6

Il periodo di adattamento fu difficile.

Qualche volta tutto quello che Jerome riusciva a fare era guardarsi in uno specchio muovendo a casaccio la testa e le braccia. A tratti i gesti erano rapidi e istintivi, come se l’immagine nello specchio non riuscisse a muoversi lentamente o lo facesse apposta.

Intanto la sua nuova faccia lo fissava, preoccupata e solenne. Era una faccia relativamente giovane, col mento più quadrato di quella originale, e con una barbetta nera a punta che lui non aveva mai portato. I lineamenti erano regolari, pur senza aver niente di particolare, e se fosse stato in condizioni di spirito da giudicare con serenità avrebbe ammesso che aveva guadagnato nel cambio. Era una faccia che sentiva sarebbe piaciuta ad Anne Kruger… ma lei ormai apparteneva a un altro mondo e a un’altra esistenza e le sue preferenze sessuali gli erano ormai indifferenti.

Quando cessò l’effetto delle sostanze che gli avevano iniettato, passò alternativamente da stati d’animo di rabbia impotente a un’accettazione passiva. E nei momenti di calma cercava di ricostruire il primo lungo colloquio che aveva avuto con Sull Conforden. Con la scienza del poi aveva capito che nel suo incontro con l’uomo della stazione di servizio — quello che i dorriniani chiamavano il Principe Belzor — erano coinvolte anche altre persone. E aveva anche capito che la situazione era stata molto più pericolosa di quanto non avesse creduto al momento.

Il corpo in cui Jerome si era trasferito era appartenuto a un dorriniano supertelepate che si chiamava Orkra Rell Blamene, il quale si era offerto volontario per il transfer indispensabile per mettere a tacere Jerome. A quanto risultava i dorriniani su Mercurio sapevano che Pitman era nei guai, ma ne ignoravano i motivi a causa della difficoltà di comunicare mentalmente da un pianeta all’altro. Mortalmente ferito, sapendo che la fine era vicina, Pitman non era stato in grado di comunicare quello che gli era successo. Per rendersi conto della situazione, Blamene si era trasferito sulla Terra, aveva assunto la forma fisica di Jerome ed era arrivato giusto in tempo per essere sopraffatto dal preponderante potere del Principe.

«Siete sicuro che sia successo proprio questo?» aveva domandato Jerome, ancora intontito per effetto delle droghe. «Ho avuto l’impressione che l’uomo a cui ho sparato stesse per morire.»

«Quel corpo stava morendo, ma il Principe Belzor non può venire ucciso tanto facilmente» aveva risposto Conforden. «Sappiamo che Blamene è sopravvissuto per meno di un minuto al transfer. In quel momento era estremamente vulnerabile, ed è quasi certo che il Principe, avendo bisogno di reincarnarsi un’altra volta, lo aveva sostituito.»

In seguito, quando fu di nuovo in grado di ragionare, Jerome rimuginò a lungo su quello che poteva significare nei suoi riguardi la parola “sostituito”. Il termine assumeva ora significati sinistri… evocava immagini della strana scena al Lago Parson… il superman alieno appoggiato all’albero, incapace di muoversi, deturpato da un’orrenda ferita… che aveva bisogno di un nuovo veicolo per la sua personalità disumana… che fissava con l’unico occhio rimastogli… l’occhio malvagio… il malocchio!… l’indistinta figura di Jerome-Blamene… sforzandosi e costringendola a fermarsi, a rimanere immobile per effettuare la… sostituzione.

Avendo accettato la realtà della sostituzione, Jerome si spinse oltre e dovette accettare anche l’inquietante idea che il suo corpo racchiudeva adesso un essere alieno. A milioni di chilometri di distanza, sulla Terra, c’era un uomo che in apparenza era Rayner Jerome, che forse viveva nella sua casa, che i colleghi credevano Rayner Jerome, ma che in realtà era un intruso venuto da un altro mondo. Quel pensiero era sommamente disgustoso e lo riempiva di risentimento. Il suo corpo era stato una macchina organica che gli aveva procurato molti fastidi, minacciando in ultimo di fermarsi, ma era stato suo. La sostituzione era un avvenimento disumano, contro natura, e Jerome non era psicologicamente preparato ad affrontarlo con tutte le sue implicazioni, ma sapeva che nessuno avrebbe mai dovuto essere violato come era stato violato lui. Il fenomeno era circonfuso da un alone sulfureo, accentuato, nella sua mente ancora confusa, dal mistero che circondava i Dorriniani.

Nonostante tutto quello che aveva saputo da Pitman e Conforden, quando arrivava a tentare di comprendere le loro ragioni razziali si sentiva come un antico Greco che meditava sui fulmini che saettavano sull’Olimpo. I Dorriniani erano dotati di poteri divini, su questo non c’erano dubbi, ma c’era qualcosa di veramente manicheo nella battaglia che conducevano sulla Terra? Jerome credeva di essersi liberato da tutte le tracce di convinzioni religiose, ma ciononostante la sua coscienza smarrita insisteva nel costruire castelli da giochi di parole, fatti appena adombrati, assurde associazioni di idee. Principe… Principe delle Tenebre… Belzor… Belzebù… elio… eliaco… Hell (inferno)…

Gli avevano detto che l’invasione clandestina della Terra, l’invasione della personalità, durava da più di tremila anni. Perché? Forse gli occasionali squarci nel velo del segreto dorriniano erano alla base di taluni elementi delle mitologie e religioni terrestri? E perché alcuni membri della razza dorriniana erano impegnati in una battaglia mortale col Principe?

Troppe domande, disse tra sé Jerome col cervello annebbiato dal sonno incombente. Troppo cui pensare…


«Sveglia, giovanotto. Non puoi startene sempre a cuccia.»

L’uomo la cui voce aveva destato Jerome aveva occhi come bottoni, una larga bocca sporgente, un paio di tonde orecchie a sventola, ma la cosa più notevole in quella specie di gnomo da favola — almeno per quanto riguardava Jerome — erano i capelli tagliati corti e il fatto che indossasse camicia e calzoni larghi di stile terrestre. Non ancora sveglio del tutto, Jerome si concesse l’illusione di essersi svegliato da un lungo incubo. Si rizzò prontamente a sedere, ma vide subito che si trovava ancora nella stanza circolare, una stanza scavata nella roccia di Mercurio.

«Mi chiamo Joe Thwaite» si presentò lo sconosciuto. «Abito da undici anni in questa parrocchia, ma prima vivevo nella bella cittadina di Barrow-in-Furness.»

«Barrow-in-Furness?» Jerome non ci capiva più niente. «Ma non è in Inghilterra?»

«Certo. La più bella città del paese.»

Jerome si sentiva sospeso fra due mondi. «Non avete l’accento inglese.»

«E tu non hai l’accento americano. Nessuno ha più l’accento del suo paese di origine.» Thwaite gli rivolse un sorriso da gnomo. «Gli accenti sono principalmente dovuti a uno sviluppo muscolare e adesso tu hai muscoli da Dorriniano, e così parli come un Dorriniano… come tutti, qui.»

«Non capisco.»

Joe Thwaite lo scrutò attentamente.

«Ti hanno imbottito di droghe fino agli occhi, eh? Non ricordi niente di quello che ti ha detto Pirt della colonia?»

«La colonia? È tutto così…»

«Senti, quello che devi soprattutto ricordare è che il transfer funziona nei due sensi. Ci sono più di cento Terrestri, qui. Tutti quelli che i Dorriniani hanno sostituito negli ultimi decenni… anche quelli che sono bruciati.»

Jerome si sforzava di comprendere quello che l’altro diceva. Gli avevano spiegato che il transfer era un avvenimento reciproco, ma in quel momento era troppo intontito per trarne le conclusioni logiche.

Non era il solo della sua razza su Mercurio.

Doveva esserci una colonia di esuli loro malgrado, uomini e donne che avevano condiviso la devastante esperienza di perdere conoscenza sulla Terra per poi svegliarsi su un lontano pianeta. A detta di Thwaite, anche coloro che avevano attirato l’interesse dell’opinione pubblica “morendo” per autocombustione erano membri della colonia, e se così era lui poteva ricordare i nomi di molti compagni d’esilio.

Rabbrividì all’idea. La sua facoltà di stupirsi era stata mandata in tilt dagli avvenimenti degli ultimi tempi, ma provava una strana inquietudine al pensiero di essere presentato a qualcuno di cui collegava il nome alle raccapriccianti fotografie dell’archivio dell’Examiner. Come doveva comportarsi con uno che ricordava come un mucchio di cenere e un paio di piedi infilati nelle pantofole? E questo non era il peggiore dei suoi tormenti…

«C’è qualcuno che si chiama Sammy? Sammy Birkett?»

«Sì, è stato portato qui poche ore prima…» Thwaite s’interruppe corrugando la fronte. «Come fai a saperlo?»

«Ero presente quando il transfer non è riuscito. L’ho visto… ho visto il suo corpo bruciare.»

«Eri davvero presente?» Gli occhi di giaietto di Thwaite brillavano di maliziosa gioia. «È una cosa che non dovrebbe succedere. Si vede che gli scagnozzi di Belzor hanno allentato la vigilanza. Su, giovanotto, in piedi! Devono saperlo anche gli altri.» Thwaite prese una borsa a tracolla posata accanto al letto e ne trasse camicia, calzoni e biancheria che porse a Jerome. Sebbene gli indumenti fossero privi di etichette parevano fatti in serie e potevano sembrare di provenienza terrestre.

«Dove dovrei andare?» chiese Jerome.

«Vedrai. Intanto sappi che questa borsa contiene tutti i tuoi beni, il che significa un ricambio di abiti e uno spazzolino da denti» disse Thwaite. «I Dorries forniscono tutto questo gratis. Dicono che lo fanno perché sono generosi, ma non crederci! Così vestiti dovremmo sentirci più a nostro agio, secondo loro, ma invece così possono sorvegliarci meglio. Lo stesso vale per i capelli. Quando vedi qualcuno che non è pettinato come un finocchio armeno vuol dire che è stato trapiantato dalla Terra.»

«Grazie dell’informazione» disse Jerome, un po’ confortato al pensiero che avrebbe potuto riconoscere i suoi simili. La presenza di Thwaite gli faceva sembrare Mercurio meno alieno. Si alzò e infilò le mutande di un tessuto simile al raion.

«C’è un’altra cosa che ci offrono gratis» disse Thwaite. «La vasectomia. Quando un supertele sta per andare in transfer viene reso sterile. Così si evita che i terrestri producano ibridi.»

«Ibridi?»

«Forse non è la parola giusta, ma sai cosa voglio dire. Il figlio nato da due terrestri in corpi dorriniani andrebbe classificato Terry o Dorry?»

«Ottima domanda» rispose Jerome, che stava trovando difficoltà nell’allacciare un bottone.

«Puoi dirlo forte!» Thwaite si tirò pensosamente il lobo di un orecchio. «Però bisogna anche dire, a favore dei Dorry, che avrebbero potuto invece vesectomizzare noi. Sai una cosa? Quando sono arrivato qui avevo sessantasei anni… Me ne stavo seduto al Globo di Ulverston a bere una pinta della miglior birra Hartley… Andavo tutti i giovedì a Ulverston in corriera perché è giorno di mercato e i pub stanno aperti dalla mattina alla sera… e improvvisamente mi sono svegliato in questa stanza… così come è successo a te.»

Jerome lo guardò rinunciando per il momento ad abbottonarsi la camicia. «Un bello shock!»

«Parole sante! Dopo undici anni mi sono abituato a molte cose, qui, ma non a fare a meno della birra. Sai, qualche volta scambierei tutta la loro gentilezza con qualche pinta della migliore Hartley.»

«Qui non esiste birra?»

«I Dorry non bevono alcoolici, e non posso fabbricarmela io perché questo posto è talmente sterilizzato che non esistono lieviti selvatici.»

«C’è qualcosa di sbagliato nei bottoni di questa camicia» disse Jerome.

«È colpa delle tue dita… i Dorry non usano bottoni.»

«Ma imparerò a servirmi presto anche di queste mie nuove mani, spero.»

«Dici? Aspetta finché non proverai ad adoperare coltello e forchetta. Ti ci vorrà una settimana prima di imparare bene.» Thwaite gli si avvicinò per abbottonargli la camicia. «Quanto ai calzoni» disse poi, «devi arrangiarti da solo… Non vorrei che qualcuno ci vedesse e poi andasse in giro a dire che sono un finocchio.»

«Speriamo di no.» Jerome tacque concentrandosi sull’impresa di vestire il suo nuovo corpo più giovane e magro, poi l’anormalità delle sue condizioni tornò a sopraffarlo come un’ondata che era riuscito per un poco a sfuggire. «Continuo a pensare che sto sognando.»

«No, non è un sogno. Sei su Mercurio e, a quanto mi ha detto Pirt, sapevi già qualcosa prima di arrivare qui, qualcosa che è servita ad attutire lo shock. Gli altri non sono stati fortunati come te.»

«E va bene» sospirò Jerome. «Ma in che punto di Mercurio mi trovo?»

«Al Polo Nord. A sessanta piedi di profondità.»

Jerome tradusse i piedi in metri prima di rispondere: «Così poco? E il calore del Sole?»

«Non ne arriva molto ai poli» gli spiegò Thwaite. «I Dorry si lagnano sempre della loro scalogna ma, se dobbiamo credere al mito della cometa, se la sono cavata abbastanza bene.»

«Mito? Pirt dice che è un fatto storico.»

Thwaite alzò le spalle. «Se è così sono stati fortunati a cavarsela con un’inclinazione assiale nulla. La parte in ombra è scomparsa, ma se non altro a ciascun polo rimane una piccola zona crepuscolare fissa.»

Jerome riuscì ad allacciare l’ultimo bottone. «Senti, visto che siamo compagni di esilio, posso darti del tu?»

«Ma certo fratello, siamo tutti sulla stessa barca.»

«Mi sembri piuttosto scettico a proposito del Sole, della cometa e di Mercurio, perché?»

«Dipende da quel po’ che so. Mercurio ha quella che chiamano risonanza orbitale, per cui due dei suoi anni corrispondono esattamente a uno dei suoi giorni. Posso anche ammettere che l’impatto con la cometa gli abbia impartito una rotazione assiale molto prossima all’esatto valore, e che poi l’attrito di marea col Sole abbia apportato l’ultimo tocco, però ho la sensazione che per arrivare a tanto occorreva molto più di qualche migliaio d’anni.»

«Eri un astronomo?»

«A Barrow?» Thwaite rise. «No, solo un modesto dilettante. Il fatto di essere trasportato qui mentre bevevo la mia birra ha acuito il mio interesse in queste cose, se capisci cosa voglio dire. Sei pronto?»

«Ma, non saprei…»

«Più presto ti unirai agli altri e meglio sarà per te. È davvero sorprendente come fai presto ad adattarti tu. Guarda me: dopo undici anni non mi sono ancora abituato ad avere una faccia che sembra quella di uno dei sette nani. Andiamo.»

«Va bene.» Jerome si sentiva timido e ansioso, ma seguì Thwaite e gli si mise a fianco mentre uscivano dalla stanza e svoltavano in un lungo corridoio illuminato da globi appesi al soffitto. Calcolò di essere un po’ più alto di prima e si accorse subito che non gli riusciva facile camminare. Aveva un equilibrio instabile che richiedeva più controllo e attenzione di quanto fosse capace. Dopo qualche passo si appoggiò al muro per reggersi.

«Non preoccuparti se ti senti debole» disse Thwaite. «I supertele restano digiuni due o tre giorni prima di un transfer. Dopo aver mangiato un paio di bistecche starai dritto come un palo.»

Jerome si accorse solo allora che aveva fame e pensò a come potevano risolversi i problemi del vitto in un ambiente completamente ostile. «Da dove vengono le bistecche?» chiese.

«Coltivano funghi giganti e li mangiano affettati. I Dorry ci sanno fare, in questo genere di cose. Ma non riusciranno mai a regalarsi una buona salsiccia del Cumberland.»

Thwaite cominciò a elencare i cibi inglesi di cui sentiva la nostalgia, ma Jerome era distratto dalla vista delle altre persone che incontravano lungo il corridoio. Per la maggior parte indossavano abiti di stile terrestre, ma qualcuno aveva la tunica a strisce e la sottanella che distinguevano i Dorriniani. Erano quasi tutti alti e magri, il che era probabilmente dovuto alla scarsa gravità di Mercurio. Jerome non si sentiva più leggero, ma questo era dovuto al fatto che aveva ereditato un corpo abituato a quell’ambiente. Qualche terrestre lo salutò con un cenno o un sorriso di benvenuto, ma solo dopo che una graziosa brunetta gli ebbe sorriso in modo particolarmente caloroso Jerome si rese conto di attirare più attenzione da parte delle donne che non degli uomini.

«Ti troverai bene, qui» disse Thwaite voltandosi a guardare la donna bruna. «Quella è Donna Sinclaire. Da due anni aveva una cotta per Blamene, ma lui era troppo innamorato di una Dorry per badarle. Adesso che hai preso il suo posto potrai darti da fare… Sei fortunato.»

«Fortunato, dici?»

«Certo. Non so com’era il tuo aspetto, prima, ma adesso sei un bel giovane…»

«Dove andiamo?» tagliò corto Jerome a cui non interessavano quelle sciocchezze. In quel punto il corridoio si allargava trasformandosi in quella che sembrava un’affollata strada sotterranea. «Cos’è questo posto?»

«Ci troviamo vicino al centro del Recinto» rispose Thwaite. «Tutti i terrestri vivono e lavorano entro un raggio di circa duecento yarde da là. Questo è il nostro territorio. I Dorry che vedi qui sono in massima parte supertelepati che imparano lingue e usanze terrestri. Se sei fortunato, ti daranno un incarico di insegnante.»

«Lavorano tutti?»

«Non è obbligatorio, ma quasi tutti preferiscono avere qualcosa da fare. Se qualcuno si rifiuta lo lasciano bollire nel suo brodo, ma prima o poi tutti decidono di lavorare in qualche modo. Gli unici che se ne stanno per conto loro e non fanno niente sono tipi religiosi di vecchio stampo, che sono convinti di essere morti. Ma sono pochissimi e non danno fastidio. Non si può obbligare a lavorare un illuso che si crede in Purgatorio.»

«In fondo li capisco» disse Jerome, guardandosi intorno. Pavimento, muri e soffitto erano di un grigio uniforme e la luce dei globi era fredda, sterile. Il pensiero di dover trascorrere il resto della vita in quell’ambiente lo riempì di un misto di tristezza, claustrofobia e disperazione.

«Non si sta male qui» disse Thwaite. «Ti ci abituerai.»

«Credi?»

«Non hai molta scelta.» Thwaite si fermò davanti a una delle tante porte che si aprivano sul muro curvo. «Entra qui. Devi sostenere un colloquio perché si possa giudicare qual è il posto più adatto per te nella comunità. Non ti allarmare, saremo in tre a parlarti: io, in qualità di segretario del Recinto, Mel Zednik, il nostro sindaco, e Pirt Conforden, il direttore responsabile dorriniano per gli affari terrestri.

«E quello che ha parlato con te appena ti sei svegliato dopo il tuo arrivo. Non è male per essere un Dorry.»

«Non so perché» disse Jerome guardandolo negli occhi «ma ho l’impressione che tu non sia entusiasta dei Dorriniani, però ti sforzi di non parlarne male.»

«Non saprei spiegarlo» rispose l’altro un po’ risentito. «Sarà perché a Barrow, nell’85, mi avevano dato per spacciato, e grazie ai Dorry ho vissuto per altri undici anni e vivrò per chissà quanti ancora. Nessuno col cervello a posto potrebbe lamentarsi di questo cambio, ti pare?»

«E se avessi avuto solo cinquant’anni e nessuna malattia grave?»

«I transfer d’emergenza come il tuo sono molto rari.»

«Questo non cambia le cose.»

«Devi parlarne a Pirt» concluse Thwaite facendo un inchino esagerato per invitare Jerome a entrare per primo.

Jerome entrò nella stanza, che era troppo calda e sapeva di chiuso. L’unico arredo consisteva in quattro sedie disposte a intervalli regolari intorno a un tavolo rotondo. Erano già seduti un Dorriniano, quello con cui lui aveva parlato al risveglio, e un uomo dai capelli biondo-grigi in abiti terrestri. Quest’ultimo, che doveva essere Zednik, aveva un paio di sopracciglia cespugliose e la faccia rugosa, e sarebbe sembrato molto vecchio se non fosse stato per la figura snella e il portamento eretto. Thwaite fece rapidamente le presentazioni, si mise a sedere e indicò a Jerome la sedia rimasta libera. Jerome si sedette guardò fisso il Dorriniano che gli stava dirimpetto.

Conforden gli rivolse un sorriso a fior di labbro: «Be’, Rayner non occorre essere un telepate per capire che non siete felice qui su Dorrin.»

«Vi stupisce?» rispose Jerome senza contraccambiare il sorriso. «Perché non dovrei sentirmi offeso… anzi, dovrei dire violentato?»

«Vi abbiamo salvato la vita.»

«A prezzo di quella di uno di voi. Non mi commuove.»

«Non importa se siete commosso o meno» osservò Zednil col tono mellifluo di chi gode nell’esercitare la propria autorità. «Fatto sta che siete qui e dovete adattarvi… come tutti gli altri.»

«No, Rayner ha ragione» disse Conforden. «Le circostanze del suo trasferimento sono state tutt’altro che normali, e io gli rivolgo le mie scuse anche a nome di tutti i Dorriniani. Il Principe Belzor è un rinnegato ed è stato ripudiato da tutti i Dorriniani, però noi siamo in parte responsabili delle sue azioni.»

«Ecco che ci risiamo!» saltò su Jerome. «Sono stufo di tutte queste chiacchiere a vuoto.» Si accorse che andava accalorandosi ma non si sentiva in obbligo di moderarsi. «Cosa diavolo sta succedendo, se è lecito saperlo? Voi ve ne state qui con le mani in mano a condannare quel Belzor, ma che diritto avete di interferire con le vite umane? Chi ve ne ha dato il permesso?»

«Noi non siamo alieni» disse Conforden senza alterarsi. «Potete vederlo da voi. Apparteniamo allo stesso ceppo razziale. Nessuno può dire perché i nostri comuni antenati decisero di istallare una colonia su un mondo inabitabile come Dorrin. Forse, agli inizi, era solo una squadra di scienziati, sono passati troppi secoli perché ne resti testimonianza, comunque resta il fatto che dorriniani e terrestri sono fratelli, e hanno obblighi reciproci.»

Jerome sospirò. «Forse sono ancora sotto l’effetto delle vostre droghe, ma questa secondo voi sarebbe una spiegazione del perché il vostro Belzor se ne va in giro ad ammazzare gente sulla Terra?»

«Credo che dovreste essere un po’ più rispettoso» gli disse severamente Zednik. «Dovrete imparare a…»

Conforden lo tacitò con un gesto. «Non fa niente, Mel… Rayner ha passato diversi brutti momenti» e a Jerome: «Sapete che i Dorriniani sono tenuti a rispettare un rigido codice morale?»

«Pitman continuava a ripetermelo.»

«Dopo il transfer il Dorriniano migliora le condizioni di salute del corpo terrestre mediante il diretto controllo dei suoi processi biologici. Per noi questa è una semplice procedura che consente al dorriniano di usufruire per molti anni di un corpo in ottime condizioni. Tuttavia il processo d’invecchiamento non si arresta e arriva il momento in cui il corpo terrestre s’indebolisce e comincia a morire. Arrivato a questo stadio, il dorriniano, disponendo delle risorse della nostra scienza mentale, e lavorando a distanza ravvicinata, può facilmente trasferirsi in un altro corpo terrestre più giovane e sano. Di conseguenza tutti i dorriniani trasferiti sulla Terra sono virtualmente immortali, ma la nostra etica proibisce ulteriori transfers. I dorriniani muoiono sempre insieme al corpo che li ospita.»

«Non sempre» mormorò Jerome come se una finestra si fosse aperta nella sua mente.

«È vero» ammise con vergogna e rammarico Conforden come se fosse lui il colpevole. «Il Principe Belzor vive sulla Terra da più di duemila dei vostri anni. Ha commesso molti delitti contro voi terrestri.»

«Avevo paura di lui» disse Jerome dopo un breve silenzio.

«E avevate ragione. Nel corso di tanti secoli, il Principe ha sviluppato i suoi poteri fino a raggiungere un livello senza precedenti. Anche il più forte dei dorriniani è impotente contro di lui.»

«Allora la cosa migliore è cercare di evitarlo.»

Conforden abbassò gli occhi. «È quello che abbiamo sempre fatto. È una politica da vigliacchi, e anche sbagliata, perché agli inizi, coalizzandoci, avremmo potuto avere la meglio su di lui. Ma eravamo pochi, e c’era tanto da fare. È sempre stato più facile non interferire col Principe… cercare d’ignorarlo in tutte le sue successive incarnazioni. Ma ora il Principe ha cominciato a prendersela anche con noi.»

«Perché?» Jerome aveva la sensazione di essere arrivato sull’orlo di un altro precipizio concettuale. «Perché lo fa?»

Conforden rialzò la testa e fissò Jerome negli occhi. «Perché ha paura che il suo regno stia per finire. Quando arriveremo in forze sulla Terra, a migliaia in un’unica migrazione, il Principe dovrà rispondere di tutti i suoi crimini.»

Il silenzio che calò nella stanza durò forse una ventina di secondi, ma a Jerome parve molto più lungo.

«Mi è lecito supporre che vogliate fornirmi ulteriori particolari?» chiese poi, turbato, ma parlando con voce ferma.

Conforden annuì. «Qui non abbiamo segreti, Rayner. Posso dirvi che poco tempo prima dei Giorni della Cometa, i nostri antenati si erano resi conto della necessità di ricorrere a misure eccezionali per conservare il nucleo della civiltà dorriniana. Era chiaro che gran parte della nostra razza stava per soccombere, perciò gli anziani scelsero quattromila individui fra i più dotati, ed escogitarono un piano di sopravvivenza. I kald dei Quattromila furono trasferiti in una matrice di cristallo indistruttibile.

«Io sono un dorriniano, ma non sono in grado di capire del tutto le interazioni fra mente e materia che portarono a quel risultato, quindi immagino come debba essere difficile per voi questo concetto. In parte, la telepatia è un processo fisico che richiede un apporto di energia mentale. Forse potrete capire meglio se vi dico che se una personalità può essere impressa nella struttura molecolare di un cervello ospite, può essere impressa anche su un’altra struttura complessa idonea. Per semplificare possiamo dire che i kald dei Quattromila si sono coagulati in un’unica gigantesca molecola. Per arrivare a questo i Quattromila dovettero naturalmente abbandonare la loro forma biologica, ma non morirono. Al contrario, i loro kald sono stati conservati al sicuro per tre millenni, in attesa di reincarnarsi.»

Conforden tacque e guardò Jerome. «Siete riuscito a seguirmi fin qui?»

«Fin qui e anche oltre» rispose Jerome. Il caldo eccessivo della stanza non riusciva a vincere il gelo che si era impadronito di lui da quando come in un lampo aveva cominciato a capire perché, fin dai tempi biblici, stranieri si erano furtivamente mescolati ai popoli della Terra.

«Forse sarà come dite» proseguì Conforden «ma io debbo chiarirvi i fatti storici. La parola dorriniana che definisce il ricettacolo dei kald dei Quattromila è Thrabben, e d’ora in avanti mi servirò di questo termine. Nessuna parola terrestre riuscirebbe nemmeno lontanamente a spiegare cosa significa il Thrabben per i dorriniani. È più che divino, è l’anima della nostra razza, l’incarnazione del nostro passato e del nostro futuro. Ogni dorriniano sarebbe pronto a dare senza esitazione la vita per proteggerlo, e il massimo onore a cui ciascuno di noi possa aspirare è di diventare Guardiano. Per questo noi li chiamiamo semplicemente Guardiani, in quanto nelle nostre esistenze tutto il resto è subordinato a questo compito.»

«Voi siete un Guardiano?» chiese Jerome.

«Ho questo onore.»

«Ma il vostro compito non consiste solo nel sorvegliare il Thrabben, non è vero?» Parlando Jerome guardava gli altri Terrestri. «A cosa servirebbe sorvegliare in eterno questo coagulo pietrificato? Giusto?»

«Giusto» rispose Conforden. «I Guardiani avevano anche la responsabilità di trasportare il Thrabben sulla Terra.»

«Una bella responsabilità» commentò Jerome.

«Potete ben dirlo.» Conforden non aveva apparentemente rilevato il tono ironico. «La mancanza di risorse non ci permetteva di creare i mezzi per trasportare il Thrabben attraverso lo spazio. Così ci mettemmo a lavorare clandestinamente sulla Terra, sistemando dorriniani in posti chiave, guidando dapprima la coscienza razziale umana verso l’astronomia e l’idea delle esplorazioni spaziali, poi pilotando la vostra scienza e la vostra tecnologia nella direzione giusta. Lavoriamo tutti tesi alla realizzazione dell’avvenimento più importante di tutti: il lancio di una nave con equipaggio umano destinata a Mercurio.»

Jerome si rizzò a sedere. «State parlando della Quicksilver? La nave che è già in viaggio?»

«Sì» ammise Conforden. «Uno dei membri dell’equipaggio è un dorriniano, uno dei tanti che abbiamo inserito nei programmi di addestramento degli astronauti. Ha l’incarico di prendere il Thrabben in un punto prestabilito della superficie…»

«Ma come sapete dove…?» Jerome s’interruppe. Aveva capito. «Quindi qui non è precipitata nessuna astronave proveniente dallo spazio esterno?»

«Esatto, Rayner. Abbiamo costruito una sagoma di metallo che può sembrare parte del relitto di una grossa astronave, piazzandola poi in un punto visibile dalla Terra. Diciotto dorriniani hanno perso la vita nel corso di quell’operazione, ma erano consapevoli dei rischi che correvano, e noi non ci rammarichiamo per la loro perdita.»

La memoria fotografica di Jerome, subito galvanizzata, produsse l’immagine di un francobollo semicircolare su una busta gettata via.

«Nello studio di Pitman, a Whiteford, ho notato la busta di una lettera proveniente da Cryo-Care.»

«Movik aveva ragione quando ha deciso che dovevate essere trasferito» disse Conforden. «Sì, la CryoCare è in massima parte un’impresa dorriniana.»

«E avete i quattromila corpi?»

«Sì, li abbiamo. Non è stato facile trovare tante persone prive di relazioni che complicassero l’impresa e stessero per morire di malattie che noi potremo debellare dopo la reincarnazione. La necessità del segreto più assoluto ha reso ancora più difficili le cose, ma alla fine siamo riusciti nell’intento.»

«Siete pieni di segreti, voialtri» disse Jerome, camuffando sotto quella blanda critica il profondo disgusto ispiratogli dalle parole di Conforden.

Quelle frasi pronunciate con calma nascondevano scene di puro orrore.

«Non è nella nostra natura» asserì Conforden rispondendo alla sua osservazione. «Sia o stati costretti a lavorare di nascosto per via di alcuni pregiudizi prevalenti sulla Terra.»

«Pregiudizi contro il furto di cadaveri, per esempio.»

«Quello che dite mi dà ragione, Rayner. Pensate a come sarebbero state esagerate le vostre reazioni se foste vissuto in un’epoca più ignorante e superstiziosa. Il loro rapporto con la combustione umana sarebbe bastato a bollare tutti i dorriniani come emissari del diavolo. Ma anche oggi dobbiamo affrontare fin troppi ostacoli e pericoli.»

«I voli spaziali sono di per sé rischiosi» osservò Jerome. «Se il … il Thrabben è tanto importante per voi, vi sembra prudente trasportarlo sulla Terra a bordo di quella che in definitiva, nel suo genere, è una nave primitiva? Non sarebbe meglio aspettare altri cinquanta o cento anni fin quando i viaggi spaziali saranno più sicuri?»

«Abbiamo discusso a lungo su questo punto» rispose Conforden, guardandolo con occhi pieni di tristezza. «Avete lasciato solo da tre giorni il vostro mondo e vi siete già scordato come vanno le cose? Siete veramente convinto che la Terra stia entrando in un periodo di stabilità e di miglioramento come sarebbe necessario per lo sviluppo dei voli interplanetari?»

«È difficile dirlo.»

«Non cercate di illudervi, Rayner. Le attuali condizioni dei rapporti fra le grandi potenze terrestri fanno pensare che la Quicksilver sarà probabilmente l’ultima nave lanciata nello spazio. Anche se a quella attuale succederà un’altra civiltà, potrebbero passare millenni prima che si sviluppi di nuovo una tecnologia spaziale. I Dorriniani hanno avuto la pazienza di aspettare molto a lungo, il tempo invece non esiste per i Quattromila, ma siamo privi di risorse. No, amico mio, sarà la Quicksilver a portare il Thrabben sulla Terra.»

«Dalla vampa solare al fuoco nucleare?»

«Abbiamo discusso anche su questo aspetto della situazione. Abbiamo fiducia nella nostra capacità di infondere nuovi elementi positivi nella civiltà terrestre in modo da invertire le tendenze che la stanno portando all’autodistruzione. La presenza non più segreta dei dorriniani sulla Terra costituirà un enorme potenziale benefico. In effetti, è in previsione di questo che ci sentiamo moralmente giustificati per esserci intromessi nel vostro mondo.»

«Siete un popolo altamente etico» commentò seccamente Jerome.

«Infatti. Ed ora, Rayner, sapete pressappoco tutto. Lo scopo di questi colloqui consiste nell’accertare in quale modo un nuovo arrivato può meglio inserirsi nella civiltà del Recinto, e far sì che possa dare il massimo rendimento. Ma prima vogliamo che vi dichiariate disposti a collaborare. Chi lavora deve farlo di sua volontà.»

«Me ne aveva già parlato Pitman» disse Jerome. «E io gli ho detto che non mi andava l’idea di tradire tutta la popolazione della Terra. Non mi piace quello che mi avete fatto e non ho intenzione di lavorare per voi.»

«Non devi far così» intervenne Thwaite che prendeva la parola per la prima volta dall’inizio della riunione. «Noi lavoriamo per noi. È la nostra unica possibilità di tornare a casa.»

«Credo che mi abbiate perduto da qualche parte» ribatté Jerome poco persuaso. «La mia vera casa è molto, molto lontana.»

«Il trasporto del Thrabben sulla Terra sarà solo il primo passo di una più grande migrazione» disse Conforden. «Quando i Quattromila si saranno reincarnati e una nazione dorriniana si sarà stabilita sulla Terra, il passo successivo consisterà nel creare astronavi di nuovo tipo per trasportare tutti noi. Questo progetto potrà sembrare irrealizzabile e visionario, ma può realizzarsi, e, naturalmente i terrestri che sono stati trasferiti su Dorrin avranno la precedenza al momento di assegnare i posti sulle navi. Noi siamo l’ultima generazione di esseri umani costretti a vivere sottoterra su questo pianeta.» Pirt Conforden fece una pausa, e poi, rivolgendosi direttamente a Jerome: «E voi, amico mio, potrete tornare sulla Terra fra meno di dieci anni.»

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