2

L’obitorio era un edificio basso, in mattoni rossi, situato discretamente sul retro del Whiteford Holy Cross Hospital. Le pareti esterne erano prive di finestre e l’ingresso era costituito da un’anonima porta di acciaio. Era quel tipo di edificio che passa inosservato, e tuttavia la sua vista provocò in Jerome un senso di disagio.

Uscendo dalla casa degli Starzynski, il suo primo impulso era stato di tornare in ufficio e leggere tutto quanto era disponibile sulla combustione umana spontanea, ma aveva cambiato idea spinto da motivi filosofici. Se avesse seguito quell’impulso si sarebbe trovato a che fare solo con parole, parole scritte da altri, estranee al fenomeno su cui si era proposto di indagare, cosa che non andava d’accordo col metodo scientifico. Inoltre voleva dimostrare ad Anne Kruger che sarebbe stata una buona cosa lasciarlo libero di agire di sua iniziativa. Con una telefonata all’ospedale aveva ottenuto un appuntamento col dottore McGrath, disposto a riceverlo subito, e mentre percorreva in auto le strade della città nella luce cristallina di quella bella giornata del New Hampshire, si era sentito soddisfatto di se stesso.

Però adesso, avvicinandosi a piedi all’obitorio, gli tornò alla mente che era restio per istinto a entrare in un posto dove venivano conservati i cadaveri. In particolare non aveva la minima voglia di guardare da vicino una mano umana carbonizzata, e i motivi che l’avevano spinto a desiderare di farlo parevano completamente svaniti. Suonò il campanello e poco dopo la porta di acciaio fu aperta da un uomo alto e brizzolato con l’aspetto emaciato di uno che una volta era stato grasso e adesso era magro.

Camicia e calzoni che gli pendevano di dosso rafforzavano quell’impressione. Aveva un viso lungo, segnato da profonde rughe e guardò Jerome con occhi tristi e innocenti.

«Entrate» disse. «Dentro fa più fresco.»

Jerome si schiarì la gola. «Siete il dottor McGrath? Sono Rayner Jerome.»

«Lo immaginavo» e aggiunse non senza umorismo: «Non riceviamo molte visite, qui.»

«Eh, lo credo.» Rassicurato dall’atteggiamento del medico, Jerome lo seguì lungo un breve corridoio dopo averlo aspettato mentre chiudeva il portone. All’interno l’aria era fresca e inodore.

«Dunque siete un corrispondente scientifico» disse il dottor McGrath mentre entravano in un modesto ufficio illuminato a giorno. «Non sapevo che l’Examiner impiegasse animali di questa specie.»

«Be’, non lo sanno nemmeno loro. Sono io che cerco di pilotarli in quella direzione.»

«Capisco. Siete qualificato?»

«Dal punto di vista scientifico no» rispose Jerome sperando che la domanda non diventasse ricorrente. «Ma una volta ero un buon tecnico e le materie scientifiche mi hanno sempre interessato.»

McGrath lo scrutò con occhi penetranti mentre sedeva alla scrivania. «Parlate in tono difensivo» osservò.

«Davvero?» Sulle prime Jerome si sentì un po’ offeso dall’intuito di McGrath e dalla sua franchezza, ma poi capì subito che gli veniva offerta la rara occasione di valicare l’abisso che divide gli esseri umani. «Sarà perché, nonostante tutto, forse non ero neanche un buon tecnico. Ero un manovale, un generico, e mi occupavo di quelli che vengono definiti lavori a breve termine, troppo poco importanti perché se ne occupino i computer. Potevo progettarli e controllarli e metterli in cantiere nel tempo che un programmatore impiega a sistemare la sua sedia.»

«E come andò a finire?»

«Un computer sostituì i vecchi impiegati… e non era in grado di leggere i miei grafici.»

McGrath annuì pensoso e gli indicò una sedia. «E voi non volevate lavorare col computer.»

«Ne possiedo uno personale dalla nascita.»

«Qualcosa mi dice» asserì con un lieve sorriso McGrath, che è stata per voi una singolare esperienza parlare con la figlia di Starzynski.

Jerome ricambiò il sorriso, felice di cambiare argomento, e trasse di tasca penna e notes. «A quanto mi ha detto Maeve Starzynski, i resti di suo padre davano l’impressione che fosse stato cremato, non è così?»

«No.»

Jerome provò contemporaneamente delusione e sollievo. «Pareva così…»

«Un forno crematorio non dà quei risultati nel giro di pochi minuti» tagliò corto McGrath. «In genere la gente lo crede, ma vi posso assicurare che quando un cadavere viene cremato è sottoposto per novanta minuti a un calore di 1.200 gradi Celsius, e poi a mille gradi per altre tre ore. E anche così quel che ne risulta è ben lungi dall’essere cenere impalpabile o polvere. Rimangono molti frammenti ossei che vengono polverizzati da una macchina, ma nel caso di Starzynski, fatta naturalmente esclusione per la mano, c’era soltanto cenere.»

Jerome smise di prendere appunti, accorgendosi che mentre scriveva le cifre che gli snocciolava, il dottore era rimasto a bocca aperta. McGrath lo guardava con aria cupamente soddisfatta e la sua faccia pareva intagliata nel marmo alla cruda luce dei tubi al neon. Da un’altra parte dell’edificio proveniva il leggero rumore di una porta scorrevole, simile al borbottio di un tuono lontano.

«Questo è piuttosto duro da digerire» disse Jerome. «Che temperatura ci sarà voluta?»

«Questo lo ignoro, e sarebbe un interessante campo da sperimentare, però le monete che Starzynski aveva in tasca si sono fuse in un unico blocco.»

«Posso vederlo?»

«L’ha preso la polizia, credo per farlo esaminare nel laboratorio di medicina legale di Concórd. Ma venite a dare un’occhiata al. vero reperto.» Si alzò, prese dalla spalliera della seggiola un camice e lo infilò. Jerome si alzò a sua volta, un po’ timoroso, e chiuse il notes. «Fa effetto?»

«Buon Dio no!» esclamò con una risatina secca McGrath. «Un piatto di rigaglie di pollo è dieci volte più repellente. Non riesco a capacitarmi come mia moglie possa farne un paté.» Uscendo dall’ufficio diede un’occhiata al notes di Jerome. «Credo che siate l’unico cronista del paese che stenografa ancora a mano.»

«L’ho sempre fatto, anche quando collaboravo occasionalmente a una rivista tecnica.»

«Fa parte del vostro boicottaggio personale all’industria elettronica?» McGrath si fermò davanti a una porta a doppio battente. «Cos’ha che non va un registratore?»

«Un registratore va bene quando si detta. Può anche servire, se si vuole, nel corso di una conversazione multipla, posto che tutti s’adattino a parlare a turno e ogni volta dicano il proprio nome. Ma quando c’è un gruppo che discute, borbotta, o tutti parlano contemporaneamente con gesti ed espressioni che sottolineano quello che stanno dicendo, una buona trascrizione stenografica è mille volte meglio.»

«Siete un bravo stenografo?»

«Quasi trecento parole al minuto.»

«Avrei dovuto immaginarlo» commentò McGrath con espressione enigmatica. Aprì la porta ed entrarono in un ampio locale, clinicamente bianco, con una triplice fila di sportelli quadrati su due pareti. Jerome rimase sorpreso nel sentire una musica sommessa, ma poi vide un giovanotto grasso seduto a una scrivania intento ad ascoltare una radiolina tascabile, mentre mangiava un panino. L’aria era fredda, tanto da far rabbrividire Jerome.

«Non lasciatevi impressionare» disse McGrath indicando le file degli sportelli. «Sono quasi tutti vuoti. L’architetto che ha fatto il progetto deve aver pensato che eravamo un branco di fanatici dell’ibernazione.»

Jerome alzò le spalle. «Dà proprio questa impressione.»

«Non è certo una serra.» McGrath andò alla scrivania e batté imperiosamente con le nocche sul ripiano prima di parlare al giovane. «Scusami se interrompo la tua tendenza all’obesità, Mervyn, ma vogliamo vedere i resti di Starzynski.»

«Numero otto» disse Mervyn dandogli un mazzo di chiavi.

«Grazie.» McGrath spense la radio, guadagnandosi un’occhiata sorpresa dal suo proprietario, fece un cenno a Jerome e si diresse verso uno degli sportelli. L’aprì e ne estrasse un cassetto che scivolava senza far rumore su una mensola telescopica. Ai lati si levarono volute di vapore. Jerome si avvicinò con riluttanza e vide che nel cassetto c’erano due sacchetti di plastica. Uno era pieno di cenere grigio scuro, e l’altro, su cui si stava già condensando il vapore, conteneva la mano sinistra di Art Starzynski. Il polso terminava con un moncherino annerito e le dita erano stese e allargate, come se Starzynski fosse stato colpito da un’improvvisa scossa un attimo prima di morire.

Jerome guardò quel grottesco oggetto, pensando di provare un istintivo ribrezzo, invece non sentì alcuna emozione. La distruzione e la perdita dell’umanità di Starzynski erano state troppo complete, e quella mano avrebbe potuto essere un reperto dell’antico Egitto o un fossile, troppo distaccata dall’immediatezza della vita per avere un qualsiasi significato per coloro che continuavano ancora a respirare e a sentire nelle proprie vene il calore del flusso sanguigno.

«Vedete cosa volevo dire a proposito della consistenza delle ceneri?» disse McGrath sfiorando il sacchetto più grande con un dito. «Non so quale temperatura sia stata necessaria per ottenere questo risultato. Certo una temperatura eccezionalmente elevata.»

«Eppure non ci sono tracce d’incendio nel resto della stanza.»

«Così dicono» confermò McGrath con un’alzata di spalle. «Sono ben contento di non dover stabilire la causa della morte di quest’uomo.»

«Non avete qualche teoria?»

«L’unica a cui potrei dare un po’ di credito è che o Maeve Starzynski ha ucciso suo padre o l’ha trovato morto, l’ha smembrato e l’ha infilato per una settimana in una potente fornace per ridurlo così.»

Jerome manifestò sbuffando il suo scetticismo. «Perché dovrebbe averlo fatto?»

«Non ne ho idea, a me tocca solo spiegare le condizioni fisiche dei resti, ma la teoria è comunque inutile, perché i vicini hanno parlato con Starzynski meno di un’ora prima della sua morte. Vi basta? Vi interessa altro qui dentro?»

«No, ma credo di capire meglio il problema, adesso. Grazie per avermi dedicato parte del vostro tempo.»

«Felice di esservi stato utile.» McGrath fece scorrere il cassetto col suo macabro contenuto nell’interno del vano, chiuse a chiave lo sportello e restituì le chiavi al giovane grasso. Mervyn salutò con un cenno, e prima che i due fossero usciti aveva già riacceso la radio.

«Certa gente non ha rispetto per i morti» commentò malinconicamente McGrath.


Era passato da poco mezzogiorno quando tornò all’Examiner. La maggior parte delle dieci scrivanie dei cronisti erano occupate, ma il rumore era più basso e l’atmosfera rilassata. La bonaccia di mezzogiorno stava a indicare che i principali articoli per l’edizione della sera erano stati approvati, che i cervelli umani potevano riposare fino all’ora di chiusura mentre quelli delle macchine si occupavano di stampare i giornali e metterli in vendita. Era un momento che Jerome gustava per due ragioni. Essendo un novellino in quella professione, si sentiva vicino all’epoca storica del giornalismo, quando erano necessarie soprattutto scarpe robuste, il lavoro poteva essere fisicamente faticoso e tutte le volte che il giornale andava in macchina si provava un senso di soddisfazione personale. E poi gli piaceva che non ci fosse frastuono né quelle interruzioni che gli rendevano difficile concentrarsi sul lavoro.

Prese dal distributore automatico una tazza di tè freddo e andò a sedersi alla scrivania, imprecando fra sé perché il ginocchio si era fatto vivo con una fitta improvvisa. Il tè aveva troppo dolcificante ma era abbastanza freddo per risultare rinfrescante. Jerome aprì il notes e cominciò a leggere il resoconto delle due interviste della mattinata, contento di poter meditare con calma su quanto stava leggendo. Pochi attimi dopo sentì una presenza alle sue spalle. Alzò gli occhi e vide Hugh Cordwell, di buonumore adesso che aveva terminato il lavoro, che stava sbirciando le sue annotazioni.

«Squiggle» disse Cordwell. «Squiggle, punto, squiggle.»

«È l’osservazione più appropriata che tu abbia mai fatto» disse Jerome. «Cosa vuoi, Hugh?»

«Randy Kruger ce l’ha con te.»

«Perché?»

«Scoprirai la ragione perché anche troppo presto.»

«“La ragione perché” è una tautologia» gli fece notare Jerome sperando di smorzare l’evidente piacere del giovane. «E tutto quel che dici non merita ripetizioni. O “La ragione”, o “perché”.»

Un collega a una scrivania vicina ridacchiò irritando Cordwell che stava sforzandosi di trovare una risposta.

Si decise infine a dire ancora: «Squiggle squiggle» prima di tornare al suo posto.

«Lo spirito degli Algonchini sopravvive» mormorò Jerome. Cercò di pensare cosa potesse aver fatto per guadagnarsi la disapprovazione di Anne Kruger, ma presto la sua attenzione tornò a concentrarsi sul ben più importante problema rappresentato da una mano e da un mucchietto di ceneri. Un uomo che si chiamava Art Starzynski era morto in modo strano e terrificante, e nessuno sapeva spiegare perché. O no? Forse era possibile trovare una spiegazione. Jerome provava adesso un profondo interesse per la documentazione sull’“autoincendiarismo” conservata negli archivi dell’Examiner. Se altre persone erano morte nelle stesse circostanze, il fenomeno doveva essere stato studiato e i risultati pubblicati.

Messo da parte il tè, attivò il terminal della sua scrivania e chiese di vedere gli indici delle pagine che trattavano l’argomento, rimanendo impressionato nel constatare quanto fosse abbondante la documentazione. Aveva pensato che la cronologia risalisse a un paio di decenni al massimo e così rimase colpito quando notò un elenco risalente al 1852, nel quale spiccava il nome di Charles Dickens. Più perplesso che mai, chiese ulteriori particolari e scoprì che Dickens aveva fatto morire uno dei suoi personaggi di Casa tetra — Krook, l’usuraio — per combustione spontanea mentre si trovava solo nella sua stanza. Accigliato, col cuore che accelerava i battiti, scorse rapidamente un estratto del romanzo, saltando le frasi alla ricerca di quella rivelatrice…

Il gatto è arretrato… soffia… a qualcosa sul pavimento, davanti al fuoco… un vapore denso, soffocante riempie la stanza… piccole bruciature costellano il pavimento… ed ecco qui un piccolo pezzo di legno arso spruzzato di ceneri bianche, o è carbone? Oh orrore, è LUI! e questo da cui noi fuggiamo, spegnendo la luce e accendendone un’altra nella via, è tutto ciò che lo rappresenta.

Jerome si drizzò a sedere fissando le parole luminose sul suo VDU, e chiedendosi a che punto si trovasse la linea di demarcazione fra realtà e fantasia. Aveva sempre considerato Dickens un cronista delle condizioni sociali della sua epoca, non un recensore dei fenomeni delle zone oscure della scienza. La descrizione di quello che era successo a Krook, a parte l’allusione alle bruciature sul soffitto, era talmente simile al destino toccato ad Art Starzynski da far capire che evidentemente Dickens era al corrente del fenomeno della combustione spontanea umana. Un altro fatto che colpì Jerome per un motivo diverso fu che aveva letto almeno un paio di volte Casa tetra da giovane, ma non ricordava assolutamente quell’episodio. Era come se un censore mentale, scettico e ultraconservatore, avesse deciso che non si dovevano immagazzinare simili evidenti eresie.

Avendo toccato il tasto dei riferimenti letterari sulla morte per combustione, Jerome decise di andare più a fondo e rimase affascinato nello scoprire che l’argomento era stato trattato da scrittori del calibro di Mark Twain, Washington Irving, Balzac, Marryat, de Quincey e Zola. Molti dei libri elencati gli erano noti, ma, come nel caso di quello di Dickens, Jerome aveva dimenticato gli episodi che ora lo interessavano. Marryat era uno di quelli che si era addentrato più degli altri nei particolari in un romanzo intitolato Il fedele Giacobbe, pubblicato nel 1834, sottolineando il fatto che sebbene la vittima fosse morta nel sonno — e fosse ridotta completamente in cenere — le tende del letto non erano state nemmeno strinate.

Ma è impossibile! fu l’istintiva protesta di Jerome, ma poi ricordò come anche nella casa di Starzynski non si fossero verificati danni, a parte il foro nel pavimento dove lui era morto. Sentendosi confuso, quasi personalmente insultato dalla stridente anomalia scientifica, si tolse gli occhiali — trasformando tutto quello che lo circondava in una nebbia confusa — e cominciò a pulire le lenti, come faceva sempre inconsciamente quando aveva bisogno di prendere tempo per pensare. Era piuttosto difficile accettare il fatto che una spugna piena di acqua salata, come si poteva considerare un corpo umano, potesse spontaneamente produrre un calore da fornace, quanto poi al fatto che un simile calore potesse restare circoscritto…

« Ah, siete qui!» Anne Kruger era comparsa come per magia al suo fianco. «Passata bene la vacanza, Ray?»

« Non sono mai stato in vacanza.»

« Ma davvero? Credevo proprio il contrario.»

Hai voglia di far dello spirito, Anne, pensò, rimettendosi gli occhiali in modo da poterla vedere chiaramente: «Sarebbe come dire che ho dimenticato qualcosa?»

Un lampo le illuminò gli occhi. «Ray, ho appena scorso la scaletta del giornale di oggi e non ci ho trovato il vostro articolo sull’incendio.»

«Il mio articolo sull’incendio!» Jerome era indignato. «Come potete pretendere che lo si possa scrivere in un paio d’ore?»

«Già… pensavo che bastassero dieci minuti.»

« Anne, qui non si tratta di una padella che ha preso fuoco, quattro righe a pagina venti, ma di una cosa importante. A quanto pare un nostro concittadino ha preso spontaneamente fuoco riducendosi in cenere in un batter d’occhio.»

«Sono stata io per la prima a parlare di CUS (combustione umana spontanea), ricordate? E mi avete dato più o meno della pazza.»

«È vero e mi dispiace» ammise in tutta franchezza Jerome, non senza rendersi conto che Cor-dwell, seduto alla scrivania accanto, stava sogghignando. «Ero prevenuto senza essermi prima informato. Ma sono appena tornato dall’obitorio e quello che ho visto…»

«Siete davvero andato a dare un’occhiata al cadavere?»

«Resti sarebbe un termine più adatto.»

«Non immaginavo che aveste intenzione di andare così a fondo.» Adesso la voce di Anne era più amabile. «Bene, venite nel mio ufficio a parlarne.»

« Volentieri.» Jerome si alzò, e fece un cordiale cenno a Crodwell che si affrettò a voltare la testa. Mentre seguiva Anne, aspirando un’invisibile scia di profumo francese, Jerome fu ancora una volta colpito dalla sua avvenenza. Solo dieci anni li dividevano, e tuttavia lei riusciva a personificare freschezza e vitalità, mentre sembrava che lui fosse precipitato direttamente dalla gioventù nella mezza età. Forse se avesse continuato con le lenti a contatto, come aveva sempre insistito Carla, e si fosse tenuto in forma, e avesse imparato a vestirsi in modo più giovanile, e avesse avuto più mezzi… L’elenco poteva continuare all’infinito, ed era assolutamente inutile. Nel suo ufficio, Anne lo interrogò minuziosamente sulla credibilità di Maeve Starzynski come testimone e sulle circostanze relative a quella strana morte. Jerome le raccontò tutto, sottolineando gli aspetti inesplicabili dei caso.

« Potrebbe andar bene per il giornale» disse Anne quando lui ebbe terminato. «A quanto pare siamo solo noi a occuparci del caso, e ci sono buone probabilità di avere l’esclusiva. Vi do oggi e domani per scrivere un buon articolo a forti tinte, evidenziando gli aspetti per cui mi avevate preso per matta. Fate qualche buona foto, specie della mano, e collegate il caso Starzynski a tutti quelli classici di cui siete a conoscenza… Vi metterò a disposizione un’intera pagina venerdì… Ma cos’avete, Ray?»

« Non vedo come l’articolo possa essere ridotto a una sola pagina.»

«Perché no?»

« È un argomento troppo vasto. Ci vorrebbero intere pagine solo per esaminare le possibili cause, e poi c’è…»

«Non dovete scrivere un libro» tagliò corto bruscamente Anne. «Non esistono spiegazioni scientifiche per la CUS. Questo è il succo della questione… si tratta di un evento soprannaturale.»

«Vi rendete conto di quello che avete…?» Jerome sospirò forte. «Anne, deve esistere una spiegazione. Ogni effetto deriva da una causa.»

«Questo è un modo di pensare dell’Ottocento. Gli scienziati moderni affrontano i problemi da un’altra visuale.»

«Questo non l’avevo mai sentito. Nominatemi un solo scienziato che l’abbia detto.»

«Be’, per cominciare ammettono l’esistenza di cose che non sono in grado di spiegare.»

«Già, però ammetterlo non significa che la spiegazione non esista.»

«Ditemi una cosa» disse Anne, che cominciava ad accalorarsi. «Qualcuno ha mai trovato una spiegazione scientifica della CUS?»

«Ah… No, che io sappia.»

«E voi pretendereste di trovarla dall’oggi al domani?»

«Non credo che ci riuscirei.»

«E allora perché, in nome di Dio, sprecate il mio tempo e il vostro in speculazioni inutili? Volete scrivere la storia come vi ho detto o preferite che passi l’incarico a Cordwell?»

«Farò come volete» rispose Jerome stando sulle sue. «Apprezzo il vostro interesse personale per l’argomento.»

Si alzò, e uscì cercando di mantenere un atteggiamento il più possibile dignitoso, e tornò alla scrivania meravigliandosi di essere riuscito a tenere testa ad Anne, e a sostenere il proprio punto di vista. Dimenticando che, in fondo, era riuscito sconfitto dal colloquio, si mise a canticchiare un motivo di Gilbert e Sullivan mentre riprendeva a consultare l’archivio. Per qualche minuto fu un po’ distratto dal risentimento nei confronti di Anne Kruger, ma poco a poco si isolò dall’ambiente concentrandosi sull’argomento che gli stava a cuore.

Ancora una volta rimase sorpreso nel constatare che alcuni fatti risalivano a parecchi secoli. Il primo esempio dettagliato che trovò era avvenuto a Rheims nel 1725, e fin dal 1763 un francese — Jonas Dupont — aveva raccolto un numero sufficiente di casi da riunirli in un libro che aveva intitolato De Incendiis Corporis Humani Spontaneis, primo resoconto completo del fenomeno. Jerome si era aspettato di trovare una certa qual indeterminatezza, un che di apocrifico nei resoconti, ma fin dal principio risultò che le testimonianze — in previsione di scetticismo da parte dei lettori — erano accurate e positive. Date, nomi e indirizzi erano citati e facilmente verificabili. Non c’era niente tipo “La signora Rossi di X”, cioè quel tipo di testimonianze vaghe e inattendibili, in cui Jerome si era più volte imbattuto in molti libri e riviste. Spaziati nel tempo, cambiando solo alcuni particolari, quei resoconti raccontavano la stessa storia di un fatto orribile, inesplicabile e spaventoso, che minacciava di minare le fondamenta della sua fede nell’essenziale razionalità dell’universo.

Uno degli aspetti che più lo turbò fu che i casi di autocombustione spontanea si erano verificati nei luoghi più disparati. Anche altri che si erano occupati del fenomeno erano stati colpiti da questo particolare, perché dai vari resoconti risultava che i ricercatori avevano tentato più volte e invano di trovare uno schema, un qualsiasi legame fra le vittime. Nel 18° e nel 19° secolo si pensava che una causale delle morti per autocombustione spontanea fosse l’alcolismo… non per chi beveva vino o birra, ma per quelli che eccedevano coi liquori. Jerome capiva come si tendesse ad attribuire la causa della CUS al pesante consumo di “spiriti ardenti”, cosa che del resto pareva un fattore comune nei primi casi, ma non poteva trovarsi d’accordo sapendo che a quei tempi molti — specie nei ceti più bassi — si davano al bere per trovare sollievo alle loro misere condizioni. Nei tempi più recenti, poi, si moltiplicavano i casi di bevitori moderati e anche di astemi che erano morti nello stesso orribile modo.

Continuando a leggere i dati che gli forniva il computer, Jerome vide che erano stati presi via via in considerazione altri fattori per cercare un collegamento, un punto in comune fra le vittime, ma anche queste ipotesi erano state scartate. In un certo periodo si propendeva a credere che le vittime predestinate fossero in prevalenza donne anziane, in altri gli obesi, o i fumatori di pipa, ma col presentarsi di nuovi e diversi casi, tutte queste ipotesi erano state accantonate. Un fattore che destò istintivamente l’interesse di Jerome fu il fatto che le vittime erano tipi poco socievoli, che in molti casi vivevano sole, ma anche questa ennesima ipotesi dovette essere scartata. C’erano molti esempi di uomini, donne, e perfino bambini che avevano preso improvvisamente fuoco in presenza di altri, e si erano ridotti in cenere nel giro di pochi minuti. Morti per autocombustione si erano verificate in sale da ballo, a bordo di imbarcazioni e automobili, negli stadi. Nel 1982 a Chicago e a Montreal nel 1994 — tanto per fare due esempi — due persone avevano preso spontaneamente fuoco mentre camminavano per strada.

Nel corso della sua indagine Jerome provò a volte un senso di reazione istintiva, una specie di ribellione personale verso l’argomento. Non può esser vero, pensava. Questa è roba inventata da una fantasia morbosa.

Ma le foto erano lì a dimostrare che aveva torto.

Le immagini, una penosa parata, erano fotografate con una precisione e una chiarezza che contemporaneamente ripugnava all’occhio e lo invitava a cercare altri orrori… Inoltre le immagini si somigliavano fra loro in modo impressionante. Jerome rimase attonito alla vista dei mucchietti di cenere i cui unici rapporti riconoscibili con l’umanità erano alcuni particolari; un piede infilato in una pantofola, una mano che sembrava un guanto gettato via.

Quando ebbe esaminato tutto il materiale di cui disponeva l’Examiner arrivò a un’unica conclusione: l’unico schema era l’assoluta mancanza di uno schema. Era costretto ad accettare il fatto che chiunque poteva improvvisamente venire divorato dal fuoco in qualsiasi posto e in qualsiasi momento. Tutto dimostrava che si trattava di un evento che si verificava a caso, senza che le condizioni fisiche, materiali, ambientali o sociali delle vittime avessero una pur minima influenza… e Jerome si rifiutava di accettarlo.

Secondo lui doveva esserci una spiegazione logica, sia pur remota e nascosta. Basarsi sulla ragione significava che prima o poi la si sarebbe trovata. Nel caso di un fenomeno così sorprendente e ben documentato come la CUS dovrebbe essere stato facile scoprire uno schema o un fattore comune, ma era proprio questo che mancava. Molti ci si erano scervellati per anni: le “spiegazioni” addotte spaziavano dai poltergeist alle nuove classi delle particelle subatomiche; ma non esisteva il benché minimo indizio che spiegasse perché una persona piuttosto che un’altra si trasformava all’improvviso in torcia umana. A peggiorare le cose — secondo Jerome — i vari teorici, alcuni dei quali avevano scritto ponderosi libri sull’argomento, erano caduti ai primi ostacoli. Il fatto che il calore fosse circoscritto era uno dei particolari fondamentali di tutti i casi, particolare che aveva suscitato la meraviglia e i più disparati commenti nel corso dei secoli, e di cui nessuno aveva trovato una spiegazione logica…

«Qui non si pagano gli straordinari, sapete.» Anne Kruger parlava dalla soglia del suo ufficio, e la sua voce fece sussultare Jerome. Si guardò intorno e vide che erano le sette passate. Si era solo distrattamente reso conto che i colleghi avevano finito di lavorare ed erano andati a casa, ma non sapeva di essere lì solo da quasi tre ore. Gli bruciavano gli occhi a furia di tenerli fissi sullo schermo del VDU, e un minaccioso dolore al fondo della schiena gli diceva che si era stancato troppo.

«Avevo perso la nozione del tempo» disse. «L’argomento è molto interessante e credo che non ci sia niente di male se ho un po’ indagato in merito.»

«Perché quel tono difensivo, Ray? Mi fa piacere che i miei cronisti lavorino con tanto impegno.» Anne si avvicinò, splendida e piena di vitalità, truccata di fresco, e Jerome provò una punta di gelosia per lo sconosciuto giovanotto con cui avrebbe passato la serata. «Siete a buon punto?» chiese lei.

«So praticamente tutto quel che c’è da sapere sulla combustione umana spontanea.»

«Ne sono certa… darei non so cosa per avere una memoria come la vostra.» I suoi occhi bruni erano pieni di comprensione: «Non avete pensato che è ora di staccare e andare a mangiare un boccone?»

Jerome non resistette all’impulso, e disse: «No. Dove andiamo?»

«Io so dove vado» replicò Anne riassumendo di botto il tono distaccato del superiore che si rivolge a un dipendente: «E vi suggerisco di andar subito a mangiare se non volete che vi venga l’ulcera.»

«Sì, signora.» Sorrise nascondendo la vergogna per la gaffe, e la seguì con lo sguardo mentre si avviava verso l’ascensore, sicura di sé, autosufficiente, proprio quel tipo di persona che avrebbe avuto successo anche se suo padre non fosse stato proprietario di un giornale. Jerome si lasciò andare con la fantasia immaginandosi come poteva essere una serata con lei… i cibi squisiti… le danze… il ritorno in un appartamento lussuoso… il gusto dolce del rossetto che lui aveva quasi dimenticato…

Imprecando fra sé per aver lasciato aprire porte mentali che era meglio restassero chiuse, si guardò intorno con gli occhi stanchi. La luce rosso-dorata del sole che entrava dalle finestre rendeva squallido l’arredo dell’ufficio, mobili che la gente aveva messo in magazzino quando se n’era andata per dedicarsi alla vita vera. Quello non era il posto in cui rimanere in una bella serata di agosto, ma qual era l’alternativa? La sua casa, nella zona nord, sarebbe stata altrettanto squallida e desolata, e forse più ancora perché Carla aveva amato quella stagione, ed era troppo tardi per andare al vecchio chalet sul lago Parson.

Si tolse gli occhiali e strofinò le lenti mentre pensava al da farsi. Aveva intenzione di lavorare almeno fino a mezzanotte, tanto per garantirsi che si sarebbe addormentato senza difficoltà, e poteva continuare le ricerche anche a casa. La differenza fondamentale stava nel fatto che a casa poteva sedersi in poltrona e riposare la schiena. E il suo tè era migliore di quello che usciva dalla macchina dell’ufficio.

Così è, pensò mentre raccoglieva matite e notes. Niente vale di più che avere un ben definito scopo nella vita.


Qualche impacco agli occhi sortì un effetto così calmante che decise di guardare per un po’ la televisione prima di rimettersi al lavoro. Ripose gli avanzi dell’insalata Waldorf che aveva comprato da Harpo’s tornando a casa si installò nella poltrona più comoda con un bicchiere di tè ghiacciato in mano, e quando accese il televisore col telecomando, il notiziario trasmetteva notizie della guerra fra Cile e Argentina, e del fallimento dei negoziati sulla guerra biochimica, a Parigi.

Jerome, che aveva sperato di sapere qualcosa sulla spedizione su Mercurio, ascoltava con crescente insofferenza. Era nato un anno dopo la fine della seconda guerra mondiale ed era cresciuto attraverso i vari stadi della “guerra fredda” con l’istintiva convinzione che l’umanità aveva il dono di cavarsela in qualunque crisi. Come succedeva a molti, l’esperienza aveva rafforzato il suo naturale ottimismo inducendolo a non dar retta ai profeti di sventura. Tuttavia da qualche tempo aveva cominciato ad avere paura. Forse si trattava di una reazione psicologica alla morte di sua moglie, però adesso gli sembrava possibile che uomini politici e generali fossero sul punto di mettere la parola fine alla razza umana.

Secondo una sua teoria era stata proprio la prospettiva dell’estinzione totale dell’umanità ad avere alimentato a livello subconscio l’interesse per la missione Quicksilver. Fino all’anno precedente quel piccolo pianeta arido troppo vicino al sole non era stato preso in considerazione come meta di una qualsiasi missione spaziale, tantomeno di una con tre uomini a bordo. Poi un telescopio installato nello spazio aveva captato uno strano riflesso. Gli esami degli ingrandimenti fotografici avevano sollevato l’ipotesi che la macchia luminosa al polo nord di Mercurio, grande come un autobus, fosse il riflesso di una macchina di metallo.

Non appena tutti i membri del club spaziale avevano negato di saperne qualcosa erano nate le speculazioni su un contatto con altri mondi, e nel giro di pochi giorni aveva preso piede la convinzione quasi religiosa che una nave interstellare era scesa o precipitata su Mercurio. A una estremità dello spettro di questa convinzione, quella era una prova che da qualche parte stavano per giungere soccorsi, che si trattava di un intervento benevolo allo scopo di salvare l’umanità; all’estremità opposta c’era la magra consolazione di sapere che l’Uomo era stato per lo meno notato e che la sua autodistruzione sarebbe servita di lezione ad altri.

Stufo del notiziario, Jerome accese il suo terminal collegandolo al computer centrale dell’Examiner e rilesse con attenzione le pagine che parlavano delle probabili cause della CUS. Trovò alcune sbalorditive teorie secondo cui le cellule muscolari subivano un cambiamento rigenerandosi così da trasformare le persone in batterie da milioni di volt, allusioni a Elia e al fuoco divino, paralleli con la bioluminescenza cui andavano soggetti talune vittime di avvelenamento da botulismo; altri spiegavano il fenomeno con le armi nucleari, e c’era perfino chi rispolverava la teoria di Leonardo secondo cui la principale funzione del cuore è quella di sviluppare calore. Non mancavano le accuse al campo magnetico terrestre, ai fantasmi incendiari, alle particelle atomiche non ancora scoperte che venivano battezzate pirotoni…

Secondo Jerome tutto quel fiume di parole non era altro che un “bla-bla” semantico, e dopo due ore rimase più che mai del parere che nessuno era riuscito a dare una spiegazione logica del fenomeno. Tentò un approccio diverso cercando le dichiarazioni in merito di scienziati qualificati, per scoprire che quei pochi che si erano interessati all’argomento negavano l’esistenza del fenomeno. Non ne fu deluso, ricordando che lui stesso era stato dogmatico in merito fino a dodici ore prima, tuttavia, in vista dell’articolo, gli avrebbe fatto comodo un parere autorevole. Fate un sacco di citazioni insisteva sempre Anne, probabilmente convinta che la parola di un cronista aveva poco valore senza l’appoggio di un esperto qualificato. Dopo averci pensato sopra un po’, gli venne in mente che l’aveva colpito il modo di pensare equilibrato e l’asciutto umorismo di uno scrittore, John Sladek, che nel 1994 aveva scritto un libro pieno di buonsenso sui fenomeni paranormali, intitolato Superstar psichiche.

Ne aveva letto il condensato nel pomeriggio senza trovarvi citazioni relative alla CUS, ma questo non significava che Sladek non avesse idee in merito. Senza frapporre indugi, si servì del computer per ottenere l’indirizzo e il numero telefonico di Sladek, e scoprì che abitava a New York. Prese il telefono e formò il numero. Sladek rispose subito.

«Scusate se vi disturbo a quest’ora, signor Sladek» disse. «Mi chiamo Rayner Jerome, e…»

«Non sarete per caso un esattore?» lo interruppe Sladek.

«No, sono un cronista del Whiteford Examiner, e vorrei la vostra opinione su un argomento che mi interessa, perché mi ha impressionato favorevolmente il vostro libro sul paranormale.»

«Grazie. Mi fa piacere sentire le lodi di uno dei miei lettori… chissà chi è l’altro?»

Jerome fece una risatina d’obbligo. «Si tratta di un singolare caso di autocombustione umana. So che non ne avete parlato nel vostro libro, e mi chiedevo se ci credete o meno.»

«Oh, non saprei» rispose Sladek. «Forse la gente scoppia e si riduce in cenere.»

«Si tratta di un’inchiesta seria» precisò Jerome, che cominciava a irritarsi per la leggerezza dello scrittore. «Non avete qualche parere sull’autocombustione spontanea?»

«Be’, credo che si tratti di un caso che le compagnie d’assicurazioni rifiutano di prendere in considerazione.»

Jerome sospirò forte, perché l’altro lo sentisse. «Grazie per il vostro aiuto, signor Sladek… e scusate il disturbo.»

«Non c’è di che, signor Jerome. Mi spiace di non potervi dire con certezza che l’autocombustione spontanea è provocata dagli specchi ustori.»

Jerome sbatté il ricevitore sulla forcella, deciso a non aver più niente a che fare con gli scrittori, e rimase a fissare aggrondato la parete di fronte. Consapevole del pericolo di diventare fissato, convinto che era meglio bere un bicchiere di vino per rilassarsi, e poi andare a letto, accantonò l’idea di cercare un qualche legame fra le vittime della CUS prima della morte. Doveva esserci un fattore comune — di questo era convinto — ma i dati di cui disponeva non lo facevano risaltare, o forse si trattava di un particolare apparentemente insignificante. Prese il notes e scrisse quanto c’era di comune dopo la morte delle vittime. L’elenco risultò breve, composto di tre soli paragrafi.

1. Scarsi danni al materiale combustibile in prossimità delle vittime. Spesso anche gli abiti o coperte e materassi sono intatti, sebbene il corpo debba aver sviluppato una temperatura di almeno 3.000°. (È questo soprattutto che mi sta sul gozzo)

2. Si verifica sempre una quasi completa distruzione del tronco, mentre — per motivi ignoti — le estremità spesso non subiscono gravi ustioni. Se la combustione è provocata da una condizione fisica, perché mani e piedi vengono risparmiati?

3. Si nota in quasi tutti i casi assenza di odore — incredibile date le circostanze — o al più si parla di un sentore dolciastro. (Starzynski costituisce un esempio perfetto). Jerome rilesse quello che aveva scritto, tentato dall’idea che la chiave del mistero della CUS si trovasse nell’elenco, se solo fosse riuscito a scovarla. Sapeva che molti altri prima di lui avevano tentato invano di risolvere il problema, e molti erano meglio equipaggiati e disposti a dedicare interi anni nelle ricerche; era a dir poco presuntuoso da parte sua sperare di trovar la soluzione dopo un solo giorno di lavoro. Ma esiste un certo egotismo che spinge fuori dal gregge uomini qualunque, speranzosi di dare il proprio nome a un teorema o a una nuova stella; e nel silenzio della mezzanotte sembrava possibile a Jerome che gli venisse quel lampo di genio, quella sensazione pre-orgasmica nel cervello e nei visceri che trasforma d’incanto oscuri problemi in trasparenti diamanti.

È rischioso, pensò. Sono troppo stanco per pensare con discernimento, e se lascio che mi si fissi in testa un’idea dormirò poco e avrò un sonno agitato e pieno di incubi.

Come previsto, l’ammonimento fu accantonato da quella parte del cervello che si era sempre rifiutata di rinunciare a trovare la soluzione di un enigma. Rilesse per un’ora gli appunti che aveva scritto sui casi più significativi, e quando non riuscì più a mettere a fuoco le parole perché aveva gli occhi troppo stanchi, riprese cocciutamente a esaminare le fotografie.

La stanchezza si era impossessata di lui rendendolo più vulnerabile, impedendogli di osservare con distacco quella successione di immagini da crematorio, e poco a poco finì col scivolare in un universo macabro e orribile, spietatamente dettagliato composto in massima parte di ceneri organiche. Piedi umani che finivano in moncherini carbonizzati erano oggetti commoventi e grotteschi, ma adatti al paesaggio alla Dalì nel quale si era addentrato. Si profilavano come assurdi castelli su pianure di cenere cosparse di relitti di vite passate: occhiali, monete, limette, accendini, tazze frantumate, residui di cibo. Le vittime dell’autocombustione spontanea non venivano ricordate per cose e fatti importanti, ma per le piccole cose insignificanti su cui la macchina fotografica aveva puntato con insistenza l’obiettivo.

Alle due e mezzo finalmente Jerome si convinse che non sarebbe stato folgorato dalla Verità, che era destinato a restare nel gregge degli uomini comuni, e se ne andò a letto. Si appisolò quasi subito ma, come aveva temuto, c’erano incubi all’agguato e si svegliò dopo pochi minuti con la deprimente consapevolezza che per il resto della notte non sarebbe riuscito a prendere sonno. Nomi, date e luoghi gli ribollivano in testa, e quando gli capitava per caso di trovare una rima, i ritornelli si ripetevano con ossessionante monotonia. Tentò di rilassarsi per trarre almeno beneficio dal riposo fisico, ma ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva le fotografie. In passato era stato orgoglioso della sua memoria visiva, invece adesso si era trasformata in una spaventosa schiavitù che lo faceva rattrappire e contorcere sotto il bombardamento delle immagini.

Era passata forse un’ora quando, inesplicabilmente, una delle fotografie rimase fissa negli occhi della sua mente. Nello stato di semitrance in cui si trovava ricordò subito che quella foto mostrava i resti di Betty Ramon, un’anziana vedova morta bruciata nel suo appartamento di Great Falls, nel Montana. L’immagine era composta dai soliti elementi, dal piede che le fiamme avevano risparmiato al foro irregolare coi bordi anneriti sul pavimento di legno. Si trattava di uno dei tanti esempi della categoria, non più orripilante né sordido nei particolari di centinaia d’altri, e tuttavia Jerome si sentiva in preda a un senso di premonizione che finì a svegliarlo del tutto.

Si alzò a sedere al buio chiedendosi se non fosse vittima di un inganno, dovuto al suo stato di eccitazione febbrile, ma poi pensò che non aveva niente da perdere se tornava a consultare il computer. Andò zoppicando nel soggiorno, si appollaiò precariamente in cima allo schienale della poltrona e fece comparire sullo schermo l’immagine dei resti di Betty Ramon. L’immagine era così nitida che aveva l’impressione di guardare attraverso una finestra in una camera illuminata a giorno. Jerome la studiò a lungo, col cuore che batteva forte, finché il suo sguardo non fu attratto da un particolare nell’angolo inferiore sinistro. In quel punto, mimetizzata dal disegno a ghirlande di rose del tappeto, c’era una scatoletta a forma di cuore. La fissò, intuendo che doveva già averla inconsciamente notata quando aveva esaminato prima la foto, senza però capire subito perché si sentisse tanto eccitato.

Ma poi qualche cosa scattò nel suo cervello… gli interruttori dei nervi scattarono… si risvegliarono i ricordi…

Aveva già visto una scatoletta come quella, la mattina, nella stanza dove era morto Art Starzynski.

«E con questo?» si chiese ad alta voce, esprimendo la sua delusione con un colpo secco al tasto che spegneva il computer. Borbottando disgustato, andò in cucina, si versò un bicchiere di latte freddo, e bevendolo a sorsi analizzò quanto era successo. Sapeva per esperienza che fra il sonno e la veglia il censore mentale a volte cessa di funzionare. Mentre l’autocritica dorme, l’idea più assurda può sembrare una di quelle rivelazioni che fanno tremare il mondo. Nel suo caso il subconscio si era messo all’opera formando a ruota libera un’associazione di idee… scatola di cacciù… scatola per pillole… medicina… effetti collaterali… alterazione nella chimica organica… fattore comune nella combustione spontanea…

Per poco non mi sono fatto venire un infarto per niente, pensò mentre si toglieva gli occhiali e lavava le lenti. Le asciugò continuando a strofinarle a lungo anche dopo che erano asciutte, dopo di che tornò riluttante a coricarsi.

Загрузка...