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Il Whiteford Examiner era più o meno simile a qualsiasi altro quotidiano di provincia arrivato al 1996 in condizioni fiorenti.

Era sopravvissuto alla rivoluzione elettronica più che altro perché era scomodo sistemare un televisore nel portico sul retro, trovarvi sufficienti annunzi economici e pettegolezzi locali da aver di che leggere tutto il giorno, e aveva il vantaggio che lo si poteva drappeggiare sulla faccia quando la calura estiva e il ronzio degli insetti inducevano al sonno. La sede del giornale era situata in una stretta palazzina alta tre piani sulla via principale, schiacciata fra un grande magazzino di recente costruzione e una banca ancora più moderna. I proprietari, la famiglia Kruger, erano fieri che l’edificio dell’Examiner fosse elencato fra quelli d’interesse storico e artistico, e nella bacheca accanto all’ingresso veniva esposta quotidianamente una copia del giornale di cinquant’anni prima.

A Ray Jerome di solito piaceva lavorare nella stanza dei cronisti al primo piano. Quel locale sprigionava un senso di vitalità, lo si sentiva vicino al cuore pulsante della comunità, e questo serviva a colmare il vuoto della sua vita. La morte per malattia della moglie e la perdita del lavoro d’ingegnere per sovrabbondanza di personale, sulle prime l’avevano quasi distrutto, ma il lavoro al giornale — un completo cambiamento d’indirizzo professionale — alla lunga aveva avuto la meglio. L’aveva intrapreso con lo zelo di un uomo di mezza età intelligente e solo, che iniziava una nuova vita, e come spesso accade in simili circostanze erano venuti a crearsi problemi sia per lui sia per chi gli stava vicino.

La prima difficoltà di quel giorno si presentò quando il giovane Hugh Cordwell, il cronista che lavorava alla scrivania vicina alla sua, cominciò a scrivere il resoconto sullo scontro fra due bande di delinquenti minorili in uno dei quartieri più turbolenti di Whiteford. Dopo averci rimuginato sopra per un momento, Cordwell cominciò a battere velocemente con due dita, e sul suo VDU comparve il titolo: LA POLIZIA INTERVIENE NEL PUNTO DI EBOLLIZIONE DI GANGLANDIA.

Jerome si chinò di lato per veder meglio lo schermo. «Non lo lascerai così vero?»

Cordwell guardò prima la scritta, poi Jerome. «Cos’ha che non va?»

«Il punto di ebollizione riguarda la temperatura, non la topografia.»

«Questo non è uno dei tuoi strambi articoli tecnici» ribatté Cordwell, con un barlume d’interesse negli occhi azzurro porcellana. «Qui va bene il gergo all’americana.»

«Ma come è possibile che la polizia venga chiamata a una temperatura?» insisté Jerome deciso a lanciarsi sul piano dell’assurdo. «È come dire che è avvenuto un incidente a trenta gradi Celsius, all’angolo con dieci gradi Fahrenheit.»

«Balle» commentò l’altro. «Sei più pieno di merda di un tacchino natalizio.»

«Non c’è bisogno che te la prenda così… volevo solo darti un consiglio da amico.»

«Ti dico io dove devi mettertelo il tuo consiglio!»

«Davvero gentile» disse Jerome guardandosi intorno alla ricerca di qualche sostenitore. «Uno cerca di guidare i passi incerti di un principiante sulla strada della letteratura e cosa ne ottiene…»

Non terminò la frase perché gli era caduto lo sguardo sulla figura snella ed elegante di Anne Kruger, la direttrice responsabile del giornale, che mentre si avviava verso il suo ufficio, aveva sentito il battibecco, e adesso, con un lieve cenno del capo dalla soglia, fece capire a Jerome che voleva parlargli. Jerome si alzò, si fece strada fra un ingorgo di scrivanie, e la raggiunse nell’ampia stanza che dava su Mayflower Square.

Prima di cominciare a parlare, lei si tolse la giacca di broccato, l’appese a un attaccapanni, si lisciò la camicetta di seta bianca… tutta una serie di gesti che fecero capire all’occhio attento di Jerome come Anne appartenesse a quel tipo di donne che, a dispetto del tempo e della biologia, raggiungono a quarant’anni il meglio dell’aspetto fisico.

Aveva capelli neri, zigomi alti e un tocco di alterigia che spesso inducevano Jerome a raffigurarsela in abiti da equitazione di stile spagnolo.

«Ray, che succede di là?» gli chiese sedendo alla scrivania.

Jerome si tolse gli occhiali con la montatura di acciaio e cominciò a lucidare le lenti già lustre. «Chi può sapere cosa passa per la testa dei giovani? Avevo solo detto a Hugh che aveva usato una parola sbagliata, e…»

«Quel ragazzo è un ottimo cronista» tagliò corto Anne. «Afferra subito i fatti e altrettanto rapidamente li scrive.»

Jerome ricordò, troppo tardi, che Cordwell aveva l’età degli uomini con cui Anne passava di preferenza il tempo libero. Non era stato diplomatico da parte sua descriverlo come un bamboccio, ma lui non era tipo da rinnegare le proprie idee.

«Ma il modo di esprimersi?» obiettò. «Vi pare che sia corretto?»

«Ne abbiamo già parlato. Il Leximat corregge automaticamente gli errori di grammatica e di sintassi. Per cosa credete che l’abbiamo istallato?»

Il computer dovrebbe essere un’aggiunta, non un sostituto del cervello umano, ribatté prontamente Jerome dentro di sé, dopo di che decise che non era il caso di continuare a sostenere le sue idee. «Prometto di non seccare più Hugh. È laureato in giornalismo, quindi sarebbe ovvio aspettarsi che conosca il significato delle parole.»

«Lasciate perdere, Ray.»

«Scusate.» Jerome stava per andarsene quando si accorse che Anne non l’aveva ancora congedato con il solito cenno del capo. «C’è altro?»

«Sì. Continuate a ripetermi che sareste un ottimo corrispondente scientifico… così adesso vi offro l’occasione di dimostrarlo.» Anne gli porse un foglietto sul quale aveva scritto un indirizzo di un quartiere residenziale nella zona sud della città. «Intervistate una certa Maeve Starzynski. La settimana scorsa c’è stato un incendio, e suo padre è morto bruciato.»

«Ho visto il…» Jerome s’interruppe colpito da uno spiacevole presentimento. «Cos’ha di scientifico questa storia?»

«Un funzionario dell’ufficio del coroner mi ha detto che quell’incendio presentava parecchie caratteristiche insolite. Pare si sia trattato di combustione umana spontanea.»

«Oh, no!» Jerome scoppiò in una sonora risata di scherno, per far capire quali fossero le sue idee in merito. «Non fatemi una cosa simile, Anne. Non fatela al giornale. In questi ultimi mesi ci siamo impegolati con spiritualisti fasulli, pazzoidi fissati con gli UFO, gemelli telepatici e tipi che dicevano di prevedere i disastri aerei ma ne parlavano solo a cose fatte. Finiremo col perdere credibilità presso i lettori.»

«Ci sono chiare prove…»

«Non esistono prove evidenti. Nemmeno una! La gente che blatera di astrologia e crede che si possano piegare i cucchiai con la forza del pensiero, che sia possibile la telecinesi e che si possa prevedere il futuro con le carte non ha idea di quel che significhi la parola prova.»

«Se deste un’occhiata all’archivio dei fatti inspiegabili…»

«Non troverei niente che non fosse già spiegato.»

«Vi spiacerebbe lasciarmi finire una frase?» La faccia di Anne s’incupì di aristocratica ira, e per un attimo a Jerome parve di vederla adombrata da un sombrero nero. «Se deste un’occhiata all’archivio, trovereste che qualche volta una persona muore bruciata senza nessun motivo evidente, e trovereste pure che i particolari non sono assurdi.»

«Non ne dubito» rispose con sarcasmo Jerome. «Il corpo umano contiene un estintore chiamato sangue. Ne contiene quattro litri. La gente che brucia spontaneamente deve essere un tantino anemica, oppure dovrebbe presentare due forellini nel collo…»

«Se preferite guadagnarvi da vivere come buffone invece che come cronista di questo giornale, non avete che da dirmelo, e vi faccio subito preparare un benservito.»

Il duro luccichio degli occhi di Anne fece capire a Jerome che era di pessimo umore e che non aveva la minima intenzione di sollevarlo da quello sgradevole incarico. Strinse le labbra, mentre lei lo congedava col solito cenno del capo e un gesto della mano che sembrava volesse scacciare un insetto molesto. Fingendo di ignorare le occhiate divertite dei colleghi, tornò alla scrivania e premette il tasto segnato REF sul terminal. Si fece passare l’archivio dei fatti non spiegati e scorse l’elenco quando comparve sullo schermo. Era un elenco lungo, che rifletteva l’interesse personale del direttore sull’argomento, ma non vi comparivano casi di combustione spontanea. Ma il barlume di speranza accesosi in lui fu subito spento quando gli cadde lo sguardo sulla parola Autoincendiarismo, termine che lo disgustò di primo acchito classificandolo come una delle pretenziose etichette che abbondano ai margini fra le assurdità e la scienza. Sempre disgustato, guardò lo schermo, premendo i tasti e provando una crescente riluttanza nel sentirsi sempre più coinvolto in una delle fissazioni di Anne.

«Il vecchio Randy Kruger ti ha torchiato un’altra volta?» La domanda veniva da Julie Thornback, una bamboletta bionda che, sebbene avesse pressappoco l’età di Jerome, aveva un’esperienza maggiore in campo giornalistico e le piaceva dare consigli come collega anziana.

«No, abbiamo fatto una chiacchierata.»

Julie annuì, incredula. «Non prendertela, Ray. Non immagineresti mai cos’ha avuto il coraggio di dire a Hugh e io.»

«Hugh e me» disse Jerome, sperando che la correzione bastasse a farle capire che non voleva essere disturbato.

«Cosa?»

«Dovevi dire “a Hugh e me”.»

«Boh!» commentò Julie. «A me pareva che suonasse giusto.»

Jerome sospirò. «Mettila così… Se Hugh non fosse stato con te, e Anne avesse parlato a te sola, avresti detto che parlava a “io”?»

«No.»

«Ti sei risposta da sola. Per quanto Hugh sia un ottimo ragazzo, non dobbiamo cambiare le regole grammaticali solo perché era presente.»

Hugh Cordwell, intento a scrivere il resoconto dello scontro fra bande, alzò la testa: «Mi stai ancora spiando, professore?»

Prima che Jerome avesse il tempo di rispondere, Anne Kruger uscì dal suo ufficio, captò subito la tensione nell’aria e lo fulminò con un’occhiata accusatrice. Jerome spense lo schermo del VDU, si alzò e uscì, decidendo che era meglio qualsiasi incarico all’esterno che stare in un’autoclave psicologica. Perché doveva farsi salire la pressione del sangue per il fatto che un ragazzotto, il cui lavoro consisteva nello scrivere, non si curava degli strumenti di cui disponeva? Cosa importava a lui se il direttore di un giornale influente credeva entusiasticamente nel paranormale? Era davvero un’ironia che l’unica donna capace di risvegliare i suoi sentimenti dopo la morte della moglie fosse proprio Anne Kruger — la meno compatibile e la meno affine a lui tra tutte — ma anche questa era una cosa che doveva accettare, altrimenti gli sarebbe salita la pressione.

Zoppicando un po’ per via dell’artrite al ginocchio sinistro, scese al pianterreno, uscì in strada, e si avviò verso l’auto che aveva parcheggiato all’ombra degli alberi che costeggiavano Mayflower Square. Aprì il baule, prese uno spray detergente e qualche fazzoletto di carta, e per qualche minuto si diede da fare a ripulire la carrozzeria dagli escrementi degli uccelli. Quand’ebbe finito, gettò i fazzoletti in un cesto per le immondizie, salì in macchina e avviò il motore.

L’indirizzo datogli da Anne distava una decina di minuti, che Jerome impiegò cercando di ascoltare le notizie della spedizione su Mercurio che aveva lasciato da una settimana l’orbita terrestre. Quicksilver (ovvero mercurio) con tre uomini a bordo, era la prima astronave che era stata progettata, costruita e lanciata da un’impresa privata, e il resoconto del suo viaggio era una delle cose che Jerome insisteva gli fosse affidata nella sua qualità di corrispondente scientifico. Ma tutto quel che la radio trasmise furono notizie sulla guerra fra Cile e Argentina, sugli esperimenti atomici filippini in barba al divieto dell’ONU, mentre Vietnam e Malaysia Occidentale, i paesi che più soffrivano per il “fall-out”, minacciavano di allearsi per mobilitarsi contro le Filippine nonostante le grandi potenze si opponessero in quanto questo avrebbe minacciato i loro interessi in quella zona.

I suoi problemi personali erano microscopici confronto a quelli dell’umanità in generale, per cui si disse che doveva assumere un atteggiamento più elastico. Sapeva perfettamente quale tipo di storia voleva Anne, quindi, per non dar peso all’argomento, doveva scrivere ciò che lei non avrebbe voluto. Doveva essere un resoconto freddo, razionale, limitato ai fatti, e soprattutto noioso. Spense la radio e cominciò a controllare i numeri delle case. Quella a cui era diretto si trovava nella zona Sud-Est nei primi venti numeri, e quando l’ebbe raggiunta si rivelò essere una villetta divisa dalla strada da un giardino ben tenuto. I fiori bianchi, rossi e blu parevano piantati in modo da formare un disegno patriottico. Jerome notò che esternamente la casa non recava traccia d’incendio.

Si fermò, scese, e stava chiudendo lo sportello quando gli venne fatto di pensare che finora si era troppo preoccupato dei suoi argomenti logici per tener conto della tragedia umana causata da quell’incendio. Una donna aveva perduto il padre in circostanze tragiche da pochi giorni, e chissà come avrebbe reagito trovandosi davanti un giornalista. Pensandoci, Jerome si pentì di non aver telefonato per fissare un appuntamento. Chissà, forse la donna non gliel’avrebbe concesso e lui si sarebbe risparmiato quel noioso incarico. Inoltre forse era andata a stare da qualche parente. Sperando in questo salì i gradini di cemento. Arrivò al portone ansimando un poco — la scala era lunga essendo la villetta sopraelevata rispetto al piano stradale — e il ginocchio gli doleva come se le articolazioni fossero state fregate con la carta vetrata. Solo cinquant’anni — pensò mentre suonava il campanello — e questa maledetta macchina sta andando rapidamente in malora.

Al trillo del campanello rispose una donna ancora giovane dall’aria stanca, e lui capì che era la figlia del morto. Indossava un abito scuro, e aveva una simpatica faccia tonda e intelligente che piacque a prima vista a Jerome.

«Buongiorno» disse. «Sono Rayner Jerome, cronista dell’Examiner. Mi dispiace di disturbarvi in un momento come questo, ma il mio direttore mi ha detto di venire, e…»

«Non fa niente» disse lei con voce rassegnata. «Entrate, prego.»

«Grazie.»

Jerome la seguì, notando che sebbene fosse pettinata e indossasse un vestito pulito e in ordine, non aveva quell’aspetto accurato che lui istintivamente associava a quel tipo di donna. Capì che stava passando un periodo difficile, evitando di cercare aiuto agli estranei, e la sua simpatia per lei aumentò. C’era passato anche lui. Lei lo portò in una cucina scintillante di oggetti di rame, prese una scatola di bustine di tè e lo guardò con aria interrogativa. Jerome accettò volentieri.

«Non ero sicura che venisse qualcuno» disse lei mentre preparava le tazze. «Non conosco personalmente la vostra direttrice, ma un’amica delle Pythian Sisters mi aveva detto che le avrebbe parlato di me. Sono contenta che siate potuto venire.»

«Anch’io» rispose Jerome un po’ confuso perché si accorgeva che si era aggiunta una nuova complicazione alla situazione. Quella donna a cui era da poco morto il padre poteva avere opinioni che probabilmente coincidevano con quelle di Anne Kruger, e che comunque gli creavano parecchie complicazioni nel lavoro. Preso dall’impazienza, non vedeva l’ora di sbrigare quella triste faccenda.

«La gente a volte è così stupida, così meschina» continuò Maeve Starzynski. «Dicono che mio padre era così pieno d’alcol che ha preso fuoco come una torcia… come se l’alcol, una volta ingerito, non si trasformasse in altre sostanze… come se si immagazzinasse dentro come una bombola di gas… Stupido, non vi pare?»

«Assurdo» ammise Jerome. Bevve il tè e depose la tazza. «Posso vedere la stanza dove si è sviluppato l’incendio?»

«Da questa parte.» Maeve gli fece strada attraverso l’ingresso e voltò a sinistra in un salotto che Jerome aveva già attraversato entrando. Era una stanza d’angolo, con finestre su due pareti contigue, arredata più tenendo presente la comodità che lo stile, con divanetti incassati sotto i davanzali e scaffali fabbricati in casa per i libri. Tappeti arancione coprivano in parte il pavimento color caffelatte di vinile dando all’ambiente una nota di vivacità e di allegria. Pareti e soffitto erano bianchi, l’aria era pulita. Jerome, che conosceva per esperienza di lavoro il sentore acre che resta per settimane nei luoghi dove c’è stato un incendio, si guardò intorno perplesso. L’unica nota discordante era un’asse quadrata sul pavimento, posta vicino a un tavolino alto che doveva esser servito per il televisore.

«Ci sono stati pochissimi danni» osservò. «Di solito quando una casa prende fuoco…»

«Questa casa non ha preso fuoco» precisò Maeve interrompendolo. È stato mio padre che ha preso fuoco ed è morto bruciato, consumandosi completamente. «Ebbe un attimo di esitazione.» Di lui non è rimasto quasi niente.

«So che deve essere penoso per voi» disse Jerome indicando l’asse «ma è lì che avete trovato il corpo?»

Maeve scosse la testa decisa: «Non c’era nessun corpo. È questo che la gente stenta a capire. Mio padre era ridotto a un mucchietto di ceneri. Cenere di sigaro, si potrebbe dire. Guardi.» Si chinò a spostare l’asse mettendo a nudo un foro circolare di un metro circa di diametro, attraversato da travi con la superficie annerita, e sul fondo si vedevano i graticci del soffitto della cantina.

Jerome studiò la cavità prodotta da quell’incendio così inesplicabilmente circoscritto, stentando a credere a quello che aveva sentito. La quantità di calore necessaria e ridurre in cenere un corpo umano, come aveva detto Maeve Starzynski, avrebbe dovuto bruciare un’area molto più ampia, dando origine a un incendio di vaste proporzioni. Dopo qualche attimo, alzò la testa a scrutare il volto di Maeve. Lei contraccambiò lo sguardo, con occhi limpidi, intelligenti e turbati.

Io la rispetto, si disse Jerome. Ma dove vuol andare a parare?

«Vi spiace spiegarmi per filo e per segno quello che è successo?» chiese avviandosi per esaminare il resto della stanza.

«Certamente» rispose lei senza esitare. «Premettiamo che mio padre stava fumando la pipa l’ultima volta che l’ho visto, e che gli era caduta un po’ di cenere ardente sul cardigan.»

Jerome si fermò. Ci siamo, pensò. Ecco la spiegazione.

«No» disse Maeve prevenendo la sua domanda. «Ne parlo solo perché la polizia ha insistito molto su questo punto. Ma le braci non erano tante da appiccare il fuoco ai suoi indumenti. E anche se così fosse, non basterebbero a spiegare tutto, vi pare?»

«Capisco quel che volete dire.»

«In secondo luogo, le ultime parole che ho rivolto a mio padre sono state: “Vorrei che tu morissi bruciato”.»

Jerome tornò a fermarsi, turbato, intuendo che la conversazione l’avrebbe costretto ad approfondire il suo resoconto addentrandosi in regioni più oscure e infide. Evitando di far commenti, carezzò la superficie curva di una boccia fermacarte di vetro posata su uno scaffale.

«La ragione principale per cui ne parlo» proseguì Maeve, è che quel che gli ho augurato è successo, e questo è proprio il genere di cose per cui certe donne sarebbero tanto stupide da ammalarsi di nervi, cosa che io mi guardo bene dal fare. Mio padre non è morto bruciato perché io gliel’avevo augurato. C’era stato fra noi un breve battibecco a proposito del suo vizio. Io sono impulsiva e a volte dico cose che preferirei non dire, ma tutt’e due lo sapevamo e nessuno vi ha dato peso.

«Capisco. E poi?»

«Sono andata in cucina a preparare il caffè, e ci sono rimasta una decina di minuti, in attesa che filtrasse.»

«Capisco» ripeté Jerome. Nonostante l’istintivo desiderio di evitare di approfondire la conoscenza con la vittima, cominciava a vedere il morto come una persona che aveva avuto un suo carattere e le sue abitudini. Sarebbe stato molto meglio che Art Starzynski potesse restare il Soggetto X, ma la stanza in cui era morto in maniera così strana e inesplicabile insisteva a essere collegata con la sua identità. Ovunque Jerome guardasse, c’erano mute testimonianze che Starzynski era stato un uomo, non un caso nelle statistiche di una compagnia di assicurazioni. C’erano alcuni fossili privi di valore che stavano lì solo perché lui aveva preferito conservarli, c’era un catalogo di sementi, c’erano alcuni certificati chiusi in cornice che attestavano la sua efficienza nel pronto soccorso, e poi diversi barattoli di tabacco, una scatoletta di pastiglie di caucciù, viola, a forma di cuore, vecchi binocoli militari, monete straniere. Una persona in carne ed ossa aveva passato buona parte della sua vita in quella stanza, e l’evidenza suggeriva che quella vita si era conclusa in modo singolare.

«… mentre preparavo il caffè ho cominciato a sentire un leggero odore di bruciato» stava dicendo Maeve. «Pesante e nauseabondo, un po’ come quello dell’incenso. Passando in anticamera ho notato alcune volute di fumo azzurrino, e quando ho aperto la porta, questa stanza ne era piena. Sulle prime non riuscivo a distinguere niente, poi ho notato quel buco vicino al televisore. Non c’erano fiamme, solo il buco nel pavimento, e…»

Jerome tornò a guardare la boccia di vetro fiorita all’interno come un minuscolo universo a sé stante. Si vergognava ma era ansioso di sentire quello che lei stava per dire.

Maeve trasse un profondo respiro, e quando riprese a parlare, lo fece con voce pacata, indifferente, come se si trattasse di una cosa che non la toccava. «Tutto quel che restava di mio padre era un mucchietto di ceneri impalpabili. Non avrei mai supposto che erano i suoi resti, se non avessi inciampato nella sua mano sinistra, l’unica parte del suo corpo che non era bruciata. Si trovava qui sul pavimento, vicino al buco.»

Jerome rabbrividì, un po’ a causa di quello che aveva sentito, ma soprattutto perché si era reso conto che qualcosa era cambiato dentro di lui. A un certo punto della storia di Maeve Starzynski aveva cominciato ad accettare come vero tutto quello che lei diceva, e questo significava che c’era qualcosa di sbagliato nel suo personale modo di vedere l’universo. Da bambino quando cominciava a imparare l’aritmetica, Jerome si era stupito di come l’intero sistema numerico fosse in armonia. Per quanto aggiungesse, moltiplicasse o sottraesse, tutto quadrava sempre e questo sembrava troppo facile per essere vero per la sua mentalità infantile. Aveva passato molte ore del suo tempo libero a elaborare calcoli tortuosi ideati apposta per indurre il sistema numerico a rivelare le sue manchevolezze, finché non aveva dovuto darsi per vinto, anche se con riluttanza. Adesso, inaspettatamente, dopo tanti anni, aveva l’impressione di aver trovato il difetto, il punto nascosto in cui i numeri si rifiutavano di fare il loro dovere. Scrutò Maeve e vide che aveva una faccia pallida e tirata.

«Non ho ancora finito il tè» disse. «Vogliamo tornare in cucina?»

Maeve annuì e uscirono dal salotto. In cucina lei afferrò la sua tazza con ambo le mani e bevve qualche sorso con gli occhi fissi sul cortile. Un orologio elettrico a muro mandava un lieve fruscio.

Finito di bere, Jerome depose la tazza. «Ho ancora una domanda, ma se preferite non…»

«No, no, dite pure.»

«Dov’è il televisore?»

«Oh, quello! La polizia l’ha portato via per esaminarlo. Un agente, non ricordo come si chiama, deve avermi chiesto almeno una dozzina di volte se era acceso quando sono entrata. Pareva contrariato» aggiunse con un pallido sorriso, quando ho insistito a dirgli che era spento.

«Di solito l’elettricità spiega tutto.»

«Ma non in questo caso.»

«No» ammise Jerome, che stava tentando, senza successo, di trovare una spiegazione a quanto era accaduto ad Art Starzynski, e che adesso si sentiva invadere la mente da quel bizzarro mistero come da un esercito furtivo. Era una sensazione curiosa, gradevole e stranamente familiare, e poi si rese conto che per la prima volta, anche se per pochi istanti, non aveva pensato a Carla da quando era morta. E la causa era stata la sfida intellettuale, lo stimolo che aveva sempre provato quando si misurava con un problema allettante di logica pura o applicata. Per un attimo si paragonò all’equivalente emotivo di un vampiro che si nutriva dei dolori altrui, e dovette reprimere un lieve senso di colpa. Rivolse a Maeve quello che si augurò fosse un sorriso rassicurante.

«Deve per forza esserci una spiegazione a quello che è successo a vostro padre» disse. «Farò del mio meglio per trovarla.»

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