Contrariamente alle paure e alle attese di Hasson, la sua nuova vita a Tripletree diventò all’improvviso facile da sopportare.
Una delle cose che gli vennero in soccorso fu una sorta di effetto di sfasamento cronologico, già sperimentato in precedenti visite a paesi stranieri. Si era fatto la teoria che il tempo soggettivo venisse misurato non dall’orologio, ma dal numero di nuove impressioni sensoriali che la mente registra. Il primo e il secondo giorno di una vacanza, specialmente se l’ambiente era diverso da quello della sua esperienza quotidiana, Hasson sperimentava di continuo nuove sensazioni, e quei giorni sembravano quasi interminabili. La vacanza pareva eterna. Però, d’improvviso, l’ambiente nuovo diventava familiare, diminuivano il numero e la frequenza degli incontri a sorpresa con una realtà sconcertante, il cervello tornava alla solita pigrizia, e non appena raggiungeva quello stato di coscienza, i giorni della vacanza scivolavano via come diapositive su un proiettore ad alta velocità.
Quella teoria lo aveva sempre depresso un po’, perché spiegava e confermava l’esistenza di un fenomeno che gli aveva descritto suo padre: l’accelerazione del tempo soggettivo nel corso della vita adulta. Hasson si era sempre giurato di non cadere mai in una routine grigia, stupida, di non permettere che i mesi e le stagioni e gli anni gli scivolassero fra le dita, ma poi scoprì che quel processo funzionava anche a suo vantaggio. Il tempo prese ad accelerare, e le sfide portate da ogni nuovo giorno diminuirono.
Tenne fede alla promessa fatta a Oliver Fan e cominciò a ingurgitare grandi cucchiaiate di lievito di birra in polvere. Dapprima gli parve quasi impossibile inghiottire quella sostanza amara, che legava la lingua, e fu costretto a mandarla giù con bicchieri di succo di frutta. Una conseguenza immediata fu che il suo corpo si riempì di gas intestinali, per cui gli era difficile persino piegarsi, ma Oliver lo aveva avvertito che quel sintomo era la prova di quanto gli fosse necessario il ricco contenuto di vitamine B del lievito. Prestando fede ai consigli di Oliver, perseverò. Cercò di farsi tornare alla mente quello che ricordava, da letture disordinate, sulle doti del lievito: produceva vitamine anti-stress, biotina, colina, acido folico, inositolo, niacina, acido nucleico, acido pantotenico, ferro, fosforo e varie vitamine, oltre all’intero complesso delle vitamine B. Quei termini biochimici non avevano molto significato per Hasson, ma due giorni dopo avere iniziato la cura si svegliò e scoprì che le ulcere alla bocca, che lo tormentavano da mesi, erano svanite senza lasciare tracce. Solo quel sollievo, decise, valeva tutti i soldi che Oliver poteva chiedergli.
Cominciò anche a masticare piccoli frammenti della radice di ginseng due volte al giorno. Era d’un colore rosso-marrone scuro, con una consistenza come di plastica, e sapeva vagamente di erba. Non riusciva a capire che bene potesse fargli, ma dopo il successo con le ulcere alla bocca era più che disposto a seguire a puntino le istruzioni di Oliver. La, digestione migliorò, la pressione dei gas scomparve dall’addome, l’appetito tornò, e in breve riscoprì uno dei piaceri più semplici: il piacere di aspettare con gioia l’ora dei pasti.
Il cibo che gli preparavano in casa di Werry non era sempre di suo gusto, ma a metà della seconda settimana di permanenza lì, Ginny Carpenter, che nei suoi confronti continuava a comportarsi con un’ostilità indifferente, partì per Vancouver, chiamata da un imprecisato affare di famiglia. Dopo di che, May Carpenter assunse il comando dei fornelli, e per quanto come cuoca avesse dei limiti, l’assenza di sua madre, dal punto di vista di Hasson, li compensava abbondantemente. Saltò fuori che May aveva un lavoro part-time negli uffici di una ditta di Tripletree per il noleggio di macchine utensili. Ci andava quattro volte la settimana, il che significava che quando Theo era a scuola Hasson aveva la casa a propria disposizione, cosa che gli andava perfettamente a genio.
Continuò a passare tutto il tempo possibile in camera sua, a guardare la televisione, ma anche se si era ripromesso di chiudere le finestre sul mondo si scoprì sempre più spesso a riflettere sui problemi concreti dei suoi ospiti.
Al Werry, dopo quella strana confessione di sabato mattina al bar, tornò a essere l’individuo di sempre: faceva il suo lavoro con quell’aria di assoluta competenza, sembrava tranquillo e allegro e sicuro, era il ritratto di un poliziotto con una bella carriera davanti. Guidava l’attività delle minuscole forze a sua disposizione con giovialità spensierata, come se quello che gli aveva detto Buck Morlacher non contasse nulla.
Hasson fu sorpreso di notare che Morlacher (dopo essersi intromesso per tre volte, in rapida successione, nella sua vita, ogni volta con la forza di un vulcano sul punto di esplodere) si era quietato ed era praticamente uscito di scena. Si chiese se il diverso atteggiamento di Morlacher fosse semplicemente dovuto al fatto che era preso da altri affari, e che andava a maltrattare Werry solo quando capitava, o se per caso c’entrasse May Carpenter. Non poteva esserne certo, ma aveva la sensazione che la relazione fra i due fosse cresciuta dopo l’incontro che lui aveva spiato dal bagno. Si trovò preso dal problema di scoprire che razza di persona vivesse dietro la facciata di May, una facciata di sessualità primitiva, senza complicazioni.
Secondo Werry, non c’era dietro niente. Hasson aveva pensato che quel giudizio fosse ingiusto e ottuso, ma col passare dei giorni cominciò ad accettare il fatto che era impossibile sostenere con May una conversazione qualsiasi. Cominciò a diventargli chiaro che lei era un piacevolissimo androide femminile con due sole possibilità di comportamento: indicare un interesse romantico per gli uomini che incontrava, e indulgere alle loro attenzioni. Hasson, forse perché non aveva fornito le risposte esatte, aveva confuso i processi d’identificazione di May e si era trovato relegato in una categoria umana che i meccanismi della donna non sapevano affrontare. Di tanto in tanto provava un senso di colpa per il fatto di pensare a un altro essere umano in quei termini, e decideva che la mancanza di comunicazione era dovuta alla propria incapacità, non a quello che attribuiva a May; ma l’intuizione, ammesso che si trattasse di un’intuizione, non ebbe effetti concreti sui loro rapporti, ovvero sulla mancanza di rapporti. Era chiaro che lei era disposta a trattarlo solo alle proprie condizioni, e le sue condizioni Hasson non poteva accettarle, un po’ per rispetto ad Al Werry, un po’ perché l’orgoglio che gli restava non gli avrebbe permesso di mettersi sullo stesso piano di Buck Morlacher.
Anche il rapporto con Theo Werry divenne altrettanto stagnante e improduttivo, però in quel caso Hasson sapeva perfettamente cosa non andava. Il ragazzo possedeva tutto il rispetto naturale del giovane maschio per la forza e il coraggio, un rispetto forse aumentato dalla sua menomazione fisica, ed era facile capire l’opinione che si era formato di Hasson. Per di più, fra loro si era aperto uno stacco generazionale fin dalla prima volta che Hasson gli aveva raccontato cosa pensava degli angeli, e non bastava il comune interesse per la musica e la letteratura a superare l’abisso.
Hasson decise di andarci piano con Theo, di stare pronto a cogliere il primo segno d’incoraggiamento, ma il ragazzo si isolava, trascorreva quasi tutto il tempo libero in camera sua. Innumerevoli volte, passando sul pianerottolo buio, Hasson vide la porta della stanza di Theo rischiarata da brevi lampi di luce, ma tirò sempre dritto, si costrinse a ignorare quel richiamo angoscioso, perché sapeva che ogni tentativo di risposta sarebbe stato considerato un’intrusione. Una volta, molto dopo mezzanotte, gli parve di avere sentito una voce che usciva dalla stanza: esitò sulla soglia, chiedendosi se Theo avesse un incubo.
La voce scomparve quasi subito e Hasson riprese il suo cammino verso il televisore, rattristato all’idea che anche un cieco potesse sperimentare le visioni spurie dei brutti sogni.
I risultati della sua nuova vita si trasformarono in routine, e Hasson accettò di buon grado l’intorpidirsi delle percezioni. La monotonia era una droga cerebrale che gli entrò presto nel sangue, e lui trasse conforto dalla convinzione sempre più forte che non gli sarebbe accaduto mai più nulla di significativo, che il giorno e la notte avrebbero continuato a confondersi nel grigio immobile, riposante, dell’eternità.
Quindi fu colto di sorpresa da due miracoli che si verificarono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro.
Il primo miracolo era esterno ad Hasson, e riguardava il tempo. Per una settimana circa ebbe la vaga percezione di grandi mutamenti che si andavano preparando nel mondo di fuori: la luce del giorno si ammorbidiva e l’aria diventava più calda, il suono dell’acqua che sgocciolava subentrava alla quiete notturna. La televisione diceva che in altre regioni del Canada pioveva a dirotto, e una volta, guardando fuori della finestra, Hasson vide adulti e bambini impegnati, in un giardino vicino, in una battaglia a palle di neve di stile inglese: dunque era mutata la consistenza della neve. Aveva smesso di essere farinosa, asciutta, era molto più malleabile, e quello era un segno premonitore che tra poco si sarebbe sciolta.
E poi, una mattina, Hasson si alzò e scopri che era iniziata la lunga estate dell’Alberta.
Abituato com’era alle stagioni prolungate, incerte, delle coste dell’Europa occidentale, alla ritirata riluttante dell’inverno e all’altrettanto esitante avanzata della stagione tiepida, non riuscì bene a capire quello che era successo. Era affacciato alla finestra, guardava un mondo tutto nuovo dominato dal verde e dal giallo, quando si accorse che si era verificato un secondo miracolo.
Non c’era dolore.
Si era svegliato ed era sceso dal letto senza dolore, accettando il fatto istintivamente, senza pensare, come una creatura dei boschi che si stirasse in risposta al chiarore dell’alba. Voltò le spalle alla finestra e fissò il proprio corpo, avvertendo il calore del sole sulla schiena, e fece qualche movimento sperimentale, come un atleta che si preparasse a una gara. Non ci fu dolore. Arrivò al letto, si sdraiò e si tirò su, per provare a se stesso di essere di nuovo un uomo nel vero senso della parola. Non ci fu dolore. Si toccò i piedi, poi ruotò il corpo da una parte e dall’altra, sfiorò il dorso dei talloni con le mani. Non ci fu dolore.
Hasson si guardò attorno nella stanza, respirò a fondo. D’improvviso si trovava a possedere ricchezze imprevedibili, e fece altre scoperte. La stanza gli sembrava più familiare, le fotografie incorniciate erano niente di più che segni del proprio passato, ma l’ambiente era diventato troppo piccolo. Era un ottimo posto per dormirci di notte, ma fuori si stendeva un enorme paese, inesplorato e affascinante, pieno di nuovi posti da visitare, di nuovi panorami da ammirare, di gente da conoscere, di cibo e bevande da godere, di aria fresca da respirare…
In un impeto di piacere e gratitudine, scopri di poter contemplare il futuro senza timori, senza che il fondo buio del suo animo si agitasse. Immaginava già di leggere, ascoltare musica, nuotare, partecipare a feste, incontrare ragazze, andare a teatro, forse anche infilare un corpetto AG e…
— No!
Il sudore freddo sulla fronte gli fece capire che si era spinto troppo in là. Per un attimo si era concesso di ricordare cosa significasse trovarsi in alto, su un’invisibile montagna di nulla; guardare gli stivali che portava ai piedi e vederli stagliati chiarissimi su uno sfondo di linee geometriche dai colori accesi; spostare il punto focale della sua visuale e trasformare quello sfondo in una minuziosa, dettagliata panoramica di quartieri cittadini e campi lontani chilometri e chilometri, con i fiumi che sembravano colate di piombo solcate da ponti, e le automobili ridotte a macchioline confuse, stagliate dalla lontananza sul cemento bianco. Scosse il capo, allontanò quelle immagini, e cominciò a progettare piani che non si estendessero oltre le sue capacità di creatura mortale.
Trascorsero diversi giorni in cui si accontentò di consolidare la sua nuova posizione, giorni in cui si tenne pronto a subire una ricaduta fisica e psichica. La sua camera, che un tempo era il rifugio più sicuro, adesso gli dava un leggero senso di claustrofobia. Ridusse il tempo che passava davanti al televisore a un’ora o due prima di coricarsi, e cominciò a fare passeggiate dapprima brevi, ma che ben presto arrivarono a tre o quattro ore.
Una delle sue prime spedizioni ebbe come meta il negozio di cibi naturali, dove Oliver Fan lo soppesò con un’occhiata veloce e, senza dargli tempo di parlare, disse: — Bene! Adesso che ha scoperto i primi vantaggi di una dieta equilibrata posso cominciare a spennarla come si deve.
— Calma — ribatté Hasson, ingenuamente felice che il suo stato di benessere fosse così evidente. — Ammetto di sentirmi meglio, ma come fa a essere così sicuro che il merito sia della sua roba? E io come faccio a sapere che non mi trovavo già sull’orlo di un miglioramento naturale?
— Lo crede proprio?
— Sto solo dicendo che deve esistere una tendenza naturale a…
— Superare malattie e scompensi? Certo. La faccenda di cui sta parlando si chiama omeostasi, signor Haldane. È una forza molto grande, ma noi possiamo favorirla oppure impedirla… Ad esempio, come nel caso di quei piccoli crateri dolorosissimi che aveva in bocca da mesi, e che ora non ha più. — Oliver alzò le spalle, comprensivo. — Ma se crede che il suo denaro vada sprecato…
— Non volevo dire questo — ribatté Hasson, infilando la mano in tasca.
Oliver sorrise. — Lo so. Voleva solo dimostrarmi che non ha più paura di me.
— Paura?
— Sì. Il primo giorno che è entrato qui aveva paura del mondo intero, me compreso. Per favore, cerchi di ricordarselo, signor Haldane, perché quando si fa un viaggio è molto importante sapere da dove si parte.
— Lo ricordo. — Hasson guardò per un attimo il piccolo asiatico, poi, d’improvviso, gli porse la mano. Oliver la strinse in silenzio.
Hasson restò in negozio per più di un’ora. Aspettò nel retrobottega che altri clienti fossero serviti, affascinato dai discorsi di Oliver sulla medicina alternativa. Alla fine non era ancora del tutto certo delle credenziali di Oliver e dei suoi aneddoti di guarigioni, però uscì con una borsa piena di nuove aggiunte alla sua dieta quotidiana. Le cose più importanti erano lo yogurt puro e i germi di grano. Si portò via anche la certezza di essersi fatto un amico sincero, e nei giorni che seguirono prese l’abitudine di fare spesso un salto in negozio, in genere solo per scambiare quattro chiacchiere. Nonostante lo spirito commerciale che sbandierava, Oliver parve piuttosto felice della cosa, e Hasson cominciò a sospettare di fornirgli materiale per un nuovo dossier dietetico. Il che non gli dava fastidio; anzi, dovette combattere la spinta a voler realizzare a ogni costo le profezie del cinese, badando a non esagerare i racconti di continui miglioramenti che faceva a Oliver.
I progressi, comunque, erano reali ed esaltanti. Di tanto in tanto si verificava qualche caduta psicologica, a ricordargli che l’esaltazione non è uno stato d’animo normale; ma, come aveva predetto il dottor Colebrook, Hasson scoprì che riusciva a padroneggiare le ricadute con maestria e autosufficienza sempre maggiori. Estese la durata degli esercizi fisici sino a passeggiate di sei o otto ore, percorrendo chilometri e chilometri del terreno collinoso che si stendeva a nord e a ovest della città. In quelle occasioni portava con sé cibo preparato dalle sue stesse mani, e durante la sosta per il pranzo leggeva e rileggeva una vecchia edizione di Literary Lapses di Leacock, acquistata in una libreria di Tripletree.
Aveva comperato il libro con l’intenzione di prepararsi a una riconciliazione con Theo, ma il ragazzo non aveva abbassato le sue barriere, e Hasson era troppo preso dalle proprie cose per cercare di accelerare il corso degli eventi. A mano a mano che migliorava, tornava a concentrarsi su se stesso in maniera ossessiva come quando stava male, badando al proprio benessere con un’avidità egoistica, e in quelle condizioni i problemi degli altri perdevano ogni importanza. Sapeva, a esempio, che il ritorno del bel tempo aveva reso molto più accogliente, di notte, quel fantastico palazzo che era l’Hotel Chinook, e che di conseguenza erano aumentate le attività dei giovani volatori che lo usavano come punto di ritrovo. Sentiva Al Werry parlare spesso di orge all’empatina nell’hotel, raccontare che erano sempre più frequenti le infrazioni che il gergo della polizia riduceva a un comodo elenco di iniziali (CA, collisione aerea; TOP, trasporto di oggetti pesanti; DA, defecazione aerea) e che rappresentavano una grave minaccia per la società, però gli sembravano tutte cose prive di significato. Era isolato dal resto dell’umanità, esattamente come quando volava alto ai limiti dello spazio esterno. Combatteva una sua guerra personale, e non aveva risorse per nient’altro.
Il suo massimo grado di coinvolgimento si verificò una mattina, mentre scalava un ripido pendio a ovest della città, dalla cui cima avrebbe potuto ammirare i laghi Lesser Slave e Utikuma. La terra era immersa in un silenzio profondo: l’estate era appena cominciata, non si udivano nemmeno le voci degli insetti. Non esistevano tracce di presenza umana e si poteva immaginare che lì il tempo scorresse più lento, che gli ultimi ghiacciai del pleistocene si fossero appena ritirati e che le prime tribù mongoliformi dovessero ancora superare lo Stretto di Bering.
Hasson aveva interrotto la salita e stava abituando gli occhi all’ampia panoramica che gli si offriva quando, senza il minimo segno premonitore, una fonte di luce vivida si accese in cielo, a nord. L’erba attorno a lui mandava riflessi simili a minuscole scimitarre, come se sopra la sua testa fosse sospeso un elicottero con un enorme faro acceso, ma il silenzio era ancora perfetto. Hasson si schermò gli occhi e cercò d’identificare l’oggetto, che però sembrava un’anonima fonte di luce circondata da un rosone di sottilissimi aghi di luce. Il cielo pulsava in cerchi blu.
Mentre lui osservava, un secondo punto abbagliante apparve accanto al primo, poi ne nacquero altri, finché si creò un anello di sei soli in miniatura che accecarono Hasson, chiudendolo all’apice di un cono di luce violentissima. L’erba ai suoi piedi divenne incandescente, quasi sul punto d’incendiarsi.
Ebbe un momento di terrore superstizioso, prima che giungesse a salvarlo la sua disciplina mentale. «Specchi» pensò. «Un gruppo di sei volatori. Dai cinquecento ai mille metri di altezza, quanto basta per renderli invisibili contro un cielo così chiaro. Infrazioni: TOP, per cominciare. Infrazioni che intendano presumibilmente compiere: tutto quello che gli viene in mente. Qui non c’è nulla che possa fermarli».
Abbassò lo sguardo e riprese a salire, tendendo le orecchie al minimo rumore (un fruscio d’aria, il suono di voci) che potesse indicargli di trovarsi coinvolto in qualcosa di più serio di un gioco da ragazzi. La luce continuò a traversargli il cammino per un minuto, poi scomparve bruscamente.
Proseguì la salita un altro minuto prima di fermarsi a scrutare l’emisfero del cielo. Non c’era nulla fuori del comune da vedere, ma lui non si sentiva più solo o lontano dal ventunesimo secolo. Il cielo possedeva occhi blu, intelligenti.
Poco dopo, mentre mangiava seduto su una roccia, fu colpito da un pensiero confortante, e si sentì quasi grato al gruppo di volatori invisibili. Nel corso dell’episodio si era sentito preoccupato, teso, apprensivo, ma non spaventato. Non troppo, almeno. C’era stato un certo gelo alla fronte, un vuoto allo stomaco, ma neanche uno della miriade di terribili sintomi che da qualche mese conosceva così bene. Forse aveva compiuto, sul cammino della guarigione, più strada di quanto non comprendesse.
Meditò un attimo su quel pensiero, portandolo alla logica conclusione, poi si alzò e si rimise in marcia in direzione di Tripletree.
— Ma certo! Prendi tutti i corpetti che vuoi. Ne abbiamo un sacco che stanno qui a far niente. — Werry rivolse ad Hasson un sorriso incoraggiante. — Vuoi usare la mia tuta di scorta?
— Non mi serve. Non salirò molto. — Hasson sorrise di rimando, cercando di non sembrare troppo indeciso. — Per un po’ farò solo dei giretti, sul serio. Devo vedere se riesco ad ambientarmi. Sai com’è…
— Credo di no. Pensavo che avessi la fobia dell’aria.
— Cosa te l’ha fatto pensare?
Werry si strinse nelle spalle. — Un’impressione. Non c’è mica da vergognarsi, sai. Un sacco di gente non riesce più a volare dopo un incidente.
— È vero, ma non nel mio caso — disse Hasson, chiedendosi perché sentisse il bisogno di mentire.
— Vuoi che venga su con te, tanto per restare sul sicuro? — Werry mise giù lo straccio che aveva usato per lucidarsi gli stivali e si tirò in piedi. L’uniforme lo faceva apparire estraneo alla tranquillità domestica della sua cucina. Di ritorno dalla passeggiata, Hasson lo aveva trovato solo in casa e aveva deciso di non porre tempo in mezzo alla realizzazione del suo esperimento.
— Ce la faccio da solo — rispose, incapace di dominare il tremito della voce.
— Okay, Rob. — Werry lo fissò con espressione dispiaciuta. — Non capisco mai dove finisce la gentilezza e dove comincia l’invadenza. Scusa.
— No, scusa tu. È solo che mi sentirei più a posto se…
— È quello che ti diceva Rob. Questa mattina, in ufficio, Henry Corzyn, uno dei miei uomini, quello grasso, ha cominciato a raccontare che questo mese è a corto di soldi, e Victor, quello più giovane, gli ha offerto un prestito. Henry ha detto che non era ancora arrivato a quel punto e che non voleva rubare denaro a nessuno. E sai cos’ha fatto Victor?
Hasson ammiccò. — Ha sospirato di sollievo?
— No. Il ragazzo ha preso un po’ di dollari dal portafoglio e li ha infilati nella tasca della camicia di Henry, ed Henry li ha lasciati lì. Aveva appena detto che non accettava prestiti da nessuno, e ha lasciato lì i soldi!
— Si vede che voleva il prestito.
— È a questo che volevo arrivare — ribatté Werry, e nei suoi occhi c’era qualcosa che sembrava angoscia. — Voleva il prestito, però ha detto di no, e allora come faceva Victor a saperlo? Se fosse successo a me, avrei creduto a Henry, lo avrei piantato in asso, e probabilmente lui mi avrebbe tirato insulti fino al prossimo Natale. Oppure avrei capito male alla rovescia e lo avrei costretto ad accettare i soldi e avrei urtato i suoi sentimenti, e lui avrebbe finito lo stesso col maledirmi fino a Natale. È questo che vorrei sapere: come ha fatto quel ragazzino di Victor a capire cosa doveva fare?
— Si sarà imbottito d’empatina — buttò là Hasson.
— Impossibile! Nessuno dei miei… — Werry s’interruppe e rivolse un’occhiata solenne ad Hasson. — Immagino che fosse una battuta.
— Non era una gran battuta — si scusò Hasson. — Senti, Al, tu non sei l’unico. Certa gente è capace di capire gli altri per istinto, e noialtri possiamo solo invidiarli. Anche a me piacerebbe essere fatto così.
— Io non sono invidioso. Semplicemente perplesso. — Werry sedette di nuovo e ricominciò a strofinare la punta già lucidissima di uno stivale. — Ti va un barbecue, stasera?
Hasson rifletté sull’idea e la trovò attraente. — Mi sembra magnifico. Non sono mai stato a un vero barbecue.
— Vedrai che ti piacerà. Buck ha ospiti che vengono da fuori città, per cui puoi scommetterci l’anima che ci sarà un sacco di ottimo cibo e ottima roba da bere. Fa sempre le cose in grande.
Hasson capì solo allora. — Stiamo parlando di Buck Morlacher?
— Già. — Werry lo fissò con la calma innocenza d’un bambino. — Buck dà feste grandiose, sai, e non c’è problema. Posso portare tutti gli ospiti che voglio.
«In uno di noi due c’è qualcosa che non va» pensò Hasson, incredulo. «Al, tu qui dovresti rappresentare la legge».
— Viene anche May — disse Werry. — Andremo tutti e tre verso le otto e ci scoleremo tutto quello che troviamo. Okay?
— Non vedo l’ora. — Hasson tornò nell’ingresso, scelse un corpetto antigravitazionale fra i molti che si trovavano lì e controllò la batteria. Quel gesto familiare evocò una sensazione di disagio, e la fiducia che provava prima cominciò a svanire. Era possibile, dopo tutto, che si stesse spingendo troppo in là, che pretendesse cose assurde. Esitò un attimo, poi si mise il corpetto a tracolla e uscì. Il sole stava declinando verso ovest, cubi d’ombra riempivano gli spazi fra una casa e l’altra, e l’aria aveva brividi di freddo. Hasson stimò che gli rimanevano meno di due ore di luce, ma per i suoi scopi erano sufficienti.
Gli ci vollero quaranta minuti per raggiungere una zona deserta. Antiche miniere avevano sfigurato per sempre il terreno, al punto da rendere impossibile qualsiasi forma d’agricoltura. Di tanto in tanto spuntava in cielo un volatore che entrava o usciva da Tripletree, ma lui sapeva per esperienza che su un terreno del genere sarebbe stato praticamente invisibile a chi viaggiava in aria. Controllò l’area che aveva attorno, chiara e nitida nella luce rossastra, e cominciò ad allacciarsi il corpetto AG.
Era un modello standard, con cinghie troppo sottili per le sue dita. Nel volo normale non erano necessarie cinghie troppo pesanti, perché il campo antigravitazionale circondava sia il corpetto sia il volatore nella stessa maniera; non si verificavano le differenze tipiche dei paracadute più recenti o dei primi modelli per truppe da sbarco. I corpetti in dotazione alla polizia erano più pesanti e dotati di cinghie più robuste, per motivi che non avevano nulla a che fare con le leggi della fisica: lo scopo era garantire che il poliziotto non si staccasse dal corpetto AG nella lotta aerea che a volte si verificava durante un arresto. Hasson era abituato a cinghie e fibbie pesanti. Si sarebbe trattato di un supporto puramente psicologico, ma avrebbe preferito un corpetto da poliziotto per quella cruciale ascesa in cielo.
Terminò i preliminari di volo. Rimandare oltre era controproducente. Girò il comando principale della cintura sulla posizione d’avvio.
Non ci furono effetti percepibili. Hasson sapeva che era perché il terreno intersecava il campo antigravità, spezzandone le linee di forza, disposte come gli strati di una cipolla. Sapeva anche che gli bastava spiccare un balzo per alzarsi in aria, dove avrebbe fluttuato, in equilibrio geometrico, a breve distanza dall’erba ingiallita e polverosa.
Piegò le ginocchia e alzò un po’ i tacchi, preparandosi all’esplosione di energia muscolare che era l’unico requisito indispensabile per trasformarlo da semplice uomo a una specie di dio. Passarono i secondi. Passarono secondi terribili, col cuore che batteva forte, il sangue che rombava nelle vene, e Hasson era sempre attaccato alla terra, come le rocce nude che aveva attorno. Un allarme radio al suo polso cominciò a emettere un ronzio leggero ma insistente, per ricordargli che stava sprecando la batteria senza motivo. Le cosce gli dolevano per lo sforzo di restare immobili in quella che doveva essere solo una posizione momentanea. Eppure non riusciva a saltare. Il sudore gli colava sulla fronte e sulle guance, i muscoli dello stomaco erano serrati dalla nausea. Eppure non riusciva a saltare…
— All’inferno — disse, avviandosi nella direzione da cui era giunto, e in quel momento una parte della sua mente (la sfaccettatura più intollerante, più indomita del suo carattere, il suo lato che considerava la vigliaccheria il peggiore dei peccati) agì da sola. Quello che doveva essere un normalissimo passo diventò un balzo in aria su una gamba sola, e Hasson si trovò a veleggiare senza più nulla sotto i piedi.
Nauseato, perplesso e impaurito, tese la mano verso i comandi, deciso a spezzare il campo antigravitazionale. «Aspetta» urlò una voce muta. «Non sprecare questa possibilità. Adesso non sei più a terra, e stai bene, e puoi farcela. Sfrutta l’occasione al meglio. Vola, uomo, VOLA!»
Hasson non credeva a quello che gli stava succedendo: toccava il selettore d’altitudine, si alzava un poco più in alto per potersi spostare in orizzontale. Il terreno cominciò a rimpicciolire sotto di lui. Quello era il momento.
Doveva solo spostare il comando principale, e sarebbe volato verso il tramonto metallico, libero dalla terra e dai suoi limiti sciocchi, con nuovi orizzonti che avanzavano da ogni lato e niente sotto, attorno o sopra di sé se non la purezza delle correnti aeree…
No! No! Mai!
Spense il campo antigravitazionale e piombò sull’erba secca, rigido come un manichino di legno. Lacci verdastri gli imprigionarono i piedi. Cadde in avanti e rotolò di fianco, gridò per il dolore che gli investì i fianchi e il fondoschiena. La terra lo afferrò e lui si strinse alla terra, aspettando che tutte le sensazioni del volo abbandonassero il suo corpo.
Quando si rialzò, pochi minuti dopo, poteva muoversi benissimo, e di questo ringraziò il cielo. Aveva imparato una lezione impagabile al prezzo d’un breve periodo di confusione mentale e dolore fisico. Adesso che sapeva per certo che i giorni del suo volo erano finiti, sarebbe riuscito a preparare piani ragionevoli, realistici, per il futuro a lunga scadenza.
Doveva aspettarselo. Al Werry scese dabbasso, per andare al barbecue, in uniforme. Aveva perfino la pistola alla cintura. Trovò Hasson solo in soggiorno, gli lanciò un sorriso feroce e avanzò su lui a braccia spalancate, minaccioso come un granchio, menando complicati colpi per aria che terminarono in leggeri buffetti sulle guance di Hasson.
— Dov’è May? — sussurrò. — C’è tempo di scaldarci con qualcosa prima di partire?
Hasson indicò la cucina con la testa. — È lì dentro con due ragazzi che sono venuti a tenere compagnia a Theo.
— Allora c’è tempo per un bicchierino veloce. — Werry arrivò alla credenza e prese una bottiglia. — Va bene il whisky di segala? Siamo riusciti a rieducare i tuoi gusti?
— Va benissimo. Con molta acqua.
— Questo sì che è il ragazzo che conoscevo. — Werry riempì due bicchieri abbondanti e ne porse uno ad Hasson. — Com’è andata oggi pomeriggio? Sei finito tra le nuvole?
Hasson sorseggiò il liquore prima di rispondere. Quello era il primo momento cruciale della sua nuova vita. — È andata malissimo. Ho fatto un salto di pochi metri, e l’ho odiato.
— È naturale. Ti ci vorrà un po’ per riabituarti a tornare su.
— No, è una cosa molto più seria — disse Hasson, tenendo la voce bassa. — Ho finito di volare. Non tornerò più su.
— A ogni modo è un passatempo troppo sopravvalutato — rispose Werry, imbronciato, fissando il bicchiere. — Ti daranno un lavoro d’ufficio, no?
— Penso di sì. La fobia del volo è una malattia professionale prevista dalla legge.
Sulla faccia di Werry tornò l’espressione d’allegria. — Allora non è poi una gran tragedia. Bevi e dimentica. — Stava dando il buon esempio, quando May Carpenter spuntò dalla cucina. Indossava stivaletti dorati, pantaloni, e un maglione di lana color oro. Guardò Werry e chiuse di colpo la bocca.
— Mio Dio — disse — non vorrai uscire vestito così! Werry si guardò. — Cosa c’è che non va nel mio vestito?
— Cosa c’è che non va? — May diede un’occhiata ad Hasson, poi si rivolse nuovamente a Werry. — Al, è una festa in costume, oppure hai intenzione di arrestare tutti?
Werry agitò la destra, cercando di calmarla. — Tesoro, questo non è un semplice ricevimento. Buck ha ospiti molto importanti, o almeno pensa che siano importanti, e vorrà fargli vedere che è in amicizia col capo della polizia.
May sospirò, deliziosamente sconsolata. — Vai in cucina a dare la buonanotte a Theo.
— Non ce n’è bisogno — rispose Werry. — Non si accorge mai se sono in casa o fuori. Andiamo, gente. È assurdo rimanere qui a berci la nostra roba quando possiamo bere la roba di qualcun altro. Non è giusto, Rob?
Hasson mise giù il bicchiere. — Il tuo ragionamento è perfetto, dal punto di vista economico.
— Sono pronta — disse May. — Voliamo o andiamo in macchina?
— In macchina. — Werry spalancò la porta e fece uscire May con esagerata cortesia. — Rob non ti ha detto che non può volare?
— No — rispose May senza interesse, avviandosi alla porta d’ingresso.
— È vero, non posso più volare — disse Hasson alla schiena della donna, tanto per fare pratica di quella confessione. Lei parve non accorgersene. Quando salirono sull’auto della polizia, Hasson si sistemò sul sedile posteriore. Si sentiva solo in quel buio spazioso; desiderava avere con sé una donna. Più o meno gli andava bene una donna qualsiasi, bastava che gli tenesse compagnia. La macchina scivolava silenziosamente fra le strade buie e lui scrutava con nostalgia le finestre delle case che sorpassavano: rettangoli gialli, luminosi, dietro alcuni dei quali s’intuivano scene di vita familiare, con le figure immobilizzate a metà dei gesti perché ne coglieva solo visuali brevissime. Si distrasse cercando di inventare personalità e storie per quelle figurine come di cera, ma sentiva il profumo delicato di May, e i suoi pensieri tornavano di continuo a lei.
Settimane di osservazione discreta non gli avevano fatto capire più a fondo la personalità di May. Ancora non riusciva a comprendere cosa avesse spinto Werry e lei a mettersi assieme. Per quanto gli era dato di sapere, Werry offriva cibo e alloggio a May, talora anche a sua madre, e in cambio lei gli dava una mano nella conduzione della casa. Era da presumere che fra loro esistesse un rapporto sessuale, ma c’era una totale mancanza di affetto reciproco che Hasson trovava stupefacente e inquietante.
«È così che va la vita sulla terra?» si chiese. L’istinto lo aveva spinto a rifiutare il discorso di Werry, l’asserzione che lui e May fossero non-gente, figurine terribilmente realistiche che imitavano i movimenti della vita; e se quella fantastica ipotesi fosse stata vera? Pensieri insidiosi, vergognosi, presero a insinuarsi nella mente di Hasson. Perché non gettare a mare tutti gli idioti preconcetti sull’onore e la verità? Perché non considerare la situazione come un semplice problema di logica o matematica? X è un uomo tornato in salute, con una necessità sempre maggiore di una valvola di sfogo per le spinte biologiche. Y è un uomo incapace di provare amore, odio o gelosia. Z è una donna per la quale il concetto di fedeltà significa ben poco. La relazione attuale può essere espressa dalla formula X + (YZ), ma perché non operare una lieve manipolazione algebrica, del tipo di quelle che si fanno sempre, e trasformarla in Y + (XZ)?
Hasson osservò la figura di May, permettendosi per un attimo di considerarla una macchina per l’amore, un meccanismo umano che senza dubbio avrebbe risposto in un certo modo se solo lui avesse premuto i pulsanti esatti; poi un’ondata enorme di autodisgusto cancellò tutti i simboli dal suo cervello. Al Werry era un essere umano, non un’astrazione matematica, e se le cose che raccontava di sé erano vere significava che dalla vita aveva ottenuto ben poco, e che quindi bisognava proteggerlo, non tradirlo. Anche May era un essere umano, e se ai suoi occhi appariva bidimensionale doveva essere perché lui non riusciva a scorgerne le vere dimensioni.
La macchina aveva risalito un lieve pendio alla periferia ovest di Tripletree e adesso viaggiava lungo una strada privata, circondata da rododendri e altri arbusti che Hasson non conosceva. Dopo alcuni secondi di oscurità totale, emerse su una spianata da dove una casa illuminata dominava una fulgida visuale della città. Tripletree era una manciata di gioielli sparsi in giro, un ammasso di pietre preziose di ogni tipo e colore, circondato da collane di diamanti e topazi. In alto, le autostrade aeree brillavano di colori vivaci, generosamente disseminate delle luci dei volatori notturni, e ancora più sopra poche stelle di prima grandezza aumentavano quell’immensità di luce col loro paziente scintillio. In un patio a fianco della casa erano accesi lampioncini alla veneziana, si udiva il suono della musica, e figure umane si accalcavano attorno alla colonna di fumo di quella che sembrava una grande griglia a carbone.
— Dobbiamo avere sbagliato indirizzo — disse Hasson, ironico.
— No, è proprio la casa di Buck — ribatté Werry, fermando la macchina. — Conoscerò bene Tripletree, no?
Scesero dall’auto e s’incamminarono verso l’epicentro delle attività. May si aggiustava i capelli e Werry lisciava diverse parti della sua uniforme, sino alla perfezione. Hasson era rimasto un po’ indietro. Provava quel curioso insieme di esitazione e aspettativa che sentiva sempre arrivando a una festa già iniziata. Pensava che il loro ingresso sarebbe passato inosservato, e invece la figura alta, robusta di Buck Morlacher si avvicinò immediatamente. Aveva un grembiulino vecchio stile allacciato ai fianchi, reggeva una forchetta molto lunga, e il calore del carbone aveva incendiato i triangoli rossi delle sue guance. Si diresse subito verso May, mostrando di non vedere né Werry né Hasson. Le mise un braccio attorno alle spalle e mormorò in fretta nei suoi capelli biondi. May ascoltò un attimo e cominciò a ridere.
— ’Sera, Buck — disse Werry, accomodante. — Mi pare che la festa vada bene. Ho portato Rob per fargli vedere come facciamo certe cose noi dell’Alberta.
Morlacher lo guardò con occhi freddi, continuando a ignorare la presenza di Hasson, e disse: — Il liquore è vicino alla fontana.
Werry rise. — Non c’è bisogno di sapere altro. Vieni, Rob. — Afferrò Hasson per il braccio e lo guidò lungo il patio.
Hasson rifiutò di muoversi. — Forse May ha voglia di bere qualcosa.
— A May posso pensarci io — rispose Morlacher, piegando la testa per soppesare Hasson.
— Lei ha da fare col cibo. — Hasson si rivolse direttamente a May. — Il solito? Whisky e birra?
— Io… — Lei lo fissò a occhi spalancati, agitata. — Non ho ancora sete.
Morlacher aumentò la presa sulla spalla di May. — Le servirò da bere io appena ne avrà voglia. Che fretta c’è?
Werry strinse più forte il braccio di Hasson. — Giusto, Rob. Qui ognuno fa da sé.
Morlacher annuì lentamente, e sul suo viso apparve un’imprevista aria di soddisfazione. — A proposito del fare tutto da sé, Werry, oggi ho fatto qualcosa a cui avrebbe dovuto pensare da un pezzo il capo della polizia.
— Sì? — Werry lasciò andare il braccio di Hasson. — Cosa?
— Sai quel mio cane nero? Quello che ho cercato di ammazzare l’anno scorso perché aveva, strappato un pezzo di gamba a Eddie Bennett?
— Lo hai sistemato?
— No. L’ho messo al lavoro. Oggi Starr e io siamo andati alla fattoria e l’abbiamo legato e l’abbiamo portato all’hotel e l’abbiamo sguinzagliato lì. I bastardi che ci andranno stanotte dovranno sparire maledettamente in fretta. — Morlacher rise, mettendo in mostra i suoi denti disumanamente forti.
Werry sembrava ammirato. — Le cose dovrebbero cambiare. Manderò tutti i giorni uno dei miei ragazzi a portargli da mangiare.
— No. Voglio che quella belva sia sempre affamata. D’ora in poi è a dieta di angeli. Capito?
— Ehi, questa sì che è buona — disse Werry ridacchiando. Si voltò e si allontanò lungo il patio, salutando a salamelecchi le persone che conosceva, dando l’impressione di essersi scordato di Hasson e di May. Hasson, tradito, lo seguì. Notò che Morlacher e May scomparivano in direzione della casa. Raggiunse Werry a un bar mobile, dove due camerieri in giacca bianca servivano il liquore in pesanti calici decorati da rubini falsi.
— Fammi un favore — disse Werry ad Hasson, appena ebbero ricevuto i loro drink — cerca di non far arrabbiare Buck. Serve solo a rendermi la vita difficile. Perché ti sei messo a discutere con lui, fra l’altro?
— Una buona domanda — rispose Hasson con voce gelida. — Ma penso di avere dimenticato la risposta.
Werry era perplesso. — Spero che non comincerai a prendermi per i fondelli, Rob. Io vado a fare un giro. Ci vediamo. — Si allontanò verso un gruppo di uomini e donne che stavano ballando in un angolo del patio.
Hasson lo fissò, esasperato, poi si chiese cosa poteva fare nelle quattro o cinque ore successive. In giro c’erano una trentina di persone. Molti indossavano vestiti da mezza stagione di varie fogge, per difendersi dal freddo di inizio estate, col risultato che l’atmosfera generale era un sorprendente insieme di party e di eroico picnic. Moltissimi ospiti portavano medaglioni d’oro, tutti identici. Hasson parlò con un uomo di mezza età, magro e scosso dai brividi, che ingurgitava premeditatamente un bicchiere dopo l’altro, con l’aria di chi vuole dimenticare l’occasione, e scoprì che gli ospiti facevano parte di un’associazione di camere di commercio dell’ovest americano. Stavano compiendo un giro di cortesia della confederazione canadese. L’uomo dava l’impressione di avere profondi rimpianti per il fatto di trovarsi così a nord della sua casa di Pasadena.
Hasson restò un po’ con lui, a discutere gli effetti della latitudine sul clima. Altri ospiti si unirono a loro, e quando sentirono l’accento inglese di Hasson la conversazione divenne un acceso dibattito sugli effetti della latitudine sul clima. Hasson, tutt’altro che annoiato, provava un grande piacere nell’essere di nuovo capace di mischiarsi e interagire con estranei. Bevve, ebbe cibo dai cuochi alla griglia, bevve ancora, danzò con diverse donne che avevano il medaglione d’oro, e fumò il primo sigaro dopo mesi.
Nel frattempo, osservò che Morlacher e May si erano assentati per quasi un’ora, ma ormai aveva raggiunto una condizione di ovattata benevolenza ed era disposto ad ammettere che May poteva essere andata a vedere la collezione di francobolli del loro ospite. E poi capiva chiaramente che i problemi degli altri non lo riguardavano. La vita, a quanto pareva, poteva essere perfettamente accettabile, purché si decidesse di vivere e lasciar vivere. L’idea colpì Hasson, ex poliziotto ed ex ficcanaso, con tutta la forza di un concetto filosofico nuovo di zecca, e ne stava esplorando le implicazioni quando la musica si spense all’improvviso e tutti vicino a lui si girarono a guardare qualcosa che stava cominciando a succedere al centro del patio. Si spostò in una zona libera per poter vedere meglio.
Buck Morlacher e altri due uomini stavano sistemando un proiettore bilaser a carrello. Frenarono le ruote, mossero qualche pulsante, e al di sopra della macchina apparve la scintillante immagine dell’Hotel Chinook. La rappresentazione tridimensionale era alta quasi tre metri e mostrava l’albergo come doveva essere stato concepito dalla mente dell’architetto, completo di ascensori laterali e tetto a giardini. Tra i presenti si levò un mormorio d’ammirazione.
— Dolente d’interrompere la festa, signore e signori, ma immagino sapeste già che doveva esserci il trucco — annunciò Morlacher, con un sorriso che oscillava fra il candido e il timido.
— Comunque non preoccupatevi, vi ruberò solo un minuto del vostro tempo, e credo vorrete ammettere che ne vale la pena. Sto per presentarvi alcune delle più fantastiche meraviglie che l’Alberta Centrale può offrire agli uomini d’affari interessati a conquistare nuovi clienti e nuovi mercati. Sì, lo so che il corridoio aereo occidentale s’interrompe a qualche centinaio di chilometri a sud di qui, ma questo è solo un particolare insignificante se pensate al potenziale di nuovi affari che la nostra zona offre.
Morlacher estrasse un foglio di carta e cominciò a leggere statistiche che avvaloravano la sua tesi. Parecchi degli ospiti sembravano piuttosto interessati, anche se diverse persone si allontanavano dai bordi del cerchio in direzione del bar. Hasson scoprì che il suo calice era vuoto. Si voltò per andare a fare rifornimento, ma si bloccò a metà strada. Ora si udiva un nuovo suono.
Era un suono inatteso, alieno, incomprensibile, un orribile incrocio fra un gemito e un urlo che evocava immediatamente spiacevoli pensieri di demoni e spiriti alfieri di morte, che raggelava il cuore. Morlacher smise di parlare. Il gemito crebbe di volume, prese a rimbombare su tutti loro come una sirena.
«Viene dall’alto» pensò Hasson, ma prima che riuscisse a sollevare gli occhi verso il cielo buio ci fu una specie d’esplosione molliccia al centro del patio, e parecchie donne urlarono d’orrore. Hasson si fece avanti e vide qualcosa di nero, d’incredibilmente insanguinato, spappolato a terra.
Per un istante non riuscì a identificare quella cosa macabra (poteva essere un folle, incomprensibile insieme di incubi cimiteriali), poi capì di avere sotto gli occhi il corpo spezzato, distrutto, di un grande mastino nero.
Rivoli rossi scendevano in tutte le direzioni. Dallo stato della carcassa del cane, stimò che fosse precipitato da parecchie centinaia di metri d’altezza.
«Per poco una volta non è successo a me» pensò stupefatto. «Ma adesso sto bene. Non m’importa di quel cane, perché adesso sto bene».
— Maledetti bastardi! — urlò Morlacher, balzando sulla piattaforma del proiettore bilaser. l suoi vestiti erano sfigurati da una striscia diagonale di macchie rosse. Agitò il pugno contro il cielo e contro i suoi invisibili abitanti, e il suo corpo, preso nel cono dei raggi laser, fece dissolvere e scomparire l’immagine dell’Hotel Chinook, come una diapositiva proiettata su uno schermo di fumo.
— Maledetti bastardi merdosi! — latrò Morlacher, e il suo corpo massiccio tremava di furia incontrollabile. — Questa ve la farò pagare.
Abbassò lo sguardo, parve ricordarsi della presenza degli ospiti stranieri, e fece un visibile sforzo per controllarsi.
Un silenzio stupefatto era sceso sul patio, interrotto solo dai deboli gemiti di una donna che piangeva. Morlacher prese un fazzoletto e cercò di ripulirsi, mormorando scuse alle persone più vicine. Scese dalla piattaforma e cominciò a fendere la folla muta, frugando qua e là con gli occhi. Hasson immaginò che stesse cercando Al Werry.
— Che scalogna, Al — mormorò tra sé Hasson, tornando al bar. — Il mestiere di poliziotto non è dei più allegri.