovare un elemento di riferimento che abbiano visto migliaia di persone — diciamo la Statua della Libertà — e abbatterlo. Ma non credo che le autorità del parco siano disposte a farlo.»

Lloyd si appoggiò allo schienale del divano. Che mucchio di stronzate. Nessuna delle proposte che Alexander aveva avanzato costituiva una prova attendibile… e poi si trattava solo di cose soggettive; dipendevano da come ogni individuo ricordava la propria visione. Insomma, proprio un bel modo di apparire in televisione… non solo per Alexander, ma per chiunque volesse farsi intervistare. Solo per affermare di avere confutato l’immutabilità del futuro.

Lloyd guardò l’orologio appoggiato su uno degli scaffali fissati alle pareti rosso scuro dell’appartamento. Erano le nove e mezza di sera, ovvero l’una e mezza del pomeriggio sul confine tra Utah e Colorado, dove si trovava il Dinosaur National Monument. Rifletté per qualche minuto, poi sollevò il telefono, parlò con un operatore del servizio informazioni e alla fine si mise in contatto con una donna che lavorava nel negozio di souvenir del parco.

«Salve» disse. «Sto cercando un oggetto particolare… un fermacarte di malachite.»

«Malachite?»

«È un minerale verde… sa, una pietra ornamentale.»

«Oh, sì, certo. Quelli che abbiamo hanno sopra dei piccoli dinosauri. Ce n’è uno con il T-Rex, uno con lo Stegosauro, e uno con il Triceratopo.»

«Quanto costa quello con il Triceratopo?»

«Quattordici e novantacinque.»

«Fate spedizioni per posta?»

«Certo.»

«Vorrei comprarne uno e spedirlo…» Si fermò a riflettere: dove diavolo era Duke? «In North Carolina.»

«D’accordo. Qual è l’indirizzo completo?»

«Non ne sono sicuro. Mettete solo ‘professor Raymond Alexander, Università di Duke, Durham, North Carolina’. Credo che sarà sufficiente.»

«Servizio postale degli Stati Uniti?»

«Va bene.»

Suono di tasti. «La spedizione è otto e ottantacinque. Come desidera pagare?»

«Con la mia Visa.»

«Il numero, prego?»

Lloyd estrasse il portafogli e le comunicò il codice numerico, fornendo anche la data di scadenza e il proprio nome. Poi riattaccò, tornò a sedersi sul divano e incrociò le braccia, sentendosi soddisfatto.


Egregio dottor Simcoe,

mi perdoni se la disturbo con un’email non richiesta; spero che passi attraverso il suo filtro per la pubblicità indesiderata. So che lei, da quando è apparso in TV, deve essere inondato di lettere, ma io non ho potuto fare a meno di scrivere per farle conoscere l’impatto che la mia visione ha avuto su di me.

Ho diciotto anni, e sono incinta. Non di molto, sono appena di due mesi circa. Ancora non l’ho detto al mio ragazzo, o ai miei genitori. Ho pensato che essere incinta sia la cosa peggiore che mi potesse capitare; frequento ancora il liceo, e il mio ragazzo si iscriverà in autunno all’università. Viviamo entrambi con i genitori e non abbiamo soldi. Non è proprio il caso di mettere al mondo un figlio, mi sono detta, e così stavo pensando a un aborto. Avevo già preso appuntamento. Poi ho avuto la mia visione… ed è stata incredibile! C’ero io, e Brad (il mio ragazzo), e nostra figlia, e stavamo tutti insieme in una bella casa, ventuno anni più avanti nel tempo. Mia figlia era ormai grande — un po’ più grande di me adesso — ed era bellissima, ci raccontava che a scuola aveva conosciuto un ragazzo, e ci chiedeva se una sera poteva andare a cena fuori con lui; e sapeva che noi gli volevamo bene, e noi dicevamo certo che puoi, perché era nostra figlia e per lei era importante e… Be’, la sto riempiendo di chiacchiere. Il punto è che la mia visione mi ha mostrato che le cose sarebbero andate bene. Ho disdetto l’appuntamento, e Brad e io stiamo cercando un appartamentino per vivere insieme e poi, con mia grande sorpresa, i miei genitori non l’hanno presa male, e addirittura ci daranno un piccolo aiuto economico. So che molte persone le diranno che le visioni gli hanno rovinato l’esistenza. Io volevo solo farle sapere che a me l’hanno enormemente migliorata, e che in effetti hanno salvato la vita di della bambina che porto in grembo.

La ringrazio… per tutto.

Jean Alcott


Dottor Simcoe,

si sente parlare in televisione di persone che hanno avuto visioni affascinanti. Io no. La mia visione mi ha mostrato nella stessa casa in cui vivo oggi. Ero solo, cosa non insolita; i miei figli sono grandi e mia moglie ha spesso da fare con il suo lavoro. Per dire la verità, anche se un paio di cose sembravano diverse — qualche spostamento nei mobili, un quadro nuovo alla parete — non c’era nulla da cui si potesse veramente dedurre che quello era il futuro. E vuole sapere una cosa? Mi è piaciuto. Sono un uomo felice; ho vissuto una vita serena. Il fatto di sapere che posso ancora contare su altri vent’anni della stessa, identica vita è un pensiero molto rilassante. Tutta questa faccenda delle visioni, a quanto pare, ha sconvolto la vita di molti… ma non la mia. Volevo solo farglielo sapere.

Cordiali saluti

Tony DiCiccio


Messaggi giunti al sito Web ‘Progetto Mosaico’.


Brooklyn, New York: e va bene, nel mio sogno c’era questa bandiera americana, giusto? E aveva, mi sembra, 52 stel e: una fla di 7, poi una fla di 6, poi 7, poi sei, e via dicendo, per un totale di 52. Immagino che la cinquantunesima stella, quella debba essere Portorico, giusto? Ma sto impazzendo per capire quale possa essere la cinquantaduesima. Se lo sapete, per favore mandate un’email a…


Edmonton, Alberta: non sono intel igente. Ho la sindrome di Down, ma sono una brava persona. Nel a mia visione io parlavo e usavo parole diffcili, perciò devo essere diventato intel igente. Voglio essere di nuovo intel igente.


Indianapolis, Indiana: per favore, piantatela di mandarmi email dicendomi che nel 2030 sarò il presidente degli Stati Uniti; mi stanno intasando la casel a postale. Lo so che sarò presidente, e quando andrò al potere farò mandare dei control i fscali a tutti quel i che mi diranno ancora…


Islamabad, Pakistan (autotradotto dall’originale arabo): Nel a mia visione ho due braccia. . ma oggi ne ho solo una (sono un veterano del confitto indo-pakistano). Non ho avuto l’impressione che si trattasse di una protesi. Sarei interessato a saperne di più da chiunque abbia informazioni sugli arti artifciali, o magari sulla rigenerazione degli arti da qui a ventuno anni nel futuro.


Changtzou, Cina (autotradotto dall’originale mandarino): Sembra che fra ventuno anni sarò morto, cosa che non mi sorprende, visto che sono già abbastanza vecchio. Ma mi piacerebbe avere notizie su ciò che succederà ai miei fgli, nipoti e pronipoti. Si chiamano…


Buenos Aires, Argentina: quasi tutti coloro con cui ho parlato erano in vacanza o comunque non lavoravano, durante il Cronolampo. Be’, in America del Sud il terzo mercoledì di ottobre non è festa da nessuna parte, almeno da quanto mi risulta, perciò sto pensando che forse la settimana lavorativa è di quattro giorni, con il mercoledì festivo. Quanto a me, preferirei un fne settimana di tre giorni. Qualcuno sa qualcosa di preciso?


Auckland, Nuova Zelanda: conosco quattro dei numeri vincenti dell’estrazione del Super Eight neozelandese del 19 ottobre 2030; nella mia visione stavo incassando il premio di 200 dollari per avere indovinato quattro numeri. Se qualcuno conosce gli altri numeri vincenti del a stessa lotteria, sarei disposto a dividere con lui le mie informazioni.


Ginevra, Svizzera (inviato in quattro lingue): chiunque abbia informazioni sull’omicidio di Theodosios (Theo) Procopides, mi contatti al…

14

Sesto giorno: domenica 26 aprile 2009

Lloyd e Theo stavano pranzando insieme nella grande sala mensa del centro di controllo dell’LHC. Intorno a loro altri fisici discutevano teorie e interpretazioni per spiegare il Cronolampo: nell’ultima ora era naufragata la pista promettente di una presunta disfunzione di uno dei magneti quadripolari. Si era appena scoperto che il magnete funzionava benissimo; era l’apparecchio di verifica che non andava.

Lloyd aveva preso un’insalata, Theo un kebab che si era preparato da solo la sera prima e che aveva fatto riscaldare nel forno a microonde. «Pare che la gente sia in grado di affrontare le cose meglio di quanto avrei creduto» disse Lloyd. Le finestre davano sul cortile del nucleo, dove i fiori primaverili erano in germoglio. «Tutti quei lutti, tutta quella distruzione… ma la gente se la sta spolverando di dosso, torna a lavorare, e riprende a vivere la propria vita.»

Theo annuì. «Stamattina ho sentito un tizio alla radio. Sosteneva che alla fine ci sono state molte meno chiamate al servizio di consulenza di quante se ne attendessero. In effetti pare che un gran numero di persone, dopo il Cronolampo, abbia disdetto gli appuntamenti per le sessioni di terapia.»

Lloyd sollevò le palpebre. «Perché?»

«Ha detto che era dovuto alla catarsi.» Theo sorrise. «Te lo dico io, il buon vecchio Aristotele sapeva esattamente di cosa stava parlando: offri alla gente l’occasione di purificare le sue emozioni, e la gente ne uscirà più sana di prima. Tante persone hanno perso qualcuno che amavano durante il Cronolampo: lo sfogo di dolore è stato vivificante, dal punto di vista psicologico. Il tizio alla radio affermava che qualcosa di simile è avvenuto una dozzina di anni fa quando morì la principessa Diana: per diversi mesi dopo l’evento ci fu una grossa diminuzione a livello mondiale del ricorso ai terapisti. Naturalmente la maggiore catarsi fu in Inghilterra, ma quando Lady D fu uccisa, addirittura il ventisette per cento degli americani si sentì come se avesse perduto qualcuno che conosceva di persona.» Una pausa.

«Naturalmente non è facile superare la morte di una moglie o di un figlio, ma uno zio? Un lontano cugino? Un attore che ti piaceva? Uno dei tuoi colleghi di lavoro? È una grossa liberazione.»

«Ma se ci passano tutti prima o poi…»

«Era proprio questo il punto» disse Theo. «Vedi, normalmente, se tu perdi qualcuno in un incidente, vai in pezzi, e la cosa dura per mesi o per anni… e tutti quelli che ti stanno intorno non fanno altro che rafforzare il tuo diritto a essere triste. ‘Devi avere pazienza’ ti dicono. Ognuno ti fornisce un sostegno emotivo. Ma se anche tutti gli altri devono fare i conti con una perdita, non c’è più quell’effetto stampella; non c’è più nessuno che ti dice parole di conforto. Non hai altra scelta se non afferrarti a qualcosa e tornare al lavoro. È come coloro che sopravvivono a una guerra: ogni guerra è molto più devastante, nel suo complesso, di qualsiasi tragedia individuale, ma quando una guerra è finita quasi tutti riprendono la loro vita. Tutti hanno sofferto la stessa cosa; bisogna solo mettere una linea di demarcazione, dimenticare tutto e andare avanti. Sembra che la stessa cosa stia accadendo adesso.»

«Io non credo che Michiko potrà mai superare la perdita di Tamiko.» Michiko sarebbe tornata dal Giappone quella sera.

«No, no, certo che no. Non nel senso che smetterà di soffrirne. Ma andrà avanti con la sua vita; che altro potrebbe fare? Non c’è proprio alternativa.»

In quel momento Franco Della Robbia, un fisico barbuto di mezza età, comparve al loro tavolo, tenendo in mano un vassoio. «Vi dispiace se mi unisco a voi?»

Lloyd alzò gli occhi. «Ciao, Franco. Ma figurati.» Theo spostò la sua sedia sulla destra e Della Robbia si mise a sedere.

«Ti sbagliavi su Minkowski, lo sai» disse Franco guardando Lloyd. «Le visioni non possono essere quelle di un futuro reale.»

Lloyd prese una forchettata di insalata. «Perché no?» «Be’, ascoltami; partiamo dalla tua premessa. Fra ventuno anni io avrò una connessione fra il mio io del futuro e il mio io del passato. Cioè, il mio io del passato vedrà esattamente quello che il mio io del futuro starà facendo. Ora, il mio io del futuro può non avere alcuna indicazione manifesta che ha avuto luogo la connessione, ma questo non importa; io saprò al secondo quando la connessione inizierà e finirà. Non so che cosa ti abbia mostrato la tua visione, Lloyd, ma la mia mi vedeva in quella che immagino essere Sorrento, seduto su un balcone a contemplare la baia di Napoli. Tutto molto bello, molto gradevole… ma non quello che avrei fatto il 23 ottobre del 2030, se avessi saputo di essere in contatto con il mio io del passato. Al contrario, in qualche modo avrei assolutamente evitato qualsiasi cosa che potesse distogliere l’attenzione del mio io del passato… una stanza vuota, diciamo, o semplicemente fissare una parete nuda. E precisamente alle 19 e 21 di quel giorno, ora di Greenwich, avrei cominciato a snocciolare a voce ben chiara i fatti che secondo me il mio io del passato doveva conoscere: ‘L’undici marzo del 2012 sta’ attento quando attraversi via Colombo, altrimenti inciampi e ti rompi una gamba’; ‘nel tuo tempo le azioni della Bertelmann pagano quarantadue euro per ogni quota, ma nel 2030 pagheranno seicentonovanta euro, perciò compratene un bel po’, così ti fai una bella pensione’; ‘questi sono i vincitori della Coppa del mondo di tutti gli anni che ti dividono dal mio tempo’. Roba del genere. Avrei annotato tutto su un pezzo di carta e mi sarei limitato a leggerglielo, imbottendolo quanto più possibile di informazioni utili in quella finestra di un minuto e quarantatrè secondi.» Il fisico italiano fece una pausa. «Il fatto che nessuno abbia riferito una visione nella quale faceva qualcosa di simile significa che quello che abbiamo visto non può essere il vero futuro della linea temporale nella quale ci troviamo attualmente.»

Lloyd aggrottò la fronte. «Forse qualcuno lo ha fatto. Davvero, si conosce solo una minima percentuale dei miliardi di visioni che devono essersi verificate. Se io avessi avuto intenzione di fornire a me stesso delle informazioni di borsa, e se non avessi saputo che il futuro è immutabile, la prima cosa che gli avrei detto sarebbe stata: ‘Non parlare con nessuno di tutto questo’. Magari quelli che hanno fatto ciò che tu proponi si limitano a starsene zitti.»

«Se le visioni le avessero avute una decina di persone,» obiettò Della Robbia «potrebbe essere possibile. Ma miliardi? Qualcuno avrebbe dovuto ammettere che si era comportato così. In realtà io sono convinto che quasi tutti tenterebbero di comunicare con il proprio io del passato.»

Lloyd guardò Theo, poi di nuovo Della Robbia. «Non se sapessero che è inutile; non se sapessero che niente di ciò che dicono può cambiare cose già scritte nella pietra.»

«0 magari se ne sono dimenticati tutti» intervenne Theo. «Forse, da qui al 2030, il ricordo delle visioni svanirà. Il ricordo dei sogni svanisce, dopotutto. Ne puoi ricordare uno al risveglio, ma qualche ora dopo è scomparso del tutto. Forse le visioni si cancelleranno nel corso dei prossimi ventuno anni.»

Della Robbia scosse enfaticamente la testa. «Anche se fosse così — e non c’è la minima ragione di crederlo — tutti i media che hanno riferito delle visioni sopravviveranno fino al 2030. Tutti i notiziari, tutti i servizi televisivi, tutte le cose che la gente ha scritto nei suoi diari o in lettere agli amici. La psicologia non è il mio campo, e non mi metterò a discutere sulla natura fallibile del ricordo. Ma la gente saprà quello che succederà il 23 ottobre 2030, e molti tenteranno di comunicare con il passato.»

«Aspettate un attimo» disse Theo. Aveva spalancato gli occhi. «Aspettate un minuto!» Lloyd e Della Robbia si girarono a guardarlo. «Ma non capite? È la legge di Niven.»

«Che cos’è?» chiese Lloyd.

«Chi è Niven?» domandò Della Robbia.

«Uno scrittore americano di fantascienza. Ha affermato che in ogni universo nel quale sia possibile viaggiare nel tempo non verrà mai inventata la macchina del tempo. Ne ha ricavato addirittura un racconto: uno scienziato sta costruendo una macchina del tempo e appena la completa guarda in alto e vede che il sole si sta trasformando in nova… l’universo preferisce eliminarlo piuttosto che consentire i paradossi connessi al viaggio nel tempo.»

«E con questo?» disse Lloyd.

«Con questo, comunicare con il se stesso del passato è una forma di viaggio nel tempo… significa trasferire delle informazioni nel passato. E per coloro che hanno tentato di farlo, l’universo potrebbe bloccare il tentativo… niente di così grandioso come fare esplodere il sole, ma semplicemente evitare che la comunicazione divenga operativa.» Spostò lo sguardo da Lloyd a Della Robbia, poi di nuovo a Lloyd. «Ma non capite? Dev’essere stato questo, che cercavo di fare nel 2030… tentavo di comunicare con il me stesso del passato e così, al contrario, ho finito per non avere nessuna visione.»

Lloyd si sforzò di dare alla sua voce il tono più gentile che gli riuscì. «Direi che ci sono fin troppe prove evidenti nelle visioni degli altri che tu sei davvero morto nel 2030.»

Theo aprì la bocca, come per protestare, poi la richiuse. Un attimo dopo parlò. «Hai ragione. Hai ragione, scusa.»

Lloyd annuì; fino a quel momento non si era reso conto di quanto tutto ciò dovesse essere duro da sopportare per Theo. Si voltò e guardò Della Robbia. «Insomma, Franco, se le visioni non si riferiscono al nostro futuro, allora a che cosa si riferiscono?»

«A una linea temporale alternativa, naturalmente. La cosa è del tutto ragionevole, data la IMM.» L’interpretazione dei molti mondi della fisica dei quanti sostiene che, quando un evento può andare in due direzioni, queste, invece di restare in alternativa l’una all’altra si verificano entrambe, ciascuna in un universo separato. «Nello specifico. le visioni ritraggono l’universo che si è scisso da questo universo nell’istante del tuo esperimento con l’LHC; esse mostrano il futuro com’è in un universo nel quale il dislocamento spaziotemporale non si è verificato.»

Lloyd scosse la testa. «Non crederai ancora all’lMM, no? La IT la demolisce.»

Un argomento standard a favore dell’interpretazione dei molti mondi è l’ipotetico esperimento del gatto di Schròdinger: metti un gatto in una scatola sigillata con una fiala di veleno che ha cinquanta probabilità su cento di essere aperta in un periodo di un’ora. Al termine dell’ora apri la scatola e guardi se il gatto è ancora vivo. Secondo l’interpretazione di Copenaghen — la versione standard della meccanica quantistica — finché qualcuno non guarda dentro, ipoteticamente il gatto non è né vivo né morto, ma piuttosto in una sovrapposizione dei due possibili stati; l’atto di guardare — di osservare — fa collassare la funzione d’onda, costringendo il gatto a trasformarsi in una delle due possibili alternative. A parte questo, visto che l’osservazione può risolversi in due modi, ciò che i sostenitori dell’lMM sostengono avvenire veramente è che l’universo si scinde nel punto in cui viene fatta l’osservazione. Un universo continua con un gatto morto, l’altro con un gatto vivo.

John G. Cramer, un fisico che aveva lavorato spesso al CERN, ma che normalmente operava a Seattle, presso l’università dello stato di Washington, aveva contestato l’enfasi posta dall’interpretazione di Copenaghen sull’osservatore. Negli anni ottanta propose una spiegazione alternativa: l’IT, l’interpretazione transazionale. Nel corso degli anni novanta e successivi l’IT è diventata sempre più popolare tra i fisici.

Prendiamo in considerazione lo sfortunato gatto di Schròdinger nel momento in cui viene rinchiuso nella scatola, e l’occhio dell’osservatore nel momento in cui, un’ora dopo, osserva il gatto. Nell’IT il gatto emette una vera, tangibile onda di ‘offerta’, che viaggia avanti nel futuro e poi torna indietro nel passato. Quando l’onda di offerta raggiunge l’occhio, l’occhio emette un’onda di ‘conferma’, che viaggia indietro nel passato e avanti nel futuro. L’onda di offerta e quella di conferma si cancellano reciprocamente in ogni parte dell’universo, con esclusione della linea diretta fra il gatto e l’occhio, laddove si rinforzano l’un l’altra, producendo una transazione. Poiché il gatto e l’occhio hanno comunicato attraverso il tempo, non c’è ambiguità, e nessun bisogno di far collassare i fronti d’onda: il gatto esiste all’interno della scatola esattamente come verrà alla fine osservato. E non c’è nemmeno alcuna scissione dell’universo in due; poiché la transazione copre l’intero periodo di rilevanza, non c’è nessuna necessità di ramificazione: l’occhio vede il gatto in entrambi i modi, sia vivo che morto.

«A te può piacere l’IT» osservò Della Robbia. «Demolisce il libero arbitrio. Ogni fotone emesso sa ciò che alla fine lo assorbirà.»

«Certo,» disse Lloyd «ammetto che l’IT rinforza il concetto dell’universo come blocco… ma è la tua interpretazione dei molti mondi che demolisce sul serio il libero arbitrio.»

«Ma coma fai a dire una cosa del genere?» ribatté Della Robbia, con un’espressiva esasperazione tutta italiana…

«Non esiste gerarchia fra i molti mondi» rispose Lloyd. «Diciamo che sto camminando e arrivo a una biforcazione della strada. Posso andare a sinistra o a destra. Quale via scelgo?»

«Quella che ti pare!» replicò esultante Della Robbia. «Libero arbitrio!»

«Sciocchezze» disse Lloyd. «In base all’lMM, io scelgo quella che l’altra versione di me non ha scelto. Se lui va a destra, io devo andare a sinistra; se io vado a destra, lui deve andare a sinistra. E solo l’arroganza può far pensare a qualcuno che in questo universo è sempre la mia scelta a essere presa in considerazione, mentre l’altra è semplicemente l’alternativa che si deve esprimere in un altro universo. L’interpretazione dei molti mondi dà l’illusione della scelta, ma in realtà è del tutto deterministica.»

Della Robbia si girò verso Theo, allargando le braccia in un appello al buon senso. «Ma l’IT dipende dalle onde che viaggiano indietro nel tempo!»

La voce di Theo era gentile. «Io credo che abbiamo già abbondantemente dimostrato la realtà dell’informazione che viaggia indietro nel tempo, Franco» disse. «Inoltre, quello che Cramer ha detto veramente è che la transazione si verifica in modo atemporale… al di fuori del tempo.»

«E poi» aggiunse Lloyd, calcando sull’acceleratore, adesso che aveva un alleato, «la tua versione di ciò che è successo è quella che richiede il viaggio nel tempo.»

Della Robbia sembrò sconcertato. «Che cosa? Come? Le visioni rappresentano semplicemente un universo parallelo.»

«Qualsiasi universo parallelo dell’IMM che possa esistere si muoverebbe certamente in conformità con il nostro: se si potesse guardare in un universo parallelo si vedrebbe che oggi è sempre il 26 aprile 2009; per la verità, l’intero concetto di calcolo dei quanti dipende dal fatto che gli universi paralleli si trovino precisamente allineati con il nostro. Perciò, sì, se tu potessi guardare in un universo parallelo, potresti vedere un mondo in cui ti sei messo a sedere vicino a Michael Burr, invece che vicino a me e Theo, ma sarebbe sempre l’adesso. L’idea che tu suggerisci è quella di aggiungere un contatto con gli universi paralleli, oltre al vedere nel futuro: è già abbastanza difficile accettare una di queste idee senza dovere accettare anche l’altra, e…»

Jake Horowitz apparve al loro tavolo. «Scusate l’interruzione,» disse «ma c’è una chiamata per lei, Theo. Dice che riguarda il suo messaggio nel sito Mosaico.»

Theo si allontanò di corsa dal tavolo, abbandonando il kebab mezzo mangiato. «Linea tre» gli disse Jacob, seguendolo. C’era un ufficio vuoto proprio fuori dalla sala mensa; Theo vi si infilò. Il codice identificativo del telefono diceva semplicemente ‘chiamata da fuori distretto’. Theo prese la cornetta.

«Pronto» disse. «Sono Theo Procopides.»

«Mio Dio» rispose la voce maschile, in inglese, all’altra estremità della linea. «È strano… parlare con qualcuno che sai che morirà.»

Theo non aveva risposte da dare, perciò si limitò a dire: «Ha qualche informazione sul mio omicidio?»

«Già, immagino di sì. Nella mia visione leggevo qualcosa in proposito.»

«Che diceva?»

L’uomo gli fece il riassunto di ciò che aveva letto. Non vennero fuori fatti nuovi.

«Parlava dei superstiti?» chiese Theo.

«Che cosa vuole dire? Non è stato un disastro aereo.»

«No, no, no. Intendevo, diceva niente di chi mi è sopravvissuto? Capisce, se avevo una moglie o dei figli.»

«Oh, certo. Vediamo se riesco a ricordare…»

Vediamo se riesco a ricordare. Il suo futuro era tutto affidato al caso; nessuno se ne preoccupava veramente. Non era importante, non era reale. Solo un tizio di cui si era letto qualcosa sul giornale.

«Già» disse la voce. «Già, lei lascerà una moglie e un figlio.»

«Sul giornale c’erano scritti i loro nomi?»

L’interlocutore sbuffò aria nella cornetta mentre pensava. «Il figlio si chiamava… Constantin, mi pare.»

Constantin. Il nome di suo padre; sì, Theo aveva sempre pensato che avrebbe potuto chiamare così un figlio.

«E la madre del ragazzo? Mia moglie?»

«Mi dispiace. Non me lo ricordo.»

«Si sforzi, la prego.»

«No, mi dispiace. Proprio non me lo ricordo.»

«Potrebbe sottoporsi a una seduta di ipnosi…»

«È matto? Non ho nessuna intenzione di farlo. Senta, io le ho telefonato per aiutarla; ho immaginato che le avrei fatto un favore, mi capisce? Ho solo pensato che sarebbe stata una cosa bella da fare. Ma non voglio farmi ipnotizzare, o imbottire di droghe, o roba del genere.»

«Ma mia moglie… la mia vedova… ho bisogno di sapere chi è.»

«Perché? Io non so con chi sarò sposato fra ventuno anni; perché a lei dovrebbe interessare?»

«Potrebbe costituire un elemento che mi può condurre al mio assassino.»

«Be’, ecco… può darsi. Ma io ho fatto per lei tutto quello che potevo.»

«Ma lei lo ha visto il nome! Lei lo conosce!»

«Come le ho detto, non riesco a ricordarlo. Mi dispiace.»

«La prego… io sono disposto a pagarla.»

«Davvero amico, non me lo ricordo. Ma ascolti, se mi viene in mente mi rimetterò in contatto con lei… Per il momento è tutto quello che posso fare.»

Theo si costrinse a non insistere. Strinse le labbra, poi annuì solennemente. «D’accordo. Grazie. Grazie per il tempo che mi ha dedicato. Posso conoscere il suo nome, magari per il mio archivio?»

«Spiacente, amico. Come ho detto, se mi torna in mente qualcos’altro mi rifarò vivo io.»

Il telefono divenne muto.

15

Michiko tornò quella sera da Tokyo. Sembrava, se non rasserenata, almeno non più sul punto di andare in pezzi.

Lloyd, che aveva trascorso il pomeriggio eseguendo un’altra serie di simulazioni al computer, andò a prenderla all’aeroporto di Ginevra, percorse la dozzina di chilometri che lo separavano dal suo appartamento e poi…

E poi fecero l’amore, per la prima volta nei cinque giorni successivi al Cronolampo. Era quasi sera; le luci nella stanza erano spente, ma c’era un bel po’ di illuminazione che filtrava dall’esterno attraverso le persiane. Lloyd era sempre stato meno controllato di Michiko, anche se lei rispondeva in modo magnifico. Forse le sue inclinazioni erano state un po’ primitive, un po’ troppo occidentali, perché all’inizio Michiko potesse apprezzarle, ma col passare del tempo lei si era lasciata scaldare dai suoi stimoli, e Lloyd si era sempre premurato di essere un amante attento e partecipe. Ma quella sera fu una cosa frettolosa: la posizione del missionario, niente di più. Di solito, dopo avere fatto l’amore, le lenzuola erano sempre umide di sudore: quella sera, invece, rimasero quasi asciutte, e su un lato erano ancora appuntate.

Lloyd era sdraiato sulla schiena, e fissava il soffitto scuro. Michiko gli giaceva accanto, un braccio pallido appoggiato sul petto nudo e villoso di lui. Rimasero a lungo in silenzio, ognuno perso dietro i propri pensieri.

Fu poi Michiko a rompere il silenzio. «Ti ho visto alla CNN quando ero a Tokyo. Credi davvero che non abbiamo libero arbitrio?»

Lloyd ne rimase sorpreso. «Be’,» disse infine «noi crediamo di averlo, il che equivale alla stessa cosa, immagino. Ma l’inevitabilità è una costante in una quantità di sistemi di fede. Prendi l’Ultima Cena. Gesù disse a Pietro — Pietro, ricorda, la pietra sul quale sarebbe stata edificata la sua chiesa — Gesù disse a Pietro che lo avrebbe tradito per tre volte. Pietro protestò che una cosa del genere non sarebbe mai avvenuta, ma naturalmente accadde. E Giuda Iscariota — un personaggio tragico, ho sempre pensato — era destinato a denunciare Cristo alle autorità, che lo volesse o no. Il concetto di avere un ruolo da recitare, un destino da soddisfare, è molto più antico del concetto di libero arbitrio.» Una pausa. «Sì, io sono davvero convinto che il futuro sia immutabile quanto il passato; se non fosse immutabile, come potrebbe ognuno di noi avere visioni di un domani coerente? La visione di ciascuno non sarebbe forse diversa… o, per dirla meglio, non sarebbe impossibile per tutti avere una visione qualsiasi?»

Michiko aggrottò la fronte. «Non lo so. Non ne sono sicura. Voglio dire, che senso ha andare avanti se tutto è già deciso?»

«Che senso ha leggere un romanzo la cui fine è stata già scritta?»

Lei si morse il labbro inferiore.

«Il concetto dell’universo come blocco è l’unica cosa che ha senso in un universo relativistico» disse Lloyd. «Per dirla tutta, è soltanto relatività al massimo livello: la relatività sostiene che nessun punto nello spazio è più importante di un altro; non esiste una struttura fissa di relazione dalla quale misurare altre posizioni. Be’, l’universo come blocco dice che nessun tempo è più importante di un altro… l’’adesso’ è una totale, completa illusione, e se non esiste qualcosa come un adesso universale, se il futuro è già scritto, allora ovviamente il libero arbitrio è anch’esso un’illusione.»

«Io non ne sono sicura come te» disse Michiko. «Io ho la sensazione di avere il libero arbitrio.»

«Anche dopo questo fatto?» chiese Lloyd. La sua voce divenne un filo troppo stridula. «Anche dopo il Cronolampo?»

«Ci sono altre spiegazioni per una versione coerente del futuro» disse Michiko.

«Eh? Per esempio?»

«Per esempio che è solo uno dei possibili futuri, il primo lancio di dadi. Se il Cronolampo dovesse ripetersi, si potrebbe vedere uri futuro del tutto diverso.»

Lloyd scosse la testa, facendo frusciare i capelli contro il cuscino. «No» disse. «No, c’è un solo futuro. Nessun’altra interpretazione ha senso.»

«Ma vivere senza libero arbitrio…»

«È così che stanno le cose, giusto?» sbottò Lloyd. «Nessun libero arbitrio. Nessuna scelta.»

«Ma…»

«Niente ma.»

Michiko tacque. Il petto di Lloyd si alzava e si abbassava rapidamente, e senza dubbio lei poteva sentire il suo cuore che batteva. Seguì un lungo silenzio e poi, alla fine, Michiko disse: «Ah.»

Lloyd aggrottò le ciglia, anche se Michiko non poteva vedere la sua espressione. Ma doveva essersi resa conto in qualche modo che i muscoli facciali di lui si erano contratti.

«Ho capito» disse.

Lloyd ne fu irritato, e la sua voce non lo nascose. «Che cosa?»

«Ho capito perché tu sei così convinto dell’immutabilità del futuro. Perché pensi che non esista qualcosa come il libero arbitrio.»

«E perché la penserei così?»

«Per quello che è successo. Per tutte le persone che sono morte, e per quelle che sono rimaste ferite.» Si interruppe, come se si aspettasse che fosse lui a proseguire. Quando Lloyd non lo fece, lei riprese: «Se avessimo il libero arbitrio, tu dovresti biasimarti per ciò che è accaduto, dovresti assumertene la responsabilità. Ma se non lo abbiamo… se non lo abbiamo, allora non è colpa tua. Que sera est. Qualunque cosa sarà, lo è già adesso. Tu hai premuto il pulsante che ha dato il via all’esperimento perché sei sempre stato tu, e sempre sarai tu a premerlo; è congelato nel tempo come ogni altro momento.»

Lloyd non disse nulla. Non c’era niente da dire. Naturalmente Michiko aveva ragione. Sentì le proprie guance che si imporporavano.

Era davvero così meschino? Così disperato?

Non c’era nulla, in qualsiasi teoria della fisica, che avrebbe potuto prevedere il Cronolampo. Lui non era come un qualunque medico che non avesse tenuto conto di qualche effetto collaterale; qui non si trattava dell’imperizia di un fisico. Nessuno — nemmeno Newton, nemmeno Einstein, nemmeno Hawking — avrebbe potuto prevedere le conseguenze dell’esperimento con I’LHC.

Non aveva fatto niente di sbagliato.

Niente.

Eppure…

Eppure avrebbe dato qualsiasi cosa per cambiare ciò che era accaduto. Qualsiasi cosa.

E sapeva che se avesse ammesso, anche per un attimo, la possibilità che si sarebbe potuto cambiare quel qualcosa, che lui avrebbe potuto evitare tutti quegli incidenti stradali, e gli schianti degli aerei, e le operazioni chirurgiche tragicamente interrotte, e le cadute per le scale, che avrebbe potuto evitare la morte della piccola Tamiko, allora avrebbe trascorso il resto della sua vita travolto dal senso di colpa per quanto era successo. Minkowski lo assolveva da quella colpa.

E aveva bisogno di quella assoluzione. Ne aveva bisogno se voleva andare avanti, se voleva percorrere il suo sentiero luminoso attraverso il cubo senza essere torturato dal rimorso.


Coloro che preferivano credere che le visioni non rappresentavano il futuro reale avevano sperato che, considerate nell’insieme, esse sarebbero state prive di consistenza: che nella visione di uno, un democratico sarebbe stato presidente degli Stati Uniti, mentre nella visione di un altro alla Casa Bianca ci sarebbe stato un repubblicano. Il primo avrebbe visto macchine volanti dappertutto, il secondo avrebbe scoperto invece che il traffico privato era stato bandito in favore di quello pubblico. Il primo avrebbe magari scoperto che gli alieni avevano fatto visita alla terra, il secondo che l’uomo è davvero solo nell’universo.

Ma il progetto Mosaico di Michiko ebbe un successo enorme, con oltre centomila messaggi al giorno; i quali, combinati fra loro, contribuirono a formare un ritratto consistente, coerente e plausibile del 2030, ciascuno aggiungendo un tassello alla veduta d’insieme.

Nel 2017, all’età di novantuno anni, muore Elisabetta II, regina d’Inghilterra, Scozia, Irlanda del Nord, Canada, Bahamas e di innumerevoli altri luoghi. Charles, suo figlio, a quell’epoca sessantanovenne, è diventato mentalmente instabile e, non senza qualche stimolo da parte dei suoi consiglieri, sceglie di non salire al trono. William, il suo primogenito, e primo in linea della discendenza, sorprende il mondo abdicando al trono e inducendo il parlamento a dichiarare estinta la monarchia.

Il Quebec fa ancora parte del Canada; i secessionisti sono diventati una minoranza esigua, anche se sempre rumorosa.

Nel 2019 il Sud Africa porta a termine finalmente i suoi processi post-apartheid per crimini contro l’umanità, con la condanna di oltre cinquemila persone. Il presidente Desmond Tutu, ottantottenne, concede la grazia a tutti: un atto, afferma, non solo di perdono cristiano ma di chiusura di un’epoca.

Nessuno ha ancora messo piede su Marte… le prime visioni che suggerivano il contrario si sono rivelate simulazioni di realtà virtuale a Disney World.

Il presidente degli Stati Uniti d’America è afroamericano e maschio; sembra che ci sia anche una presidentessa ad interim. La chiesa cattolica, comunque, ha accettato il sacerdozio anche per le donne.

Cuba non è più comunista; la Cina è l’ultimo paese comunista rimasto, e fra ventuno anni il dominio sulla popolazione sembra rigido come oggi. I cinesi sono diventati quasi due miliardi.

Il buco nell’ozono è cresciuto in modo ragguardevole, e la gente porta cappelli e occhiali da sole anche nelle giornate nuvolose.

Le macchine non possono volare… ma possono levitare fino a un’altezza di circa due metri da terra. Da una parte il traffico stradale è stato limitato in quasi tutti i paesi. Le macchine non richiedono più una superficie liscia e dura; in alcuni luoghi le strade vengono addirittura smantellate e sostituite da zone di verde attrezzato. Dall’altra le strade sono soggette a un logorio così ridotto che quelle rimaste richiedono una manutenzione minima.

Cristo non è tornato.

Il sogno dell’intelligenza artificiale è ancora irrealizzato. Anche se esistono molti computer in grado di parlare, nessuno ha ancora rivelato un livello minimo di coscienza.

Lo sperma maschile continua in tutto il mondo il suo crollo verticale; nei paesi progrediti l’inseminazione artificiale è ormai comune, e viene coperta dall’assistenza sociale medica in Canada, Unione europea e anche negli Stati Uniti. Nei paesi del terzo mondo il tasso di natalità è in diminuzione per la prima volta da sempre.

Il 6 agosto 2030 — ottantottesimo anniversario del lancio della bomba atomica su Hiroshima — si svolge in quella città una cerimonia nella quale viene annunciato il bando universale dello sviluppo delle armi atomiche.

Malgrado la loro caccia sia stata proibita, nel 2030 le balene sono estinte. Più di un centinaio si sono suicidate nel 2022 lasciandosi arenare su diverse spiagge del mondo; nessuno sa il perché.

Una vittoria del buon senso è la decisione simultanea di quattordici fra i più diffusi quotidiani d’America di eliminare la pagina delle previsioni astrologiche, affermando che pubblicare simili sciocchezze va contro il loro scopo fondamentale, che è quello di diffondere la verità.

Nel 2014 o 2015 viene scoperta una cura per l’MDS: il numero totale dei morti per AIDS in tutto il mondo viene stimato in settantacinque milioni, la stessa cifra provocata settecentocinquanta anni prima dalla Morte nera. Non si è ancora giunti a una cura per il cancro, ma quasi tutte le forme di diabete possono essere diagnosticate e curate nell’utero materno prima della nascita.

La nanotecnologia ancora non funziona.

George Lucas non ha ancora completato la sua epopea in nove parti di Star Wars.

Fumare è diventato illegale in tutti i luoghi pubblici degli Stati Uniti e del Canada, compresi quelli all’aperto. Una coalizione di stati del terzo mondo ha citato in giudizio gli Stati Uniti di fronte alla Corte mondiale dell’Aia per avere promosso l’uso del tabacco nei paesi in via di sviluppo.

Bill Gates ha perso la sua fortuna: nel 2027 le azioni della Microsoft sono crollate clamorosamente, come conseguenza di una nuova versione della crisi dell’anno 2000. Il vecchio software della Microsoft memorizzava i dati in stringhe a 32 bit che rappresentavano il numero di secondi trascorsi dal primo gennaio 1970; nel 2027 non hanno più avuto spazio per l’immagazzinaggio dei dati. I tentativi da parte di dipendenti di rilievo della Microsoft di liberarsi delle loro azioni hanno fatto crollare ancora di più il prezzo. Alla fine, nel 2029, per evitare la bancarotta la ditta è stata costretta a fare ricorso al Capitolo undicesimo.

Il reddito medio pro capite degli Stati uniti sembra essere di 157.000 dollari l’anno. Una forma di pane costa quattro dollari.

Il campione cinematografico d’incassi di sempre è il remake del 2026 di La guerra dei mondi.

Lo studio della lingua giapponese è adesso obbligatorio per tutti gli studenti della facoltà di economia dell’università di Harvard.

I colori di moda nel 2030 sono il giallo pallido e l’arancio bruciato. Le donne portano di nuovo i capelli lunghi.

I rinoceronti vengono allevati in fattorie specificamente per il loro corno, ancora molto ricercato in oriente. Non sono più in pericolo di estinzione.

Donald Trump sta costruendo una piramide nel deserto del Nevada, dove verranno accolte in futuro le sue spoglie mortali. Una volta terminata, essa sarà dieci metri più alta della grande piramide di Giza.

Le World Series del 2029 saranno vinte dagli Honolulu Volcanoes.

Le isole di Turks e Caicos si sono unite al Canada nel 2023 o 2024.

Dopo che le prove del DNA hanno dimostrato in maniera definitiva cento casi precedenti di esecuzioni sbagliate, gli Stati Uniti hanno abolito la pena di morte.

La Pepsi ha vinto la guerra delle cola.

Ci sarà un’altra grossa crisi finanziaria; coloro che conoscono l’anno in cui avverrà sembra si vogliano tenere l’informazione per sé.

Gli Stati Uniti hanno finalmente accettato il sistema metrico decimale.

L’India ha stabilito la prima base permanente sulla Luna.

È in corso una guerra fra Guatemala ed Ecuador.

La popolazione mondiale, nel 2030, avrà raggiunto gli undici miliardi; quattro miliardi dei quali nati dopo il 2009, e che quindi non possono avere avuto visioni.


Michiko e Lloyd cenarono tardi nell’appartamento di lui. Lloyd aveva preparato del raclette — formaggio fuso e servito con patate lessate — un piatto tradizionale svizzero di cui era molto goloso, accompagnato da una bottiglia di Blauburgunder; Lloyd non era un gran bevitore, ma in Europa il vino era molto diffuso, e lui aveva raggiunto l’età in cui un bicchiere o due al giorno fanno bene al cuore.

«Non lo sapremo mai con certezza, non è vero?» chiese Michiko, dopo aver mangiato un pezzetto di patata. «Non sapremo mai chi era quella donna che si trovava con te, o chi era il padre della mia bambina.»

«Oh, certo che lo sapremo» disse Lloyd. «Presumibilmente tu saprai chi è il padre più o meno entro i prossimi tredici o quattordici anni… prima che nasca la bambina. E io saprò chi è quella donna quando finalmente la incontrerò… la riconoscerò senza dubbio, anche se sarà molto più giovane che nella mia visione.»

Michiko annuì, come se fosse una cosa ovvia. «Voglio dire che non lo sapremo in tempo per il nostro matrimonio» disse con un filo di voce.

«No» ammise Lloyd. «Non lo sapremo.»

Lei sospirò. «Che cosa hai intenzione di fare?»

Lloyd alzò gli occhi dal tavolo e guardò Michiko. Le sue labbra erano serrate, forse stava cercando di impedirsi di tremare. Al dito aveva l’anello di fidanzamento… molto meno di quanto avesse voluto offrirle, molto più di quanto ora potesse permettersi. «Non è giusto» disse Lloyd. «Voglio dire, Cristo, perfino Elizabeth Taylor ha pensato probabilmente, ogni volta che si è sposata, che sarebbe stato ‘finché morte non vi separi’; nessuno dovrebbe sposarsi sapendo che il matrimonio è destinato a fallire.»

Avrebbe scommesso che Michiko lo stava guardando, che stava cercando di incontrare i suoi occhi. «E allora, qual è la tua decisione?» gli domandò. «Vuoi rompere il fidanzamento?»

«Io ti amo» disse Lloyd, alla fine. «Lo sai.»

«E allora dov’è il problema?»

Dov’era il problema? Era il divorzio che lo terrorizzava fino a quel punto? O magari un brutto divorzio, come quello che era capitato ai suoi genitori? Chi avrebbe mai pensato che una cosa semplice come dividersi i beni in comunione avrebbe scatenato quella guerra senza esclusione di colpi, con volgari accuse da entrambe le parti? Chi avrebbe mai pensato che due persone che avevano fatto sacrifici, che avevano risparmiato, che si erano private di tutto, anno dopo anno, per comprarsi costosi regali di Natale come pegno del loro amore, avrebbero finito col ricorrere a tutti gli appigli legali per togliere quegli stessi regali all’unica persona al mondo per cui avevano qualche valore? Chi avrebbe pensato che una coppia che aveva dato ai figli, con quale acume, due nomi che erano l’uno l’anagramma dell’altro — Lloyd e Dolly — avrebbero cambiato idea e avrebbero usato quegli stessi figli come pedine, come armi?

«Mi dispiace, tesoro» disse Lloyd. «La cosa mi sta distruggendo, ma proprio non so che potrei fare.»

Lei non capiva, pensò Lloyd. Non capiva che la sua decisione era già stata presa; che qualsiasi cosa facesse/avesse fatto era già scritta in eterno nell’universo come blocco. E non era stato lui a prendere una decisione; piuttosto, la decisione già presa da sempre gli doveva essere rivelata, tutto qui.

E così…

16

Per Theo era ora di andare a casa. Non all’appartamento di Ginevra che aveva chiamato casa negli ultimi due anni, ma alla casa di Atene. Alla casa dove dimoravano le sue radici.

D’altra parte, in tutta franchezza, era meglio che per un po’ si tenesse lontano da Michiko. Nella sua testa continuavano a inseguirsi pensieri strani su di lei.

Theo non sospettava che qualcuno della sua famiglia avesse qualcosa a che vedere con la sua morte… anche se, come aveva scoperto leggendo, sembrava proprio che quel caso non fosse affatto insolito, fin da quando Caino uccise Abele, fin da quando Livia avvelenò Augusto, fin da quando 0. J. uccise sua moglie, fin da quando quell’astronauta a bordo della stazione spaziale internazionale venne arrestato, malgrado un alibi che sembrava perfetto, per avere assassinato sua sorella.

Ma no, Theo non sospettava nessuno dei membri della sua famiglia. Però, se qualche visione doveva gettare un po’ di luce sulla sua morte, non sarebbero state quelle dei suoi stessi parenti? Non era probabile che qualcuno di loro avesse svolto qualche indagine per conto suo, ventuno anni più tardi, cercando di scoprire chi aveva ucciso il loro caro Theo?

Prese un volo per Atene con la Olympic Airlines. I prezzi dei posti erano aumentati; la gente era tornata a volare come prima, rassicurata dalla promessa che il trasferimento della coscienza non si sarebbe più verificato. Trascorse il tempo del viaggio componendo buchi in un modello del Cronolampo che gli era stato inviato per posta elettronica da una squadra della DESY, la Deutsches Elektronen-Synkrotron, l’altra grande struttura europea con un acceleratore di particelle.

Theo non tornava a casa ormai da quattro anni, e se ne rammaricò. Cristo, fra ventuno anni poteva essere morto, e aveva già lasciato trascorrere un tempo pari a un quinto di quello che gli rimaneva senza abbracciare sua madre o gustare la sua cucina, senza vedere suo fratello, senza godere l’incredibile bellezza della sua terra natale. Certo, le Alpi ti lasciavano senza fiato, ma in esse c’era una qualità sterile, asettica. Ad Atene si poteva sempre alzare gli occhi e vedere l’Acropoli torreggiare sulla città, il sole di mezzogiorno fare avvampare i marmi restaurati e levigati del Partenone. Migliaia di anni di abitazione dell’uomo; millenni di pensiero, di cultura, di arte.

Naturalmente da ragazzo aveva visitato molti dei famosi siti archeologici. Ricordava un viaggio fatto quando aveva diciassette anni: uno scuolabus aveva portato la sua classe a Delfi, residenza dell’antico oracolo. Pioveva a dirotto, e lui non voleva scendere dall’autobus. Ma la sua insegnante, la signora Megas, aveva insistito. Si erano arrampicati sulle rocce nere e scivolose attraverso un bosco rigoglioso, ed erano giunti nel punto in cui si supponeva fosse stato seduto un tempo l’oracolo, dispensando criptiche visioni del futuro.

Quel tipo di oracolo era stato migliore, pensò Theo: futuri che erano soggetti all’interpretazione e alla discussione, invece che le fredde, dure realtà che il mondo aveva conosciuto di recente.

Erano andati anche a Epidauro, un grande catino scavato nel paesaggio, con anelli concentrici di sedili. Vi avevano visto rappresentato l’Edipo tiranno… Theo si rifiutava di unirsi ai turisti che lo chiamavano Edipo re; ‘re’ era una parola latina, non greca, e rappresentava un irritante imbastardimento del titolo della tragedia.

Lo spettacolo era interpretato in greco antico; tanto valeva che fosse in cinese, per quanto ne capiva Theo. Però in classe avevano studiato la storia; lui sapeva quello che succedeva. Il futuro di Edipo era stato decifrato anche per lui: tu sposerai tua madre e ucciderai tuo padre. Ed Edipo, come Theo, aveva pensato di potere ingannare il destino. Premunito dalla conoscenza di ciò che avrebbe dovuto fare, be’, si era limitato a ignorare del tutto la faccenda e a vivere una lunga vita felice insieme alla sua regina, Giocasta.

Solo che…

Solo che, come si era scoperto, Giocasta era sua madre, e l’uomo che Edipo aveva ucciso anni prima nel corso di un litigio sulla strada per Tebe era proprio suo padre.

Sofocle aveva composto la sua versione della storia di Edipo duemila e quattrocento anni fa, ma gli studenti la studiavano come il più grande esempio di ironia drammatica della letteratura occidentale. E che cosa poteva essere più ironico di un greco moderno alle prese con i dilemmi degli antichi? Un futuro profetizzato, una tragica fine prevista, un fato inevitabile? Naturalmente gli eroi delle antiche tragedie greche avevano una hamartia — un’imperfezione fatale — che rendeva inevitabile la loro caduta. Per qualcuno l’hamartia era evidente: invidia, o lussuria, o incapacità a seguire la legge.

Ma quale era stata l’imperfezione fatale di Edipo? Che cosa, nel suo carattere, lo aveva condotto alla rovina?

Ne avevano discusso a lungo in classe; la forma narrativa utilizzata dagli antichi tragediografi greci era inviolata: c’era sempre una hamartia.

E quella di Edipo era… che cosa?

Non l’avidità, non la stupidità, non la codardia.

No, no, semmai era l’arroganza, la sua convinzione di potere sconfiggere la volontà degli dèi.

Ma, aveva protestato Theo, questo è un argomento vizioso; Theo era sempre quello portato per la logica, molto meno per l’aspetto umanistico. L’arroganza di Edipo, aveva detto, si evidenziava soltanto nel suo tentativo di evitare il suo destino; se il suo destino fosse stato meno severo, lui non si sarebbe mai ribellato, e quindi nessuno avrebbe potuto giudicarlo arrogante.

No, aveva replicato l’insegnante, l’arroganza c’è, in migliaia di piccole cose che lui fa nel corso del dramma. In verità, aveva poi aggiunto l’insegnante, facendo una battuta, anche se Edipo significava ‘piede gonfio’ — allusione alla ferita subita quando il suo reale padre gli aveva legato i piedi da bambino, lasciandolo a morire — lo si poteva altrettanto facilmente chiamare ‘testa gonfia’.

Ma Theo non la vedeva… non vedeva l’arroganza, non vedeva la degnazione. Per lui Edipo, che aveva risolto il molesto enigma della Sfinge, era un intelletto superiore, un grande pensatore: esattamente ciò che Theo sentiva di essere.

L’enigma della Sfinge: che cos’è che cammina con quattro zampe al mattino, con due zampe a mezzogiorno e con tre alla sera? Be’, l’uomo, naturalmente, che all’inizio della vita si trascina su mani e piedi, da adulto cammina eretto, e da vecchio ha bisogno di un bastone. Che ragionamento incisivo, da parte di Edipo!

Ma adesso Theo non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per aver bisogno della terza gamba, non avrebbe visto il tramonto naturale della sua vita. Al contrario, sarebbe stato ucciso nel bel mezzo della sua esistenza… proprio come il vero padre di Edipo, il re Laio, fu lasciato morto sul ciglio di una strada consunta.

A meno che, naturalmente, lui non riuscisse a cambiare il futuro; a meno che non riuscisse a prevalere sugli dei e a evitare il suo destino.

Arroganza? pensò Theo. Arroganza? Verrebbe da ridere.

L’aereo iniziò la discesa verso Atene avvolta nella notte.


«I tuoi genitori hanno prenotato da tempo i biglietti per venire a Ginevra, e anche mia madre» aveva detto Michiko. «Se non abbiamo intenzione di celebrare il matrimonio, dobbiamo comunicarlo a tutti. Devi prendere una decisione.»

«Che cosa vuoi fare?» chiese Lloyd, per guadagnare tempo.

«Che cosa voglio fare?» ripeté Michiko, che sembrava stupita dalla domanda. «Io voglio sposarmi; non credo in un futuro immutabile. Le visioni si avvereranno soltanto se tu farai in modo che succeda… se le trasformi in profezie che si realizzano da sole.»

Ora la mossa toccava a lui. Lloyd alzò le spalle. «Mi dispiace, tesoro. Mi dispiace davvero, ma…»

«Ascoltami» disse lei, interrompendo un discorso che non voleva sentire. «So che i tuoi genitori hanno commesso un errore. Ma noi non lo commetteremo.»

«Le visioni…»

«Noi non lo commetteremo» ripeté decisa Michiko. «Noi andiamo d’accordo. Siamo fatti l’uno per l’altra.»

Lloyd tacque per un po’. Alla fine, con dolcezza, replicò: «Hai detto prima che forse io ho abbracciato troppo presto l’idea che il futuro sia immutabile. Ma non è così. Non sto solo cercando un modo per sfuggire al senso di colpa… e di certo non sto cercando un modo per evitare di sposarti, tesoro. Ma che le visioni siano reali è l’unica conclusione possibile sulla base della fisica che conosco. La matematica è astrusa, te lo garantisco, ma esiste un’eccellente base teorica per supportare l’interpretazione di Minkowski.»

«In ventuno anni la fisica può cambiare» obiettò Michiko. «Nel 1988 si credeva a un sacco di cose che oggi sappiamo non essere vere. Un nuovo paradigma, un nuovo modello, possono scalzare Minkowski o Einstein.»

Lloyd non seppe che cosa replicare.

«Potrebbe succedere» aggiunse Michiko con fervore.

Lloyd cercò di rendere più dolce il tono della sua voce. «Ho bisogno… ho bisogno di qualcosa di più del tuo fervido desiderio. Ho bisogno di una spiegazione razionale, ho bisogno di una teoria consistente che mi spieghi perché le visioni sarebbero qualcosa di diverso dall’unico futuro prefissato.» Si bloccò prima di proseguire dicendo: «Un futuro in cui non è destino che noi ci sposiamo.»

La voce di Michiko stava diventando disperata. «D’accordo, allora, d’accordo, forse le visioni sono quelle di un futuro reale, concreto… ma non del 2030.»

Lloyd si rese conto che non poteva calcare troppo la mano; sapeva che Michiko era vulnerabile… al diavolo, sapeva anche di essere vulnerabile lui stesso. Però era necessario che lei fronteggiasse la realtà. «La prova fornita dai giornali sembra più che decisiva» disse con dolcezza.

«No… no, non lo è.» Michiko sembrava diventare via via più risoluta. «Non lo è affatto. Le visioni potrebbero riferirsi a un periodo molto più lontano nel futuro.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Sai chi è Frank Tipler?»

Lloyd aggrottò la fronte. «Un alcoolizzato onesto?»

«Che cosa? Ah, ho capito… no, è Tipler, con una p sola{Gioco di parole. Frank, oltre che essere nome proprio, significa franco, onesto; ‘tippler’ significa ubriacone, alcolizzato, e si pronuncia come ‘tipler’ (NdT).}. Ha scritto La fisica dell’immortalità.»

«La fisica di che cosa?» disse Lloyd, inarcando le ciglia.

«Immortalità. Vivere per sempre. E quello che hai sempre desiderato, no? Tutto il tempo del mondo; tutto il tempo per fare tutte le cose che vuoi fare. Bene, Tipler afferma che al punto Omega — la fine del mondo — noi risorgeremo tutti e vivremo in eterno.»

«Che razza di sciocchezza è questa?»

«Riconosco che è una balla» disse Michiko. «Ma lui ha sollevato una questione interessante.»

«Eh?» disse Lloyd, sprizzando scetticismo.

«Tipler sostiene che alla fine la vita basata sul computer soppianterà la vita biologica, e che la capacità di elaborazione delle informazioni continuerà a espandersi anno dopo anno, finché a un certo punto, in un futuro lontano, nessun concepibile problema di calcolo sarà impossibile. Non ci sarà nulla che la macchina della vita futura non avrà il potere e le risorse per calcolare.»

«Immagino di sì.»

«Ora, considera una descrizione esatta, specifica di ogni atomo del corpo umano: di che tipo è, dove è localizzato, e come si mette in relazione con altri atomi del corpo. Se lo sapessimo, potremmo resuscitare una persona nella sua interezza: un duplicato preciso, fino ai ricordi unici immagazzinati nel cervello e all’esatta sequenza dei nucleotidi che formano il DNA. Tipler sostiene che un computer sufficientemente avanzato, in un futuro sufficientemente remoto, potrà facilmente ricrearti semplicemente costruendo un simulacro che riflette la stessa informazione: gli stessi atomi, negli stessi posti.»

«Ma non esiste nessuna registrazione di me. Non puoi ricostruirmi senza, come dire, senza una scansione di me stesso… qualcosa del genere.»

«Non ha importanza. Tu potresti essere riprodotto senza nessuna specifica informazione su di te.»

«Ma di che stai parlando?»

«Tipler sostiene che esistono circa 110.000 geni attivi che compongono un essere umano. Ciò significa che tutte le possibili permutazioni di questi geni — tutti i possibili esseri umani biologicamente distinti che possono concepibilmente esistere — ammontano a dieci alla decima alla sesta differenti individui. Perciò, se fosse possibile simulare tutte queste permutazioni…»

«Simulare dieci alla decima alla sesta esseri umani?» disse Lloyd. «Andiamo!»

«Tutto deriva dal fatto che tu hai a disposizione infinite capacità di elaborazione delle informazioni» disse Michiko. «Può esistere una gran quantità di esseri umani possibili, ma è pur sempre un numero finito.»

«Chiamalo finito!»

«C’è anche un numero finito di possibili stati della memoria. Con una sufficiente capacità di immagazzinaggio, non solo si potrebbe riprodurre qualsiasi possibile essere umano, ma anche qualsiasi possibile blocco di ricordi che ognuno di essi possiede.»

«Ma occorrerebbe un umano simulato per ogni stato di memoria» disse Lloyd. «Uno nel quale ieri sera ho mangiato la pizza… o almeno ho il ricordo di averla mangiata. Un altro in cui ho mangiato un hamburger. Et cetera, et cetera, ad nauseam.»

«Esattamente. Ma Tipler afferma che è possibile riprodurre tutti i possibili esseri umani che potranno mai esistere, e tutti i possibili ricordi che potranno mai avere, in dieci alla decima alla ventitreesima bit.»

«Dieci alla decima alla…»

«Dieci alla decima alla ventitreesima.»

«È una follia» disse Lloyd.

«E’ una quantità finita. E si potrebbe riprodurre tutto su un computer sufficientemente avanzato.»

«Ma perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere?»

«Be’, Tipler dice che il punto Omega ci ama, e…»

«Ci ama?»

«Dovresti proprio leggere il libro; lui riesce a rendere il discorso molto più ragionevole di quanto non possa fare io.»

«Ci puoi scommettere» disse Lloyd, impassibile.

«E ricorda che il passare del tempo rallenterà man mano che l’universo giunge al suo termine, se alla fine collasserà in un Big crunch…»

«Molti studi indicano che questo non avverrà, lo sai; non c’è massa sufficiente, anche prendendo in considerazione la materia scura, per chiudere l’universo.»

Michiko lo incalzò. «Ma se collassa, il tempo sarà protratto al punto che sembrerà impiegare un’eternità per farlo. E ciò significa che gli umani risorti sembreranno vivere per sempre; saranno immortali.»

«Oh, andiamo. Un giorno o l’altro, se sarò fortunato, forse avrò il Nobel. Ma questa è tutta l’immortalità che chiunque possa augurarsi.»

«Non secondo Tipler» disse Michiko.

«E tu te la bevi?»

«Ecco, no, non del tutto. Però, magari mettendo da parte i sottintesi religiosi di Tipler, non riesci a concepire un futuro lontano, lontanissimo in cui… diciamo, qualche liceale annoiato decide di simulare ogni possibile umano e ogni possibile stato di memoria?»

«Penso di sì. Forse.»

«In effetti non ha bisogno di simulare tutti gli stati possibili… potrebbe simularne solo uno a caso.»

«Oh, capisco. E tu stai dicendo che ciò che abbiamo visto — le visioni — non appartengono al vero futuro fra ventuno anni, ma sono invece le conseguenze di questo remotissimo esperimento scientifico. Una simulazione, una possibile immagine artificiale. Solo uno degli infiniti… scusa, dei quasi infiniti futuri possibili.»

«Esattamente!»

Lloyd scrollò il capo. «E un po’ dura da mandare giù.»

«Davvero? È così dura? Più dura da mandare giù dell’idea che noi abbiamo visto il futuro, e che quel futuro è immutabile, e che perfino il fatto di conoscerlo in anticipo non sarebbe sufficiente a permetterci di evitare che quel futuro si avveri? Voglio dire, ma dai… se tu hai una visione nella quale fra ventuno anni ti trovi in Mongolia, tutto quello che devi fare per sconfiggere la visione è non andare in Mongolia. Di certo non puoi prevedere che sarai costretto ad andare in Mongolia contro la tua volontà, no? Noi l’abbiamo, una volontà.»

Lloyd cercò di mantenere calmo il tono della voce. Era abituato a discutere di argomenti scientifici con altre persone, ma non con Michiko. Anche una discussione erudita aveva il suo aspetto personale. «Se nella visione tu ti trovi in Mongolia, finirai con l’andare in Mongolia. Oh, certo, tu hai tutta l’intenzione di non andarci mai, ma succederà, e sul momento sembrerà del tutto naturale. Tu sai bene quanto me che gli umani sono reticenti a realizzare i propri desideri. Puoi promettere oggi che domani ti metterai a dieta, e avere tutta l’intenzione di essere ancora a dieta fra un mese, ma in qualche modo, senza avere la sensazione che ti manchi il libero arbitrio, per allora potresti averla smessa da un bel po’.»

Michiko sembrò interessata. «Credi che debba mettermi a dieta?» Ma poi sorrise. «Stavo solo scherzando.»

«Però capisci quello che sto cercando di dire. Non c’è nessuna prova, nemmeno a breve termine, che noi siamo in grado di evitare le cose con un semplice atto di volontà; perché dovremmo credere che nell’arco di una ventina d’anni avremo l’autodeterminazione?»

«Perché dobbiamo averla» replicò Michiko, di nuovo eccitata. «Perché se non è così, allora non c’è via d’uscita.» Cercò gli occhi di Lloyd. «Ma non capisci? Tipler deve avere ragione. 0 se non ce l’ha, allora deve esserci un’altra spiegazione. Quello non può essere il futuro.» Fece una pausa. «Non può essere il nostro futuro.»

Lloyd sospirò. Lui l’amava, ma… che diavolo! Si ritrovò a muovere la testa avanti e indietro in segno di diniego.

«Io non voglio che quello sia il nostro futuro più di quanto lo voglia tu» disse con un filo di voce.

«E allora non lasciare che lo sia» disse Michiko, prendendogli la mano, e intrecciando le dita con le sue. «Non lasciare che lo sia.»

17

«Pronto?» Una gradevole voce femminile.

«Ah, pronto. È… è la dottoressa Tompkins?»

«Sono io.»

«Ah, salve. Sono… sono Jake Horowitz. Ti ricordi, quello del CERN?»

Jake non sapeva che cosa aspettarsi dalla voce all’altro capo del filo. Simpatia? Sollievo perché era stato lui a chiamare per primo? Sorpresa? Ma la voce di Carly non tradì nessuna di queste emozioni. «Sì?» disse lei, in tono vago. Tutto lì, un semplice ‘sì?’.

Jacob provò una stretta al cuore. Forse era meglio riattaccare subito, chiudere quella dannata conversazione. Non avrebbe fatto male a nessuno, se Lloyd aveva ragione, loro due sarebbero stati costretti a incontrarsi, alla fine. Ma lui non riusciva a convincersi che fosse così.

«Io… mi dispiace disturbarti» farfugliò. Non era mai stato bravo a parlare al telefono con le donne. E per dirla tutta non ne chiamava una — almeno una come quella — dai tempi del liceo, da quando aveva racimolato il coraggio per telefonare a Julie Cohan per chiederle un appuntamento. Gli ci erano voluti dei giorni per prepararsi, e ricordava ancora come tremavano le sue dita mentre componeva a tentoni il numero nella cantina di casa. Sentiva i passi del fratello maggiore sul pavimento di legno del piano superiore, che scricchiolava sotto il suo peso, quasi fosse una specie di Achab in coperta. Era terrorizzato all’idea che David potesse scendere e sorprenderlo al telefono.

Aveva risposto il padre di Julie, che poi aveva gridato alla figlia di rispondere dall’altro apparecchio… non aveva coperto il microfono e le aveva parlato con voce dura. Non certo come lui avrebbe trattato Julie. Poi lei aveva risposto dall’altro telefono, e il padre aveva sbattuto il suo sulla forcella, e Julie aveva detto, con quella sua voce magnifica: «Pronto?»

«Ah, ciao, Julie. Sono Jake… sai, Jake Horowitz.» Silenzio, niente. «Del corso di storia americana.»

Un tono di perplessità, come se le avesse chiesto di calcolare l’ultimo numero del pi greco. «Sì?»

«Mi chiedevo,» aveva detto lui, cercando di sembrare indifferente, cercando di apparire come se la sua intera vita non dipendesse da quella telefonata, come se il suo cuore non fosse sul punto di esplodere, «mi stavo chiedendo se tu… se ti piacerebbe, capisci, uscire con me, magari sabato… se sei libera, cioè.» Ancora silenzio; in quel momento gli era tornato in mente che quando era piccolo le linee frusciavano per le deboli scariche di elettricità statica. Adesso gli mancavano.

«Magari si può andare al cinema» aveva aggiunto, per riempire il vuoto.

Battito di cuore, poi: «Che cosa ti fa credere che io possa avere la minima voglia di uscire con te?»

La sua vista si era offuscata, il suo stomaco ribolliva, gli mancava l’aria. Non ricordava che cosa avesse detto dopo, ma in qualche modo era riuscito a riattaccare il telefono, in qualche modo era riuscito a non piangere, in qualche modo era rimasto seduto lì in cantina, ascoltando i passi di suo fratello al piano superiore.

Era l’ultima volta che aveva chiamato una donna per chiedere un appuntamento. Oh, lui non era vergine… naturalmente no, naturalmente no. Cinquanta dollari avevano guarito quel particolare handicap in una notte a New York. Si era sentito malissimo, dopo, sporco e volgare, ma il giorno in cui fosse stato insieme a una donna con la quale voleva stare, chiunque fosse, le doveva… be’, insomma, doveva essere se non esperto, almeno in grado di muoversi con sufficiente disinvoltura.

E adesso, adesso era come se fosse insieme a una donna… insieme a Carly Tompkins. La ricordava bellissima, la ricordava con i capelli castani e gli occhi verdi o grigi. Gli era piaciuto guardarla, ascoltarla, quando si era presentata alla conferenza della Società americana di fisica. Ma gli esatti dettagli del suo aspetto erano elusivi. Ricordava delle lentiggini… sì, certo, aveva le lentiggini, anche se non molte come lui, appena una spolveratina sull’arco del naso piccolo e delle guance piene. Certo non se lo stava immaginando…

Il perplesso ‘sì?’ di Carly risuonava ancora nelle sue orecchie. Doveva sapere perché la stava chiamando. Doveva…

«Noi staremo insieme» disse, lasciandosi uscire stupidamente di bocca la frase e desiderando di rimangiarsi le parole nel momento stesso in cui le pronunciava. «Fra vent’anni noi staremo insieme.»

La donna tacque per un attimo, poi disse: «Pare di sì.»

Jake si sentì sollevato; aveva temuto che lei negasse la visione. «Così stavo pensando,» disse «stavo pensando che forse potremmo conoscerci meglio. Sai, magari prendere un caffè insieme.» Il cuore gli batteva all’impazzata, lo stomaco gli ribolliva. Aveva di nuovo diciassette anni.

«Jacob» disse lei. Jacob: lo aveva chiamato per nome, e nessuno ha mai buone notizie da darti quando ti chiama per nome. Jacob, il che gli ricordò chi veramente fosse. Jacob, che cosa ti fa credere che abbia la minima voglia…

«Jacob,» continuò lei «io ho una relazione.»

Ma certo, pensò lui. Ma certo che ha una relazione. Una bella donna con i capelli castani e le lentiggini. Ma certo.

«Mi dispiace» disse Jake. Intendeva dire che gli dispiaceva averla disturbata, ma sperò che la donna capisse anche nell’altro senso. Gli dispiaceva che avesse una relazione.

«E poi» aggiunse Carly «io sono a Vancouver, e tu in Svizzera.»

«Alla fine di questa settimana devo andare a Seattle; qui sto facendo il dottorato, ma il mio campo è la costruzione di modelli al computer per le reazioni del fotone ad alta energia, e il CERN mi manda alla Microsoft per un seminario. Potrei… be’, avevo pensato di venire in America del Nord un giorno o due prima, magari passando per Vancouver. Ho accumulato tonnellate di punti come passeggero assiduo, non mi costerebbe nulla.»

«Quando?» chiese Carly.

«Io… io potrei essere lì anche dopodomani.» Cercò di mantenere il tono sul discorsivo. «Il mio seminario comincia giovedì; il mondo può essere in crisi, ma la Microsoft tiene duro.» Almeno per il momento, pensò.

«Va bene» disse Carly.

«Va bene?»

«Va bene. Vieni al TRIUMF, se vuoi. Sarò felice di conoscerti.»

«E il tuo compagno?»

«Chi ha mai detto che è un compagno?»

«Oh.» Una pausa. «Oh.»

Ma poi Carly rise. «No, era solo una battuta. Sì, è un uomo… si chiama Bob. Ma non è una cosa così seria, e…»

«Sì?»

«E, be’, immagino che noi due dobbiamo conoscerci meglio.»

Jacob fu felice che il suo sorriso da un angolo all’altro della bocca non facesse rumore: Fissarono un appuntamento, poi si salutarono.

Gli batteva il cuore. Aveva sempre saputo che alla fine la donna giusta sarebbe arrivata; non aveva mai perduto la speranza. Non le avrebbe portato dei fiori… non sarebbe mai riuscito a farli passare alla dogana. No, le avrebbe portato qualcosa di decadente dalla Chocolats Micheli; la Svizzera, in fin dei conti, era la patria della cioccolata.

Con la fortuna che aveva, magari avrebbe scoperto che lei soffriva di diabete.


Il fratello minore di Theo, Dimitrios, viveva insieme ad altri tre compagni alla periferia di Atene, ma quando Theo gli suonò alla porta, la sera tardi, Dimitrios era in casa da solo.

Dim studiava letteratura europea all’Università nazionale capodistriana di Atene; fin da ragazzo aveva desiderato di diventare uno scrittore. Aveva imparato a leggere e scrivere prima di entrare a scuola e continuava a scrivere le sue storie sul computer di famiglia. Theo gli aveva promesso da anni di trasferire tutti i racconti di Dim dai dischetti da tre pollici e mezzo ai dischi ottici; nessun personal computer usava più i lettori di dischetti, ma le macchine del CERN avevano ancora qualche sistema obsoleto che li usava. Aveva pensato di rinnovargli l’offerta, ma non sapeva se fosse meglio che Dim pensasse semplicemente che lui se ne era dimenticato, o che si rendesse conto che erano passati degli anni — anni! — senza che il suo fratello maggiore trovasse tre minuti di tempo per esaudire quel semplice desiderio con l’aiuto di qualcuno del dipartimento informatico.

Dim gli aveva aperto in jeans — che moda superata! — e maglietta gialla con il logo di Anaheim, una serie televisiva americana molto seguita; perfino uno studente dell’ultimo anno di letteratura europea sembrava incapace di sottrarsi al fascino della cultura popolare americana.

«Ciao, Dim» disse Theo. Fino ad allora non aveva mai abbracciato suo fratello, ma adesso sentiva l’esigenza di farlo; trovarsi di fronte alla propria caducità favoriva sentimenti del genere. Ma certamente Dim non avrebbe saputo che farsene, di quell’abbraccio; loro padre, Constantin, non era un uomo espansivo. Anche quando l’ouzo scorreva più del necessario, lui poteva dare un pizzicotto sul sedere della cameriera, ma non aveva mai nemmeno sfiorato la testa dei suoi figli.

«Ciao, Theo» disse Dimitrios, come se lo avesse visto il giorno prima. Si fece di lato per lasciarlo entrare.

La casa aveva l’aspetto che ci si poteva attendere dall’abitazione di quattro ragazzi appena ventenni: un porcile, con capi d’abbigliamento sparpagliati sui mobili, scatole di cibo da portar via impilate sul tavolo della cucina, e ogni genere di apparecchi, inclusa una costosa piattaforma di realtà virtuale.

Era bello tornare di nuovo a parlare in greco; Theo si era stufato del francese e dell’inglese, il primo con il suo eccesso di verbosità e il secondo con i suoi suoni duri e sgradevoli. «Come te la passi?» domandò Theo. «Come va la scuola?»

«Come va l’università, vorrai dire» lo corresse Dim.

Theo annuì. Si era sempre riferito ai suoi studi post liceali come all’università, ma suo fratello, studiando lettere, era ancora a scuola. Forse Dim aveva interpretato la sua frase come una mancanza di rispetto; fra loro c’erano otto anni di differenza, un’eternità, ma ancora non sufficiente a garantire l’assenza di una rivalità tra fratelli.

«Bene,» Incontrò lo sguardo di Theo. «Uno dei miei professori è morto durante il Cronolampo, e uno dei miei migliori amici ha dovuto lasciare l’università per prendersi cura della famiglia dopo che i suoi genitori sono rimasti feriti.»

Non c’era niente da replicare. «Mi dispiace» disse Theo. «Non era previsto.»

Dim annuì e distolse lo sguardo. «Hai già visto papà e mamma?»

«Non ancora. Più tardi.»

«È stata dura anche per loro, sai. Tutti i loro vicini sanno che lavori al CERN… mio figlio lo scienziato, diceva sempre mamma. Mio figlio, il novello Einstein.» Dimitrios fece una pausa. «Adesso non lo dice più. Si sono presi un bel po’ di improperi da quelli che hanno perso i loro cari.»

«Mi dispiace» disse di nuovo Theo. Diede un’occhiata in giro per la stanza in disordine, cercando qualcosa per cambiare argomento.

«Vuoi bere?» gli chiese Dimitrios. «Birra? Acqua minerale?»

«No, grazie.»

Dimitrios tacque per qualche secondo, poi si diresse verso il salotto, seguito da Theo. Si sedette sul divano, spostando sul pavimento alcuni giornali e capi di vestiario per fare spazio. Theo trovò una sedia ragionevolmente sgombra e vi si accomodò.

«Tu hai rovinato la mia vita» disse Dimitrios, prima fissando e poi evitando gli occhi del fratello. «Voglio che tu lo sappia.»

Theo provò un colpo al cuore. «Come?»

«Queste… queste visioni. Dannazione, Theo, ma non capisci quanto sia duro mettersi davanti alla tastiera tutti i giorni? Non capisci quanto sia facile scoraggiarsi?»

«Ma tu sei uno scrittore formidabile, Dim. Ho letto le tue cose. Il modo in cui maneggi la lingua è splendido. Quel racconto su quell’estate che hai passato a Creta… hai catturato Cnosso alla perfezione.»

«Non importa… niente di tutto questo importa. Non capisci? Fra ventuno anni, io non sarò famoso. Non ce l’avrò fatta. Fra ventuno anni lavorerò in un ristorante, servendo souvlaki e tzatziki ai turisti.»

«Forse è stato un sogno… magari nel 2030 stavi sognando.»

Dim scosse la testa. «Ho trovato il ristorante, è dalle parti della Torre dei venti. Ho incontrato il proprietario: è lo stesso tizio che lo gestirà fra ventuno anni. Mi ha riconosciuto dalla sua visione e io l’ho riconosciuto dalla mia.»

Theo cercò di essere gentile. «Molti scrittori non si guadagnano da vivere scrivendo, lo sai.»

«Ma quanti proseguirebbero, anno dopo anno, se non pensassero che in futuro — magari non domani, ma più avanti, anche alla fine — sfonderanno? Che ce la faranno?»

«Io non lo so. Non ci ho mai pensato.»

«È il sogno che spinge l’artista ad andare avanti. Quanti oggi — proprio in questo momento — lottano per fare gli attori e stanno rinunciando perché le loro visioni gli hanno mostrato che non ce la faranno mai? Quanti pittori sulle strade di Parigi questa settimana hanno gettato via colori e pennelli perché sanno già che fra qualche decennio nessuno avrà mai sentito parlare di loro? Quanti gruppi rock, che suonano nei garage di casa, si sono sciolti? Tu hai rubato i sogni a milioni di noi. Qualcuno è stato fortunato, perché nel futuro dormiva. Visto che allora sognavano, i loro veri sogni non sono andati in frantumi.»

«Io… io non l’avevo mai vista in questo modo.»

«Certo che no. Tu sei così ossessionato dall’idea di scoprire chi ti ucciderà, da non vedere più in là del tuo naso. Ma ho una notizia per te, Theo. Tu non sarai il solo che nel 2030 sarà morto. Sarò morto anch’io… un cameriere in una costosa trattoria per turisti. Sarò morto, e così, ne sono sicuro, milioni di altri. E sei stato tu a ucciderli: tu hai ucciso le loro speranze, i loro sogni, il loro futuro.»

18

Ottavo giorno: martedì 28 aprile 2009


Jake e Carly Tompkins avrebbero potuto incontrarsi al TRIUMF, ma decisero di non farlo. Si trovarono invece nella megalibreria Chapters, a Burnaby, sobborgo periferico di Vancouver. La libreria dedicava metà dello spazio ai libri prestampati veri e propri che erano ancora in vendita: successi garantiti di Stephen King, John Grisham e Coyote Rolf. Il resto della struttura, però, era occupato da copie campione individuali di titoli che potevano essere stampati su richiesta. Ci volevano solo quindici minuti per produrre una singola copia di un libro, sia in edizione economica che in rilegato in ottavo. Si potevano avere anche edizioni a grande tiratura, mentre era possibile tradurre un libro al computer, con pochi minuti in più, in una qualsiasi fra ventiquattro lingue diverse. Naturalmente nessun titolo andava mai esaurito.

Per vent’anni, in una geniale dimostrazione di adattamento evolutivo, le megalibrerie avevano costruito all’interno delle loro strutture bar e piccoli ristoranti, offrendo ai clienti il luogo perfetto per passare il tempo in modo piacevole mentre i loro libri fatti su misura venivano stampati. Jake giunse in anticipo al Chapters, entrò nello Starbucks, il bar annesso, ordinò un Sumatra decaffeinato lungo e trovò un posto a sedere.

Carly arrivò circa dieci minuti dopo l’ora dell’appuntamento. Indossava un impermeabile fumo di Londra, con la cinghia legata elegantemente attorno alla vita, pantaloni blu e tacchi bassi. Jake si alzò per andare a riceverla. Mentre si avvicinava, notò che non era poi così bella come la ricordava.

Ma era senza dubbio lei. Si fissarono per un attimo e Jake si domandò, immaginando che lei facesse altrettanto, in quale modo salutare una persona con la quale sapeva al di là di ogni dubbio che un giorno avrebbe fatto l’amore. Già si conoscevano; Jake aveva incontrato gente che conosceva molto meno, e aveva dato o ricevuto un bacio sulla guancia… soprattutto, naturalmente, in Francia. Ma Carly risolse la faccenda protendendo la mano destra. Lui riuscì a sorridere e gliela strinse; la stretta di lei era decisa, e la pelle fresca al tatto.

Un dipendente del Chapters si presentò a chiederle che cosa volesse bere; Jake ricordava quando lo Starbucks aveva solo il servizio di cassa, ma naturalmente qualcuno doveva consegnarti i tuoi libri una volta stampati. Carly ordinò un grande Etiopia Sidamo.

La donna aprì la borsa e vi infilò la mano per estrarne il portafogli. Jake sbirciò all’interno. Logicamente in tutto il locale non si poteva fumare, così come in tutti i ristoranti del Nord America; la stessa abitudine stava prendendo piede anche a Parigi. Ma fu sollevato nel non vedere alcun pacchetto di sigarette nascosto nella borsa; non sapeva che cosa avrebbe fatto se lei fosse stata una fumatrice.

«Bene» disse Carly.

Jake fece un sorriso forzato. Era davvero una situazione imbarazzante. Lui sapeva com’era fatta, senza vestiti. Certo… certo, si parlava di ventuno anni più tardi. Adesso doveva avere la sua stessa età, più o meno, sui ventidue, ventitré; e due decenni più tardi sarebbe stata ben oltre la quarantina: tutt’altro che sfatta, tutt’altro che segnata dall’età. Eppure…

Era deliziosa, ventuno anni dopo, ma certo adesso lo era ancora di più, certo…

Sì, sì, c’era ancora attesa, meraviglia, tensione.

Naturalmente anche lei aveva visto nudo Jake, vent’anni e passa più avanti nel tempo. Lui sapeva com’era fatta… il colore castano dei capelli di lei era naturale, o quanto meno identico in entrambe le parti del corpo; capezzoli rosso scuro, e quelle stesse deliziose lentiggini che disegnavano una costellazione sui suoi seni. Ma lui? Come sarebbe stato, fra ventuno anni? Non era un atleta nemmeno adesso. E se avesse messo su qualche chilo? Se i peli del petto gli si fossero ingrigiti?

Forse l’attuale riluttanza della donna si basava su ciò che aveva visto del Jake futuro. Lui non poteva promettere che si sarebbe impegnato, che si sarebbe mantenuto in forma, non poteva promettere niente: contrariamente a lui, Carly sapeva come sarebbe stato nel 2030.

«È bello rivederti» disse Jake, cercando di sembrare calmo, cercando di sembrare dolce.

«Anche per me» disse Carly.

Poi sorrise.

«Che c’è?»

«Niente.»

«No, dai. Dimmelo.»

Lei sorrise di nuovo, poi abbassò gli occhi. «Stavo solo visualizzando noi due nudi» disse.

Jake sentì i propri lineamenti contrarsi in un sorriso tirato. «Anch’io.»

«È strano» disse lei, poi: «Senti, io non vado mai a letto con qualcuno al primo incontro. Voglio dire…»

Jake sollevò le mani sul tavolo. «Neanch’io» disse.

Carly sorrise. Forse, in fin dei conti, era bella come la ricordava.


Il progetto Mosaico non si limitò a rivelare i futuri dei singoli individui. Offrì anche una quantità di informazioni sul futuro dei governi, delle società e delle organizzazioni… compreso lo stesso CERN.

Sembrava che nel 2022 una squadra del Centro — della quale facevano parte Theo e Lloyd — avesse sviluppato un nuovo strumento al servizio della fisica: il Collisore tachioni-tardioni. I tachioni erano particelle che viaggiavano più veloci della luce: più energia portavano, più si avvicinavano alla velocità della luce. Mentre perdevano energia la loro velocità aumentava… tendendo a velocità quasi infinite.

I tardioni, d’altra parte, erano semplice materia: viaggiavano a velocità inferiori a quella della luce. Più energia si pompava in un tardione, più veloce andava. Ma, come aveva asserito il vecchio Einstein, più veloce va, più un tardione acquista massa. Gli acceleratori di particelle, come il grande collisore del CERN, funzionavano trasmettendo grandi energie ai tardioni, portandoli così ad alte velocità, e facendoli urtare fra loro, in modo che rilasciassero tutta la loro energia al momento della collisione delle particelle. Macchine come queste erano enormi.

Ma immaginiamo di prendere un tardione fisso — diciamo un protone, tenuto fermo da un campo magnetico — e di farlo urtare da un tachione. Non servono grandi acceleratori per conferire velocità al tachione, visto che procede già per conto suo a velocità superiore a quella della luce. Tutto quello che occorre fare è accertarsi che urti il tardione.

Così era nato il Collisore TT.

Non richiedeva un tunnel di ventisette chilometri di circonferenza, come l’LHC.

Non costava miliardi di dollari.

Non richiedeva migliaia di addetti per la manutenzione e il funzionamento.

Un CTT aveva più o meno le dimensioni di un forno a microonde. I primi modelli — quelli disponibili nel 2030 — costavano circa quaranta milioni di dollari americani, e ce n’erano solo nove in tutto il mondo. Ma si sapeva già che col tempo sarebbero diventati così economici che ogni università avrebbe potuto averne uno.

L’effetto sul CERN era stato devastante: più di duemilaottocento persone sospese dal lavoro. Anche l’impatto sulle città di St. Genis e Thoiry non era stato di poco conto: all’improvviso, quando i licenziati se ne andarono, si erano resi liberi più di un migliaio di appartamenti e case. Sembrava che l’LHC fosse stato lasciato operativo, ma veniva usato di rado; era molto più semplice fare e rifare esperimenti con il CTT.


«Lo sai che tutto questo è assurdo» disse Carly Tompkins, dopo aver bevuto un sorso del suo caffè etiopico.

Jake Horowitz la guardo con ana interrogativa.

«Ciò che è successo in quella visione» disse Carly, abbassando gli occhi «è stato passionale. Non era come due persone che stanno insieme da vent’anni.»

Jake alzò le spalle. «Io non voglio fare la muffa, non voglio invecchiare. La gente può avere una vita sessuale soddisfacente per decenni.»

«Non in quel modo. Non strappandosi i vestiti di dosso sul posto di lavoro.»

Jake corrugò la fronte. «Non si può mai dire.»

Carly tacque per qualche secondo, poi: «Vuoi venire a casa mia? Sai, ci prendiamo un caffè…»

Erano seduti in una caffetteria, in fin dei conti, perciò l’offerta non aveva molto senso. Il cuore di Jake batteva come un forsennato. «Certo» disse. «Sarebbe bello.»

19

Un’altra serata nell’appartamento di Lloyd, lui e Michiko seduti sul divano, e il silenzio fra loro.

Lloyd si mordicchiava le labbra, pensieroso. Perché non poteva semplicemente andare avanti e sposare quella donna? Lui l’amava. Perché non poteva semplicemente ignorare ciò che aveva visto? In fondo milioni di persone già lo facevano… per la maggior parte del mondo l’idea di un futuro immutabile era ridicolo. Lo avevano visto un centinaio di volte al cinema e alla TV: Jimmy Stewart si rende conto che la vita è meravigliosa dopo aver visto il mondo svelarsi di fronte a lui. Superman, disperato per la morte di Lois Lane, si mette a girare intorno alla terra così rapidamente da farla ruotare all’incontrario, consentendogli di tornare a un tempo precedente alla sua morte, e di salvarla. Caesar, figlio degli scienziati scimpanzé Zira e Cornelius, avvia il mondo lungo la strada della fratellanza fra specie diverse, sperando di evitare la distruzione della Terra nell’olocausto nucleare.

Anche gli scienziati si esprimevano in termini di evoluzione contingente. Stephen Jay Gould, prendendo a prestito una metafora dal film di Jimmy Stewart, disse al mondo che se fosse possibile riavvolgere la matassa del tempo, essa si dipanerebbe certamente in tutt’altro modo, e alla fine emergerebbe qualcosa di diverso dagli esseri umani.

Ma Gould non era un fisico; ciò che proponeva come esperimento ipotetico era impossibile. Il meglio che si poteva fare era una semplice ripetizione di quello che era accaduto durante il Cronolampo… spostare a un altro momento il segnalibro dell’adesso. Il tempo era fisso; ogni fotogramma era rimasto impressionato all’interno della macchina fotografica. Il futuro non era un lavoro in corso; era reale e tangibile, e per quante volte Stephen Jay Gould potesse guardare La vita è meravigliosa, Clarence avrebbe avuto sempre le sue ali…

Lloyd accarezzò i capelli di Michiko, domandandosi che cosa ci fosse scritto su quel particolare strato del blocco spaziotemporale.


Jake era sdraiato sulla schiena, un braccio piegato dietro la testa. Carly se ne stava accoccolata accanto a lui, e giocherellava con in peli del suo petto. Erano entrambi nudi.

«Sai,» disse Carly «ci è capitata proprio un’occasione magnifica.»

Jake sollevò le ciglia. «Eh?»

«Quante coppie possono contare su questo, oggi come oggi? La certezza che rimarranno insieme per altri vent’anni! E non solo insieme, ma sempre con la stessa passione, con lo stesso…» Si interruppe. Una cosa era discutere il futuro, un’altra, a quanto sembrava, dare voce prematura alla parola amore.

Rimasero in silenzio per un poco. «Non c’è qualcuna, no?» domandò alla fine Carly, con voce esitante. «A Ginevra?»

Jake scosse la testa, facendo frusciare i capelli rossi contro il cuscino. «No.» Poi deglutì, chiamando a raccolta tutto il suo coraggio. «Ma c’è qualcuno qui, vero? Il tuo compagno… Bob.»

Carly sospirò. «Mi dispiace» disse. «Lo so che una bugia è un modo orribile per iniziare una relazione. Io… senti, io non sapevo niente di te. E i fisici maschi sono dei tali sporcaccioni, davvero. Ho addirittura una vecchia fede che qualche volta metto al dito in occasione delle conferenze. Non c’è nessun Bob; ho solo fatto finta che ci fosse in modo da lasciarmi una facile via d’uscita, capisci, nel caso le cose non fossero andate bene.»

Jake non sapeva se sentirsi offeso oppure no. Una volta, quando aveva sedici o diciassette anni, stava chiacchierando con la ragazza di suo cugino Howie in una serata di giugno, proprio di fronte a casa di lui. C’era un gruppo di persone nei paraggi; avevano organizzato una cena all’aperto sul retro. Era buio, ed era una serata luminosa, e la ragazza aveva avviato una conversazione con lui quando si era accorta che Jake stava fissando le stelle. Lei non ne conosceva i nomi, e si era stupita che Jake fosse in grado di indicare la Stella polare, oltre ai tre angoli del triangolo estivo, Vega, Deneb e Altair. Aveva cominciato a mostrarle Cassiopea, ma non era facile distinguerla, seminascosta com’era dalle cime degli alberi che crescevano dietro la casa. Però voleva che la vedesse… la grande w nel cielo, una delle costellazioni più facili da individuare, una volta presa la necessaria confidenza con il cielo. E così aveva detto, vieni, attraversa la strada con me, dall’altra parte riuscirai a vederla. Era una graziosa strada periferica, priva di traffico a quell’ora di sera, con le case illuminate dietro i prati accuratamente rasati.

Lei lo aveva guardato e aveva detto: «No.»

Jake non aveva capito, almeno non prima di mezzo secondo. La ragazza pensava che lui potesse cercare di sbatterla a terra dietro un cespuglio, tentare di violentarla. Era stato travolto da emozioni diverse: si sentiva offeso per la sola idea… lui era il cugino di Howie, in fin dei conti! Ma anche triste: provava dispiacere per ciò che doveva significare essere donna, sempre sulla difensiva, sempre impaurita, sempre in cerca di vie d’uscita.

Jake aveva alzato appena le spalle e se ne era andato via, così sbalordito da non riuscire a pensare a qualcosa da replicare. Poco dopo le nuvole avevano coperto le stelle.

«Oh» disse Jake a Carly; non gli venne nessun’altra reazione alla sua menzogna su Bob.

Carly agitò le spalle. «Scusami, Una donna deve essere cauta.»

Jake non aveva pensato di sistemarsi, ma… ma… che bel regalo! Eccola lì, una donna bella, intelligente, che lavorava nel suo stesso campo; con in più la certezza che sarebbero rimasti insieme, sempre felici, per altri due decenni.

«A che ora devi andare a lavorare domani?» le chiese Jake.

«Penso che mi darò malata» rispose Carly. Jake si rigirò sul letto, guardandola in faccia.


Dimitrios Procopides era seduto sul divano pieno di cianfrusaglie, fissando la parete. Ci stava pensando fin dalla visita di suo fratello Theo, due giorni prima. Il fatto che a migliaia — forse a milioni — stessero rimuginando la stessa cosa non lo consolava affatto.

Sarebbe stato così facile farlo: aveva acquistato i tranquillanti con tanto di ricetta, e non aveva avuto problemi a trovare in rete tutte le informazioni sulla quantità necessaria per una dose fatale di quella particolare marca. Per uno, come Dimitrios, che pesava settantacinque chili, diciassette piccole pastiglie potevano essere sufficienti, e ventidue gli garantivano la certezza assoluta, mentre trenta lo avrebbero probabilmente fatto vomitare, annullando gli effetti.

Sì, poteva riuscirci. E sarebbe stato indolore… precipitare in un sonno profondo che sarebbe durato per sempre, tutto lì.

Ma c’era un comma 22: uno dei pochi romanzi americani che aveva letto gli aveva chiarito il concetto. Suicidandosi — non aveva paura di dirlo con chiarezza — poteva dimostrare che il suo futuro non era prefissato; dopotutto, non solo nella sua visione, ma in quella del gestore del ristorante, vent’anni dopo lui era ancora vivo. Perciò, se oggi si fosse ucciso — se avesse ingoiato adesso quelle pillole — avrebbe dimostrato in modo definitivo che il futuro non era immutabile. Ma sarebbe stato come le vittorie di Pirro sui romani a Eraclea e Asculum, il tipo di successo che porta ancora il suo nome, una vittoria che ha un prezzo orribile. Perché se si fosse suicidato, allora sarebbe voluto dire che quel futuro che lo aveva così depresso non era inevitabile… ma, naturalmente, lui non sarebbe più stato in vita per realizzare il suo sogno.

Forse c’erano dei sistemi meno drastici per sondare la realtà del futuro. Poteva strapparsi un occhio, tagliarsi un braccio, farsi un tatuaggio sul viso: qualsiasi cosa che rendesse il suo aspetto permanentemente diverso da quello che gli altri avevano osservato nelle loro visioni.

Ma no. Non avrebbe funzionato.

Non avrebbe funzionato perché nessuna di quelle cose era permanente. Un tatuaggio si poteva rimuovere, un braccio si poteva sostituire con una protesi, nella cavità orbitale si poteva inserire un occhio di vetro.

No: non poteva avere un occhio di vetro; nella sua visione di quel dannato ristorante lui aveva una normale vista stereoscopica. Perciò, strapparsi un occhio sarebbe stata una prova convincente per determinare se il futuro era immutabile o no.

A parte il fatto che…

A parte il fatto che si stavano facendo grandi passi nel campo delle protesi e della genetica. Chi poteva dire che fra due decenni non sarebbe stato possibile clonargli un occhio nuovo, o un braccio nuovo? E chi poteva dire che lui avrebbe rifiutato una soluzione del genere, l’occasione per rimediare al danno provocato da un gesto impulsivo commesso in gioventù?

Suo fratello Theo voleva disperatamente convincersi che il futuro non era prefissato. Ma il socio di Theo, quel tipo alto, il canadese… come diavolo si chiamava? Simcoe, ecco. Simcoe aveva sostenuto l’esatto contrario: Dim lo aveva visto alla televisione, quando aveva affermato a chiare lettere che il futuro era scolpito nella pietra.

E se il futuro era scolpito nella pietra — se Dim non ce l’avrebbe mai fatta a sfondare come scrittore — allora lui proprio non aveva voglia di andare avanti. Le parole erano il suo unico amore, la sua unica passione… e, a essere onesti, il suo unico talento. La matematica non faceva per lui (com’era stato duro seguire Theo attraverso le stesse scuole, dove gli insegnanti si aspettavano che lui dimostrasse le stesse capacità del fratello!), non gli piaceva nessuno sport, non sapeva cantare, né dipingere, e davanti ai computer era una frana.

Naturalmente, se si fosse sentito così disperato in futuro, avrebbe potuto uccidersi allora.

Ma sembrava che non lo avesse fatto.

Certo che no. I giorni e le settimane scorrono via abbastanza facilmente; non necessariamente ci si accorge che la propria vita non procede, non progredisce, non diventa ciò che si è sempre desiderato.

No, sarebbe stato molto facile finire per vivere proprio quel genere di vita — quella vita vuota che aveva visto nella visione — se avesse lasciato che gli scivolasse addosso, giorno dopo giorno, uno più triste dell’altro.

Ma gli era stato fatto un dono, il dono di un’immagine anticipata. Quel Simcoe aveva parlato della vita come di una pellicola già impressionata… ma l’operatore aveva inserito nel proiettore la bobina sbagliata, e ci aveva messo due minuti prima di rendersi conto dell’errore. C’era stato un salto, una rapida transizione dall’oggi a un domani futuro, poi di nuovo indietro. Quella prospettiva era diversa dal semplice svolgersi della vita, un fotogramma dopo l’altro. Adesso Dim poteva vedere con chiarezza che la vita davanti a lui non era quella che lui voleva… che, in un modo molto concreto, se era destinato a servire moussaka e fiammeggiare saganaki, era già morto.

Dim tornò a fissare la boccetta delle pillole. Sì, tanti altri, in tutto il mondo, stavano certamente contemplando il loro futuro, domandandosi se, adesso che sapevano quello che li aspettava, avevano ancora voglia di andare avanti.

Se anche uno solo di loro lo avesse fatto — se si fosse veramente tolto la vita — di certo questo avrebbe provato che il futuro si poteva cambiare. Senza dubbio questo pensiero era venuto anche agli altri. Senza dubbio molti stavano aspettando che qualcun altro lo facesse per primo, stavano aspettando le notizie che avrebbero certamente invaso la rete: ‘Trovato morto un uomo visto da altri nel 2030’. ‘Il suicidio dimostra che il futuro è fluido’.

Dim prese di nuovo la boccettina di plastica ambrata, girandola da una parte e dall’altra, sentendo il rumore delle pillole che sbattevano fra loro.

Sarebbe stato facile aprire il coperchio, premendolo contro la mano — come stava facendo adesso — e ruotarlo, per annullare il congegno di sicurezza, lasciando fuoriuscire le pillole.

Di che colore erano? si domandò. Buffo, quel pensiero: Dim stava accarezzando l’idea di togliersi la vita, e non sapeva di che colore fosse il potenziale strumento della sua morte. Tolse il coperchio. C’era del cotone, ma non abbastanza da tenere ferme le pillole. Lo estrasse.

Be’, che mi prenda…

Le pillole erano verdi. Chi lo avrebbe mai detto? Pillole verdi; una morte verde.

Dim piegò la boccetta e picchiettò la base finché una pillola non gli cadde in mano. Nella parte centrale c’era una piegatura, probabilmente per poterla spezzare in due con l’unghia del pollice allo scopo di assumerne una dose minore.

Ma lui non voleva una dose minore.

Aveva a portata di mano una bottiglia d’acqua; l’aveva presa non gassata — contrariamente alle sue abitudini — per evitare che l’anidride carbonica interferisse con l’azione del farmaco. Si mise la pillola in bocca. Si aspettava quasi un sapore di limone o di menta, ma la pillola non sapeva di niente. La tavoletta era ricoperta da una sottile pellicola, simile a quella dell’aspirina premium. Prese la bottiglia d’acqua e ne mandò giù un sorso. La pellicola fece il suo dovere: la pillola gli scivolò dolcemente lungo la gola.

Piegò di nuovo la boccetta, e ne fece cadere altre tre pillole verdi, se le infilò in bocca e le inghiottì con una grossa sorsata di acqua minerale.

Erano quattro; il massimo della dose per un adulto, segnato sull’etichetta, era di due pastiglie, e si specificava che era meglio evitarne l’uso per più notti consecutive.

Dim era riuscito a ingoiarne tre insieme senza difficoltà. Ne lasciò cadere altre tre nel palmo della mano, le mise in bocca e bevve un’altra sorsata d’acqua.

Sette. Un numero fortunato, quello. Almeno così si diceva.

Voleva veramente farlo? Aveva ancora il tempo per fermarsi. Poteva chiamare il numero del pronto soccorso, o infilarsi un dito in gola.

Oppure…

Oppure pensarci sopra un altro po’. Concedersi qualche minuto in più per riflettere.

Probabilmente sette pastiglie, non erano sufficienti a fargli davvero del male. Certamente no. Era quasi sicuro che un sovradosaggio come quello capitasse piuttosto spesso. Be’, non aveva forse letto in rete che ne occorrevano almeno altre dieci?

Lasciò cadere altre pillole nel palmo della mano e restò lì a fissare il mucchietto di pietruzze verdi.

20

Nono giorno: mercoledì 29 aprile 2009

«Voglio mostrarti qualcosa» disse Carly.

Jake sorrise e con un gesto della mano le fece cenno di procedere. Si trovavano adesso al TRIUMF, il Tri-University Meson Facility, il laboratorio canadese più importante nel campo della fisica delle particelle.

Lei si avviò lungo un corridoio, Jake la seguì. Oltrepassarono alcune porte con sopra attaccati dei disegni umoristici riferiti alle scienze. S’imbatterono anche in qualche dipendente, ognuno dei quali portava dei dosimetri cilindrici che avevano lo stesso scopo, ma non somigliavano affatto alle piastrine di plastica trasparente che tutti indossavano al CERN.

Alla fine Carly si fermò. Era giunta di fronte a una porta. Da un lato c’era un manicotto antincendio arrotolato dietro un vetro protettivo, dall’altro una fontanella. Carly bussò. Non vi fu risposta, così lei girò la maniglia e aprì la porta. Entrò e, con un dito ripiegato e un sorriso, indicò a Jake di seguirla. Lui lo fece e, una volta dentro, Carly richiuse la porta dietro di loro.

«Allora?» disse Carly.

Jake alzò le spalle, senza capire.

«Non lo riconosci?» gli chiese Carly.

Jake si guardò intorno. Era un laboratorio spazioso, con le pareti beige e…

Oh, mio Dio!

Sì, le pareti adesso erano beige, ma nel corso dei successivi vent’anni sarebbero state ridipinte di giallo…

Era la sala della visione. C’era il grafico della tavola periodica degli elementi, proprio come lo aveva visto lui. E quel banco da lavoro proprio lì… il banco su cui avevano fatto l’amore.

Jake si sentì arrossire.

«Proprio quello, eh?» disse Carly.

«Proprio quello» confermò Jake.

Naturalmente non potevano inaugurarlo proprio in quel momento; si era nel bel mezzo della giornata lavorativa…

Ma la sua visione… insomma, se il calcolo del tempo era corretto, si era verificata alle sette e ventuno, ora di Ginevra, che corrispondeva a… alle due e ventuno, ora di New York e, vediamo, alle dodici e ventuno ora di Vancouver. Undici e ventuno del mattino… di mercoledì. Come erano riusciti a fare l’amore a quell’ora, in un giorno lavorativo? Oh, certo, le abitudini sessuali avrebbero continuato a diventare sempre più libere nel corso dei prossimi vent’anni, come era successo nei precedenti cinquanta, ma di certo anche nel lontano 2030 non doveva essere facile farsi una scopata con la propria donna in pieno orario d’ufficio. Ma forse il 23 ottobre 2030 era festa; magari tutti gli altri erano a casa. Jake ricordava vagamente che in Canada il Giorno del ringraziamento cadeva in qualche giorno di ottobre.

Camminò per la sala, paragonando la realtà presente con quella che gli aveva mostrato la sua visione. C’era una doccia d’emergenza, abbastanza comune in laboratori dove si usavano prodotti chimici, degli armadietti per l’apparecchiatura e una piccola workstation. Nella visione, in quello stesso punto, c’era stato un personal computer, ma naturalmente era un modellò del tutto differente. E lì accanto…

Lì accanto c’era stato un congegno di forma cubica, di circa mezzo metro di lato, con due lamine piatte che spuntavano dalla faccia superiore, L’una di fronte all’altra.

«Quella cosa che era lì» disse Jake. «Voglio dire, quella cosa che sarà lì. Hai idea di che cosa sia?»

«Forse un Collisore tachioni-tardioni»

Jake sollevò le sopracciglia. «Potrebbe…»

La porta del laboratorio si spalancò ed entrò un grosso canadese. «Oh, scusatemi» disse. «Non volevo disturbare.» «Nessun disturbo» disse Carly, che poi sorrise a Jake. «Torneremo più tardi.»


«Vuoi la prova?» disse Michiko. «Tu vuoi sapere con sicurezza se ci sposeremo? C’è un solo modo per saperlo.»

Lloyd si trovava da solo nel suo ufficio al CERN, a esaminare una serie di tabulati sull’attendibilità del ciclo di operazioni dell’anno prima a 14-TeV, in cerca di una qualsiasi indicazione di instabilità precedente alla prima operazione a 1.150-TeV… quella che aveva provocato la dislocazione temporale. Michiko entrò in quel momento, e quelle furono le sue prime parole.

Lloyd la fissò con aria corrucciata. «Un modo per saperlo? Quale?»

«Ripeti l’esperimento, e vedi se ottieni gli stessi risultati.»

«Non possiamo farlo» disse Lloyd, sbalordito. Stava pensando a tutte le persone che erano morte l’ultima volta. Lui non aveva mai creduto nella filosofia del ‘ci sono cose che il genere umano non deve sapere’, ma se c’era un test che non andava proprio ripetuto, era certamente quello.

«Naturalmente bisognerà annunciare in anticipo il nuovo tentativo» disse Michiko. «Avvisare tutti, accertarsi che nessuno stia volando, stia nuotando, si trovi su una scala. Accertarsi che l’intera razza umana se ne stia seduta o sdraiata quando la cosa avverrà.»

«Non c’è modo di farlo.»

«E invece c’è» ribattè lei. «CNN. NHK. BBC. CBC.»

«Ci sono posti nel mondo in cui ancora non arriva la televisione, e nemmeno la radio, se è per questo. Non saremmo in grado di avvisare tutti.»

«Non sarebbe facile avvisare tutti,» disse Michiko «ma si potrebbe fare, certamente con una percentuale di successo del novantanove per cento.»

Lloyd aggrottò la fronte. «Novantanove per cento, eh? Ci sono sette miliardi di persone. Se anche ci mancasse quell’uno per cento, significherebbe pur sempre settanta milioni di persone da avvisare.»

«Potremmo fare di meglio. Ne sono sicura. Forse avremmo dei problemi con qualche centinaio di migliaia di persone che non possono essere informate… e, diciamoci la verità, quelle poche centinaia di migliaia si troverebbero comunque in aree non tecnologiche. Non c’è nessuna possibilità che guidino automobili o pilotino aeroplani.»

«Potrebbero essere mangiate dagli animali.»

Michiko tagliò corto. «Davvero? Interessante concetto. Mi pare che gli animali non abbiano perso conoscenza durante il Cronolampo, vero?»

Lloyd si grattò la testa. «Di certo non abbiamo visto le strade piene di uccelli caduti dal cielo. E poi, a quanto ci risulta, nessuno ha trovato giraffe che si sono spezzate le zampe cadendo. L’impressione è stata che il fenomeno fosse legato alla consapevolezza; ho letto sul Tribune che gli scimpanzé e i gorilla, interrogati col linguaggio dei segni, hanno riferito di una specie di effetto — molti hanno affermato di trovarsi in posti differenti — ma non avevano a disposizione il vocabolario e il sistema psicologico di riferimenti per confermare o negare di avere effettivamente visto il loro futuro.»

«Non importa; in ogni caso quasi tutti gli animali selvaggi non mangiano le prede prive di sensi; pensano che siano morte, e la selezione naturale ha eliminato da tempo l’abitudine di mangiare carogne in molte forme di vita. No, io sono sicura che potremmo raggiungere quasi tutti, e comunque i pochi che non dovessimo raggiungere è assai improbabile che si trovino in una situazione di rischio.»

«Tutto giusto,» disse Lloyd «ma non possiamo semplicemente annunciare che abbiamo intenzione di ripetere l’esperimento. Ci bloccherebbero le autorità svizzere o quelle francesi, se non lo facesse prima nessun altro.»

«No, se riusciamo ad avere il permesso. Se riusciamo ad avere il permesso da tutti.»

«Oh, andiamo! Gli scienziati possono essere curiosi sulla riproducibilità o meno di un evento, ma che cosa dovrebbe importare a tutti gli altri? Perché il mondo dovrebbe concedere il permesso? A meno che, naturalmente, non gli faccia comodo riprodurre i risultati per confermare la mia colpevolezza, o quella del CERN.»

Michiko sbatté gli occhi. «Tu non rifletti, Lloyd. Tutti desiderano dare un’altra occhiata al futuro. Noi non siamo i soli con una situazione in sospeso dopo la visione. La gente vuole sapere di più sul suo domani. Se tu gli dici che puoi offrigli una nuova occhiata al futuro, nessuno ti metterà i bastoni fra le ruote. Al contrario, smuoveranno mari e monti perché questo avvenga.»

Lloyd rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. «Ne sei convinta?» disse alla fine. «Io sarei portato a credere che ci sarebbe un bel po’ di resistenza.»

«No, tutti sono curiosi. Tu non vuoi sapere chi era quella donna?» Una pausa. «Non vuoi sapere per certo chi era il padre della bambina con cui mi trovavo? Inoltre, se tu ti sbagli sull’immutabilità del futuro, allora forse tutti vedremo un domani completamente diverso, uno nel quale Theo non muore. O magari avremo la visione fugace di un altro tempo: cinque anni più avanti, o cinquanta. Ma il punto è che non c’è una persona al mondo che non vorrebbe una nuova visione.»

«Non lo so» disse Lloyd.

«Be’, allora mettila in questo modo: tu ti stai torturando per il senso di colpa. Se provi a riprodurre il Cronolampo e non ci riesci, allora l’LHC non c’entra niente, in fondo. E questo significa che puoi rilassarti.»

«Forse hai ragione» disse Lloyd. «Ma da chi posso ottenere il permesso di riprodurre l’esperimento? Chi mai potrebbe autorizzarmi a farlo?»

Michiko si strinse nelle spalle. «La città più vicina è Ginevra» disse. «Qual è la ragione per cui è più famosa?»

Lloyd aggrottò la fronte, sciorinando la litania delle possibili risposte giuste. Poi gli venne in mente: la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU, era stata fondata proprio a Ginevra nel 1920. «Mi stai suggerendo di portare la cosa alle Nazioni Unite?»

«Certo. Potresti andare a New York e sottoporre il tuo caso.»

«Le Nazioni Unite non si mettono mai d’accordo su niente» osservò Lloyd.

«Su questo saranno d’accordo» disse Michiko. «L’idea è troppo seducente per respingerla.»


Theo aveva parlato con i genitori e con i vicini di casa, ma nessuno di loro sembrava avere avuto informazioni significative sulla sua futura morte. Così prese un 7117 della Olympic Airlines e tornò a Ginevra. Era stato Franco Della Robbia ad accompagnarlo all’aeroporto, ma stavolta Theo prese un taxi — piuttosto caro, trenta franchi svizzeri — per tornare al campus. Dal momento che sull’aereo non gli avevano dato nulla da mangiare, decise di andare subito a mettere qualcosa sotto i denti al bar del centro di controllo dell’LHC. Quando entrò, con sua grande sorpresa vide Michiko Komura seduta da sola a un tavolo sul retro. Theo prese una bottiglietta di succo d’arancia e un piatto di salsicce longeole, e puntò verso di lei, oltrepassando diversi gruppetti di fisici che mangiavano e discutevano ogni possibile teoria che potesse spiegare il Cronolampo. In quel momento capì perché Michiko era sola; l’ultima cosa alla quale voleva pensare era proprio l’evento che aveva provocato la morte di sua figlia.

«Ciao, Michiko» disse Theo.

Lei sollevò lo sguardo. «Oh, ciao, Theo. Bentornato.»

«Grazie. Ti dispiace se mi metto qui?»

Michiko indicò con un gesto della mano il posto vuoto di fronte a lei. «Com’è andato il viaggio?»

«Non ho saputo granché.» Pensò di non dire altro, ma, insomma, era stata lei a chiederglielo. «Mio fratello Dimitrios… lui dice che la visione ha rovinato il suo sogno. Vuole diventare un grande scrittore, ma sembra che non lo diventerà mai.»

«E triste» disse Michiko.

«Tu che fai?» chiese Theo. «Come va?»

Michiko allargò appena le braccia, come se non ci fosse una risposta semplice. «Sopravvivo. Ci sono minuti interi in cui riesco a non pensare a quello che è successo a Tamiko.»

«Mi dispiace tanto» disse Theo, per la centesima volta. Una lunga pausa. «Per il resto come va?»

«Bene.»

«Proprio bene?»

Michiko stava mangiando una quiche di formaggio au bleu de Gex. Aveva davanti anche una mezza tazza di tè; ne bevve un sorso, mentre raccoglieva i pensieri. «Non lo so. Lloyd… lui non è sicuro di volere arrivare al matrimonio.»

«Sul serio? Mio Dio.»

Michiko si guardò intorno, valutando fino a che punto fossero soli; la persona più vicina era quattro tavoli più in là, apparentemente assorta nella lettura di qualcosa su un’agenda elettronica. Sospirò, poi alzò appena le spalle. «Io amo Lloyd… e so che anche lui mi ama. Ma non riesce a sopportare l’idea che il nostro matrimonio non durerà.»

Theo alzò le ciglia. «Be’, viene da una famiglia spezzata. Sembra che la separazione sia stata un brutto colpo, per lui.»

Michiko annuì. «Lo so, sto cercando di capire. Davvero, ci sto provando.» Una pausa. «Come va il matrimonio dei tuoi genitori?»

Theo fu sorpreso dalla domanda. Aggrottò la fronte mentre ci pensava sopra. «Bene, mi sembra; sono ancora felici, direi. Papà non è mai stato molto espansivo, ma pare che a mamma non sia mai importato troppo.»

«Mio padre è morto» disse Michiko. «Ma immagino che fosse un giapponese tipico della sua generazione. Si teneva tutto dentro, e il suo lavoro era tutta la sua vita.» Fece una pausa. «Un attacco di cuore a quarantasette anni, quando io ne avevo ventidue.»

Theo cercò le parole giuste. «Sono sicuro che sarebbe stato molto orgoglioso di te, se fosse vissuto abbastanza da vedere quello che sei diventata.»

Michiko sembrò prendere sul serio quell’affermazione, invece di ignorarla come semplice banalità. «Può darsi. Il suo punto di vista tradizionale non prevedeva che le donne facessero carriera in campo ingegneristico.»

Theo aggrottò la fronte. In effetti non sapeva molto della cultura giapponese. C’erano state delle conferenze in Giappone, alle quali avrebbe potuto farsi invitare, ma anche se era stato in tutta Europa, una volta in America, e a Hong Kong quando era ancora un ragazzo, Theo non aveva mai sentito il bisogno di recarsi in Giappone. Ma Michiko era così affascinante… ogni suo gesto, ogni sua espressione, il suo modo di parlare, il suo sorriso e il modo in cui arricciava il naso piccolo, la sua risata dai toni acuti. Come poteva essere affascinato da lei e non dalla sua cultura? Non avrebbe dovuto sapere com’era fatto il suo popolo, com’era il suo paese, ogni tessera del crogiolo che l’aveva formata?

O doveva essere onesto fino in fondo, e riconoscere che il suo era un interesse puramente sessuale? Michiko era di certo bellissima… ma al CERN lavoravano tremila persone, metà delle quali di sesso femminile; Michiko non era l’unica bella donna.

Eppure c’era qualcosa in lei… qualcosa di esotico. E poi, be’, ovviamente a lei piacevano gli uomini bianchi…

No, non era quello. Non era quello che la rendeva affascinante. Non se ci pensava bene, se guardava la cosa in faccia, senza cercare scuse. Quello che era più affascinante in Michiko era il fatto che avesse scelto Lloyd Simcoe, il collega di Theo. Erano entrambi scapoli, entrambi disponibili. Lloyd aveva una decina d’anni più di Michiko, Theo era otto anni più giovane di lei.

Non che Theo fosse una specie di stakanovista, e che il solo Simcoe fosse capace di godersi le gioie semplici della vita. Theo usciva spesso sul lago Lemano in barche a vela a noleggio, giocava a croquet e badminton sui campi del CERN, trovava il tempo per andare ad ascoltare jazz allo Chat noir di Ginevra o seguire il teatro alternativo all’ Usine; di tanto in tanto faceva anche una puntatina al Grand Casino.

Ma quella donna affascinante, bellissima, intelligente, aveva scelto il posato, tranquillo Lloyd.

E adesso, a quanto sembrava, Lloyd non era pronto a sposarla.

Di certo non era un buon motivo per volerla per sé. Ma il cuore era separato dalla fisica; le sue reazioni potevano non essere prevedibili. Lui la voleva e, be’, se Lloyd aveva intenzione di farsela scivolare fra le dita…

«Però» disse Theo, rispondendo alla fine al commento di Michiko sul fatto che suo padre non avrebbe approvato la scelta di diventare ingegnere, «avrebbe certamente dovuto ammirare la tua intelligenza.»

Michiko alzò le spalle. «Fino a quando si fosse riflessa positivamente su di lui, immagino di sì.» Fece una pausa. «Ma non avrebbe approvato il mio matrimonio con un bianco.»


Il cuore di Theo mancò un battito… ma se fosse per il bene di Lloyd o per il suo, non avrebbe potuto dirlo. «Oh.»

«Non aveva nessuna fiducia nell’occidente. Non so se lo sai, ma in Giappone va molto di moda fra i giovani indossare abiti con frasi inglesi scritte sopra. Non importa quello che dicono… quello che importa è la dimostrazione di un’adesione alla cultura americana. In effetti, per chi conosce l’inglese, sono espressioni di uso piuttosto comune. ‘Fragile: non agitare’, ‘Consumare preferibilmente entro la data di scadenza’, ‘La dichiarazione dei diritti dell’uovo’, ‘Quando sorrido mi si arriccia il naso’. La dichiarazione dei diritti dell’uovo… quando l’ho vista non ho potuto fare a meno di ridere. Un giorno tomai a casa con una maglietta che aveva sopra delle parole inglesi… solo parole, nemmeno una frase, parole di colori differenti su fondo nero: ‘puppy’, ‘ketchup’, ‘hockey rink’, ‘very’ e ‘purpose’. Mio padre mi punì per avere indossato una maglietta del genere.»

Theo cercò di mostrarsi partecipe, domandandosi nel contempo sotto quale forma si fosse manifestata quella punizione. Nessuna attenuante… o forse i genitori giapponesi concedevano qualche attenuante ai figli? L’avevano mandata in camera sua? Decise di non chiederglielo.

«Lloyd è un uomo buono» disse. Le parole gli vennero fuori senza che nemmeno ci avesse pensato; forse erano sgorgate da qualche innato senso di lealtà che fu felice di accorgersi di possedere.

Michiko rifletté anche su quella frase; era portata a riflettere su ogni commento, cercandovi una verità nascosta.

«Oh, sì» disse. «E un uomo molto buono. Si preoccupa che il nostro matrimonio possa non durare per sempre, a causa di quella stupida visione… ma ci sono così tante cose delle quali, vivendo con lui, so che non dovrò mai preoccuparmi. Non mi farà mai del male, di questo sono sicura.

Non mi umilierà mai, né mi metterà mai a disagio. E ha la grande capacità di ricordare i particolari. Una volta, qualche mese fa, gli ho detto incidentalmente i nomi delle mie nipoti. L’altra settimana ne stavamo riparlando, e lui se li ricordava tutti. Perciò posso essere sicura che non dimenticherà mai il giorno del nostro anniversario di matrimonio o del mio compleanno. Ho avuto altri uomini — sia giapponesi che bianchi — ma non ce n’è mai stato uno che mi abbia dato la stessa sicurezza, la stessa convinzione che sarebbe stato dolce e gentile con me.»

Theo si sentì a disagio. Pensava anche a se stesso come a un uomo buòno, certamente incapace di mettere le mani addosso a una donna. Ma, insomma, lui aveva il carattere di suo padre; nel corso di una discussione, se bisognava dire la verità, sì, lui poteva essere capace di dire cose che avevano lo scopo di ferire. E in verità, un giorno qualcuno lo avrebbe odiato abbastanza da volerlo uccidere. Lloyd, il buon Lloyd, avrebbe mai potuto suscitare sentimenti del genere in un altro essere umano?

Fece un leggero diniego, scacciando quei pensieri. «Hai scelto bene» le disse.

Michiko chinò la testa, accettando il complimento, poi aggiunse: «Anche Lloyd.» Theo ne fu sorpreso; non era da Michiko essere immodesta. Ma le sue parole successive resero chiaro ciò che intendeva dire. «Non avrebbe potuto scegliere una persona migliore come suo collaboratore.»

Non ne sono così sicuro, pensò Theo, ma non lo disse ad alta voce.

Naturalmente non poteva corteggiare Michiko. Era la fidanzata di Lloyd.

E pòi…

E poi, non erano i suoi affascinanti occhi giapponesi.

Non era nemmeno la gelosia, o il fascino nato dal fatto che Michiko avesse scelto Lloyd invece di lui.

In cuor suo Theo conosceva il vero motivo del suo improvviso interesse per lei. Non poteva non conoscerlo. Immaginava che se si fosse imbarcato in qualche nuova, folle vita, se avesse svoltato all’improvviso, se avesse compiuto una mossa del tutto imprevedibile — tipo fuggire via e sposare la fidanzata del suo collega — in tal caso, in qualche modo, avrebbe fottuto il destino, cambiando il suo futuro in modo così radicale da non finire di fronte al muso di una pistola carica.

Michiko era straordinariamente intelligente, ed era molto bella. Ma lui non l’avrebbe corteggiata, farlo sarebbe stato da pazzi.

Theo si sorprese quando una risatina gli sgorgò dalla gola… ma si divertì anche, in un certo senso. Forse Lloyd aveva ragione, forse l’intero universo era un blocco solido, e il tempo immutabile. Oh, Theo aveva pensato di fare qualcosa di folle, ma poi, dopo quella che gli era sembrata un’attenta riflessione, valutando le opzioni e riflettendo sulle sue stesse motivazioni, aveva finito col fare esattamente ciò che avrebbe fatto se la discussione non fosse mai avvenuta.

Il film della sua vita continuava a svolgersi, un fotogramma dopo l’altro, tutti già impressionati.

21

Michiko e Lloyd avevano programmato di non andare a vivere insieme fino al loro matrimonio ma, a parte il tempo che aveva passato a Tokyo, Michiko aveva finito col restare tutte le notti a casa di Lloyd fin dal giorno della morte di Tamiko. Per la verità, dal momento del Cronolampo, otto giorni prima, lei era andata a casa solo un paio di volte, di corsa. Tutto ciò che vi vedeva la faceva piangere: le scarpine di Tamiko sullo stuoino davanti alla porta, la sua bambola Barbie appollaiata su una delle sedie del soggiorno (Tamiko la lasciava sempre seduta comoda), il disegno delle sue dita fissato con la calamita allo sportello del frigo, perfino il punto sulla parete dove Tamiko aveva scritto il suo nome col pennarello, e che Michiko non era mai riuscita a ripulire.

Così rimasero a casa di Lloyd, evitando i ricordi.

Ma ogni tanto Michiko si perdeva nel nulla, fissando il vuoto a occhi sbarrati. Lloyd non sopportava di vederla così triste, ma sapeva che non poteva fare niente. Lei avrebbe sofferto… be’, probabilmente per sempre.

E, naturalmente, lui non era uno sprovveduto: aveva letto moltissimi articoli sulla psicologia e sulla vita di relazione, e si era sorbito la sua quota di programmi come Oprah e Giselle. Sapeva che non avrebbe dovuto dirlo, ma a volte le parole venivano fuori da sole, impetuosamente, senza pensarci. L’unica cosa che aveva cercato di fare era riempire il silenzio fra sé e Michiko.

«Lo sai,» le disse «tu avrai un’altra figlia. La tua visione…»

Ma lei lo tacitò con un’occhiata.

Non disse una parola, ma Lloyd riuscì a leggere nei suoi occhi. Non si può rimpiazzare un figlio con un altro. Ogni figlio è speciale.

Lloyd lo sapeva; anche se non era mai stato — non ancora — genitore, lo sapeva. Molti anni prima aveva visto un vecchio film con Mickey Rooney intitolato La commedia umana, ma non era affatto divertente e, alla fin fine, a Lloyd non era nemmeno sembrato troppo umano. Rooney recitava la parte di un soldato americano che durante la seconda guerra mondiale veniva inviato in Europa. Non aveva una famiglia sua, ma viveva una sorta di rapporto vicario con i parenti del suo compagno di branda, attraverso le lettere che lui riceveva da casa. Proprio attraverso quelle lettere, che il suo compagno divideva con lui, Rooney finiva col conoscerli tutti: il fratello, sua madre, la sua innamorata. Poi l’uomo rimaneva ucciso in battaglia e Rooney tornava nel paese dell’amico, riportando indietro i suoi effetti personali. Incontrava il fratello più giovane dell’ucciso all’ingresso della loro fattoria, ed era come se Rooney lo conoscesse da sempre. Alla fine quello stesso fratello entrava in casa e gridava: «Mamma… il soldato è tornato!»

Poi seguivano i titoli di coda.

Il pubblico era portato in qualche modo a pensare che Rooney avrebbe preso il posto del soldato ucciso in Francia.

Era tutto un imbroglio; anche un adolescente — lui aveva forse sedici anni quando aveva visto il film — si rendeva conto che era un imbroglio, sapendo benissimo che una persona non può mai essere sostituita da un’altra.

E adesso, stupidamente, per un breve momento, aveva sottinteso che la figlia futura di Michiko potesse in qualche modo prendere il posto della piccola, scomparsa Tamiko nel suo cuore.

«Scusami» disse.

Michiko non sorrise, ma annuì in modo quasi impercettibile.

Lloyd non sapeva se fosse il momento giusto; per tutta la vita era stato assillato dalla sua incapacità di capire quando fosse il momento giusto: il momento giusto per avvicinare una ragazza al liceo, il momento giusto per chiedere un aumento di stipendio, il momento giusto per interrompere due persone a una festa in modo da potersi presentare, il momento giusto per scusarsi quando qualcun altro voleva evidentemente restarsene da solo. Alcuni avevano un senso innato per capire queste cose, Lloyd no.

Eppure…

Eppure la questione doveva essere risolta.

Il mondo era stato spolverato; la gente continuava a vivere la propria vita. Sì, molti camminavano con le stampelle; sì, alcune compagnie di assicurazione avevano già fatto bancarotta; sì, c’era un numero ancora non precisato di vittime. Ma la vita doveva andare avanti, e la gente tornava a lavorare, andava a casa, mangiava, andava al cinema e si sforzava con maggiore o minore successo di sopravvivere.

«A proposito del matrimonio…» disse, senza concludere la frase, lasciando che le parole galleggiassero fra loro due.

«Sì?»

Lloyd sospirò. «Io non so chi sia quella donna… la donna della mia visione. Non ho idea di chi sia.»

«E allora pensi che potrebbe essere migliore di me, è questo?»

«No, no, no. Certo che no. È solo che…»

Si interruppe, ma Michiko lo conosceva troppo bene. «Tu stai pensando che sul pianeta ci sono sette miliardi di persone. E che ci siamo incontrati solo per puro caso.»

Lloyd annuì, sentendosi in colpa.

«Può darsi» disse Michiko. «Ma se consideri le probabilità contrarie al nostro incontro, io credo che ci sia qualcosa di più. Non è semplicemente che tu hai cercato me, o io te. Tu vivevi a Chicago, io a Tokyo… e siamo finiti tutti e due qui, sul confine franco-svizzero. E puro caso, o destino?»

«Io non penso che tu possa credere nel destino, e contemporaneamente nel libero arbitrio» disse dolcemente Lloyd.

«Immagino di no.» Michiko abbassò gli occhi. «E poi, be’, forse tu non sei davvero pronto per il matrimonio. Tanti dei miei amici, nel corso degli anni, si sono sposati perché erano convinti che fosse la loro ultima occasione. Sai com’è, si arriva a una certa età e si pensa che se non ci si sposa subito, non lo si farà mai più. Se c’è una cosa che la tua visione ha dimostrato, è che io non sono la tua ultima occasione. Immagino che questo dovrebbe toglierti di dosso un po’ di pressione, no? Non hai più bisogno di fare le cose in fretta.»

«Non è questo» disse Lloyd, ma la sua voce era esitante.

«Non è questo?» disse Michiko. «Allora vedi di chiarirti le idee, e subito. Assumiti le tue responsabilità. Ci sposiamo o no?»

Michiko aveva ragione, e Lloyd lo sapeva. La sua fede in un futuro immutabile lo aiutava a superare il suo senso di colpa per ciò che era successo… ma era comunque la posizione che lui aveva sempre assunto come fisico: lo spazio-tempo è un cubo di Minkowski che non cambia mai. Ciò che lui stava per fare lo aveva già fatto: il futuro era indelebile come il passato.

Nessuno, per quanto se ne sapeva, aveva riferito di una visione che confermasse un eventuale matrimonio fra Michiko Komura e Lloyd Simcoe; nessuno aveva raccontato di essersi trovato in una stanza nella quale ci fosse una fotografia di due sposi in una cornice costosa, lui un caucasico alto con gli occhi azzurri e lei una splendida, piccola ragazza asiatica.

Sì, qualunque cosa dicesse adesso, era già stata detta… e sarebbe sempre stata già detta. Però non aveva la più piccola informazione sulla risposta che gli riservava lo spaziotempo. La sua decisione, in quel momento, in quello strato del cubo, in quella pagina, in quel fotogramma del film, gli era ignota, sconosciuta. Non era più facile tradurla in parole — quali che fossero state le parole destinate a uscire dalla sua bocca — anche sapendo che inevitabilmente le aveva/le avrebbe dette.

«Allora?» chiese Michiko. «Che facciamo?»


A tarda sera Theo era ancora al lavoro, e stava esaminando l’ennesima simulazione dell’esperimento all’LHC, quando squillò il telefono.

Dimitrios era morto.

Il suo fratellino. Morto. Suicida.

Ricacciò indietro le lacrime, ricacciò indietro la rabbia.

I ricordi di Dim si affollarono nella mente di Theo. Le volte in cui era stato buono con lui perché era un bambino, le volte in cui si era comportato male. E come quella volta, tanti anni prima, tutti in famiglia fossero rimasti sconvolti quando erano andati a Hong Kong e Dim si era perso. Theo non era mai stato così felice di vedere qualcuno come quando aveva rivisto il piccolo Dim in braccio a un poliziotto che risaliva verso di loro lungo la strada affollata.

Ma adesso, adesso era morto. Theo avrebbe dovuto fare un altro viaggio ad Atene per il funerale. . Non sapeva come sentirsi.

Una parte di lui — una gran parte — era incredibilmente rattristata per la morte di suo fratello.

E un’altra parte…

Un’altra parte era esaltata.

Non perché Dim era morto, naturalmente.

Ma il fatto che fosse morto cambiava tutto.

Perché Dimitrios aveva avuto una visione, confermata da un’altra persona… e per avere una visione era necessario che fosse vissuto almeno per altri vent’anni.

Ma se era morto adesso, nel 2009, non c’era nessun modo in cui potesse essere vivo nel 2030.

, Così l’universo come blocco andava in pezzi. Ciò che la gente aveva visto poteva certo contribuire a creare un’immagine coerente del futuro… ma era solo uno dei possibili domani, e visto che quel domani aveva incluso Dimitrios Procopides, non era più nemmeno quello… non era più nemmeno possibile.

La teoria del caos affermava che piccoli cambiamenti nelle condizioni iniziali possono avere grossi effetti sul tempo. Di certo il mondo del 2030 non poteva più rivelarsi come era stato dipinto nei miliardi di brevi frammenti già colti dalle persone.

Theo percorse a grandi passi i corridoi del centro di controllo: oltre il grande mosaico, oltre la targa sulla quale era inscritto il nome completo originale dell’istituto, oltre gli uffici, i laboratori, i bagni.

Se adesso il futuro era incerto — senza dubbio era destinato a non realizzarsi esattamente come le visioni lo avevano descritto — allora forse Theo poteva rinunciare alla sua ricerca. Sì, in un futuro una volta possibile qualcuno aveva ritenuto opportuno ucciderlo. Ma sarebbero cambiate così tante cose nei due decenni successivi che di certo quello stesso esito non si sarebbe ripetuto. In effetti lui poteva non incontrare mai la persona che lo avrebbe ucciso, non avere con quell’uomo, chiunque fosse, il minimo contatto. O magari quella stessa persona poteva morire prima del 2030. In un modo o nell’altro, l’omicidio di Theo era tutt’altro che inevitabile.

Però…

Però poteva sempre succedere. Di certo alcune cose si sarebbero rivelate proprio come le avevano mostrate le visioni. Coloro che non erano destinati a morire di morte violenta avrebbero vissuto il normale arco della loro vita; coloro che avevano un lavoro sicuro lo avrebbero tranquillamente conservato; i matrimoni che erano buoni e solidi non avevano nessun motivo di infrangersi.

No.

Tanti dubbi, tanto tempo sprecato.

Theo decise di continuare la sua vita, di lasciare perdere quella stupida ricerca, di affrontare il domani a testa alta, qualsiasi cosa potesse riservargli. Naturalmente sarebbe stato attento: di certo non voleva che uno dei punti di convergenza fra il 2030 delle visioni e il 2030 ancora da venire fosse proprio la sua morte. Ma sarebbe andato avanti, tentando di ricavare il massimo dal tempo che gli restava da vivere.

Se solo Dimitrios avesse fatto la stessa cosa.

Camminando si ritrovò davanti al suo ufficio. C’era qualcuno che doveva chiamare, qualcuno che doveva venirlo a sapere da un amico, prima che la cosa gli esplodesse in faccia sui media di tutto il mondo.


Le parole di Michiko rimasero sospese fra loro. «Che facciamo?»

Era ora, Lloyd lo sapeva. Era ora che l’inquadratura giusta venisse illuminata; era il momento della verità, il momento in cui gli sarebbe stata rivelata la decisione che lo spaziotempo aveva registrato. Guardò gli occhi di Michiko, aprì la bocca e…

Rrrring! Rrrring!

Lloyd imprecò, diede un’occhiata al telefono. Il codice sul display diceva ‘LHC CERN’. Nessuno avrebbe chiamato così tardi dall’ufficio se non si fosse trattato di un’emergenza. Prese la cornetta. «Si?»

«Lloyd, sono Theo.»

Ebbe voglia di dirgli che non era l’ora giusta per telefonare, che richiamasse più tardi, ma prima ancora di riuscire a farlo, Theo lo incalzò.

«Lloyd, ho appena ricevuto una telefonata. Mio fratello Dimitrios è morto.»

«Oh, mio Dio» disse Lloyd. «Oh, mio Dio.»

«Che succede?» gli chiese Michiko, sgranando gli occhi per la preoccupazione.

Lloyd coprì la cornetta. «Il fratello di Theo è morto.»

Michiko si portò una mano alla bocca.

«Si è ucciso» disse Theo al telefono. «Un’overdose di sonnifero.»

«Mi dispiace tanto, Theo» disse Lloyd. «Posso… c’è qualcosa che posso fare?»

«No, no. Niente. Ma ho pensato di fartelo sapere subito.»

Lloyd non comprese dove voleva arrivare Theo. «Ah, grazie» disse, con un accento di confusione nella voce.

«Lloyd, Dimitrios aveva avuto una visione.»

«Che? Oh.» Poi una lunga pausa. «Oh.»

«Me ne ha parlato lui stesso.»

«Deve essersela inventata.»

«Lloyd, era mio fratello, non se l’è inventata.»

«Ma non è possibile…»

«Lo sai che non è stato il solo; ci sono stati anche altri rapporti in tal senso. Ma questo… questo è confortato da prove. Lavorava in un ristorante in Grecia, e il proprietario del ristorante del 2030 lo è anche nel 2009. Ha visto Dim nella sua visione, e Dim ha visto lui. Quando ne parleranno in televisione…»

«Io… ah, merda» disse Lloyd. Il cuore gli batteva forte. «Merda.»

«Mi dispiace» disse Theo. «La stampa ci si butterà a pesce.» Una pausa. «Come ti ho detto, mi è sembrato il caso di fartelo sapere.»

Lloyd cercò di calmarsi. Come poteva essersi sbagliato fino a quel punto? «Grazie» disse alla fine, poi: «Senti, senti, questo non è importante. Tu come stai? Va tutto bene?»

«Me la caverò.»

«Perché se non vuoi restare solo, io e Michiko possiamo venire da te.»

«No, è tutto a posto. Franco Della Robbia è ancora qui al CERN; passerò un po’ di tempo con lui.»

«D’accordo» disse Lloyd. «D’accordo.» Un’altra pausa. «Senti, io devo…»

«Lo so» disse Theo. «Ciao.»

«Ciao.»

Lloyd appoggiò il telefono sulla forcella.

Non aveva mai visto Dimitrios Procopides; anzi, Theo non ne parlava molto spesso. Niente di strano; anche Lloyd parlava raramente di sua sorella Dolly. Alla fin fine, era solo una morte in più dopo una settimana di innumerevoli morti, ma…

«Povero Theo» disse Michiko, scuotendo dolcemente la testa avanti e indietro. «E suo fratello… povero ragazzo.»

Lloyd la fissò. Michiko aveva perso sua figlia ma adesso, per un attimo, aveva trovato spazio nel suo cuore per piangere un uomo che non aveva mai conosciuto.

Il cuore di Lloyd era ancora in subbuglio. Le parole che era stato sul punto di pronunciare prima che squillasse il telefono gli echeggiavano ancora nelle orecchie. E adesso che cosa stava pensando? Che voleva ancora combattere? Che non era ancora pronto a mollare? Che doveva conoscere quella donna bianca, trovarla, incontrarla e fare una scelta sensata, razionale, fra lei e Michiko?

No.

No, non era quello. Non poteva essere quello.

Ciò che stava pensando era: sono un idiota.

E poi pensava: lei è stata incredibilmente paziente.

E poi ancora: forse l’avviso che il matrimonio non poteva durare automaticamente è stata la cosa migliore che potesse capitare. Come ogni coppia, loro avevano dato per scontato che il loro matrimonio durasse ‘finché morte non vi separi’. Ma adesso Lloyd sapeva, dal primo giorno, così come nessuno lo aveva mai saputo, nemmeno gli altri come lui che erano figli di un’unione fallita, che non era necessariamente per sempre. Che sarebbe stato duraturo solo se lui avesse combattuto, e si fosse impegnato allo stremo per renderlo duraturo in ogni momento cosciente della sua vita. Sapeva che se si fosse sposato, quella sarebbe stata la sua priorità. Non la sua carriera, non quel dannato, inafferrabile Nobel, non le pubblicazioni scientifiche, non le amicizie.

Lei. Michiko.

Michiko Komura.

0… o Michiko Simcoe.

Quando era un adolescente, negli anni 70, sembrava che le donne volessero rinunciare per sempre alla sciocca abitudine di assumere il cognome di qualcun altro. Eppure, ancora oggi, quasi tutte prendevano il cognome del marito. Ne aveva già parlato con Michiko e lei aveva affermato che aveva tutta l’intenzione di fare la stessa cosa. Certo, Simcoe non era musicale come Komura, ma si trattava di un piccolo sacrificio.

Ma no.

No, lei non avrebbe dovuto assumere il suo cognome. Quante donne divorziate avevano ancora non il cognome di nascita, ma quello di qualcuno che apparteneva al loro passato, il ricordo quotidiano di errori giovanili, di amori finiti male, di momenti dolorosi? E poi Komura non era il cognome da ragazza di Michiko: lei si chiamava Okawa, e Komura era il cognome di Hiroshi.

Tuttavia doveva conservarlo. Doveva rimanere Komura, perché Lloyd ricordasse, ogni giorno, che lei non gli apparteneva, che doveva lavorare per il loro matrimonio, che il domani era nelle sue mani.

La guardò: guardò la sua carnagione perfetta, i suoi occhi seducenti, i suoi capelli così neri.

Tutte quelle cose, naturalmente, col tempo sarebbero cambiate. Ma lui voleva essere presente, assaporare ogni momento, godere le stagioni della vita insieme a lei.

Sì, insieme a lei.

Lloyd Simcoe fece qualcosa che la prima volta non aveva fatto… oh, ci aveva pensato, allora, ma aveva rigettato l’idea come sciocca, antiquata, non necessaria.

Ma era quello che voleva fare, che aveva bisogno di fare.

Si piegò su un ginocchio.

E prese la mano di Michiko nella sua.

E fissò il suo volto paziente, adorabile.

E disse: «Vuoi sposarmi?»

E Michiko, colta alla sprovvista, sussultò visibilmente.

E poi un sorriso si formò lentamente sul suo viso.

E lei disse, quasi in un bisbiglio: «Sì.»

Lloyd sbatté gli occhi, che gli si velarono.

Li aspettava un futuro glorioso.

22

Dieci giorni dopo: mercoledì 6 maggio 2009

Era stato sorprendentemente facile convincere Gaston Béranger che il CERN doveva replicare l’esperimento dell’LHC. Del resto lui era convinto che non avessero nulla da perdere e tutto da guadagnare, se il tentativo fosse fallito: sarebbe stato difficilissimo dimostrare la responsabilità del Centro per tutti i danni provocati la prima volta, se il secondo tentativo non avesse prodotto alcuna dislocazione temporale.

E adesso era il momento della verità.

Lloyd si diresse verso il podio di legno levigato. Il grande sigillo con il globo e la foglia di alloro delle Nazioni Unite si stagliava alle sue spalle. L’aria era secca; Lloyd fu colto da una grande emozione mentre toccava le finiture metalliche del podio. Respirò a fondo, per calmarsi. Poi si piegò verso il microfono: «Vorrei ringraziare…»

Rimase sorpreso nel sentire che la sua voce era stridula. Ma, dannazione, stava parlando ad alcuni fra i politici più potenti del mondo. Deglutì, poi tentò di nuovo. «Vorrei ringraziare il segretario generale Stephen Lewis per avermi consentito di parlare oggi.» Almeno la metà dei delegati ascoltavano la traduzione fornita attraverso cuffie senza fili. «Signore e signori, io sono il dottor Lloyd Simcoe. Sono canadese, ma attualmente vivo in Francia e lavoro al CERN, il Centro europeo per la fisica delle particelle.» Fece una pausa, deglutendo di nuovo. «Come ormai certamente saprete, sembra sia stato un esperimento del CERN a provocare il fenomeno dello spostamento temporale della coscienza. E, signore e signori, io so che sul momento la richiesta vi sembrerà folle, ma sono qui per chiedervi, come rappresentanti dei vostri rispettivi governi, l’autorizzazione a ripetere l’esperimento.»

Vi fu un’esplosione di commenti, una cacofonia di lingue ancora più variate di quelle che si potevano sentire alla mensa del CERN. Naturalmente tutti i delegati sapevano per sommi capi fin dall’inizio quello che Lloyd avrebbe detto… non ci si presenta al cospetto delle Nazioni Unite senza essere passati attraverso una quantità di discussioni preliminari. La sala dell’assemblea generale era gigantesca e semibuia; Lloyd non riusciva nemmeno a distinguere molte delle facce. Tuttavia colse un’espressione di rabbia sul volto di uno dei delegati russi, e qualcosa che assomigliava al terrore su quelli dei delegati tedeschi e giapponesi. Lloyd osservò il segretario generale, un bell’uomo dai capelli bianchi, settantaduenne. Lewis gli rivolse un sorriso di incoraggiamento, e lui proseguì.

«Forse non c’è nessun motivo per farlo» disse Lloyd. «A quanto pare abbiamo le prove innegabili che il futuro rappresentato nella prima serie di visioni non si avvererà… almeno non con esattezza. Tuttavia non v’è dubbio che in quella circostanza moltissime persone hanno avuto delle visioni assai personali.»

Fece una pausa.

«Mi viene in mente il racconto Un canto di Natale, dello scrittore inglese Charles Dickens. Il suo personaggio, Ebenezer Scrooge, ha la visione di un Futuro di là da venire nel quale i risultati delle sue azioni hanno portato all’infelicità molte altre persone, mentre lui stesso è odiato e disprezzato. E naturalmente, questa visione è un’esperienza orribile per lui, se si riferisce all’unico, immutabile futuro. Ma a Scrooge viene detto che, no, il futuro che ha visto è solo l’estrapolazione logica della sua vita, se continuerà a viverla in quel modo. Lui può cambiare in meglio la sua, e le vite di coloro che gli stanno intorno; quell’immagine fuggevole del futuro si rivela così una cosa meravigliosa.»

Bevve un sorso d’acqua, poi continuò.

«Ma la visione di Scrooge si riferiva a un tempo ben determinato: il giorno di Natale. Non tutti abbiamo avuto visioni di eventi significativi; molti di noi hanno visto cose del tutto banali, ambigue in modo avvilente, e almeno un terzo di noi ha visto solo i propri sogni, oppure il buio, nel caso di quelli che erano addormentati durante quei due minuti fra ventuno anni.» Fece un’altra pausa e scrollò le spalle, come se lui stesso non sapesse quale fosse la cosa giusta da fare. «Noi riteniamo di potere replicare l’esperienza delle visioni; possiamo offrire al genere umano un’altra occhiata al futuro.» Sollevò una mano. «So che alcuni governi hanno un atteggiamento diffidente riguardo a queste visioni, e non apprezzano alcune delle cose che in esse sono state rivelate, ma adesso che sappiamo che il futuro non è fisso, io spero che voi ci concederete semplicemente di offrire una volta ancora questo dono, e il beneficio dell’effetto Ebenezer, a tutta la gente della terra. Con la collaborazione di voi, signore e signori, e dei vostri governi, noi siamo convinti di poterlo fare in tutta sicurezza. A voi la decisione.»


Lloyd uscì dalle porte di vetro del palazzo dell’assemblea generale. L’aria di New York gli bruciò gli occhi… dannazione, un giorno o l’altro avrebbero pur dovuto fare qualcosa; dalle visioni risultava che nel 2030 sarebbe stato anche peggio. Il cielo sopra di lui era grigio, attraversato dalle scie degli aerei. Una folla di giornalisti — forse una cinquantina — gli si precipitò incontro, con videocamere e microfoni protesi.

«Dottor Simcoe!» gridò, una donna di mezza età. «Dottor Simcoe! Che succederebbe se la consapevolezza non tornasse più al giorno d’oggi? Se tutti restassimo intrappolati ventuno anni nel futuro?»

Lloyd era stanco. Non si era sentito così nervoso a parlare di fronte alla gente fin dalla discussione per l’esame di laurea. L’unica cosa che voleva era andarsene in albergo, versarsi un bel bicchiere di scotch e infilarsi a letto.

«Non abbiamo motivo di ritenere che una cosa del genere possa verificarsi» rispose. «Sembra che si sia trattato di un fenomeno assolutamente temporaneo, iniziato nel momento in cui abbiamo avviato la collisione delle particelle e concluso nel momento in cui l’abbiamo interrotta.»

«E per quanto riguarda le famiglie di coloro che dovessero morire questa volta? Se la assume lei la responsabilità?»

«E quelli che sono già morti? Non crede di dover loro qualcosa?»

«Tutto questo non è semplicemente un tentativo da parte sua di cercare un po’ di gloria a buon mercato?»

Lloyd respirò a fondo. Era davvero stanco, e aveva un mal di testa feroce. «Signori, signore — uso questi termini in senso lato — voi siete apparentemente abituati a intervistare politici che non possono permettersi di perdere la calma, e così potete rivolgere loro domande con toni da comizio. Be’, io non sono un politico; io sono, tra le altre cose, un docente universitario, e sono abituato a una conversazione civile. Se non siete in grado di rivolgermi domande educate, il nostro incontro finisce qui.»

«Ma, dottor Simcoe… non è forse vero che tutte le morti e le distruzioni sono colpa sua? Non è stato proprio lei a progettare l’esperimento che è riuscito male?»

Lloyd mantenne calmo il tono della voce. «Non sto scherzando, gente. Ho già fatto il pieno di giornalisti; un’altra domanda stronza come questa, e me ne vado.»

Seguì un silenzio perplesso. I giornalisti si guardarono fra loro, poi tornarono a concentrarsi su di lui.

«Ma tutte quelle morti…» cominciò uno.

«Basta così» scattò Lloyd. «Me ne vado.» Cominciò ad allontanarsi.

«Aspetti!» gridò un giornalista. «Si fermi!» strillò un altro.

Lloyd si voltò. «Solo se riuscite a formulare domande intelligenti e civili.»

Dopo un attimo di esitazione, una donna, un’americana di pelle nera, alzò la mano in modo quasi umile.

«Sì?» disse Lloyd, sollevando le sopracciglia.

««Dottor Simcoe, quale decisione pensa che prenderanno le Nazioni Unite?»

Lloyd le rivolse un cenno affermativo, riconoscendo che quella era una domanda accettabile. «Onestamente non ne sono sicuro. Sono intimamente convinto che dovremmo tentare di replicare i risultati… ma io sono uno scienziato, e replicare è il mio pane quotidiano. Io credo che la gente della Terra lo voglia, ma se i loro governanti accetteranno di fare ciò che il popolo desidera, questo non ho modo di saperlo.»


Theo era venuto anche lui a New York, e quella sera condivise con Lloyd i piaceri del buffet di mare dell’Ambassador Grill presso il Plaza-Park Hyatt delle Nazioni Unite.

«Manca poco al compleanno di Michiko» disse Theo, sgranocchiando una chela di aragosta.

Lloyd annuì. «Lo so.»

«Hai intenzione di organizzare una festa a sorpresa per lei?»

Lloyd rifletté. Dopo un attimo rispose: «No.»

Theo lo guardò con l’espressione ‘se l’amassi davvero, dovresti farlo’. Lloyd non aveva voglia di spiegarsi. Non ci aveva mai pensato sul serio, ma all’improvviso aveva capito tutto, come se lo avesse sempre saputo. Le feste a sorpresa erano un piccolo imbroglio. Si faceva credere a qualcuno che si amava di essersi dimenticati del suo compleanno. Lo si rattristava volutamente, lo si faceva sentire trascurato, dimenticato, non apprezzato. E gli si mentiva — mentiva! — per settimane fino al momento dell’evento. E così, quando la gente gridava ‘sorpresa!’, quella persona si sentiva amata.

Nel matrimonio imminente con Michiko, Lloyd non aveva nessuna intenzione di costruire situazioni del genere perché Michiko provasse quel tipo di sentimento. Avrebbe avuto conferma del suo amore ogni giorno, ogni minuto; la sua fiducia non sarebbe mai dovuta venir meno. Lui sarebbe stato il suo compagno assiduo, il suo amore, fino alla morte.

E naturalmente non le avrebbe mai mentito… nemmeno quando avrebbe potuto farlo in apparenza per il suo bene.

«Ne sei sicuro?» disse Theo. «Mi piacerebbe aiutarti a organizzarla.»

«No» replicò Lloyd, scuotendo appena la testa. Theo era così giovane, così candido. «No, grazie.»

23

Il dibattito alle Nazioni Unite si protrasse. Mentre si trovava a New York, Theo ricevette un’altra risposta alla richiesta di informazioni sulla propria morte. Stava per cavarsela con una replica breve ed educata — aveva intenzione di mollare la ricerca, sul serio — ma, accidenti, quel messaggio era troppo allettante. «Non l’ho contattata subito» diceva «perché mi hanno fatto credere che il futuro è prefissato e che ciò che sarebbe successo, incluso il mio ruolo all’interno della faccenda, era inevitabile. Ma adesso la penso diversamente, e perciò devo sollecitare il suo aiuto.»

Il messaggio proveniva da Toronto… appena un’ora di volo dalla Grande mela. Theo decise di andare a incontrare di persona l’uomo che gli aveva inviato il messaggio. Era la prima volta che si recava in Canada, e non era preparato al caldo che vi trovò. Oh, non era poi così caldo, almeno secondo gli standard del Mediterraneo, visto che di rado la temperatura superava i trentacinque gradi. Ma ne rimase sorpreso lo stesso.

Per pagare di meno il viaggio Theo preferì pernottare, anziché andare e tornare nella stessa giornata. Così si trovò con una serata da passare a Toronto. Il suo agente di viaggio gli aveva suggerito di scendere in un albergo lungo la Danforth, una parte dell’asse maggiore che attraversava la città in direzione est-ovest; la numerosa comunità greca di Toronto abitava proprio in quella zona. Theo acconsentì e, con suo grande piacere, scopri che i segnali stradali in quella parte della città erano sia in inglese che in greco.

Il suo appuntamento, tuttavia, non era sulla Danforth.

Era invece nel North York, un’area che sembrava essere stata un tempo una città a sé, ma che adesso era stata assorbita da Toronto, la cui popolazione raggiungeva i tre milioni di abitanti. Il giorno successivo la metropolitana lo portò lì. Theo notò non senza divertimento che il servizio di trasporto pubblico aveva la sigla CTT (Commissione per i Trasporti di Toronto), la stessa del Collisore tachioni-tardioni del quale un giorno, a quanto sembrava, lui sarebbe stato il direttore.

Le vetture della metropolitana erano pulite e spaziose, anche se aveva sentito dire che nell’ora di punta erano sovraffollate. Una cosa che lo impressionò molto fu attraversare con la metropolitana — a quel punto un nome del tutto inadeguato — la Don Valley Parkway; lì il treno correva a un centinaio di metri al di sopra del suolo, lungo una fila di binari sospesi sulla Danforth. Il panorama era spettacolare, ma la cosa più impressionante era che il ponte sulla Don Valley era stato costruito decenni prima che Toronto avesse la sua prima linea di metropolitana, ma lo avevano realizzato in modo che alla fine potesse unire due file di binari. Era difficile trovare città che riuscivano a programmare così lontano nel futuro.

Cambiò treno a Yonge Station, e giunse al North York Centre. Fu sorpreso di scoprire che non doveva riemergere per entrare nel grattacielo condominiale dove gli era stato detto di recarsi: l’accesso era possibile direttamente dalla stazione. Lo stesso complesso conteneva anche un supermercato del libro (anello di una catena chiamata Indigo), un cinema-teatro e un grosso centro alimentare chiamato Loblaws, che sembrava specializzato nella vendita di prodotti della linea President’s Choice. La cosa stupì Theo: si sarebbe aspettato che in quel paese esistesse una scelta da primo ministro, non da presidente.

Si presentò al portiere, che lo indirizzò lungo il corridoio di marmo fino agli ascensori; salì al trentacinquesimo piano. Da lì trovò facilmente l’appartamento che stava cercando e bussò alla porta.

La porta si aprì, rivelando un asiatico avanti con gli anni. «Salve» disse, in un inglese perfetto.

«Salve, signor Cheung» disse Theo. «Grazie per avere accettato di ricevermi.»

«Non vuole accomodarsi?»

L’uomo, che doveva avere passato i sessantacinque, si fece di lato per lasciare passare Theo. Theo si liberò delle scarpe ed entrò nel lussuoso appartamento. Cheung lo precedette in salotto. Il panorama affacciava a sud. In lontananza Theo riuscì a vedere il centro di Toronto, con i suoi grattacieli, l’ago affusolato della Torre CN e, al di là, il lago Ontario che si stagliava all’orizzonte.

«Ho apprezzato molto che lei mi abbia mandato un’email» disse Theo. «Come può immaginare, è stato un periodo molto difficile per me.»

«Ne sono sicuro» disse Cheung. «Gradirebbe del tè? O del caffè?»

«No, niente, grazie.»

«Bene, allora» disse l’uomo. «Si sieda.»

Theo si accomodò su un divano imbottito di pelle marrone. Sul tavolino accanto al divano c’era un vaso di porcellana dipinta. «È magnifico» disse Theo.

Cheung confermò con un cenno della testa. «Dinastia Ming, naturalmente; ha quasi cinquecento anni. La scultura è la più grande forma dell’arte. Un testo scritto diventa inutile, una volta che la lingua è stata dimenticata, ma un oggetto fisico che duri per secoli o millenni… questo è qualcosa da tenere presente. Chiunque oggi può apprezzare la bellezza degli antichi manufatti cinesi, o egiziani, o aztechi; io li colleziono tutti e tre. I singoli artigiani che li hanno fabbricati vivono attraverso il loro lavoro.»

Theo farfugliò qualcosa di vago, e si appoggiò allo schienale. Sulla parete opposta c’era un dipinto a olio del porto di Kowloon. Theo lo indicò con un cenno del capo. «Hong Kong» disse.

«Sì. La conosce?»

«Nel 1996, quando avevo quattordici anni, i miei genitori ci portarono lì in vacanza. Volevano che noi — io e mio fratello — la vedessimo prima che tornasse alla Cina comunista.»

«Sì, quegli ultimi due anni sono stati eccezionali per il turismo» disse Cheung. «Ma sono stati anche tempi di grande emigrazione; io stesso ho lasciato Hong Kong e mi sono trasferito in Canada proprio allora. Più di duecentomila persone sono venute in Canada prima che gli inglesi restituissero il nostro paese ai cinesi.»

«Credo che anch’io me ne sarei andato» disse Theo, con partecipazione.

«Quelli di noi che se lo potevano permettere lo hanno fatto. E secondo le visioni avute dalle persone, le cose non miglioreranno molto in Cina nei prossimi ventuno anni, perciò sono ben felice di essermene andato; non avrei sopportato l’idea di perdere la libertà.» Il vecchio fece una pausa. «Ma lei, mio giovane amico, rischia di perdere molto di più, non è vero? Da parte mia, mi sarei tranquillamente aspettato di essere morto, fra ventuno anni, e sono stato ben felice di scoprire che il fatto che io abbia avuto una visione implica che per allora sarò ancora vivo. In verità, visto che mi sentivo ragionevolmente in forma, comincio a sospettare che mi rimangano ben più di ventuno anni da vivere. Tuttavia la sua vita potrebbe interrompersi prima, mi perdoni se glielo dico; nella mia visione, come le ho scritto, si faceva menzione del suo nome, ma io non l’avevo mai sentito prima. Però il nome era abbastanza musicale — Theodosios Procopides — da fissarsi nella mia mente.»

«Lei ha affermato che nella sua visione qualcuno le aveva parlato dei suoi progetti per uccidermi.»

«Inquietante, a essere sinceri. Ma come le ho anche detto, io so poco più di questo.»

«Non ne dubito, signor Cheung. Ma se potessi individuare la persona con cui lei parlava nella sua visione, ovviamente quella persona ne saprebbe di più.»

«Ma, come le ho detto, io non so chi fosse.»

«Se potesse descrivermela.»

«Ma certo. Era un bianco. Carnagione chiara, come un europeo del nord, non olivastra come la sua. Nella mia visione non aveva più di cinquant’anni, il che significa che oggi ha più o meno la sua età. Abbiamo parlato in inglese, e il suo accento era americano.»

«Ci sono tanti accenti americani» osservò Theo.

«Sì, sì» disse Cheung. «Volevo dire che parlava come uno del New England… uno di Boston, forse.»

La visione di Lloyd, a quanto sembrava, collocava anche lui nel New England; naturalmente Cheung non poteva avere parlato con lui… in quel momento Lloyd era impegnato con la sua befana.

«Che altro può dirmi sulla parlata di quell’uomo? Sembrava una persona istruita?»

«Sì, adesso che me lo dice lei, immagino che fosse così. Usava la parola ‘apprensivo’… un termine non apertamente ricercato, ma comunque non suscettibile di essere pronunciato da un illetterato.»

«Che cosa ha detto con esattezza? Può riferirmi la conversazione?»

«Ci proverò. Eravamo in un luogo chiuso, chissà dove. Nord America. La cosa era evidente per le prese elettriche; mi danno sempre l’impressione di facce di bambini sorpresi. Comunque quest’uomo mi dice: ‘Ha ucciso Theo’.»

«L’uomo con cui lei stava parlando mi ha ucciso?»

«No, no. Lo stavo citando. Lui ha detto ‘ha ucciso’, cioè qualcun altro ha ucciso Theo.»

«È sicuro che abbia detto così?»

«Sì.»

Bene, era comunque qualcosa; in un colpo solo erano stati eliminati quattro miliardi di potenziali sospetti.

Cheung proseguì: «Ha detto ‘ha ucciso Theo’ e io ho detto ‘Theo chi?’. E l’uomo ha replicato lo sa, Theodosios Procopides’. E io ho detto ‘oh, già’. Questo è precisamente quello che ho detto: ‘oh, già’. Temo che il mio inglese spontaneo non abbia ancora raggiunto quel livello di informalità, ma a quanto sembra fra ventuno anni lo raggiungerà. In ogni caso era chiaro che nell’anno 2030 io la conoscevo… o almeno avevo sentito parlare di lei.»

«Vada avanti.»

«Be’, il mio interlocutore mi ha detto: ‘Ci ha battuti sul tempo’.»

«Mi… mi scusi?»

«Ha detto ‘ci ha battuti sul tempo’.» Cheung abbassò la testa. «Sì, lo so come le suona… le suona come se il mio interlocutore e io avessimo dei progetti sulla sua vita.» Il vecchio allargò le braccia. «Dottor Procopides, io sono un uomo ricco… per dirla tutta, un uomo molto ricco. Non le racconterò che la gente come me non arriva al mio livello senza essere spietata, perché sappiamo entrambi che non è vero. Nel corso degli anni ho avuto scontri molto duri con i miei rivali, e forse ho anche oltrepassato i confini della legge. Ma io non sono soltanto un uomo1 d’affari, sono anche un cristiano.» Alzò una mano. «La prego, non si allarmi; non mi metterò a fare conferenze… so che in certi circoli occidentali dichiarare apertamente la propria fede genera disagio, come se si tirasse fuori un argomento di discussione di cui è meglio non parlare fra gente educata. Glielo dico solo per stabilire un fatto importante: posso essere un uomo duro, ma sono anche timorato di Dio… e non prenderei mai in considerazione l’idea dell’omicidio. Lei può bene immaginare che alla mia età così avanzata le idee siano ormai salde; non posso credere che negli ultimi anni della mia vita io arriverò a infrangere un codice morale al quale mi sono attenuto fin dall’infanzia. So quello che sta pensando: l’interpretazione ovvia delle parole ‘ci ha battuti sul tempo’ è che qualcun altro l’ha uccisa prima che potessimo farlo io e il mio socio. Ma le ripeto che non sono un assassino. Inoltre lei è, a quanto mi risulta, un fisico, e io non mi interesso quasi per niente di quel settore… il mio principale campo di investimenti, a parte quello immobiliare, nel quale naturalmente chiunque può investire, è la ricerca biologica: prodotti farmaceutici, ingegneria genetica e via dicendo. Io stesso non sono uno scienziato, mi capisce, ma solo un capitalista. Però credo debba convenire con me che un fisico non potrebbe proprio costituire un ostacolo al genere di interessi che io perseguo, e poi, come le ho detto, non sono un assassino. Tuttavia ci sono quelle parole che le riferisco alla lettera: ci ha battuti sul tempo.»

Theo guardò l’uomo, riflettendo. «Se le cose stanno così,» disse alla fine, misurando attentamente le parole «perché mi racconta tutto questo?»

Cheung annuì, come se si fosse aspettato la domanda. «Naturalmente, di solito uno non discute i propri progetti omicidi con la vittima prescelta. Ma, come le ho già detto, dottor Procopides, io sono un cristiano; di conseguenza credo che non solo sia in gioco la sua vita, ma anche la mia anima. Non ho nessun interesse a essere coinvolto, anche in modo marginale, in una faccenda peccaminosa come l’omicidio. E dal momento che il futuro può essere cambiato, io vorrei che cambiasse. Lei è sulle tracce di colui che la ucciderà, chiunque sia; se riesce a prevenire la sua morte per mano di quella persona, quale che possa essere, be’, allora i miei soci non saranno battuti sul tempo. Io le sto dando fiducia nella speranza che lei non solo farà in modo di non farsi sparare — la sua morte dovrebbe essere provocata da un colpo di arma da fuoco, no? — da questa persona, ma da chiunque altro abbia a che fare con me. Io non voglio che il suo sangue, o quello di chiunque altro, ricada su di me.»

Theo espirò rumorosamente. Era già abbastanza sconcertante pensare che un giorno qualcuno lo avrebbe voluto morto… ma sentire adesso che a perseguire quell’intento fosse più di una fazione era davvero troppo.

Forse il vecchio era pazzo… anche se non dava proprio quell’impressione. Eppure fra ventuno anni avrebbe… avrebbe… be’, ma quanti anni aveva, di preciso? «Perdoni la mia impertinenza,» gli domandò Theo «ma posso chiederle quando è nato?»

«Ma certo: il 29 febbraio 1932. Il che fa di me un diciannovenne.»

Theo si rese conto di sgranare tanto d’occhi. Il suo interlocutore era uscito di senno…

Ma Cheung sorrise. «Perché sono nato il 29 febbraio, capisce… che capita solo una volta ogni quattro anni. Sul serio, ho settantasette anni.»

Dunque era molto più anziano di quanto Theo avesse giudicato; e per di più — santo Dio! — nel 2030 avrebbe avuto novantotto anni!

Un pensiero colpì improvvisamente Theo: aveva parlato con un buon numero di persone che nel 2030 stavano sognando; di solito non era difficile distinguere un sogno dalla realtà. Ma se in quel futuro Cheung aveva novantotto anni, forse poteva avere il morbo di Alzheimer? E quali sarebbero stati i pensieri di un cervello in quelle condizioni?

«Le risparmio la domanda» disse Cheung. «Non ho il gene del morbo di Alzheimer. Sono sorpreso quanto lei di pensare che fra ventuno anni sarò ancora vivo, e altrettanto sconvolto dal fatto che, dopo una vita lunga e piena, probabilmente sopravviverò a un giovanotto come lei.»

«Lei è nato davvero il 29 febbraio?»

«Sì. Non è una caratteristica unica; esistono circa cinque milioni di persone che sono nate in quel giorno.»

Theo rifletté, poi disse: «E così quest’uomo le ha detto ‘ci ha battuti sul tempo’. E lei che cosa ha replicato, dopo?»

«Ho detto, e la prego di nuovo di perdonare le mie parole: ‘È lo stesso’.»

Theo aggrottò la fronte.

«E poi» continuò Cheung «ho aggiunto: ‘Chi è il prossimo?’. Al che il mio socio ha replicato: ‘Korolov’. Korolov… che immagino sia K-O-R-O-L-O-V. Un nome russo, no? Le dice nulla?»

Theo scosse la testa. «No.» Una pausa. «Dunque ha eliminato — eliminerà — anche questo Korolov?»

«È l’interpretazione più ovvia, certo. Ma non ho idea di chi possa essere questo o questa Korolov.»

«Questo.»

«Sbaglio, o lei mi ha appena detto che non conosce questa persona?»

«Infatti non la conosco… ma Korolov è un cognome maschile. I cognomi femminili russi terminano in -ova; quelli maschili in -ov.»

«Ah» fece Cheung. «In ogni caso, quando l’uomo con cui stavo parlando ha detto ‘Korolov’, io ho replicato: ‘Bene, non riesco a immaginare che gli stia appresso qualcun altro’. E il mio socio ha ribattuto: ‘Non essere ansioso, Ubu…’ Ubu è un nomignolo che solo gli amici più intimi possono usare con me, anche se, come le ho già detto, adesso come adesso non ho mai visto quest’uomo. ‘Non essere ansioso, Ubu’ ha detto. ‘Il tizio che ha beccato Procopides non può avere il minimo interesse in Korolov’. E io ho detto: ‘Molto bene. Pensaci tu, Darryl…’ che, immagino, fosse il nome dell’uomo con cui stavo parlando. Lui ha aperto la bocca per dire qualcosa, ma all’improvviso mi sono ritrovato qui nel 2009.»

«E questo è tutto ciò che sa? Che lei e un uomo chiamato Darryl sarete a caccia di diverse persone, compreso me e qualcuno che si chiama Korolov, mentre qualcun altro, un uomo che non ha nulla contro questo Korolov, mi ucciderà per primo?»

Cheung alzò le spalle in un gesto di scusa, ma Theo non riuscì a capire se il suo rammarico derivasse dall’incompletezza delle sue informazioni o dal fatto che un giorno, a quanto sembrava, avrebbe voluto vederlo morto. «E proprio così.»

«Questo Darryl… aveva l’aria di un pugile? Capisce, un lottatore?»

«No. Direi che era un po’ troppo grasso per potere essere un atleta.»

Theo si appoggiò allo schienale, sconcertato. «Grazie per avermi informato» disse alla fine.

«Era il minimo che potessi fare» disse Cheung. Fece una pausa, come se valutasse la possibilità o meno di aggiungere qualcosa. Poi: «Le anime sono immortali, dottor Procopides, e la religione garantisce la giusta ricompensa. Io sospetto vivamente che l’aspettino grandi cose, e che lei sarà adeguatamente ricompensato… ma solo, naturalmente, se riuscirà a rimanere vivo abbastanza a lungo. Faccia un favore a se stesso, anzi, lo faccia a noi due: non rinunci alla sua ricerca.»

24

Theo tornò a New York e raccontò a Lloyd del suo incontro con Cheung. Lloyd rimase perplesso quanto Theo su ciò che gli aveva raccontato il vecchio. Entrambi rimasero a New York per altri otto giorni, mentre alle Nazioni Unite continuava l’acceso dibattito sulla loro proposta.

La Cina si espresse a favore della mozione per autorizzare la replica dell’esperimento. Anche se era ormai chiaro che il futuro non era prefissato, il fatto che durante la prima serie di visioni il governo totalitario della Cina fosse ancora chiaramente al potere con pugno di ferro aveva contribuito in modo sensibile a deprimere la dissidenza interna. Per la Cina quello era l’argomento chiave. Esistevano due sole possibili versioni del futuro: o la dittatura comunista continuava, oppure non continuava. Le prime visioni avevano rivelato che continuava. Se la seconda serie di visioni avesse mostrato la stessa cosa — che, anche conoscendo in anticipo un futuro in parte modificabile, il comunismo non sarebbe stato abbattuto — allora lo spirito dei dissidenti sarebbe definitivamente crollato: un perfetto esempio di quello che, con gusto discutibile, una battuta del New York Times aveva definito ‘una visione inDIMstinta del futuro’{Qui l’inglese recita ‘dim view of the future’, dove ‘dim’ significa vago, indistinto, ma è anche il diminutivo del fratello di Theo (NdT).}, in onore di Dimitrios Procopides il quale, essendosi lasciato abbattere da ciò che aveva visto del futuro, aveva rinunciato anche alla sola idea di cambiarlo.

Ma se le seconde visioni avessero mostrato che il comunismo era caduto? Allora la Cina si sarebbe ritrovata in una situazione non peggiore di quella antecedente al primo Cronolampo, con il suo futuro in bilico. Era un gioco degno di essere giocato, secondo l’ottica del governo di Pechino.

Anche gli ambasciatori dell’Unione europea stavano chiaramente per votare in blocco a favore della replica, per due ragioni. In caso di fallimento della replica, allora forse sarebbe stato possibile arrestare il flusso interminabile di cause intentate contro il CERN e i paesi membri. In caso di successo, be’, questa seconda occhiata al futuro sarebbe stata gratuita, ma quelle successive potevano essere vendute all’umanità per miliardi di euro l’una. Certo, altre nazioni potevano tentare di costruire impianti per la disintegrazione dell’atomo capaci di produrre la stessa quantità di energia rilasciata dall’LHC, ma la prima serie di visioni aveva mostrato un mondo pieno di collisori tachioni-tardioni nel quale, tuttavia, non era così facile generare le immagini. Se il CERN era responsabile, lo era evidentemente in modo molto particolare… una specifica combinazione di parametri, scarsamente suscettibili di essere riprodotti in un altro acceleratore, aveva provocato il Cronolampo.

L’opposizione alla replica era più forte nell’emisfero occidentale… in.quei paesi dove la gente era in prevalenza sveglia quando la consapevolezza si era trasferita nell’anno 2030 e che, quindi, avevano lamentato un numero maggiore di morti e feriti. L’opposizione si basava in gran parte sull’indignazione seguita ai danni sofferti in quell’occasione, e sulla paura che a una seconda serie di visioni si accompagnassero un’altra carneficina e un’ulteriore distruzione.

L’emisfero orientale aveva subito danni in proporzione minori; in molte nazioni, quando si era verificato il Cronolampo, più del novanta per cento della popolazione era addormentata, o almeno al sicuro nel suo letto; c’erano stati pochi feriti, e danni tutto sommato trascurabili. Chiaramente, sostenevano, una replica organizzata e preannunciata non avrebbe messo a repentaglio la vita di troppa gente.

Denunciavano gli argomenti contro la replica come dettati più dall’emozione che dal buon senso. In verità una serie di indagini a livello mondiale aveva rivelato che coloro che avevano avuto le visioni erano ben felici dell’esperienza, anche se adesso era stato loro rivelato che non mostravano un futuro prefissato. D’altra parte, ora che il mondo sapeva con certezza che il futuro poteva essere modificato, coloro che avevano avuto visioni negative del loro futuro erano di solito ancora più contenti di averle avute di quanto non lo fossero coloro che avevano avuto visioni positive.

Anche se formalmente non aveva voce nel dibattito alle Nazioni Unite, papa Benedetto XVI fece sentire tutto il suo peso annunciando che le visioni erano del tutto in accordo con la dottrina cattolica. Il fatto che la partecipazione alla messa fosse enormemente aumentata dal Cronolampo influì senza dubbio sulla posizione assunta dal pontefice.

Il primo ministro del Canada si schierò anche lui a favore delle visioni, dal momento che mostravano il Quebec come ancora facente parte della nazione. Il presidente degli Stati Uniti si dimostrò meno entusiasta: benché gli americani, anche dopo vent’anni, continuassero chiaramente a essere la potenza guida del mondo, c’era una certa preoccupazione fra i consiglieri del presidente sul fatto che le prime visioni avessero già recato fin troppo danno alla sicurezza nazionale, visto che erano stati in molti — bambini inclusi — ad accedere a informazioni cruciali senza essere legati ad alcun obbligo di segretezza. E, naturalmente, i democratici non avevano mandato giù il fatto che il repubblicano Franklin Hapgood, docente di scienze politiche a Purdue, fosse apparentemente destinato a ricoprire la carica di presidente nel 2030.

Così la delegazione americana continuava a trovare argomenti per opporsi alla replica. «Stiamo ancora seppellendo i morti» affermò un ambasciatore. Ma la delegazione giapponese replicava sostenendo che anche se le visioni non avevano mostrato il vero futuro, rappresentavano palesemente un futuro operativo. Gli Stati Uniti — un paese in cui una percentuale molto alta di persone aveva avuto visioni significative mentre era sveglia — stavano cercando di mettere a profitto i benefici tecnologici di cui le visioni avevano offerto appena una fuggevole immagine. Il primo Cronolampo li aveva portati alle ore 11.21 del mattino a Los Angeles, e alle 2.21 del pomeriggio di New York, mentre a Tokyo erano ancora le 3.21 del mattino: nelle loro visioni, quasi tutti i giapponesi non avevano trovato nulla di più eccitante di un sogno fatto nel futuro. L’America stava già mettendo a frutto le nuove tecnologie e le nuove invenzioni rappresentate nelle visioni dei suoi cittadini; il Giappone e il resto dell’emisfero orientale erano stati ingiustamente lasciati indietro.

Questo aveva riscaldato di nuovo gli animi dei delegati cinesi, che sembravano attendere solo che qualcuno sollevasse l’argomento. Il Cronolampo li aveva portati alle 2.21, ora di Pechino, e quasi tutti i cinesi, così come i giapponesi, avevano avuto semplicemente la visione di se stessi addormentati nel futuro. Se si doveva effettuare un altro Cronolampo, sostenevano, di certo doveva avvenire in un orario spostato di dodici ore rispetto al precedente tentativo. In quel modo, se la consapevolezza fosse di nuovo balzata in avanti di ventuno anni, sei mesi, due giorni e due ore, allora questa volta sarebbero stati quelli dell’emisfero orientale a trarne i maggiori benefici, rimettendo in equilibrio la situazione.

Il governo giapponese aveva appoggiato immediatamente la posizione cinese su questo punto. India, Pakistan e le due Coree avevano aggiunto che era una semplice questione di equità.

L’Oriente aveva forse ragione, quando sosteneva che gli americani cercavano di conquistare una superiorità tecnologica; questi ultimi, dal loro canto, affermarono con vigore che se una replica doveva esserci, era il caso di effettuarla alla stessa ora. Questa affermazione era suffragata da una considerazione scientifica: una replica era, come diceva il nome, una replica e, per quanto umanamente possibile, ogni parametro sperimentale doveva essere identico.

Lloyd Simcoe venne convocato dall’Assemblea generale per chiarimenti su questo particolare aspetto. «Devo mettervi seriamente in guardia sull’inopportunità di cambiare inutilmente qualsiasi fattore,» disse «ma visto che fino a ora non abbiamo un modello pienamente operativo del fenomeno, non posso affermare con certezza che ripetere l’esperimento di notte invece che di giorno debba fare qualche differenza. Il tunnel del grande collisore è, in fin dei conti, pesantemente schermato contro qualsiasi fuoriuscita di radiazioni… e quella schermatura ottiene l’effetto di tenere fuori anche la luce solare e altre fonti radianti. Tuttavia io personalmente sarei contrario a cambiare l’ora dell’esperimento.»

Un delegato dell’Etiopia fece notare che Simcoe era americano, e quindi suscettibile di proteggere gli interessi americani. Lloyd ribatté che lui era in realtà canadese, ma la cosa non impressionò l’africano; anche il Canada aveva beneficiato in modo sproporzionato delle visioni che i suoi cittadini avevano avuto del futuro.

Nel frattempo il mondo islamico aveva in gran parte accettato le visioni come ilham (guida divina direttamente esercitata sulla mente e sull’anima dell’uomo) invece che come wahy (rivelazione divina del vero futuro), poiché, per definizione, quest’ultima era riservata solo ai profeti. Il fatto che le visioni si fossero rivelate essere parte di un futuro modificabile sembrava confermare il punto di vista islamico e, anche se le autorità islamiche non facevano ricorso alla metafora di Scrooge, il concetto di ricevere una visione personale che avrebbe consentito a tutti di migliorarsi seguendo percorsi religiosi e spirituali veniva interpretato dai più come del tutto in accordo con il Corano.

Alcuni musulmani sostennero l’interpretazione opposta, che cioè le visioni fossero opera del demonio, parte della distruzione del mondo già in corso, anziché opera della divinità. Ma in un caso e nell’altro, le autorità islamiche rigettarono senza esitazione il concetto che la causa fosse stata un esperimento di fisica: quella era un’interpretazione secolare erronea, occidentale. Le visioni erano chiaramente di origine spirituale, e in esperienze del genere la tecnologia aveva un ruolo del tutto irrilevante.

Lloyd aveva temuto che le nazioni islamiche, partendo da quel presupposto, si opponessero alla replica dell’esperimento. Ma prima il Wylayat al-Faqih in Iran, poi lo sceicco al-Azhar in Egitto, e via via, sceicco dopo sceicco, e imam dopo imam, tutto il mondo musulmano si era pronunciato a favore del tentativo di replica, proprio contando sul fatto che, quando il tentativo fosse fallito, gli infedeli avrebbero avuto la prova che il fenomeno originale era stato, in effetti, di natura spirituale e non secolare.

Naturalmente i governi delle nazioni islamiche erano spesso in contrasto con i fedeli dei loro paesi. Per quei governi che guardavano a occidente, e sostenevano la replica purché fosse spostata, come sostenevano gli asiatici, di dodici ore rispetto alla prima volta, la prospettiva era comunque quella di un successo: se la replica fosse fallita, gli scienziati occidentali si sarebbero coperti di ridicolo, e la visione secolare del mondo avrebbe subito una pesante battuta d’arresto; se fosse riuscita, le economie dei paesi musulmani avrebbero avuto una forte spinta, visto che ai loro cittadini sarebbe stato offerto lo stesso tipo di conoscenza delle tecnologie future che era già stato concesso agli americani.

Lloyd si era aspettato che anche coloro i quali non avevano avuto visioni — che in apparenza nel futuro erano già morti — si opponessero alla replica, ma, al contrario, molti di loro si dichiararono favorevoli. I più giovani — definiti da Newsweek gli ‘ungrateful dead’ — mostravano spesso il desiderio di provare che la mancanza di visioni del futuro poteva avere una spiegazione diversa dalla loro morte. I più anziani, per lo più ormai rassegnati al fatto di essere già morti fra ventuno anni, erano semplicemente curiosi di saperne di più, attraverso i resoconti degli altri, sul futuro che non avrebbero mai visto.

Alcune nazioni — fra cui Portogallo e Polonia — proposero di rinviare la replica di almeno un anno. Vennero loro presentate tre convincenti obiezioni. Primo, come precisò Lloyd, più tempo passava, più era probabile che qualche fattore esterno cambiasse di quel tanto che bastava a impedire la replica. Secondo, il bisogno di sicurezza assoluta durante una replica era ormai chiaro agli occhi del pubblico; più la gravità degli incidenti provocati la prima volta svaniva nel ricordo, più poteva succedere che si trascurassero certe misure di sicurezza. Terzo, la gente voleva nuove visioni che confermassero o negassero gli eventi mostrati nelle loro prime visioni, e quelli che le avevano avute negative la prima volta volevano sapere se adesso erano in grado di evitare quel possibile futuro. Se anche le nuove visioni si fossero riferite a un tempo distante ventuno anni, sei mesi, due giorni e due ore da quello dell’esperimento replicato, ogni giorno in meno avrebbe diminuito la possibilità che la seconda visione fosse sufficientemente legata alla prima da rendere possibile il confronto fra le due.

C’era anche un buon argomento economico a favore di una replica sollecita, se poi si doveva davvero effettuare. Molte ditte lavoravano con capacità operativa ridotta per via dei danni provocati alle attrezzature o al personale nel corso del primo Cronolampo. Un blocco del lavoro nell’immediato futuro per organizzare un secondo Cronolampo si sarebbe tradotto in una perdita di produttività minore di quanto lo sarebbe stata fra un mese o fra un anno, quando tutti sarebbero tornati alla piena operatività.

Le discussioni toccarono un’ampia gamma di argomenti: l’economia, la sicurezza nazionale (e se una nazione avesse scatenato un attacco nucleare contro un’altra appena prima della perdita di conoscenza?), la filosofia, la religione, la scienza e i principi democratici. Era giusto che una decisione riguardante tutti gli abitanti del pianeta venisse presa sulla base di un voto per nazione? I voti non dovevano forse essere proporzionali alla popolazione di ogni nazione, il che avrebbe reso la voce dei cinesi la più forte di tutte? Oppure la decisione doveva essere delegata a un referendum globale?

Alla fine, dopo toni aspri e discussioni accese, le Nazioni Unite presero la loro decisione: l’esperimento dell’LHC sarebbe stato ripetuto, per compensazione, come molti avevano insistito, dodici ore più tardi rispetto alla prima volta.

Gli ambasciatori dell’Unione europea insistettero tutti su una condizione, prima di autorizzare il CERN a tentare la replica dell’esperimento: non dovevano esserci cause intentate dai governi contro il CERN, i paesi che lo finanziavano o i componenti del suo personale. Venne approvata una risoluzione in base alla quale si impediva che qualsiasi azione legale di quel tipo venisse portata di fronte alla Corte mondiale di giustizia. Naturalmente nessuno avrebbe potuto evitare che vi fossero cause civili, anche se i governi svizzero e francese avevano entrambi dichiarato che i loro tribunali non avrebbero accolto casi del genere, ed era difficile ammettere che qualsiasi altro tribunale potesse avere giurisdizione in materia.

Il più grosso problema logistico era rappresentato dal Terzo Mondo: le regioni non sviluppate o sottosviluppate dove le informazioni arrivavano lentamente, se pure arrivavano. Venne deciso che l’esperimento non sarebbe stato replicato prima di altre sei settimane: ciò avrebbe offerto tempo sufficiente per far pervenire la notizia a tutti quelli che era possibile raggiungere.

E così iniziarono i preparativi per offrire al genere umano un’altra occhiata al futuro.


Michiko la denominò operazione Klaatu. Nel film Ultimatum alla Terra Klaatu, un alieno, neutralizza tutta l’energia elettrica mondiale per trenta minuti esattamente a mezzogiorno, ora di Washington, allo scopo di dimostrare il bisogno di pace che ha il mondo, ma lo fa con grande scrupolo, in modo che nessuno ne subisca danno. Gli aeroplani non smettono di volare, le sale operatorie continuano ad avere corrente. In questo ‘caso avrebbero dovuto essere scrupolosi come Klaatu, anche se, come fece notare Lloyd, nel film Klaatu viene ucciso, malgrado i suoi sforzi. Naturalmente, essendo un alieno, trova il modo di tornare in vita… Lloyd era contrariato. La prima volta, per qualche ragione, l’esperimento non era riuscito a produrre il bosone di Higgs; lui avrebbe voluto apportare qualche minima modifica ai parametri, nella speranza di produrre quella particella sfuggente. Ma sapeva di dover replicare ogni cosa esattamente come la prima volta. Era molto probabile che non avrebbe più avuto la possibilità di generare il bosone.

E questo significava, naturalmente, che poteva dare un addio al suo premio Nobel.

A meno che…

A meno che non fosse riuscito a trovare una spiegazione della fisica dell’evento. Ma anche se era stato il suo esperimento ad avere apparentemente causato il salto in avanti nel tempo di ventuno anni, e anche se lui, e tutti quelli del CERN, si erano consumati il cervello nel tentativo di determinarne la causa, Lloyd non aveva ancora la minima idea del perché fosse successo. Perciò non si poteva escludere che fosse qualcun altro — magari addirittura qualcuno che non era nemmeno un fisico delle particelle — a spiegare con chiarezza ciò che era avvenuto.

25

D-Day

Quasi tutto era uguale. Naturalmente adesso era un’ora sciagurata, le cinque del mattino invece che del pomeriggio, ma dal momento che nella sala di controllo dell’LHC non vi erano finestre, la differenza non si notava. Anche il pubblico in sala era più numeroso. In quasi tutti gli esperimenti di fisica delle particelle era difficile avere un gruppo decente di giornalisti presenti, ma in questo caso il servizio relazioni pubbliche del CERN aveva dovuto letteralmente tirare a sorte per determinare i dodici giornalisti che avevano ottenuto l’accesso. Le telecamere trasmettevano le immagini in tutto il mondo.

In ogni parte del pianeta la gente era sdraiata nel suo letto, sui divani, sul pavimento, sull’erba, sulla nuda terra. Nessuno beveva bevande calde. Nessun aereo commerciale, militare o privato era in volo. Il traffico in tutte le città si era fermato… si era fermato, anzi, da diverse ore, per evitare che durante la replica ci fosse anche solo il minimo bisogno di sale operatorie o ambulanze. Autostrade e superstrade erano vuote, oppure si erano trasformate in giganteschi parcheggi.

Due shuttle spaziali — uno americano, uno giapponese — erano attualmente in orbita, ma non c’era nessun motivo di ritenere che fossero in pericolo; gli astronauti si sarebbero semplicemente infilati nei loro sacchi per tutta la durata dell’esperimento. I nove uomini a bordo della Stazione spaziale internazionale avrebbero fatto la stessa cosa.

Non c’erano operazioni chirurgiche in corso, né pizze lanciate in aria, né macchinari in funzione. In qualsiasi momento del giorno almeno un terzo dell’umanità dorme… ma adesso quasi tutti i sette miliardi di abitanti della Terra erano svegli. Per colmo d’ironia, però, c’era allora un’attività minore di qualsiasi altro momento della storia.

Come la prima volta, la collisione era controllata al computer. In effetti Lloyd non aveva molto da fare. I giornalisti avevano montato le telecamere sui cavalietti, ma loro se ne stavano sdraiati a terra o sul piano dei tavoli. Anche Theo era già sdraiato, e così Michiko… un po’ troppo vicina a Theo, per i gusti di Lloyd. C’era una zona lasciata libera di fronte alla consolle principale, e Lloyd vi si distese. Da lì poteva vedere uno degli orologi, e cominciò a fare il conto alla rovescia: «Quaranta secondi.»

Sarebbe stato trasportato di nuovo nel New England? Di certo la visione non sarebbe iniziata dove era finita qualche mese prima. Di certo non si sarebbe ritrovato a letto con… Dio, non ne conosceva nemmeno il nome. Lei non aveva detto una parola; poteva essere americana, naturalmente, o canadese, australiana, inglese, scandinava, francese… era difficile dirlo.

«Trenta secondi» disse Lloyd.

Dove si erano conosciuti? Da quanto tempo erano sposati? Avevano dei figli?

«Venti secondi.»

Era un matrimonio felice? Sembrava proprio che lo fosse, almeno a giudicare da quella breve occhiata. Ma anche i sui genitori, di tanto in tanto, avevano avuto dei momenti di tenerezza.

«Dieci secondi.»

Magari quella donna non sarebbe nemmeno comparsa nella sua prossima visione.

«Nove secondi.»

Anzi, fra ventuno anni da adesso era probabile che lui dormisse, magari senza nemmeno sognare’.

«Otto secondi.»

Aveva ridottissime probabilità di rivedersi, in uno specchio o su un televisore a circuito chiuso.

«Sette.»

Ma senza dubbio avrebbe visto qualcosa di importante, qualcosa di significativo.

«Sei.»

Qualcosa che avrebbe risposto almeno a una parte delle domande che gli bruciavano dentro.

«Cinque.»

Qualcosa che avrebbe messo la parola fine a quello che aveva visto la prima volta.

«Quattro.»

Lui amava Michiko, naturalmente.

«Tre.»

E l’avrebbe sposata, a dispetto della prima visione, o di questa.

«Due.»

Eppure, gli sarebbe piaciuto conoscere il nome di quell’altra donna.

«Uno.»

Chiuse gli occhi, come se in quel modo potesse evocare meglio una visione.

«Zero.»

Niente. Buio. Dannazione, nel futuro era addormentato! Non era giusto; in fin dei conti era il suo esperimento. Se qualcuno meritava una seconda visione, era lui, e poi…

Aprì gli occhi; era ancora sdraiato sulla schiena. Sopra la sua testa, in alto, c’era il soffitto della sala di controllo dell’LHC.

Oh, Cristo… oh, Cristo.

Fra ventuno anni ne avrebbe avuti sessantasei.

E fra ventuno anni, qualche mese dopo…

Sarebbe morto.

Proprio come Theo.

Maledizione. Maledizione!

Ruotò la testa di lato e per caso vide l’orologio.

Le cifre azzurre si succedevano lentamente: 22.00.11, 22.00.12, 22.00.13…

Non aveva perso conoscenza…

Non era successo niente.

Il tentativo di replicare il Cronolampo era fallito, e…

Luci verdi.

Luci verdi sulla consolle di ALICE.

Lloyd si alzò in piedi. Theo lo imitò quasi subito.

«Che è successo?» domandò uno dei giornalisti.

«Uno zero tondo tondo» gli rispose un altro.

«Per favore» disse Michiko. «Per favore, ognuno rimanga a terra… non sappiamo ancora se sia sicuro muoversi.»

Theo picchiò il palmo della mano sulla schiena di Lloyd, il quale aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. Si voltò e abbracciò Theo.

«Ragazzi» disse Michiko, sollevandosi sul gomito. «Non è successo nulla.»

Lloyd e Theo si sciolsero dall’abbraccio, e il primo si diresse verso il centro della sala. Allungò un braccio, prese le mani di Michiko e la aiutò a mettersi in piedi, poi la strinse a sé.

«Tesoro,» disse Michiko «che succede?»

Lloyd indicò con la mano verso la consolle. Michiko spalancò gli occhi. «Sinjirarenail» esclamò. «Ce l’hai fatta!»

Il sorriso di Lloyd aumentò. «Ce l’abbiamo fatta!»

«Fatto che cosa?» chiese uno dei giornalisti. «Non è successo niente, dannazione!»

«Oh, è successo, eccome» replicò Lloyd.

Anche Theo sorrideva. «Sì, è proprio vero!»

«Che cosai» chiese il giornalista.

«L’Higgs!» rispose Lloyd.

«Il che?»

«Il bosone di Higgs!» disse Lloyd, con un braccio attorno alla vita di Michiko. «Lo abbiamo ottenuto!»

Un altro giornalista soffocò uno sbadiglio. «Bella roba» disse.


Lloyd fu intervistato da uno dei giornalisti. «Che cosa è successo?» gli chiese l’uomo, un arcigno corrispondente di mezza età del Times di Londra. «0 meglio, perché non è successo niente?»

«Come può dire che non è successo niente? Abbiamo il bosone di Higgs!»

«Questo non interessa a nessuno. Noi vogliamo…»

«Lei si sbaglia» lo interruppe Lloyd, infervorato. «È questa la cosa importante; è una bomba vera e propria. In circostanze del tutto diverse questa sarebbe stata una storia da prima pagina su tutti i giornali del mondo.»

«Ma le visioni…»

«Non ho nessuna spiegazione sul perché non siano state riprodotte. Ma l’evento di oggi non si può davvero definire un fiasco. Gli scienziati del mondo hanno cercato di trovare il bosone di Higgs fin da quando Glashow, Salam e Weinberg ne profetizzarono l’esistenza mezzo secolo fa…»

«Ma la gente si aspettava un’altra occhiata al futuro, e…»

«Me ne rendo conto» disse Lloyd. «Ma trovare l’Higgs — e non una dannatissima ricerca della precognizione — è stato il motivo principale per cui fu costruito il Grande collisore per Adroni. Noi sapevamo che per produrre il bosone avevamo bisogno di oltre diecimila miliardi di elettronvolt. È per questo che i diciannove paesi proprietari del CERN hanno unito i loro sforzi per costruire il collisore. È per questo che anche Stati Uniti, Canada, Giappone, Israele e altre nazioni hanno contribuito al progetto con somme a nove zeri. Questa era buona scienza, scienza importante…»

«Anche così» obiettò il giornalista «il Wall Street Journal ha calcolato in oltre quattordici miliardi di dollari il costo totale del blocco di ogni attività lavorativa, il che fa del progetto Klaatu l’iniziativa più costosa nella storia dell’umanità.»

«Ma abbiamo il bosone di Higgs! Non capisce? Non solo questo conferma la teoria elettrodebole, ma dimostra l’esistenza del campo di Higgs. Adesso sappiamo che cosa consente agli oggetti — lei, io, questo tavolo, questo pianeta — di avere una massa. Il bosone di Higgs produce un campo fondamentale che fornisce le particelle di massa… e noi abbiamo avuto la conferma della sua esistenza!»

«A nessuno importa un bel niente del bosone» disse il giornalista. «La gente non può nemmeno pronunciare la parola senza mettersi a ridere.»

«Allora lo chiami particella di Higgs; molti fisici lo fanno. Ma comunque lo chiami, questa è la più importante scoperta del ventunesimo secolo nel campo della fisica. Certo, non sono trascorsi nemmeno dieci anni, ma io scommetto che alla fine del secolo la gente si guarderà indietro e dirà che questa è rimasta la più importante scoperta del secolo nel campo della fisica.»

«Questo non spiega come mai non abbiamo ottenuto nulla…»

«L’abbiamo ottenuta, invece» lo interruppe Lloyd, esasperato.

«Voglio dire, perché non abbiamo avuto la visione.»

Lloyd gonfiò le guance e sbuffò. «Senta, noi abbiamo fatto del nostro meglio. Forse il fenomeno originale è stato il colpo alla cieca che capita solo una volta. Forse aveva un alto grado di dipendenza dalle condizioni iniziali che poi sono impercettibilmente cambiate. Forse…»

«Voi avete barato» disse il giornalista.

Lloyd fu colto alla sprovvista. «Prego?»

«Avete barato. Avete deliberatamente alterato l’esperimento.»

«Noi non accettiamo…»

«Voi volevate liberarvi di tutte le azioni legali; anche dopo il suo bel discorso alle Nazioni Unite, il vostro unico scopo era quello di accertarvi che nessuno potesse trascinarvi in tribunale con successo e, insomma, se foste riusciti a dimostrare che il CERN non aveva nulla a che fare con il Cronolampo…»

«Noi non abbiamo alterato niente. Non abbiamo simulato la scoperta dell’Higgs. La nostra è una grande conquista, per l’amor del cielo.»

«Voi ci avete ingannato» disse il corrispondente del Times. «Avete ingannato il mondo intero.»

«Non sia ridicolo» disse Lloyd.

«Oh, andiamo. Se non avete barato, allora come mai non siete stati in grado di darci un’altra visione del futuro?»

«Io… io non lo so. Ci abbiamo provato. Sul serio, ce l’abbiamo messa tutta.»

«Ci sarà un’inchiesta, lo sa.»

Lloyd sgranò tanto d’occhi, ma probabilmente il giornalista aveva ragione. «Mi ascolti» gli disse. «Noi abbiamo fatto tutto ciò che potevamo. Le registrazioni del computer lo dimostreranno: mostreranno che ogni singolo parametro sperimentale era esattamente lo stesso. Naturalmente c’è l’incognita del caos, e della sensibilità dipendente, ma noi abbiamo fatto del nostro meglio, e il risultato è stato tutt’altro che un fallimento… e non è avvenuto per caso.» Il giornalista sembrò lì lì per replicare di nuovo… magari per sostenere che le registrazioni potevano essere state manipolate, ma Lloyd alzò la mano. «Tuttavia, può darsi che lei abbia ragione; può darsi che tutto questo dimostri l’estraneità del CERN rispetto a quello che è successo prima. Nel qual caso…»

«Nel qual caso avete salvato le chiappe» disse il giornalista, con amarezza.

Lloyd aggrottò la fronte, riflettendo. Certo, probabilmente lui aveva già salvato le chiappe dal punto di vista legale per ciò che era avvenuto la prima volta. Ma dal punto di vista morale? Senza l’assoluzione offerta da un universo come blocco, lui era condannato a essere responsabile — fin dal suicidio di Dim — di tutte le morti e la distruzione che aveva provocato.

Lloyd sentì che le sue sopracciglia si sollevavano. «Credo che lei abbia ragione» disse. «Forse io ho salvato le chiappe.»

26

Come tutti i fisici, Theo attendeva con interesse, ogni anno, l’assegnazione dei premi Nobel: per vedere chi si sarebbe aggiunto alla schiera dei Bohr, Einstein, Feynman, Geli-Mann e Pauli. I ricercatori del CERN avevano guadagnato nel corso degli anni più di venti premi Nobel. Naturalmente, quando lesse il subject nella sua casella di posta elettronica non ebbe bisogno di aprire la lettera per sapere che quell’anno il suo nome non era nell’elenco dei premiati. Però era ugualmente curioso di scoprire chi fra i suoi amici e colleghi avesse ottenuto il riconoscimento. Premette il tasto OPEN.

I premiati erano Perlmutter e Schmidt per il lavoro, risalente per lo più a dieci anni prima, con il quale avevano dimostrato che l’universo continuava a espandersi in eterno, e non era destinato invece a collassare in un Big crunch. Era normale che il premio venisse assegnato a un lavoro completato molti anni prima; ci doveva essere il tempo per la replica dei risultati e per la valutazione delle ramificazioni della ricerca.

Be’, si disse Theo, erano due nomi validi: qualcuno al CERN avrebbe masticato un po’ amaro, certo; si diceva in giro che McRainey avesse già organizzato la festa per celebrare l’assegnazione del premio, ma senza dubbio erano solo volgari pettegolezzi. Tuttavia Theo si domandò, come faceva ogni anno in quel periodo, se un giorno o l’altro avrebbe visto il suo nome sulla lista.


* * *

Theo e Lloyd trascorsero i giorni successivi a preparare la relazione sul bosone di Higgs. Anche se la stampa aveva già (non senza qualche titubanza) annunciato al mondo la produzione della particella, loro dovevano ancora mettere per iscritto i risultati per la pubblicazione su una rivista specializzata. Lloyd, come d’abitudine, continuava a scarabocchiare sulla sua agenda elettronica; Theo passeggiava avanti e indietro.

«Perché questa differenza?» chiese Lloyd per la dodicesima volta. «Perché non abbiamo ottenuto il bosone di Higgs la prima volta, e questa volta sì?»

«Non lo so» disse Theo. «Non abbiamo cambiato niente. Naturalmente non è nemmeno possibile che tutto sia stato identico. Sono passate settimane dal primo tentativo, e la Terra si è spostata di milioni di chilometri lungo la sua orbita attorno al sole, e a sua volta il sole si è spostato nello spazio, come fa sempre, e…»

«Il sole!» esclamò Lloyd in tono eccitato. Theo lo guardò senza capire. «Ma non ti rendi conto? L’ultima volta che abbiamo eseguito l’esperimento il sole era alto nel cielo, mentre questa volta era notte. Magari l’altra volta il vento solare ha interferito con l’apparecchiatura?»

«Il tunnel dell’LHC si trova a cento metri di profondità nel terreno, e ha il migliore sistema di schermatura da radiazioni che sia possibile procurarsi. Non è nemmeno pensabile che una quantità apprezzabile di particelle ionizzate abbia potuto attraversarla.»

«Uhmmm» fece Lloyd. «Ma che dire delle particelle che non è possibile schermare? I neutrini, per esempio?»

Theo aggrottò lo fronte. «Per loro non dovrebbe fare nessuna differenza se c’è il sole o no.» In effetti solo uno su duecento milioni di neutrini che attraversavano la Terra colpiva davvero qualcosa. Gli altri si limitavano a fuoriuscire dall’altra parte.

Lloyd si mordicchiò le labbra, pensieroso. «Certo, però forse la quantità dei neutrini era particolarmente alta, il giorno in cui abbiamo effettuato il primo esperimento.» Qualcosa gli punzecchiò la mente, qualcosa che aveva detto Gaston Béranger quando aveva elencato tutte le altre cose che erano successe alle ore 17.00 del 21 aprile. «Béranger mi ha detto che l’Osservatorio sui neutrini di Sudbury ha rilevato un’esplosione poco prima che dessimo il via al nostro esperimento.»

«Conosco qualcuno all’osservatorio» disse Theo. «Wendy Small. Siamo andati a scuola insieme.» Inaugurato nel 1998, l’Osservatorio sui neutrini di Sudbury, collocato sotto due chilometri di roccia precambriana, era il rilevatore di neutrini più sensibile che esistesse al mondo.

Lloyd indicò il telefono con un gesto della mano. Theo vi si avvicinò. «Conosci il prefisso?»

«Di Sudbury? Probabilmente è 705; è il prefisso di quasi tutte le località dell’Ontario del nord.»

Theo compose un numero, parlò con una centralinista, riappese, poi compose un altro numero. «Pronto» disse in inglese. «Wendy Small, prego.» Una pausa. «Wendy, sono Theo Procopides. Che? Oh, divertente. Sei proprio una buontempona.» Theo coprì la cornetta e disse a Lloyd: «Pensava che fossi morto.» Lloyd fece finta di reprimere una risata. «Wendy, ti chiamo dal CERN, e c’è qualcuno insieme a me: Lloyd Simcoe. Ti dispiace se passo la comunicazione in viva voce?»

«Quel Lloyd Simcoe?» disse la voce di Wendy dall’altoparlante. «Piacere di conoscerti.»

«Salve» disse Lloyd, con voce fiacca.

«Ascolta,» disse Theo «come saprai di certo, ieri abbiamo tentato di riprodurre l’esperimento di dislocazione temporale, e non ha funzionato.»

«Me ne sono accorta» replicò Wendy. «Sai, nella mia prima visione stavo guardando la televisione… solo che era tridimensionale. Ero nel momento decisivo di un giallo. Avrei dato qualsiasi cosa per sapere chi era l’assassino.»

Anch’io, pensò Theo, ma si limitò a dire: «Mi dispiace che non ti siamo stati utili.»

«A quanto ci risulta» intervenne Lloyd «l’Osservatorio sui neutrini di Sudbury ha rilevato un afflusso di neutrini appena prima che noi effettuassimo il nostro esperimento del 21 aprile. Quei neutrini erano prodotti dalle macchie solari?»

«No, quel giorno il sole era tranquillo; abbiamo individuato una raffica extra solare.»

«Extra solare? Vuoi dire dall’esterno del sistema solare?»

«Proprio così.»

«Qual’era la fonte?»

«Ti ricordi la supernova 1987A?» gli chiese Wendy.

Theo scosse la testa.

Lloyd fece una smorfia e disse: «Era il rumore che ha fatto Theo scuotendo la testa.»

«Ho sentito il fruscio» disse Wendy. «Be, ascoltate: nel 1987 fu scoperta la più grande supernova da trecentoottantatré anni a questa parte. Una stella azzurra supergigante tipo B3 chiamata Sanduleak -69°202 esplose nella grande nebulosa di Magellano.»

«La grande nebulosa di Magellano!» disse Lloyd. «Ma è maledettamente lontana.»

«Centosessantaseimila anni luce, per essere precisi» disse la voce di Wendy. «Il che significa, naturalmente, che Sanduleak in realtà è esplosa nel Pleistocene, mentre noi abbiamo potuto vedere l’esplosione solo ventidue anni fa. Ma i neutrini viaggiano quasi sempre senza ostacoli, e nel corso dell’esplosione del 1987, abbiamo individuato una fuoriuscita di neutrini della durata di circa dieci secondi.»

«D’accordo» disse Lloyd.

«E poi» continuò Wendy «Sanduleak era una stella molto strana; di norma ci si aspetta che sia una supergigante rossa a trasformarsi in supernova, e non una supergigante azzurra. A parte questo, comunque, dopo l’esplosione in supernova, di solito succede che i resti della stella collassino o in una stella di neutroni o in un buco nero. Be’, se Sanduleak fosse collassata in un buco nero, non avremmo mai scoperto i neutrini, perché non sarebbero riusciti a sfuggire. Ma con una massa solare pari a venti, noi ritenevamo che fosse troppo piccola per formare un buco nero, almeno secondo la teoria allora accettata.»

«Ah-ah» disse Lloyd.

«Bene,» proseguì Wendy «nel 1993 Hans Bethe e Gerry Brown se ne uscirono con una teoria riguardante i condensati del caos in base alla quale anche una stella di massa più piccola sarebbe in grado di collassare in un buco nero; i kaoni non obbediscono al principio di esclusione di Pauli.» Il principio di esclusione affermava che due particelle di un dato tipo non possono simultaneamente occupare lo stesso stato di energia.

«Perché una stella collassi in una stella di neutroni,» continuò Wendy «è necessario che tutti gli elettroni si combinino con i protoni per formare i neutroni, ma dal momento che gli elettroni aderiscono al principio di esclusione, come provi a spingerli insieme quelli invece continuano a occupare livelli sempre più alti di energia, opponendo resistenza al collasso in atto… e questo è uno dei motivi per cui per creare un buco nero bisogna partire da una stella con massa sufficiente. Ma se gli elettroni venissero convertiti in kaoni, potrebbero occupare il livello più basso di energia, opponendo una resistenza molto minore e rendendo teoricamente possibile il collasso di una stella più piccola in un buco nero. Bene, Gerry e Hans hanno affermato: ecco, questo potrebbe essere successo a Sanduleak… i suoi elettroni potrebbero essersi trasformati in kaoni. Allora sarebbe stato possibile che la stella diventasse un buco nero. E quanto tempo ci vorrebbe per la conversione degli elettroni in. kaoni? L’hanno calcolato in dieci secondi… il che vuol dire che i neutrini potrebbero sfuggire solo per i primi dieci secondi dell’evento della supernova, dopo di che sarebbero ingoiati dal buco nero appena formato. E, naturalmente, dieci secondi è proprio la durata della fuoriuscita di neutrini del 1987.»

«Affascinante» disse Lloyd. «Ma tutto questo che cosa ha a che fare con l’evento critico che si è verificato in occasione del nostro primo esperimento?»

«Be’, l’oggetto che si forma da un condensato di kaoni non è esattamente un buco nero» spiegò la voce di Wendy. «È piuttosto una parasingolarità intrinsecamente instabile. Adesso li chiamiamo buchi marroni, da Gerry Brown. In effetti a un certo momento si dovrebbe verificare un riassestamento, con i kaoni che si riconvertono spontaneamente in elettroni. Quando questo avviene dovrebbe intervenire di nuovo il principio di esclusione di Pauli, provocando una forte pressione che si oppone alla degenerazione, e costringendo quasi subito l’intero oggetto a espandersi di nuovo. A quel punto i neutrini dovrebbero essere nuovamente in grado di sfuggire, almeno fino all’inversione del processo, e gli elettroni tornano a trasformarsi in kaoni. A Sanduleak prima o poi doveva succedere proprio questo tipo di evento e infatti, cinquántatré secondi prima del vostro esperimento, il nostro rilevatore di neutrini ha registrato una fuoriuscita proveniente da Sanduleak; naturalmente il rilevatore — o il suo sistema di rilevazione — ha smesso di funzionare non appena si è verificata la dislocazione temporale, quindi non so quanto tempo sia durata la seconda fuoriuscita, ma in teoria non può essere durata più della prima… forse qualcosa come due o tre minuti.» La sua voce divenne meditabonda. «In realtà all’inizio ho creduto che la dislocazione temporale fosse stata causata in primo luogo dal riassestamento di Sanduleak. Ero già pronta a prenotare un biglietto per Stoccolma, quando siete venuti fuori voialtri ad affermare che era stato il vostro collisore a provocarla.»

«Be’, forse è stato proprio il riassestamento» disse Lloyd. «Forse è per questo che non siamo riusciti a replicare l’effetto.»

«No, no,» disse Wendy «non è stato il contraccolpo dovuto al riassestamento, almeno non da solo: ricorda che è cominciato cinquántatré secondi prima della dislocazione, e che la dislocazione è coincisa esattamente con l’inizio delle vostre collisioni. Però può darsi che la coincidenza della raffica che continuava a colpire la Terra nello stesso momento in cui voi davate il via al vostro esperimento abbia provocato quelle strane condizioni che hanno creato il fenomeno dislocativo. E senza quel contraccolpo, quando avete tentato di riprodurre l’esperimento non è successo niente.»

«Quindi» disse Lloyd «fondamentalmente noi abbiamo creato qui sulla terra condizioni che non esistevano fino a una frazione di secondo prima del Big bang e, contemporaneamente, siamo stati colpiti da una raffica di neutrini che provenivano da un buco marrone in fase di riassestamento.»

«Più o meno è così» disse Wendy. «Come puoi immaginare, le possibilità che avvenga una cosa del genere sono incredibilmente esigue… il che è probabilmente anche normale.»

«Sanduleak tornerà a riassestarsi?» chiese Lloyd. «Possiamo aspettarci un’altra fuoriuscita di neutrini?»

«Probabilmente sì» rispose Wendy. «In teoria il fenomeno si verificherà più volte, in una sorta di oscillazione fra lo stato di buco marrone e quello di stella di neutroni, finché Sanduleak non raggiungerà la stabilità e diventerà una stella di neutroni permanente, ma senza rotazione.»

«E quando avverrà la prossima espansione?»

«Non ne ho idea.»

«Ma se aspettiamo il prossimo riassestamento,» disse Lloyd «e poi effettuiamo di nuovo il nostro esperimento in quel preciso istante, forse potremmo replicare l’effetto di dislocazione temporale.»

«Non succederà mai» disse la voce di Wendy.

«Perché no?» chiese Theo.

«Pensateci, ragazzi. Avete avuto bisogno di settimane per preparare questo tentativo di replica dell’esperimento; in fondo bisogna che tutti siano al sicuro prima che cominci. Ma i neutrini sono quasi privi di massa. Viaggiano attraverso lo spazio virtualmente alla velocità della luce. Non c’è modo di sapere in anticipo quando stanno per arrivare, e visto che la prima raffica è durata non più di tre minuti — era già finita quando il mio registratore ha ricominciato a funzionare — è impossibile che possiate avere il preavviso di una nuova raffica; una volta iniziata, poi, avreste appena tre minuti per avviare il vostro acceleratore.»

«Dannazione» disse Lloyd. «Dannazione.»

«Mi dispiace di non avere notizie migliori» disse Wendy. «Sentite, ho una riunione fra cinque minuti… devo andare.»

«Va bene» disse Lloyd. «Ciao.»

«Ciao.»

Theo premette il tasto viva voce e guardò Lloyd. «Irriproducibile» disse. «Al mondo non piacerà.» Si diresse verso una sedia e vi si accomodò.

«Dannazione» ripeté Lloyd.

«Lo dici a me» replicò Theo. «Lo sai, adesso che sappiamo che il futuro non è prefissato, io non sono così preoccupato, o almeno credo, sul mio omicidio, ma mi sarebbe piaciuto ugualmente vedere qualcosa, capisci. Qualsiasi cosa. Mi sento… Cristo, mi sento abbandonato, lo sai? Come se tutti sul pianeta avessero visto un extraterrestre, mentre io stavo da un’altra parte a pisciare.»

27

L’LHC effettuava adesso collisioni quotidiane di nuclei del piombo a 1150-TeV. Alcuni erano esperimenti programmati da tempo, e finalmente messi in opera, altri erano parte dei tentativi in atto di trovare una corretta base teorica alla dislocazione temporale. Theo approfittò di una pausa nell’esame dei dati al computer che provenivano da ALICE e dal CMS per controllare la sua posta. «Annunciati altri vincitori del premio Nobel» diceva il subject del primo messaggio.

Naturalmente i Nobel non vengono assegnati solo per la fisica. Ogni anno ce ne sono altri cinque, con gli annunci che variano entro un periodo di diversi giorni: chimica, fisiologia o medicina, economia, letteratura e promozione della pace nel mondo. L’unico che a Theo interessava veramente era quello per la fisica… benché anche quello per la chimica gli suscitasse una certa curiosità. Aprì il messaggio per vedere quello che diceva.

Non era il Nobel per la chimica, ma quello per la letteratura. Stava per gettare il messaggio nel cestino quando gli cadde l’occhio sul nome del premiato.

Anatoly Korolov. Un romanziere russo.

Naturalmente, dopo che quel Cheung di Toronto gli aveva raccontato della sua visione e gli aveva parlato di un tizio che si chiamava Korolov, Theo aveva fatto ricerche su quel cognome. Si era rivelato comune in modo frustrante, un illustre signor nessuno. Nessuno che si chiamasse così sembrava essere particolarmente famoso o importante.

Ma adesso qualcuno che si chiamava Korolov aveva vinto un Nobel. Theo si collegò immediatamente con Britannica Online; il CERN aveva una connessione a tempo illimitato. La voce era piuttosto breve:


Korolov, Anatoly Sergeeevich. Romanziere e polemista russo, nato l’11 luglio 1965 a Mosca, allora parte del’’Unione Sovietica…


Theo aggrottò la fronte. Quel tipo aveva un anno meno di Lloyd, per l’amor del cielo. Naturalmente nessuno doveva replicare i risultati sperimentali delineati in un romanzo. Theo continuò a leggere:


Il primo romanzo di Korolov, Pered voskhodom solntsa (Prima del tramonto), pubblicato nel 1992, racconta i primi giorni dopo il collasso dell’Unione sovietica; il suo protagonista, il giovane Sergei Dolonov, un sostenitore disilluso del partito comunista, attraversa una serie di tragicomici rituali legati al raggiungimento del a maturità, combatte per dare un senso ai cambiamenti avvenuti nel suo paese e alla fne diventa un uomo d’affari di successo a Mosca. Gli altri romanzi di Korolov comprendono Na kulichkakh (Alla fne del mondo), 1995, Obyknovennaya istoriya (Una storia semplice), 1999 e Moskvityanin (Il moscovita), 2006. Di questi solo Afa kulichkakh è stato tradotto in inglese.


Nella successiva edizione gli avrebbero dedicato senza dubbio molto più spazio, pensò Theo. Si domandò se Dim lo avesse letto nel corso dei suoi studi di letteratura europea.

Poteva essere il Korolov di cui parlava la visione di Cheung? E in tal caso, quale connessione poteva avere con Theo? 0 con Cheung, anche, i cui interessi sembravano di tipo commerciale più che letterario?


Michiko e Lloyd passeggiavano lungo le strade di St. Genis tenendosi per mano e godendosi la calda brezza della sera. Dopo qualche centinaio di metri percorsi senza niente fra loro se non il silenzio, Michiko si fermò: «Credo di sapere che cosa non ha funzionato.»

Lloyd la guardò con espressione interrogativa.

«Pensa a quello che è successo» disse lei. «Tu hai progettato un esperimento che avrebbe dovuto produrre il bosone di Higgs. Ma la prima volta non lo ha prodotto. Perché no?»

«Il flusso di neutrini da Sanduleak» rispose Lloyd.

«Eh? Quello può effettivamente avere contribuito a causare la dislocazione temporale… ma come può avere ostacolato la produzione del bosone?»

Lloyd alzò le spalle. «Be’, io… ecco, questa sì che è una bella domanda.»

Michiko scosse il capo. I due ripresero a camminare. «Non può avere avuto alcun effetto. Io non metto in dubbio che nel momento in cui è stato condotto l’esperimento ci fosse un afflusso di neutrini, ma non può avere inibito la produzione del bosone di Higgs. Quello doveva essere prodotto.»

«E invece non è stato così.»

«Esattamente» disse Michiko. «Ma non c’era nessuno che osservasse. Per quasi tre interi minuti non c’è stata una singola mente cosciente sulla Terra… nessuno, in nessun luogo, che osservasse sul serio la creazione del bosone di Higgs. E non solo quello, ma non c’era nessuno che osservasse niente. È per questo che tutti i nastri appaiono vuoti. Sembrano vuoti… come se su di essi non ci fosse altro che neve elettronica. Ma immaginiamo che non si tratti di neve… immaginiamo invece che le videocamere abbiano accuratamente registrato ciò che hanno visto: un mondo indefinito. Tutto quanto, l’intero pianeta Terra, indefinito. Senza osservatori qualificati — con la coscienza di tutti da qualche altra parte — non c’era modo di definire la meccanica quantistica di ciò che stava succedendo. Non c’era modo di scegliere fra tutte le possibili realtà. Quei nastri mostrano fronti d’onda non collassati, una specie di limbo statico… la sovrapposizione di tutti i possibili stati.»

«Dubito che una sovrapposizione dei fronti d’onda possa assomigliare a neve.»

«Be’, forse non è un’immagine vera e propria, ma, lasciando perdere ciò che è o non è, è chiaro che tutta l’informazione sull’arco di quei tre minuti è stata in qualche modo censurata: la fisica di quello che stava succedendo ha impedito qualsiasi registrazione di dati durante quel periodo. Senza la presenza di persone coscienti la realtà si spezza.»

Lloyd aggrottò la fronte. Poteva essersi sbagliato fino a quel punto? L’interpretazione transazionale di Cramer spiegava ogni aspetto della meccanica quantistica senza il ricorso a osservatori qualificati… ma forse quegli osservatori avevano un ruolo da svolgere. «Può darsi» disse. «Ma… no, no, non può essere così. Se tutto era indefinito, allora come mai si sono verificati gli incidenti? Un aereo che precipita… quella è una definizione, una possibilità resa concreta.»

«Certo» convenne Michiko. «Non è il fatto che sono trascorsi tre minuti durante i quali aerei, automobili, treni e linee di montaggio hanno lavorato senza l’intervento dell’uomo. Piuttosto, che sono passati tre minuti durante i quali niente era definito… esistevano tutte le possibilità, ammassate in un biancore abbagliante. Ma alla fine di quei tre minuti è tornata la coscienza e il mondo è collassato di nuovo in uno stato singolo. E, sfortunatamente ma inevitabilmente, è lo stato singolo che ha prevalso, visto che c’erano stati tre minuti di incoscienza totale: ha finito col risolversi nel mondo in cui aerei e automobili hanno avuto incidenti. Ma gli incidenti non si sono verificati nel corso di quei tre minuti; non sono mai successi. Semplicemente, con un salto, siamo passati dal modo in cui le cose erano prima al modo in cui erano dopo.»

«Questo… questo è assurdo» disse Lloyd. «È una pia illusione.»

Stavano passando davanti a un pub. Musica ad alto volume, con canzoni francesi, filtrava dalla grossa porta chiusa. «No, non lo è. E fisica quantistica. E il risultato è lo stesso: quella gente è rimasta uccisa, o ferita come se gli incidenti si fossero realmente verificati. Io non sto dicendo che ci sia un significato… anche se vorrei tanto che ci fosse.»

Lloyd strinse le mani di Michiko, e i due continuarono a passeggiare lungo la strada, verso il futuro.

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