«Salve» disse il funzionario governativo infilandosi nel sedile accanto a Jerome. «Mi chiamo Dexter Simm, e la prima cosa che farò sarà rilevarvi le impronte digitali. Sono sicuro che non avrete niente da obiettare, ma anche in caso contrario le rileverò ugualmente e, se necessario, dirò a questi signori di immobilizzarvi mentre lo faccio.»
Così dicendo, Simm indicò con un cenno due impassibili giovanotti seduti nell’estremità anteriore dello scompartimento passeggeri della navetta. I due indossavano abiti vistosi che erano stati scelti per passare inosservati, e davano a Jerome l’impressione di essere molto abili nel soggiogare fisicamente le persone.
«Non ho niente in contrario» disse con noncuranza porgendo le mani a Simm. «Ma è così che accogliete gli ospiti russi?»
«Russo un corno! Non so di dove siate, slunghignone, ma non venite certo dalla Russia.»
Senza por tempo in mezzo, Simm premette i polpastrelli di Jerome su una striscia di plastica che poi chiuse in una scatola piatta nera. Uno dei due scagnozzi si alzò e risalì la corsia barcollando goffamente a causa della mancanza di gravità. Prese la scatola dalle mani di Simm, tornò sui suoi passi e scomparve dietro il divisorio che isolava la cabina di comando.
Jerome pensò che le sue impronte sarebbero state controllate in tutto il mondo con i computer prima che la navetta entrasse nell’atmosfera, e provò un senso di perversa soddisfazione. Se c’era qualcosa che gli inquirenti non sarebbero riusciti a trovare erano le impronte di un dorriniano negli archivi terrestri.
«Bello quest’anello.» Simm cercò di toccare il gioiello che Jerome portava all’anulare della sinistra, e alzò gli occhi divertito e sorpreso quando Jerome ritrasse la mano. «Perché siete così nervoso?» gli chiese.
«E voi perché siete così ostile?» ritorse Jerome. «Per qualcosa che ho detto?»
«Anche per questo.» Simm guardò Jerome con aperta antipatia. Calvo, sulla cinquantina, con le spalle larghe, aveva una corporatura robusta nonostante gli strati di adipe che anni di lavoro sedentario gli avevano accumulato addosso. La faccia era quella di un duro, astuto ma privo di fantasia, intelligente ma incolto.
«Ho avuto l’incarico di studiare tutto quello che avete detto in questi tre mesi» disse «e vi assicuro di non aver mai visto un tale mucchio di…» S’interruppe al suono di un campanello che annunciava che la navetta si era staccata dalla stazione. Poco dopo si aggrappò ai braccioli del sedile, spaventato, perché la navetta aveva fatto un improvviso balzo in avanti e l’oscurità che entrava dagli oblò lungo un lato del compartimento aveva ceduto il posto alla luce abbagliante del sole. I motori rombavano a intervalli, facendo vibrare le paratie e i pannelli del soffitto. Jerome, reduce da un viaggio di tre mesi nello spazio, rimase impassibile, ma la faccia di Simm aveva assunto un colorito grigiastro e un velo di sudore gli imperlava il labbro.
«E avete il coraggio di chiedermi perché sono ostile?» disse, decidendo di sublimare la paura con l’ira. «Ma guardatemi! Non dovrei trovarmi qui in questa tinozza di alluminio a giocare allo spaziale. Sapete che abbiamo dovuto allestire una sezione spaziale solo per voi? Nessuno riesce a decidere se costituite un problema per l’immigrazione, per la NASA, per la CIA o per il KGB… Be’, no, abbiamo fatto presto a eliminare il collegamento coi russi. Come dicevo prima, voi non siete russo.»
«Non ho mai asserito di essere un vero russo» protestò Jerome. «L’Estrema Regione Orientale non è…»
«Non spaccate un capello in quattro! Non sono dell’umore adatto.»
Jerome si era troppo preoccupato per quello che lo aspettava al ritorno per aver pensato che all’arrivo diverse Agenzie americane avrebbero reagito alle sue dichiarazioni. L’unica cosa che riusciva a prevedere nell’immediato avvenire era che i supertelepati dorriniani sarebbero riusciti a raggiungerlo, ovunque fosse, ma cosa ne sarebbe stato di lui dopo aver consegnato il Thrabben? I dorriniani l’avrebbero lasciato libero o l’avrebbero lasciato in mano agli inquisitori fino all’inimmaginabile momento quando il Grande Segreto non sarebbe più stato segreto?
«Se tutti sono convinti che io sia un impostore» disse per prender tempo, «perché hanno permesso che la Quicksilver mi riportasse sulla Teira?»
«Perché sarete una miniera di informazioni. Forse non lo credete, ma spiattellerete tutto su come eravate arrivato su Mercurio. Tutto, dall’A alla Z. Direte il nome della nazione che vi ha mandato, e…» Simm s’interruppe. Pareva più a suo agio, e per qualche istante indugiò a guardare il biancore fosforescente della stazione spaziale che si muoveva al di sopra e davanti alla navetta in discesa. «Inoltre non sarebbe stato gentile piantarvi lassù, specialmente dopo che Chuck Baumais aveva avuto la cortesia di lasciarvi il suo posto.»
Ci risiamo, pensò Jerome. Quando la logica ha paura, sopravviene l’istinto. Fa parte della nostra natura cercare rapporti. Ne abbiamo bisogno…
«Mi dispiace per Baumais» disse. «Non credo però che sia stata una consolazione per voi sapere che la sua morte ha permesso a un altro di sopravvivere.»
«Non molto» ammise freddamente Simm. «Sapete che siete un bel pasticcio?» Lo guardò con aria critica. «Questi sono gli unici abiti che avete? A parte quella tuta da cartoni animati, naturalmente.»
Jerome, che finora non ci aveva fatto caso, si accorse di colpo che doveva costituire uno strano spettacolo agli occhi dei terrestri. Camicia e calzoni dorriniani erano riposti in una sacca insieme alla tuta che aveva indosso quando era fuggito dal tunnel. A bordo della Quicksilver gli avevano dato la tuta di plastica di riserva che lui aveva dovuto dividere in due parti all’altezza della vita altrimenti sarebbe risultata troppo corta. Il risultato era un due pezzi coi calzoni e il camiciotto troppo corti, completato da un paio di calzini grigi, sue uniche calzature. Tutto si poteva dire fuorché fosse elegante.
«Capisco cosa volete dire» rispose. «Ma credo che vadano bene in Florida, in gennaio.»
«Non andiamo al Capo.»
«Perché no?»
«Troppi cronisti, troppa gente. Così andiamo in una base dell’aeronautica nel Nord Dakota.»
«Capisco» disse Jerome, chiedendosi se sarebbe stato difficile per i dorriniani raggiungerlo in quella località. «Avreste potuto scegliere un posto più caldo.»
«Credevo che voi russi foste abituati al freddo» replicò Simm con un sorriso malevolo.
Jerome non disse altro, deciso a parlare il meno possibile per il resto della discesa. Prima di quanto avesse previsto, la navetta si tuffò negli strati superiori dell’atmosfera e il cielo visibile attraverso gli oblò diventò azzurro. Nel giro di dieci minuti l’attrito dell’aria sullo scafo diventò percettibile e la navetta, mutando le caratteristiche di missile balistico in quelle di aeroplano, cominciò a rivelare un carattere meccanico suo proprio che espresse a tratti con sbalzi improvvisi, sussulti e colpi di coda.
A quanto Jerome poté giudicare da quel po’ che riusciva a vedere di sfuggita, gran parte del Canada centrale e degli USA erano coperti da una coltre di nubi. La prospettiva di una discesa in picchiata in condizioni atmosferiche avverse lo indusse a stringere l’imbracatura di sicurezza, e mentre affibbiava le cinghie si accorse che le sue braccia pesavano come piombo. Cercò di non pensare ai problemi che gli avrebbe causato la gravità terrestre, sperando di esser stato eccessivamente pessimista circa la sua capacità di compensazione, ma il senso di peso era uno sgradevole assaggio di quello che lo aspettava di li a poco.
Sentendo che i muscoli del collo protestavano per il sovrappiù di tensione, chinò la testa in avanti e rimase sbigottito quando il mento urtò la clavicola con un impatto che gli fece battere i denti. Rialzò la testa con uno sforzo, con la sensazione di portare un elmo di piombo, e si accorse che Simm lo guardava seriamente preoccupato.
«Ehi, state bene?» gli chiese scrutandolo. «Avete bisogno di un dottore?»
«Troppo a lungo in assenza di gravità» mormorò Jerome, tentando di adattarsi alla scoperta che tre mesi senza peso avevano seriamente indebolito la sua muscolatura dorriniana già inadeguata di per sé. «Non so neanche se riuscirò a camminare.»
«Basta che riusciate a parlare.» Simm si voltò a guardare le nuvole in cui si tuffava la navetta.
Jerome lo mandò al diavolo e si concentrò nello sforzo di tener dritto il collo e la testa eretta, mentre da azzurro il tratto di cielo visibile attraverso gli oblò diventava grigio e la discesa si faceva tempestosa. Tutte le sensazioni di movimento venivano acuite dalla sua debolezza, e il volo si trasformò per lui in un seguito di cadute, contorcimenti e sussulti che gli fecero dubitare della capacità del pilota di mantenere il controllo. Nella realtà il suo ritorno a casa era ben diverso dalle nostalgiche visioni che lo avevano consolato durante le lunghe notti nel Recinto. Minacciato da pericoli naturali, debole come un invalido, era stato gettato in una buia arena dove si celavano ombre e un superman terrificante e maligno voleva la sua morte. Belzor era un essere che uccideva senza esitare chi ostacolava le sue iniziative, e, finché portava il Thrabben, Jerome personificava la condanna a morte di Belzor…
Sentendosi solo e vulnerabile, Jerome chiuse a pugno la destra sulla mano che portava l’anello, mentre la navetta usciva dalla coltre di nubi. Ebbe rapide visioni di distese nevose che si perdevano nel grigiore, di strade appena distinguibili che portavano dal nulla al nulla… La Terra non gli dava il benvenuto. I turboreattori di coda si accesero nell’ultima parte del volo, aggiungendosi alle forze che già squassavano il corpo di Jerome, strappandogli la testa all’indietro a ogni colpo. Qualche minuto dopo penetrò dall’esterno un confuso insieme di luci, seguì un attimo di silenzio, e infine la navetta si posò solidamente sul cemento. Jerome sedeva immobile, e solo dopo che la navetta si fu fermata voltò cautamente la testa verso Simm.
«Adesso che siamo arrivati» disse, «chiedo di essere portato all’ambasciata sovietica, a Washington.»
«Certo, certo» rispose giovialmente Simm, alzandosi in piedi e facendo crocchiare le dita mentre chiamava con un cenno i due giovani. «Uno di voi due dovrà fare a meno del cappotto» disse. «Non possiamo rischiare che il nostro ospite si becchi un raffreddore.»
Jerome, che non vedeva l’ora di saggiare fino a che punto era debole, sfibbiò le cinghie e si alzò a fatica. Tirò un sospiro di sollievo nel constatare che poteva reggersi da solo, a parte una certa fiacchezza alle ginocchia, e questo dimostrava come gli fossero stati utili gli esercizi agli attrezzi sulla Quicksilver. Purtroppo non aveva pensato a esercitare anche i muscoli del collo, ma almeno poteva risparmiarsi l’umiliazione di essere sbarcato a braccia. Si avviò lungo la corsia centrale con la sensazione di avere un quintale di sacchi di sabbia sulle spalle e con le gambe malferme, seguito passo passo da Simm.
Uno dei due scagnozzi lo aiutò a indossare un cappotto che aveva tolto da un armadietto. Mentre lo abbottonava, Jerome vide che nella parte anteriore della navetta l’equipaggio in divisa stava dandosi da fare per aprire il portello stagno. Pochi attimi dopo si udì un leggero tonfo, il massiccio portello si socchiuse con uno scatto per poi spalancarsi del tutto, e refoli di aria fredda invasero il caldo abitacolo.
«Andiamo slunghignone» disse Simm. Gli passò davanti e lo precedette sulla scaletta di metallo che qualcuno aveva piazzato sotto la navetta. Il cielo pomeridiano era plumbeo, con solo qualche piccola chiazza di luci ambrate sull’orizzonte che indicavano gli edifici del campo d’aviazione. La navetta era atterrata su una pista isolata a un lato della quale c’era uno spiazzo con autopompe, autogru e due limousines nere coi finestrini oscurati. Jerome aveva fatto appena in tempo a guardarsi intorno, quando il freddo lo colpì come un assassino in agguato. Rimase senza fiato per lo shock perché non ricordava di aver mai patito tanto freddo nemmeno negli inverni più rigidi… ma poi si rese conto che fisicamente non aveva mai sentito il freddo. Il corpo dorriniano che aveva ereditato, oltreché fragile, era nato e vissuto nel caldo invariabile di Cuthranel. Scosso da un violento tremito, scese barcollando la scaletta e trattenne a stento un urlo quando il piede coperto dalla sola calza venne a contatto con la neve della pista.
Gli equipaggi dei veicoli vicini erano rimasti ai loro posti, ma lui sapeva che lo stavano guardando, e con un ultimo sussulto di orgoglio si costrinse a star ritto e a celare l’angoscia.
Non c’è bisogno che Belzor si dia da fare, pensò. Basterà il freddo a uccidermi.
«Bene, state a sentire» disse Simm a i due scagnozzi. «Io salirò nella mia auto col mio amico, e voi mi seguirete con l’altra fino al Boeing. Restate a terra e tenete gli occhi ben aperti finché non saremo pronti per il decollo, poi salite a bordo anche voi. E per l’amor di Dio, non avere quell’aria infelice, Dougan» aggiunse dando una pacca sulla spalla del giovane che aveva ceduto il cappotto a Jerome. «Te lo farò restituire in perfette condizioni. D’accordo? E adesso andiamo.»
Simm prese Jerome per un braccio e lo spinse verso la limousine più vicina.
Lo strattone irritò Jerome, ma era troppo debole per liberarsi dalla stretta. Intirizzito e reggendosi a malapena si lasciò trascinare, e quando furono vicini alla macchina qualcuno aprì uno sportello posteriore in modo che Simm poté più facilmente spingere Jerome sul sedile. Poi salì a sua volta e si sedette di fronte a lui su uno strapuntino.
La limousine partì immediatamente. Il conducente era invisibile al di là del vetro divisorio oscurato.
Il compagno di Simm, che aveva abbassato lo strapuntino, era un uomo snello, sulla quarantina, col naso affilato, vestito in modo anonimo.
Fissava affascinato la mano sinistra di Jerome, e dopo qualche secondo cadde in ginocchio, imitato da Simm che fissava a sua volta con sguardo rapito l’anello di opale.
Jerome cominciava a sentirsi a disagio.
«Rayner Jerome» disse Simm, «ti onoriamo come portatore del Thrabben.»
L’altro annuì: «Ti onoriamo.»
«Ma io…» balbettò sconcertato Jerome. «Dovrei capire cosa sta succedendo… ma è tutto così…»
«È logico che tu sia confuso dopo aver passato tante traversie» disse Simm. «Non ho potuto esimermi dal trattarti come ti ho trattato, a bordo della navetta. Dovevo fingere a beneficio di Dougan, McAllister e dell’equipaggio. Sono tutti terrestri.»
«Tu invece sei dorriniano» mormorò Jerome.
«Sì» confermò Simm. «Sono un Guardiano, e lo sono anche Peter Voegle, qui, e Cy Rickell che è alla guida. Per il momento continueremo a servirci dei nostri nomi terrestri. Abbiamo avuto qualche difficoltà quando all’ultimo momento è stato deciso di non far atterrare la navetta al Capo, ma teniamo ancora la situazione sotto controllo.»
«Sì» convenne Voegle, «ma dobbiamo far presto.» Cominciò a togliersi la giacca. «Indosserò i tuoi abiti, Rayner, poi salirò sull’aereo e andrò a Washington al tuo posto.»
Intontito, col cervello ancora annebbiato dal freddo, Jerome riusciva ad assimilare solo un’idea alla volta. «Fingerai di essere me?»
«Sì.»
«Ma se Dougan e McVattelapesca sono terrestri… Si ricorderanno la mia faccia.»
«No» intervenne Simm. «Ricorderanno solo quello che noi vorremo. Ma poiché non possiamo tenere sotto controllo anche gli altri che ti hanno visto, l’inganno reggerà solo per uno o due giorni… ma dovrebbero bastare. Su, lascia che ti aiuti a sfilare il cappotto.»
«Un momento» disse Jerome. «E io? Cosa ne sarà di me?»
«Ti abbiamo portato abiti e biancheria adatti alla tua corporatura. Cy Rickell ti accompagnerà a un aeroporto privato vicino a Grand Forks, a un’ora da qui. Un aereo della CryoCare è in attesa di portarti in volo a Amity. Dovrà seguire una rotta lungo i due continenti americani, perché non possiamo rischiare che l’aereo precipiti in mare, ma il viaggio non durerà più di…»
«Basta!» Jerome, disperato, alzò la sinistra mostrando l’anello. «Ne ho abbastanza… Ho già fatto abbastanza. Non voglio andare nell’Antartide. Qualcun altro si prenda l’anello… Non voglio più saperne di questo maledetto coso!»
«Per favore, Rayner, non parlare così.» Simm lanciò un’occhiata a Voegle che si era immobilizzato nell’atto di togliersi la camicia. «Non parlare così del Thrabben.»
«Scusatemi» disse Jerome. «Ma parlavo sul serio. Deve portarlo qualcun altro.»
«Ma sei tu il Portatore del Thrabben. Ha accettato te, e adesso tu sei lo strumento diretto dei Quattromila. Hai mai provato a sfilare l’anello?»
«No.» Improvvisamente Jerome trovò strano che non avesse mai cercato di farlo.
«Prova adesso.»
«Bene!» Jerome afferrò col pollice e l’indice il cerchietto di platino… e lasciò subito ricadere la mano.
Non aveva sentito niente, né una scossa, né una comunicazione telepatica, ma aveva capito che l’anello doveva restare infilato al suo dito. Era una certezza assoluta, semplice come le certezze dei bambini. L’anello doveva restare dov’era.
«Non è giusto» protestò. «Perché vi comportate così? Se volete che porti il Thrabben a Amity, perché non mi ipnotizzate, facendo di me uno zombie, o persuadendomi che vado da qualche parte in vacanza? Perché devo aver paura?»
«Noi siamo un popolo etico» disse Simm, in tono persuasivo e gentile. «Non vogliamo privarti del libero arbitrio e neppure trasformarti in una macchina biologica. Secondo noi, è più leale lasciarti la libera scelta.»
«Ma davvero? Magnifico!» esclamò con amarezza Jerome. «Mentre voi ve ne state con le mani in mano a congratularvi per la vostra sublime etica, io devo vedermela con Belzor!»
«Belzor!» esclamò Simm con un misto di sorpresa e piacere. «Perdonami, Rayner. È stato criminale da parte mia non dirtelo subito, ma eravamo tutti sotto pressione.»
Jerome guardò prima uno poi l’altro. «Cosa ne è di Belzor?»
«È morto» disse Simm tranquillamente. «Il Principe è morto.»