3

Il primo pranzo a casa di Werry fu una vera ordalia. Più terribile di quanto Hasson avesse previsto. Avevano apparecchiato quattro posti al tavolo circolare della cucina. Quello di Hasson si distingueva dagli altri per la presenza di un bicchiere colmo di whisky che gli faceva dolere lo stomaco ogni volta che lo guardava. Si accomodò con Werry e May Carpenter, mentre Ginny, con una sigaretta penzolante fra le labbra, orchestrava il pranzo, in piedi davanti ai fornelli. Riempiva personalmente i piatti col contenuto di diverse pentole, come un cuoco militare, prestando scarsa attenzione alle preferenze espresse dagli altri. Hasson, che amava le bistecche ben cotte, ricevette un pezzo di carne troppo alto, bruciacchiato all’esterno, ma che colava sangue da parecchi lati.

— Per me niente sugo — disse Hasson quando Ginny agguantò un enorme mestolo.

— Il sugo ci vuole — ribatté lei, poi ricoprì la roba nel suo piatto di un sugo denso e glielo mise davanti. Lui guardò Werry, sperando che l’altro avrebbe tenuto fede ai suoi doveri di ospite andandogli in soccorso, ma Werry sorrideva con aria giuliva a May e cercava di strapparle un nastro dai capelli. Indossava ancora l’uniforme, senza berretto, e sembrava un soldato di leva che amoreggiasse con una ragazza nuova. May rispondeva con occhiate arcigne, scuoteva la testa e si lisciava di continuo i capelli con le mani, un gesto che forse intendeva mettere in rilievo la voluttuosità del suo seno. Hasson era affascinato suo malgrado, e si sentì distrutto dalla scoperta che nell’attimo della massima tensione lo sguardo di May, innocente, era posato sul suo viso. Disperato, mentre attendeva che Ginny si mettesse a sedere, si distrasse col whisky, bevendo piccoli sorsi che gli bagnavano appena le labbra. I mesi che lo aspettavano gli parvero d’improvviso insopportabili, un test di resistenza cui non avrebbe resistito a meno di irrobustire immediatamente le proprie difese.

— Al — disse, mantenendo la voce su un tono disinvolto — qui vicino ci sono dei negozi dove potrei comperare o noleggiare un televisore portatile?

Werry inarcò le sopracciglia. — Che idea balorda! Abbiamo uno schermo tridimensionale in salotto. — È lungo due metri. May e Ginny lo guardano sempre, e tu puoi guardarlo con loro quando ti pare. Non è vero, May?

May annuì. — Stasera c’è il night club Nabisco.

Hasson tentò di sorridere. Non riusciva a confessare che voleva chiudersi nella sua stanza e trasformarla in un avamposto della sua patria, guardando solo gli spettacoli inglesi trasmessi via satellite. — Ah… Dormo molto poco, di questi giorni. Di queste notti, dovrei dire. Mi serve un televisore in camera per quando non riesco ad addormentarmi.

— Gli altri hanno bisogno di dormire — notò Ginny Carpenter, sedendosi a tavola con un piatto stracolmo.

— Userò gli auricolari. Non c’è…

— Mi pare uno spreco di denaro, visto che abbiamo uno schermo tridimensionale da due metri in salotto — disse Werry, senza capire. — Comunque, ti dico cosa voglio fare: ti porto in città martedì mattina e ti presento al mio amico Bill Ratzin. Ti farà un buon prezzo.

Hasson eseguì un calcolo mentale e decise che non poteva aspettare quattro giorni. — Grazie, ma se non ti spiace preferirei…

— Qui si sciupa del buon cibo — disse Ginny. Hasson abbassò la testa e cominciò a mangiare. La bistecca di alce era più sopportabile di quanto avesse temuto, ma il sugo aveva un forte sapore di coniglio e dopo qualche boccone gli fu impossibile proseguire. Per far passare il tempo cominciò a masticare delle fettine di carota abbondantemente innaffiate di zucchero grezzo, che per lui erano come dolci. Werry fu il primo a notare il suo scarso appetito e prese a incitarlo grossolanamente. La smise solo quando Ginny spiegò che una persona abituata a un’alimentazione povera trovava spesso difficile abituarsi a cibi ricchi. Hasson riuscì a escogitare diverse repliche salaci, ma ogni volta che pensò di tradurle in parole rivide gli occhi azzurri di suo padre, colmi di panico, e risentì la sua voce familiare che gli diceva: «Ti guarderanno tutti». May Carpenter continuò a lanciargli occhiate di simpatia e fece parecchi tentativi, scopertamente diplomatici, per indurlo a parlare del viaggio, ma riuscì solo a farlo sentire più goffo e inetto che mai. Hasson concentrò tutta la sua attenzione nell’assicurarsi che nemmeno una briciola di cibo s’infilasse nelle ulcere che aveva in bocca, e pregò che il pranzo terminasse.

— Ottimo — annunciò Werry subito dopo aver bevuto il caffè. — Passo in ufficio un’oretta, tanto per vedere se ho ancora un ufficio, poi vado a prendere Theo a scuola e lo porto a casa.

Cogliendo la palla al balzo, Hasson seguì Werry nell’ingresso. — Senti, Al, sarà meglio che ti confessi… sono diventato un fanatico della televisione da quando ci sono gli apparecchi tridimensionali. Posso venire in città con te a comperarmi un televisore, oggi pomeriggio?

— Se è questo che vuoi… — Werry sembrava perplesso. — Mettiti il cappotto.

Uscendo, Hasson vide subito che il tempo era cambiato. In cielo si era radunata una formazione di nuvole basse, e l’aria aveva un odore freddo, metallico, che prometteva altra neve. Su quello sfondo plumbeo, le autostrade aeree della rete di controllo traffico, scolpite nella luce, risplendevano vivaci ed erano solide come tubi al neon. Il cielo buio ricordò ad Hasson i pomeriggi d’inverno in Inghilterra, ed ebbe l’effetto di rialzargli un po’ il morale. In un mondo grigio, la sua camera da letto sarebbe diventata un bozzolo di calore e sicurezza, con la porta chiusa a chiave e le tendine abbassate, e un televisore e una bottiglia a tenergli compagnia, liberandolo dalla necessità di pensare o vivere una vera esistenza.

Mentre raggiungevano il centro della città, si guardò attorno con qualcosa di simile alla felicità. Vedeva dappertutto scene da cartolina natalizia. La macchina stava viaggiando sulla via principale quando la radio emise un sibilo e arrivò una chiamata.

— Al, sono Henry Corzyn — disse una voce d’uomo. — Lo so che oggi non volevi chiamate perché è arrivato tuo cugino e via dicendo, ma qui c’è una CA seria e penso che faresti meglio a venire.

— Una collisione aerea? — Werry sembrava interessato, ma non particolarmente preoccupato. — Qualcuno ha preso una scorciatoia? Ha saltato i raggi laser?

— No. Dei ragazzi scendevano a razzo all’imbocco est, e uno ha fatto male i calcoli ed è andato a finire diritto su un tizio. Potrebbero essere morti tutti e due. È meglio che tu venga subito, Al.

Werry bestemmiò di cuore, si fece dare l’indirizzo e svoltò in una strada che andava ad est. Accese le luci d’emergenza e la sirena, e il traffico già scarso si trasformò, davanti a loro, in un grigio confuso.

— Mi spiace, Rob — disse. — Cercherò di sbrigarmela il più in fretta possibile.

— Non preoccuparti — disse Hasson, e tutta la sua sicurezza si frantumò. Nel corso della sua carriera aveva visto parecchie volte i risultati di incidenti per discesa a razzo, e sapeva in quale tipo di situazione si stava precipitando Werry. Con l’avvento dell’automobile, l’uomo si era trasformato nella più veloce creatura sulla faccia della Terra, gli era stata regalata una nuova dimensione di libertà. Per molti individui quella libertà si era dimostrata eccessiva, e ne era risultato un tasso di mortalità simile a quello prodotto da mali più antichi come la guerra, le carestie e le malattie. Poi l’uomo aveva imparato a padroneggiare la gravità, sfruttandone la forza a proprio vantaggio, ed era diventato la più veloce creatura dell’aria. E con questa nuova libertà (guizzare con le allodole e superare le aquile, cavalcare l’arcobaleno e inseguire il tramonto) il Quinto Cavaliere, quello che cavalcava un destriero alato, si era preso la rivincita definitiva.

I ragazzi che un tempo si sarebbero uccisi, trascinando nella rovina qualche amico, con l’aiuto di una motocicletta o di una macchina veloce, adesso avevano a disposizione tutto un nuovo repertorio di prove pericolose, studiate per dimostrare la loro immortalità, anche se spesso dimostravano il contrario. Uno dei giochi preferiti era la battaglia aerea: due volatori, arrivati in alto, si afferravano a vicenda e piombavano giù come pietre, visto che i campi antigravitazionali si annullavano reciprocamente. Il primo che si liberava e riprendeva a controllare la caduta era considerato vinto; e l’altro (specialmente se spegneva il campo e prolungava la caduta fino all’ultimo istante possibile) era considerato vincitore, anche se spesso il vincitore perdeva perché calcolava male la propria altezza e andava a finire su una sedia a rotelle, o su una lastra di marmo.

La discesa a razzo era un altro di quei giochi, eseguito nei giorni in cui i banchi di nuvole nascondevano i giocatori agli occhi della legge. Le regole dicevano che bisognava salire al di sopra delle nuvole su un’autostrada aerea, spegnere il campo antigravità e piombare su una corsia affollata di volatori, preferibilmente senza mai usare il campo per regolare la traiettoria di caduta. Lo scopo del gioco era far nascere la paura nell’animo del serio, banale volatore che tornava a casa dopo il lavoro, e in genere lo scopo veniva raggiunto: chiunque pensasse obiettivamente alla cosa capiva l’impossibilità di determinare l’angolazione della rotta con la precisione necessaria a evitare il pericolo di collisioni. Più di una volta Hasson aveva iniettato droghe antidolorifiche al proiettile umano e al bersaglio umano, e poi, impotente, era rimasto a guardare il Quinto Cavaliere che aggiungeva nuove tacche a forma di bara alla sua collezione.

Werry accese il microfono. — Henry, hai identificato qualcuno?

— Sì. Il ragazzo che s’è buttato dovrebbe essere Martin Prada, con domicilio a Stettler. — Ci fu un momento quasi-silenzio dalla radio. — Può darsi che sia rimasto chiuso al Chinook per tutta la mattinata. Se ieri sera hanno tenuto una riunione lì, forse stanno diventando un po’ irrequieti. Le nuvole si sono mangiate l’hotel circa un’ora fa, per cui sono liberi di andare e venire come pare loro.

— E l’altro?

— So solo che non è uno di qui. A giudicare dal corpetto, direi che viene dall’America.

— Siamo a posto — disse Werry, amaro. — Il ragazzo si drogava?

— Al, mentre scendeva ha colpito un palo della luce — disse la radio in tono lamentoso. — Non vorrai che mi metta a frugare in quel macello per cercare i segni delle siringhe.

— Va bene. Arrivo tra un paio di minuti. — Werry chiuse il contatto radio e diede un’occhiata di traverso ad Hasson. — Se c’è di mezzo un cittadino americano, i giornali si metteranno a strillare. Non sono scalognato?

«Lui o tu?» pensò Hasson. Poi chiese: — Com’è la situazione con la droga?

— Le droghe tradizionali sono scomparse, a parte un certo traffico di LSD, ma l’empatina sta diventando un grosso problema. — Werry tese lo sguardo avanti, a scrutare l’orizzonte, e scosse la testa. — Questo non lo capisco proprio, Rob. Posso capire che dei ragazzi vogliano salire di giri, ma che poi vogliano entrare nelle teste degli altri, pensare i pensieri degli altri… Sai, certe notti ce li ritroviamo in ufficio e per un paio d’ore, finché la droga non smette di fare effetto, non sanno proprio chi sono. A volte due ragazzi ci danno lo stesso nome e lo stesso indirizzo. Uno dei due crede di essere l’altro! Perché lo fanno?

— È una faccenda di gruppo — disse Hasson. — L’identità di gruppo è sempre stata importante, e l’epidemia la rende possibile.

— Questa roba la lascio agli psichiatri. — Werry spense la sirena. Davanti a loro era apparso uno sciame di veicoli con le luci accese. Si erano lasciati alle spalle la periferia della città e adesso avevano attorno un paesaggio desolato, bianco, che sembrava abbandonato per l’eternità. Paralleli alla strada, ma più in alto di centinaia di metri, c’erano due tunnel aerei con l’imboccatura a campana, proiezioni bilaser color giallo e magenta, che guidavano i volatori in entrata o uscita dalla città. C’era un flusso continuo di viaggiatori lungo quei tubi impalpabili, ma molti altri veleggiavano a diversi livelli di aria calda, richiamati dall’attività a terra.

Werry fermò la macchina accanto alle altre, scese, s’incamminò sulla neve verso un gruppo di uomini che comprendeva anche due poliziotti in tuta da volo. Sul terreno, tra l’ammasso di gambe, c’erano due oggetti coperti da teli di plastica nera. Hasson distolse lo sguardo e pensò con tutta la sua forza al televisore, quando un uomo sollevò i teli per permettere a Werry di esaminare quello che c’era sotto. Werry parlò agli altri per un minuto, poi tornò alla macchina, spalancò la portiera posteriore e tirò fuori la sua tuta da volo.

— Devo salire un attimo — gli disse, infilandosi la tuta a isolamento termico. — Henry ha raccolto un paio di segnali sul radar e pensa che lassù ci sia ancora qualcuno di quei delinquenti.

Hasson fissò le nuvole che oscuravano tutto. — Sono matti, se stanno ancora lì.

— Lo so, però dobbiamo salire e accendere qualche faro e rimettere un po’ le cose a posto. I buoni cittadini devono vederci al lavoro. — Werry chiuse le ultime cerniere della tuta e cominciò a infilarsi il corpetto AG. Sembrava ancora una volta deciso e competente, mentre allacciava le diverse cinghie. — Rob, mi spiace chiedertelo, ma non potresti tornare indietro con la macchina e prendere Theo all’uscita della scuola?

— Penso di riuscirci, se mi indichi la strada.

— Non te lo chiederei, ma gli avevo promesso di andarlo a prendere.

— Al, non c’è problema — disse Hasson, chiedendosi perché mai l’altro fosse così diffidente.

— Un piccolo problema c’è. — Werry esitò. Sembrava stranamente imbarazzato. — Sai… Theo è cieco. Dovrai farti riconoscere.

— Oh. — Hasson non trovava le parole. — Mi spiace.

— Non è una cecità permanente — aggiunse subito Werry. — Tra un paio d’anni lo rimetteranno a posto. Starà benissimo, tra un paio d’anni.

— Come faccio a riconoscerlo?

— Non c’è problema. Non va ad una scuola differenziale. Cerca un ragazzo con un bastone a sensori.

— Benissimo. — Hasson si concentrò nell’assorbire le istruzioni per raggiungere la scuola, immaginò che tipo di rapporto fosse possibile con un ragazzo cieco. Nel frattempo, controvoglia, si trovò affascinato dai preparativi di Werry al volo, dai rituali istintivi che un professionista non trascurava mai prima d’avventurarsi in un ambiente pericoloso. Tutte le cinghie ben allacciate in posizione di sicurezza. Le luci alle spalle e alle caviglie che funzionavano. Le batterie in buone condizioni, che generavano il voltaggio necessario. Tutte le reti, le corde e i tascapane necessari a un poliziotto, presenti e riempiti a dovere. Impianto di comunicazione funzionante. Visiera abbassata e radar dell’elmetto funzionante. Generatore di campo AG riscaldato e comandi sul pannello della cintura nella posizione esatta.

Seguendo col cervello e con la mente i preparativi per il volo, Hasson si trovò per un attimo a immaginare quello che veniva dopo (il salto tranquillo che si trasformava in una salita verso l’alto, la sensazione di cadere in alto, i campi e le strade che rimpicciolivano sotto), e i muscoli del suo stomaco si contrassero, inviandogli un sapore di bile in gola. Deglutì a fatica e cercò di distrarsi mettendosi dietro il volante, esaminando il cruscotto.

— Ci vediamo a casa — disse Werry. — Tornerò appena posso.

— Ci vediamo — disse Hasson, flemmatico, rifiutandosi di prestare troppa attenzione a Werry che muoveva un comando sulla cintura e si sollevava nel cielo grigio, freddo, al centro di un’invisibile sfera d’energia: un micro-universo personale dove alcune leggi basilari della natura erano capovolte. Gli altri due poliziotti si alzarono in volo nello stesso istante, le gambe tese, la testa rivolta all’insù, e si addentrarono con cautela in uno spazio sovraffollato.

Hasson accese il motore, fece inversione di marcia in tre manovre e si avviò verso la città. Benché fossero le prime ore del pomeriggio, il cielo si era visibilmente oscurato con l’infittirsi delle nubi. Le colorate figure geometriche della rete controllo traffico di Tripletree spiccavano vivaci ai limiti della sua visuale. Arrivò al centro commerciale senza difficoltà, aiutato dal fatto che la struttura urbanistica della città consisteva in un semplice quadrato, e stava di nuovo per uscirne in direzione ovest quando all’improvviso gli tornò in mente il televisore che desiderava. Rallentò, cominciò a studiare i negozi che gli sfilavano accanto, e nel giro di pochi secondi identificò una rivendita di elettrodomestici. Parcheggiò a pochi metri di distanza dalla vetrina piena d’oggetti, godendo di una gioia tremula all’idea di trovarsi al sicuro per quella sera e per tutte le sere a venire. Quando impugnò la maniglia, la porta a vetri rifiutò di aprirsi.

Indietreggiò e fissò l’interno illuminato del negozio con occhi increduli, chiedendosi perché mai un negozio del centro, per quanto piccolo, fosse chiuso a quell’ora. Bestemmiò la sfortuna; si sentì sconfitto e perseguitato. Poi si accorse di un uomo che lo scrutava dalla vetrina di un negozio vicino. Ribellandosi all’idea di rinunciare al suo talismano elettronico quando lo aveva a portata di mano, entrò nell’altro negozio e scoprì che vendeva cibi naturali. Gli scaffali traboccavano di pacchetti e bottiglie, e l’aria sapeva di diversi odori in contrasto fra loro: lievito, malto, erbe. Dietro un banco disordinato c’era un uomo piccolo, sulla mezza età, di origine asiatica, che lanciò ad Hasson un’occhiata sagace, piena di simpatia.

— Il negozio vicino — disse Hasson. — Cosa succede? Perché non c’è nessuno?

— Ben è uscito cinque minuti. — L’omino aveva una voce asciutta. — Torna subito.

Hasson si rabbuiò, spostò il peso del corpo da un piede all’altro. — Non posso aspettare. Ho un appuntamento.

— Ben tornerà a minuti, forse a secondi. Non le creerà ritardi, signor Haldane.

Sorpreso, Hasson fissò l’altro. — Come fa a conoscere il mio…

— Guida la macchina di Werry, il capo della nostra polizia, e ha un accento inglese. — Gli occhi dell’uomo ammiccarono allegramente. — Semplice, no? Spreco tutte le mie possibilità di sembrare misterioso e imperscrutabile, ma con un nome come Oliver è inutile che giochi troppo a fare l’orientale, non crede?

Hasson scrutò freddamente l’omino, chiedendosi se lo stava prendendo in giro. — È sicuro che torni subito? — Certissimo. Se vuole, può aspettare qui.

— Grazie, ma…

— Forse posso venderle quello che le occorre.

La frase insolita, più un indefinibile tono nella voce dell’altro, risvegliarono il poliziotto che dormiva in Hasson, spingendolo a chiedersi cosa significasse quell’offerta. La sua mente passò in rassegna diverse possibilità (droga, donne, gioco d’azzardo, contraccettivi, merce rubata), poi decise che solo un pazzo avrebbe offerto roba del genere a un parente del capo della polizia, cinque minuti dopo averlo conosciuto. E Oliver, qualunque altra cosa potesse essere, non era un pazzo.

— Non ho bisogno di niente. — Hasson prese una bottiglietta di pastiglie verdognole, scrutò incuriosito l’etichetta e la rimise giù. — Sarà meglio che vada.

— Signor Haldane! — Il tono di Oliver era sempre gentile, i modi cortesi, ma la sua voce inquietava Hasson. — La sua vita è di competenza esclusivamente sua, ma c’è qualcosa che non va, e io posso aiutarla. Mi creda, posso aiutarla.

«Bel trucchetto» pensò Hasson, sulla difensiva. Stava scegliendo le parole per battere in ritirata quando un uomo corpulento, coi capelli grigi, passò davanti alla vetrina e salutò Oliver. Quasi immediatamente si udì squillare il campanello della porta nel negozio vicino. Hasson s’incamminò verso l’uscita, felice di non dover dire niente.

— Arrivederci, signor Haldane. — Oliver sorrise, impietosito più che irritato per la perdita di un possibile cliente. — Spero di rivederla.

Hasson si fermò all’esterno, nell’aria fredda e pungente. Gli sembrava di essere sfuggito per il rotto della cuffia a qualcosa. Poi corse nel negozio di elettrodomestici. Gli ci vollero meno di cinque minuti per acquistare un piccolo televisore tridimensionale. Spese parte dei dollari che gli avevano dato prima di lasciare l’Inghilterra. Trasportò l’apparecchio alla macchina, lo adagiò cautamente sul sedile posteriore e ripartì in direzione ovest, verso la scuola. La individuò da lontano perché due proiezioni bilaser a forma d’albero la collegavano alla rete di controllo del traffico aereo. Hasson vide centinaia di minuscole figurine, studenti e genitori, che s’innalzavano al di sopra dei tronchi color rubino e si disperdevano a differenti altitudini.

La scuola era un insieme di edifici non troppo moderni, disposti attorno a un’ampia area di decollo e a un parcheggio. Alcuni studenti e pochi professori uscivano ancora dalle porte, il che rassicurò Hasson di non essere in ritardo. Fermò la macchina e scese in cerca di Theo Werry. La schiena gli diede un dolore minimo. C’erano diversi gruppetti di ragazzi nel raggio di qualche metro, e tutti erano pieni di energia e allegria: sentivano la libertà dell’aria aperta dopo la prigionia della scuola.

Quasi tutti sembravano interessarsi solo di quello che succedeva attorno a loro, ma Hasson notò che il suo arrivo sull’auto della polizia aveva prodotto dei cambiamenti in un gruppo. I ragazzi si erano stretti fra loro per pochi secondi, poi il gruppo si era riformato secondo uno schema che permetteva a quasi tutti di osservare i suoi movimenti. Gli occhi allenati di Hasson, automaticamente, notarono i mormorii, l’agitarsi dei piedi, e soprattutto il lieve tendersi delle spalle: qualche bulletto cullava pensieri violenti.

La forza dell’abitudine lo costrinse a cercare di delineare la distribuzione del potere all’interno del gruppo. Individuò subito un tipo coi capelli rossi in tuta da volo, sui diciott’anni (più vecchio degli altri di tre o quattro anni), che aveva un atteggiamento tutto particolare nei confronti degli altri e che di tanto in tanto si grattava il naso, lo sguardo fisso in avanti. «Perché lo faccio?» si chiese Hasson, e notò le cinture non regolamentari, piene di decorazioni, del corpetto AG del ragazzo. Sulla tuta da volo si distinguevano leggere impronte rettangolari, a indicare che le pezze di materiale fluorescente erano state strappate per rendere più difficile l’identificazione del volatore. La tuta sembrava umida, come se fosse passata da poco attraverso le nubi. In quel momento, un ragazzo del gruppo, più giovane, si girò verso il rosso, e Hasson sentì una contrazione nervosa allo stomaco: il ragazzo teneva in mano un bastone a sensori, bianco e sottile. Poi s’incamminò verso Hasson, scrutato dai compagni.

Hasson racimolò un sorriso di benvenuto e lo lasciò dissolvere in un limbo incerto quando ricordò che l’altro non poteva vederlo. Theo Werry era un ragazzo alto, nero di capelli, con lineamenti fini, pelle pallida, e un’ombra di barba e baffi che indicava l’avvicinarsi dell’età adulta. I suoi occhi erano chiari e normali, sembravano perfettamente funzionanti. Solo la testa inclinata all’indietro e un’innaturale serenità d’espressione rivelavano che era cieco. Hasson provò un insieme di rabbia e compassione così intenso da sconvolgerlo, e si aggrappò subito col pensiero a quanto gli aveva detto Al Werry: il ragazzo sarebbe guarito presto. Rimase immobile mentre Theo gli si avvicinava. Il ragazzo camminava piano ma sicuro, mettendo il bastone nella posizione migliore per sapere dagli invisibili raggi laser dove si trovava Hasson, e com’era fatto.

— Ciao, Theo — disse Hasson. — Sono Rob Haldane. Tuo padre ha avuto da fare sul lavoro, per cui ha chiesto di venirti a prendere.

— Salve. — Theo aggiustò l’auricolare che traduceva i segnali del bastone in impulsi acustici. Tese la sinistra. Hasson la strinse con la sua sinistra, attento a che la stretta fosse vigorosa.

— Mi spiace averle dato disturbo — disse Theo. — Potevo tornare a casa da solo.

— Nessun disturbo. — Hasson spalancò per Theo la portiera della macchina della polizia. — Vuoi salire? — Fu sorpreso nel vedere che Theo scuoteva la testa.

— Preferirei tornare in volo, se non le spiace. È tutto il giorno che sto chiuso.

— Ma…

— Tutto a posto — aggiunse in fretta il ragazzo. — Ho il permesso di volare, se mi aggancio a qualcun altro. La mia tuta e il corpetto sono nel portabagagli.

— Tuo padre non mi ha avvisato. — Hasson cominciava a sentirsi a disagio. — Mi ha chiesto di riportarti a casa in macchina.

— Ma è tutto a posto, sul serio. Torno spesso in volo. — Nella voce di Theo si era insinuata l’impazienza. — Barry Lutze si è offerto di venire con me, ed è il miglior volatore di Tripletree.

— È quel rosso con cui stavi parlando?

— Sì. Il miglior volatore della regione.

— Davvero? — Hasson puntò gli occhi su Lutze, che immediatamente voltò la testa e fissò lo sguardo in lontananza, strofinandosi le narici tra pollice e indice.

Theo sorrise. — Posso avere la tuta e il corpetto, per favore?

Hasson continuò a studiare Lutze e prese una decisione. — Mi spiace, Theo. Non posso prendermi questa responsabilità senza il consenso di tuo padre. Lo vedi in che posizione mi trovo, no?

— Io? Io non vedo niente. — Theo era amareggiato. Individuò la macchina col bastone, salì e si sedette. Osservato minuziosamente dagli altri ragazzi, Hasson si accomodò dietro il volante e cercò di non sobbalzare quando i nervi della schiena reagirono violentemente alla flessione del corpo. Accese il motore, si allontanò dall’area di decollo e tornò verso la città. Theo si chiuse in un silenzio imbronciato.

— È un brutto giorno per volare, comunque — disse Hasson dopo un po’. — Troppo freddo.

— Il chinook riscalda l’aria, in alto.

— Oggi non c’è chinook. Solo nuvole basse e un vento catabatico che scende dalle montagne. Credimi, è meglio così.

Theo mostrò segni d’interesse.

— Lei vola molto, signor Haldane?

— Ah… No. — Hasson capì di avere commesso un errore a tirar fuori l’argomento del volo con un ragazzo innamorato del cielo. — Non volo affatto, a dire il vero.

— Oh. Mi dispiace.

— Non preoccuparti. — Il fatto che il ragazzo si fosse scusato indicava che per lui il non volare era qualcosa di cui vergognarsi, e a dispetto di quello che gli suggeriva il buonsenso, Hasson decise che non aveva voglia di lasciar cadere l’argomento. — Non c’è niente di male a viaggiare un po’ comodi, sai.

Theo scosse la testa e rispose con fede cieca. — Bisogna volare. Appena vedrò di nuovo andrò a vivere lassù. È l’unica cosa possibile.

— E chi lo dice?

— Barry Lutze, per fare solo un nome, e lui lo sa bene. Barry dice che un buon volatore si vede a occhio. Hasson riconobbe l’allarmante eco del credo degli angeli, la linea di pensiero non sistematica e semi-istintiva, troppo rozza per essere ritenuta una filosofia, che nasceva nella mente di chi volava alto sulla Terra lontana, credendosi un superuomo. Era una fede pericolosa, e a lui sembrava di non aver fatto altro che combatterla per l’intera vita. Ricordò l’umidità condensata sulla tuta di Lutze e ancora una volta, al di là della sua volontà, il poliziotto che era in lui cominciò a voler controllare alcune idee.

— Pare che Barry ti racconti un sacco di cose — disse. — Lo conosci bene?

— Piuttosto bene — rispose Theo, con semplice orgoglio. — Mi parla molto.

— Oggi pomeriggio era su fra le nuvole?

L’espressione di Theo si alterò. — Perché vuole saperlo?

— Non c’è alcun motivo particolare — disse Hasson, comprendendo di essersi tradito. — M’interessa, così. Era in volo?

— Barry passa quasi tutto il tempo in volo.

— Non è la stagione che io sceglierei per andare a scavare buchi fra le nuvole.

— Chi ha detto che volava fra le nuvole?

— Nessuno. — Hasson, ormai ansioso di abbandonare la discussione, scrutò le file di edifici sconosciuti davanti alla macchina. — Non sono certo di ricordare la strada di casa.

— C’è una specie di edificio di vetro marrone, al prossimo incrocio? — chiese Theo. — Un negozio di arredamento che ha sul tetto la proiezione di una grande poltrona?

— Sì. È qui davanti.

— Allora lì svolti a sinistra e segua la strada fino a raggiungere la circonvallazione nord. È un giro un po’ più lungo, ma è il più facile se non si conosce bene la strada.

— Grazie. — Hasson eseguì le istruzioni e guardò incuriosito il suo passeggero, chiedendosi se Theo ci vedesse almeno un po’.

— Riesco appena a distinguere il giorno dalla notte — disse Theo — ma ho una buona memoria.

— Non volevo…

Theo sorrise. — Tutti si sorprendono nello scoprire che non sono del tutto impotente. Ho in testa una mappa della città e lì controllo la mia posizione. Giro anche un po’ per le strade.

— È magnifico. — Hasson era impressionato dalla forza d’animo del ragazzo.

— La cosa non funziona in aria, è tutto.

— No, ma sarai guarito fra un paio d’anni, vero?

Il sorriso di Theo si screpolò. — Ha parlato con mio padre.

Hasson si morsicò le labbra: ecco un’altra prova che Theo era una persona estremamente sensibile, e che le discussioni sciocche non gli interessavano. — Tuo padre mi ha detto che ti opereranno, o qualcosa del genere, fra un paio d’anni. Forse ho capito male.

— No, ha capito benissimo — rispose tranquillamente Theo. — Devo solo aspettare altri due anni, e non è niente, no? Niente di niente.

— Questo non lo direi — mormorò Hasson, desiderando che la conversazione non fosse mai iniziata, desiderando di potersi trovare al sicuro nella sua stanza, solo, con la porta chiusa e le tendine tirate e il mondo ridotto alle dimensioni di uno schermo televisivo. Strinse le dita sul volante e si concentrò sui cartelli stradali della via che puntava a nord, girando attorno alla periferia. La strada passava per una trincea che la chiudeva tra alti banchi di neve: scomparso ogni segno di abitazione, ad Hasson sembrava quasi di guidare in un territorio selvaggio.

Stava guardando un triangolo di cielo color ardesia che si apriva a riceverlo, quando qualcosa colpì la macchina con tanta forza da far sobbalzare leggermente le sospensioni. L’impatto doveva essersi verificato sul tetto, ma dal tetto non cadde niente.

Theo si protese in avanti. — Cos’è stato?

— Credo che abbiamo compagnia — rispose Hasson. Sfiorò dolcemente i freni, e nello stesso istante scese giù un volatore. Si fermò un centinaio di metri più avanti. Era un omone che indossava una tuta da volo nera, un corpetto con cinture fluorescenti arancioni e, nonostante la luce scarsissima, occhiali da sole a specchio. Hasson riconobbe immediatamente Buck Morlacher e immaginò che il suo socio, Starr Pridgeon, si trovasse in quel momento sul tetto della macchina: aveva calcolato in volo la loro velocità e li aveva centrati. Un impulso d’irritazione, più che rabbia, lo spinse a reagire come ai vecchi tempi. L’automobile stava decelerando con regolarità, avvicinandosi a Morlacher, ma Hasson schiacciò i freni con un colpo secco e fece arrestare bruscamente il veicolo. Una figura in tuta blu rotolò lungo il parabrezza, andò a sbattere sul muso della macchina e scivolò fino a terra.

Hasson, già pentito del gesto impulsivo, s’immobilizzò. La figura si rimise in piedi e lui vide la faccia sottile, acida, di Starr Pridgeon che si avvicinava. Pridgeon spalancò la portiera dalla parte del volante, e i suoi occhi si riempirono di sorpresa.

— Ehi, Buck — gridò — non è Werry. È quel suo maledetto cugino inglese.

Morlacher si fermò un attimo, poi s’incamminò di nuovo verso l’auto. — Ad ogni modo parlerò con lui.

— Bene. — Pridgeon infilò la testa in macchina. La sua faccia toccava quasi quella di Hasson. — Che razza di idea è stata? — sussurrò. — Chi ha avuto l’idea di farmi volare in strada a quel modo?

Hasson, annichilito dall’apprensione, scosse la testa, e rispose con le stesse parole che Pridgeon aveva usato quando era precipitato addosso ad Al Werry. — È stato soltanto un incidente.

L’espressione di Pridgeon divenne omicida. — Vuoi che ti tiri fuori di lì?

— È stato un incidente — disse Hasson, lo sguardo fisso in avanti. — Non sono pratico della macchina. — Se pensassi che hai abbastanza…

— Via — disse Morlacher a Pridgeon, comparendogli a fianco. Pridgeon si ritirò con un’occhiata torva, fece il giro dell’automobile e fissò Theo Werry. Il ragazzo restò immobile, calmo.

Morlacher infilò la testa a scrutare Hasson. — Com’è che ti chiami? Halford o qualcosa del genere, no?

— Haldane.

Morlacher digerì per un attimo l’informazione. I due triangoli rossi spiccavano sullo sfondo roseo della sua faccia. — Dov’è Werry?

— Nella zona est della città — rispose Hasson, sottomettendosi all’interrogatorio. — C’è stata una CA.

— Una… cosa? — chiese sospettosamente Morlacher.

— Una collisione aerea, con due morti. È dovuto restare lì.

— Doveva esserci prima che qualcuno venisse ucciso. — Morlacher parlava sui toni di una rabbia repressa a stento, un fatto che Hasson notò e trovò leggermente incomprensibile: non gli era parso che Morlacher fosse un tipo particolarmente sensibile o attento ai problemi comunitari. Stava ponderando quel fatto quando udì un clic alla sua destra. Girando la testa scoprì che Pridgeon aveva spalancato l’altra portiera e fissava Theo con una specie d’interesse clinico, meditabondo. Theo, anche se doveva aver sentito il rumore e la corrente d’aria fredda, non si mosse.

Hasson tentò di non soffermarsi su quel fatto. — È difficile essere presenti prima di un incidente.

— I miei coglioni, un incidente — grugnì Morlacher. — Quello non è stato un incidente. Quei fetenti di ragazzi pieni di droga uccidono e se la cavano. Noi gli permettiamo di cavarsela.

— È morto anche uno dei ragazzi.

— Credi che questo sistemi le cose?

— No. — Hasson fu costretto ad ammetterlo. — Però dimostra…

— La persona che è stata colpita non era uno qualunque, sai. Era un tipo importante in visita al nostro paese. Un tipo importante, e guarda cosa gli succede!

— Lo conosceva? — L’attenzione di Hasson fu distolta dall’argomento dal fatto che Pridgeon aveva teso una mano e la teneva a nemmeno un centimetro dal naso di Theo. Il ragazzo ne avvertì la presenza quasi immediatamente e spostò la testa all’indietro. La bocca di Pridgeon ebbe una smorfia di piacere sotto i baffi ispidi, e l’esperimento venne ripetuto, questa volta con la mano un po’ più lontana. Hasson fissò le proprie mani che stringevano il volante e cercò di capire quello che gli stava dicendo Morlacher.

— … Su tutti i giornali di stasera — stava tuonando l’omone — e lo sai quale sarà il messaggio? Te lo dico io quale sarà il messaggio. Diranno che non è sicuro volare a nord di Calgary. Diranno che questa è una zona da cowboy. Stammi a sentire, ce n’è abbastanza perché uno… — I denti affilati di Morlacher si chiusero con uno scatto secco, interrompendo il flusso di parole. La sua rabbia aveva oltrepassato i limiti dell’articolazione coerente.

Hasson lo guardò muto, disperato, sconfitto, chiedendosi cosa sarebbe successo, chiedendosi se quei due delinquenti avrebbero scelto la via della violenza su un uomo malato e un ragazzo cieco. Al suo fianco, Theo dondolava la testa da una parte e dall’altra, nello sforzo di sfuggire all’invisibile vicinanza della mano di Pridgeon.

— Quando vedi Werry digli che ne ho abbastanza — concluse Morlacher. — Digli che ne ho piene le scatole di faccende di questo tipo e che andrò a fargli visita a casa. Capito?

— Glielo dirò — rispose Hasson, sollevato nel vedere che la mano di Morlacher si era posata sui comandi della cintura.

— Andiamo, Starr. Abbiamo del lavoro da fare. — Morlacher mosse un comando e fu scaraventato in cielo, scomparendo dalla ristretta visuale di Hasson in una frazione di secondo. Dall’altra parte della macchina, Pridgeon fece schioccare sonoramente le dita davanti al viso di Theo, e il ragazzo indietreggiò. Poi passò a un trucco intimidatorio: fissò all’improvviso Hasson con un’occhiata dura, ostile. Si allontanò dalla macchina continuando a fissarlo, spiccò un balzo e scomparve. Il silenzio, adesso, era rotto solo dal vento che passava nella portiera spalancata della macchina.

Hasson uscì in una risata incerta. — Ma che diavolo sarà successo?

Theo serrò le labbra, si rifiutò di parlare.

— Sono stati gentili a venirci a trovare — disse Hasson, cercando di tramutare in allegria la sensazione di vigliaccheria e colpa. — La gente è molto aperta, dalle vostre parti.

Theo chiuse la portiera e scivolò sul sedile, lasciandogli capire che voleva tornare a casa. Hasson respirò a fondo, chiuse la sua portiera e ripartì. Uscirono dalla trincea. Da un lato divennero visibili poche case sparse, alcune con le luci già accese. In ogni altra direzione, una terra sconosciuta si perdeva nel buio di una neve grigia come il cielo. Hasson si sentiva completamente solo.

— Non sapevo di preciso cosa rispondere — disse. Sono in città da poche ore… Non conosco ancora nessuno… Non sapevo come reagire alla situazione.

— Non c’è problema — rispose Theo. — Lei ha reagito esattamente come avrebbe reagito mio padre. Hasson soppesò il commento e capi di essere stato insultato, ma decise di non tirare fuori scuse. — Non capisco perché Morlacher sia così sconvolto. È sindaco o qualcosa del genere?

— No. È solo il nostro caro gangster.

— E allora cosa gli ha preso?

— Sarà meglio che lo chieda a mio padre. Lavora per Morlacher, per cui dovrebbe saperlo.

Hasson guardò Theo e vide che la sua faccia era pallida, tesa. — Ti stai spingendo un po’ troppo in là, no?

— Crede? D’accordo, mettiamola così. — Theo parlava con tanta amarezza da sembrare una persona molto più anziana. — Il signor Morlacher ha dato il lavoro a mio padre, e glielo ha dato perché sapeva che sarebbe stato del tutto inefficiente. L’idea era che il signor Morlacher potesse fare tutto quello che gli pareva senza avere noie con la legge. Adesso la situazione è cambiata. Morlacher ha bisogno di qualcuno che lavori come si deve, e non c’è nessuno che sappia farlo. Sono certo che lei apprezzerà l’umorismo della situazione. L’intera città lo apprezza.

Le parole del ragazzo somigliavano a un discorso attentamente studiato e provato, ripetuto parecchie volte a parecchia gente, e Hasson capì di essere finito in una grande pozzanghera di difficili rapporti familiari. Per quanto scosso dal cinismo di Theo, decise di tirarsi indietro prima di trovarsi coinvolto dai problemi di altra gente. Era in Canada solo per riposarsi e recuperare energie, e al termine del periodo previsto se ne sarebbe andato tranquillamente, libero e felice come un uccellino. Aveva imparato che la vita era già abbastanza difficile…

— Credo che saremo a casa fra pochi minuti — disse. — Qui davanti c’è una strada che mi sembra la circonvallazione nord.

— Svolti a destra e poi prenda la terza a destra — replicò Theo. C’era un’inflessione strana nella sua voce, come se fosse deluso di scoprire che Hasson non reagiva alle sue provocazioni. Si spostò diverse volte sul sedile, e sembrava triste e ben consapevole. Dava l’impressione di essere tutt’altro che tranquillo.

— L’incidente di oggi pomeriggio è stato brutto? — chiese.

— Piuttosto brutto. Due morti.

— Come mai il signor Morlacher parlava di omicidio?

Hasson rallentò all’incrocio. — Per quanto ne so, qualche ritardato mentale è sceso a razzo all’imbocco est, con gli inevitabili risultati.

— Chi dice che sono inevitabili?

— Un certo Isacco Newton. Se qualcuno è matto a sufficienza da spegnere il campo mentre è su per aria, gli ci vogliono solo sette secondi per raggiungere la velocità limite di duecento chilometri l’ora, e se anche cerca di aggiungere dei vettori… — Hasson s’interruppe: gli occhi ciechi di Theo erano puntati su lui. — Cose del genere dobbiamo saperle, noi assicuratori.

— Immagino di sì — disse Theo, pensoso.

Hasson s’immerse nel silenzio, chiedendosi se potessero essere vere le storie che aveva sentito sulla straordinaria sensibilità di alcuni ciechi. Seguì le istruzioni di Theo e fermò la macchina davanti alla casa di Al Werry. Theo aggiustò i controlli del bastone, riportò in funzione i raggi laser, scese dall’auto e s’incamminò verso casa. Hasson raccolse il televisore e seguì il ragazzo, felice di voltare le spalle al mondo immerso nel buio.

L’ingresso sembrava ancora più piccolo del solito, perché Theo si stava togliendo il soprabito al centro della stanza, e questa volta il profumo del caffè si era aggiunto all’odore di cera per pavimenti e di canfora. Il livello di ansietà di Hasson aumentò alla prospettiva di dover entrare in una conversazione con un gruppo di persone quasi estranee. Balzò immediatamente sulla scala, respingendo a fatica l’impulso di fare gli scalini due alla volta prima che si aprisse la porta del soggiorno.

— Di’ ai tuoi che sono andato a disfare le valigie — disse a Theo sottovoce. — Poi mi darò una rinfrescata.

Arrivò al pianerottolo proprio mentre, da sotto, veniva il rumore d’una porta che si apriva. In preda al panico, si precipitò nella sua stanza, adagiò il televisore sul letto e chiuse la porta dietro di sé. Nel crepuscolo, la stanza era buia e strana. Le facce delle fotografie si fissavano tra loro, in silenziosa comunicazione, e avevano già deciso che bisognava ignorare l’intruso. Hasson tirò le tende, accese la luce e si diede da fare a sistemare il televisore su un tavolino accanto al letto. Poi lo accese, dando vita a un palcoscenico in miniatura sul quale minuscole figure umane si agitavano e discutevano in una perfetta simulazione di vita.

Spense la luce, si strappò di dosso lo strato esterno di vestiti e s’infilò a letto con gli occhi fissi su quel microcosmo in technicolor. Tirò su le coperte fino a esserne quasi soffocato, creando un’altra barriera fra se stesso e l’universo esterno. Il freddo del letto, a contatto con la schiena, produsse spasmi dolorosi che lo costrinsero ad agitarsi e rigirarsi per un intero minuto, ma alla fine riuscì a trovare una posizione comoda e allentò la guardia. Servendosi del telecomando programmò il televisore per tutti gli spettacoli trasmessi via satellite, e si accorse immediatamente che, a causa delle differenze di fusi orari, poteva ricevere solo i programmi scolastici delle prime ore del mattino. Alla fine si sintonizzò su un olofilm trasmesso da una stazione locale e si ripromise che alla prima occasione sarebbe tornato al negozio, per acquistare un po’ di cassette di telefilm e sceneggiati inglesi. Nel frattempo si sentiva al caldo, discretamente al sicuro, libero dal dolore, assolto dalla necessità di agire o pensare…


Fu risvegliato dal suo quasi-mondo elettronico da un insistente battere alla porta. Si drizzò a sedere e scrutò la stanza, ormai immersa nel buio, riluttante ad abbandonare il guscio del letto. I colpi proseguirono. Hasson appoggiò i piedi sul pavimento, arrivò alla porta e la spalancò. Scoprì Al Werry che avanzava su di lui, ancora in uniforme.

— Qui dentro non si vede niente — commentò Werry, accendendo la luce. — Dormivi?

— Riposavo — rispose Hasson, ammiccando.

— Buona idea. Sarai in forma per il party di stasera.

Hasson sentì un colpo al petto. — Che party?

— Ehi! Ti sei arrangiato da solo. Ti sei preso il televisore. — Werry raggiunse l’apparecchio e si chinò a esaminarlo, con un’espressione di dubbio in viso. — Com’è piccolo. Quando ci si abitua a uno schermo di due metri come quello che abbiamo giù, aggeggi del genere non valgono più due soldi.

— Stavi parlando di un party?

— Come no. Non sarà una cosa troppo grossa, solo un po’ di amici che vengono a conoscerti e bere un bicchierino, ma ti prometto, Rob, che avrai un vero benvenuto in stile canadese. Ti divertirai un mondo.

— Io… — Hasson guardò la faccia serena di Werry e capì che era impossibile rifiutare. — Non dovevi disturbarti tanto.

— Nessun disturbo. Pensa a come mi avete trattato voialtri in Inghilterra.

Hasson fece un altro tentativo di ricordare il loro primo incontro, la notte di baldoria che Werry cullava ancora nella memoria, ma non ricordava niente. Semmai provava un oscuro senso di colpa. — Oggi pomeriggio ho incontrato il tuo amico Morlacher, fra l’altro.

— Sul serio? — Werry sembrava del tutto disinteressato.

— Ha detto che quel tale rimasto ucciso oggi era un VIP.

— Ma va’! Voleva solo comperare un negozio alle Grandi Cascate. Non meritava di morire, è ovvio, ma era solo un tizio normalissimo in viaggio di lavoro. Un altro dato statistico.

— E allora come mai…?

— Buck dice sempre cose del genere — rispose Werry, perdendo un po’ della sua compostezza. — Si è messo in testa che il Comitato per il Volo Civile possa convincersi a prolungare il corridoio aereo nord-sud oltre Calgary, fino a Edmonton, magari fino all’Athabasca. Va in televisione, raccoglie petizioni, porta qui pezzi grossi pagando di tasca sua… Non capisce che il poco traffico commerciale dalle nostre parti non giustifica la spesa.

Hasson annuì. Immaginava le spese per installare una catena di posti radar automatici, di schermi d’energia e di stazioni con personale umano per trecento chilometri di spazio aereo, senza contravvenire agli standard richiesti dai diversi sindacati di piloti. — E a lui cosa importa?

— C’è il Chinook. Il grande giocattolo. L’albergo in cielo. — Werry s’interruppe, assunse un’espressione oltraggiata. — Buck crede ancora di potersi riprendere un po’ dei soldi del suo vecchio. Per lui è un hotel aereo di lusso, un centro di riunioni, un bordello da un miliardo di dollari, uno stadio per giochi olimpici, il palazzo delle Nazioni Unite, il pianeta di Disney, l’ultima stazione di rifornimento prima di Marte… Vedi un po’ tu. Buck ci crede.

Hasson gli regalò un sorriso comprensivo. Riconosceva la retorica amareggiata di chi soffre da sempre di una ferita al cuore. — Era un po’ eccitato, oggi pomeriggio.

— Cosa si aspetta che faccia?

— Da quello che ho potuto capire, verrà lui a dirti cosa si aspetta. Gli ho promesso che avrei passato parola.

— Grazie. — Werry arricciò il tappeto con la punta dello stivale lucido. — A volte vorrei che… — Diede un’occhiata di traverso ad Hasson e d’improvviso sorrise, tornando a essere lo spavaldo colonnello rivoluzionario. Le sue mani corsero sulla linea esile dei baffi, quasi ad assicurarsi che esistessero ancora.

— Senti, Rob, abbiamo argomenti migliori — gli disse. — Tu sei venuto qui per scordarti il lavoro di poliziotto, e io voglio essere certo che te lo scordi. Voglio che tu ti presenti giù fra trenta minuti, pronto per un party e pieno di sete. Ricevuto?

— È probabile che un goccio mi farebbe bene — rispose Hasson. Gli erano successe troppe cose in un giorno solo, e sapeva per esperienza che ci sarebbe voluto almeno un quarto di litro di whisky per garantirgli un approdo sicuro al sonno, senza sogni di volo.

— Questo sì che è il ragazzo che conoscevo. — Werry gli diede una pacca sulle spalle e uscì in un vortice di correnti d’aria, profumate da uno strano insieme di talco, cuoio e olio per motori.

Hasson lanciò un’occhiata di rimpianto al letto e al piacevole chiarore dello schermo televisivo, poi cominciò in fretta a disfare le valigie. La prospettiva del party, per quanto terribile, gli offriva più scappatoie di una serata trascorsa con Al Werry e gli altri tre membri della famiglia. Probabilmente sarebbe riuscito a infilarsi in un angolo vicino ai liquori e a restarsene tranquillamente seduto fino al momento di andare a letto. E così sarebbe arrivato al giorno dopo, e il giorno dopo avrebbe trovato un modo per rimettersi in forze e sostenere nuovi assalti.

Raccolse i suoi accessori da toilette, aprì di pochi millimetri la porta e rimase in ascolto, per essere sicuro di non dover incontrare May o Ginny Carpenter; poi s’incamminò di buon passo verso il bagno. Sul pianerottolo arrivò davanti a una porta socchiusa, e rimase perplesso nel vedere che la stanza cadeva nel buio e poi veniva di nuovo illuminata ogni pochi secondi. Proseguì. Si chiuse in bagno e passò una quindicina di minuti a fare la doccia e rendersi presentabile. Sperimentò un fenomeno che conosceva da tempo: è sempre un estraneo quello che ti fissa da uno specchio estraneo. L’unica spiegazione che gli paresse accettabile era che la gente, avendo familiarità con l’angolazione del proprio specchio, si mettesse inconsciamente in posa prima di girarsi verso l’immagine riflessa, per ottenere qualcosa che rispondesse ai propri desideri.

Fu colto alla sprovvista dall’immagine di un uomo nero di capelli, muscoloso ma non troppo, con la faccia deformata e irrigidita per l’apprensione attorno alla bocca e agli occhi. Rimase a fissare lo specchio, ricomponendo volontariamente i propri lineamenti, cercando di eliminare le tracce di tensione e di autocommiserazione che aveva scoperto, poi uscì dal bagno e tornò sul pianerottolo. La porta a metà strada era ancora aperta, e la luce nella stanza continuava ad accendersi e spegnersi. Hasson tirò diritto, ma fu subito assalito dal timore di un bizzarro guasto elettrico che potesse dare fuoco all’intelaiatura in legno della casa. Tornò indietro, aprì un poco la porta e guardò nella stanza. Sul letto, a gambe incrociate, era seduto Theo Werry, che teneva davanti agli occhi una lampada da tavolo e schiacciava di continuo l’interruttore. Hasson indietreggiò nel massimo silenzio possibile e tornò alla sua stanza, pieno di vergogna: esistevano mali ben peggiori di ossa infrante e vertebre fratturate.

Con gesti calmi, accurati, indossò un paio di comodi calzoni sportivi e una soffice camicia color castano. Quando ebbe finito di vestirsi, gli ospiti del party cominciavano già ad arrivare. Attraverso il pavimento, a ondate irregolari, gli giungevano le loro voci. Erano forti, rilassate e allegre, com’era naturale per i membri dello scelto club di chi si sentiva a proprio agio in casa di Al Werry, un club cui Hasson non apparteneva. Spalancò tre volte la porta della sua camera, e per tre volte fece dietrofront, prima di trovare il coraggio di scendere.

La prima persona che vide entrando in soggiorno fu May Carpenter, vestita di qualche pezzetto di un diafano materiale bianco tenuto assieme da eleganti catene d’oro. Si girò verso di lui, sorridente, lasciandolo quasi senza fiato: era un’immagine multipla, l’essenza di tutte le idee del sesso cinematografico che gli venivano in mente. Lui ammiccò, cercando di assorbire l’impatto visuale, poi notò altre donne in abbigliamenti altrettanto esotici, e uomini con giacche dai colori vivaci. E capì che, contrariamente all’impressione che gli aveva dato Werry, il party richiedeva un vestito elegante. «Tutti» lo rimproverò una voce silenziosa «ti stanno guardando». Esitò sulla soglia, si chiese se esistesse una via di ritirata.

— Eccolo qui — gridò Al Werry. — Vieni che ti presento la combriccola, Rob. — Werry gli si avvicinò, bicchiere alla mano, assurdamente vestito dell’uniforme. Si era tolto solo la giacca e il berretto. Afferrò Hasson per il gomito e lo guidò verso gli altri.

Non sapendo cosa dire, Hasson gettò un’occhiata all’uniforme di Werry. — Sei di servizio, stanotte?

Werry parve sorpreso. — No, naturalmente.

— Pensavo…

— Questi sono Frank e Carol — lo interruppe Werry, poi si lanciò in una serie spaventosa di presentazioni. Alla fine, Hasson non ricordava nemmeno un nome. Stordito dal continuo succedersi di sorrisi, strette di mano e amabili saluti, giunse come un relitto al tavolo dei liquori che era sotto il controllo di Ginny Carpenter, vestita con lo stesso abito del mattino. La donna lo fissò senza fare un gesto, implacabile come un’armatura d’acciaio.

— Dài da bere a costui — disse Werry, ridacchiando. — Quella è la marca preferita di Rob, il Lockhart. Un bel bicchiere abbondante.

Ginny afferrò la bottiglia, esaminò l’etichetta con aria critica e ne versò una razione minima. — Ci vuoi dentro qualcosa?

— Soda, grazie. — Hasson accettò il bicchiere e, sotto lo sguardo benigno di Werry, trangugiò quasi tutto. Non gli riuscì di reprimere un brivido quando scoprì che il whisky era diluito con acqua tonica.

— Perfetto, eh? — disse Werry. — Ci ho messo giorni a trovare quella bottiglia.

Hasson annuì. — È solo che non l’avevo mai bevuto con l’acqua tonica.

Espressioni d’incredulità e delizia apparvero sul viso di Werry. — Non dirmi che Ginny ci ha messo la roba sbagliata! Che donna!

— Dovrebbe bere del buon whisky di segale e birra allo zenzero, come tutti gli altri — rispose Ginny senza pentimenti, e Hasson capì che gli aveva rovinato il whisky di proposito. Stupito e depresso della sua ostilità, si girò e rimase in silenzio finché Werry non gli mise in mano un altro bicchiere, questa volta colmo di whisky quasi liscio. Si trasferì in un angolo tranquillo e cominciò a darsi da fare col liquore, metodicamente, senza allegria, sperando di anestetizzarsi fino al punto di rendere insignificante la vicinanza di tanti estranei.

Il party procedeva attorno a lui. Si creavano e disfacevano diversi centri d’attività, e poco per volta aumentava il tono delle voci, col crescere del consumo d’alcol. Al Werry, che ormai doveva ritenersi libero da ogni obbligo nei confronti di Hasson, circolava di continuo fra i suoi amici, senza mai fermarsi più di qualche secondo in uno dei gruppi. Nell’uniforme color cioccolato appariva robusto, lindo e competente, e del tutto fuori posto. May Carpenter passò la maggior parte del tempo circondata come minimo da tre uomini, apparentemente attentissima a rispondere alle loro attenzioni, eppure sempre capace d’intercettare lo sguardo di Hasson quando lui guardava nella sua direzione. Gli venne in mente che Werry e May avevano un punto in comune: per quanto riusciva a capire, le loro personalità erano del tutto impenetrabili. In entrambi i casi, l’aspetto fisico era così prepotente da soffocare la realtà interiore. May, ad esempio, si comportava come se trovasse Hasson interessante, sebbene lui avesse virtualmente cessato di esistere per quanto concerneva le donne. Forse aveva un forte istinto materno; forse trattava tutti gli uomini allo stesso modo. Hasson non era in grado di capirlo. Rifletté sul problema nei momenti liberi, tra uno scoppio di conversazione e l’altro, quando un uomo o una donna giungevano a sollevarlo dalla sua solitudine. Nella stanza il livello delle voci continuava a crescere. Perseverò nel bere finché non ebbe terminato la mezza bottiglia di Scotch. Fu costretto a provare il whisky di segale, che trovò poco forte ma ragionevolmente accettabile.

Ad un certo punto della serata, con le luci abbassate e diverse persone che ballavano, scoprì che il giovanotto paffuto, con le guance rosse, che gli stava parlando non era un contadino, come lasciava credere l’aspetto, bensì un medico. Si chiamava Drew Collins. Un ricordo che Hasson aveva soffocato (Theo Werry solo nella sua stanza, con la lampada vicino agli occhi) balzò in primo piano nella sua coscienza.

— Mi piacerebbe farle una domanda — disse, incerto sugli aspetti etici della cosa. — Lo so che non è il momento giusto e roba del genere…

— Non si preoccupi di queste sciocchezze — rispose Drew, amabilmente. — Vuol dire che le scriverò la ricetta su un’etichetta di birra.

— Non è per me. Mi chiedevo se lei è il medico di Theo.

— Sì, Theo lo curo io.

— Be’… — Hasson fece roteare il bicchiere, creando una depressione conica sulla superficie del liquore. — È vero che tra un paio d’anni riavrà la vista?

— Perfettamente vero. Tra un po’ meno di due anni, per essere precisi.

— Come mai bisogna aspettare tanto per l’operazione?

— Non si tratta esattamente di un’operazione — spiegò Drew, apparentemente lieto di parlare della sua professione. — È l’apice di tre anni di cure. Theo soffre di una malattia conosciuta come cateratta complessa, il che non significa che la cateratta in sé sia complessa. È solo che il fatto che si sia ammalato così giovane implica la presenza di altri fattori. Fino a una ventina d’anni fa esisteva una sola cura possibile, l’asportazione del cristallino che lo avrebbe lasciato con una vista molto imperfetta per il resto della vita, ma oggi riusciamo a restituire la trasparenza alla capsula lenticolare. È necessario mettere gocce negli occhi tutti i giorni, per tre anni, ma alla fine del periodo la semplice iniezione di un enzima sintetico nel cristallino lo rende come nuovo. È un grosso progresso della medicina.

— Pare proprio — disse Hasson. — Solo che… — Solo cosa?

— Tre anni al buio sono tanti.

Sorprendentemente, Drew si avvicinò ad Hasson e abbassò la voce. — Sybil ha convinto anche lei? Hasson lo fissò per un attimo in silenzio, cercando di nascondere la propria confusione. — Sybil? No, non mi ha convinto.

— Pensavo che potesse essere successo- disse Drew, in tono confidenziale. — Si è messa in contatto con alcuni parenti di Al e li ha spinti a mettersi contro di lui, ma Al è l’unica persona legalmente responsabile del ragazzo, e la decisione doveva essere solo sua, personale.

Hasson frugò nella memoria e ricordò vagamente che Werry gli aveva accennato che la sua ex moglie si chiamava Sybil. Nel suo cervello si aprì un barlume di parziale comprensione.

— Insomma — disse, cauto — questa nuova cura ha i suoi pro e i suoi contro.

Drew scosse la testa. — L’unico fattore negativo sono i tre anni d’attesa, ma è un prezzo molto basso in cambio di una vista perfetta, specialmente per un ragazzo.

— Davvero?

— Certo. Comunque, Al ha preso questa decisione e Sybil avrebbe dovuto accettarla, dargli una mano, se non altro per amore di Theo. Personalmente, tutto considerato, credo che egli abbia preso la decisione giusta. — Immagino… — Hasson capì che si stava avventurando nelle acque di una conversazione pericolosa e cercò un argomento nuovo. Per motivi che gli era impossibile spiegare, la sua mente si fermò sull’uomo che aveva incontrato in città, al negozio di cibi naturali. — La medicina alternativa le fa molta concorrenza?

— Nessuna, praticamente. — Drew lanciò un’occhia-ta di sbieco e inarcò le sopracciglia: stava arrivando Ginny Carpenter. — La nostra legislazione è molto rigorosa in materia. Perché me lo chiede?

— Una sciocchezza. Oggi ho incontrato un tipo interessante, un asiatico che ha un negozio di cibi naturali. Ha detto di chiamarsi Oliver.

— Oliver? — Drew sembrava perplesso.

— È Olly Fan — disse Ginny Carpenter, sghignazzando come una strega da cartone animato. — Meglio stargli lontano, ragazzo. Meglio stare lontano da tutti quei cinesi. Riescono a vivere dove i bianchi morirebbero perché non pensano ad altro che a fare soldi. — Per un attimo ondeggiò. Aveva il bicchiere in mano, e il suo viso era arrossato dall’alcol. — Lo vuoi sapere come riescono a fare soldi quei bastardi nei loro negoziucoli, quando non ci sono clienti?

— Quello che voglio è dell’altro liquore — rispose Drew, allontanandosi.

Ginny gli afferrò il braccio. — Te lo dico io cosa fanno. Non possono sopportare che passi un minuto senza fare soldi, e così se ne stanno lì dietro il banco dei tabacchi e aprono le scatole dei fiammiferi e tirano fuori un fiammifero da ogni scatola. Ho guardato dentro e li ho visti. Se ne stanno lì dietro il banco! Un fiammifero da ogni scatola! Nessuno si accorge se manca un fiammifero, ma dopo averlo fatto cinquanta volte, hanno una scatola in più da vendere. Un bianco non si prenderebbe tanto disturbo, ma i cinesi se ne stanno lì… Un fiammifero da ogni scatola!

Hasson rifletté un attimo sul racconto, lo classificò sotto l’etichetta “Apocrifi razzisti”, e nello stesso momento scoprì una falla nella logica interna. — Difficile da credere, no?

Ginny ruminò le sue parole e parve notare l’ambiguità. — Credi che me lo sia inventato?

— Non volevo proprio… — Hasson sorrise con aria di scusa. Temeva una discussione con quella piccola donna acida. — Credo di avere bisogno di un altro sorso.

Ginny allargò le braccia verso il tavolo. — Fai pure. Bevi tutto, amico.

Hasson immaginò parecchie rispostacce, da un sarcasmo freddo all’oscenità più crudele, ma nel suo cervello si creò di nuovo un blocco verbale complicato da correnti sotterranee d’imbarazzo, stanchezza e paura. Si trovò a mormorare ringraziamenti a Ginny e ad allontanarsi da lei come un cortigiano che si ritirasse dalla presenza di sua altezza reale.

Riempì il bicchiere, sapendo benissimo che stava bevendo troppo, e decise di adottare la tecnica di Werry: spostarsi continuamente da un punto all’altro, fino al momento di potersi decentemente rifugiare nella fortezza della propria camera.

In breve, l’eccesso di liquore, mischiato alla stanchezza, lo fece precipitare in uno stato come di trance. La stanza divenne un enorme schermo su cui le figure umane erano proiezioni piatte, insignificanti, ombre proiettate da un fuoco.

Ad un certo momento si accorse, stupefatto, di essere stato trascinato in un gioco ebbro di cui nessuno gli spiegò mai le regole, ma che implicava un continuo inciampare nel buio, sussurri, risa, e lo sbattere di porte invisibili. Gli venne in mente che era giunta la sua occasione di fuga, che con un briciolo di fortuna poteva infilarsi a letto prima ancora che notassero la sua assenza. Cercò di orientarsi nelle tenebre, s’incamminò verso la porta che dava sull’ingresso, ma il procedere gli era impedito da altre persone che sembravano possedere la magica abilità di sapere esattamente cosa stavano facendo e dove stavano andando anche a luci spente. Davanti a lui si aprì una porta, rivelando una stanza scarsamente illuminata, e diverse mani lo spinsero in avanti. Sentì la porta sbattere alle sue spalle, e nello stesso momento si accorse di trovarsi solo in cucina con May Carpenter. Il cuore cominciò a battergli follemente.

— Questa sì che è una sorpresa — disse lei a voce bassa, avvicinandosi. — Che simbolo ti è toccato?

— Simbolo? — Hasson la guardò sconvolto. Nella luce bassa, giallastra, il vestito così ridotto sembrava quasi non esistere più, e lei era una visione erotica da delirio febbrile.

— Sì. Io ho la bilancia. — Gli mostrò un cartoncino col disegno di una bilancia. — E tu cos’hai?

Hasson aprì le dita della destra e abbassò lo sguardo. In mano aveva un cartoncino con lo stesso disegno della bilancia.

— È uguale — disse May. — Siamo fortunati tutti e due. — Senza tracce d’esitazione, gli passò le mani dietro il collo, avvicinando il viso di Hasson al suo. Nell’istante prima del bacio, Hasson vide la bocca spalancata ingrandirsi per la vicinanza, diventare grande quanto la bocca di una dea del cinema in un primo piano, semplificata e idealizzata come la bocca di un simbolo del sesso su un manifesto cinematografico, tutta curve perfette, calcolate matematicamente, e tutta flutti d’un rosso scarlatto e pianure bianche immacolate, a riempirgli gli occhi. Durante il bacio provò un senso di irrealtà, ma al tempo stesso le sue mani e il suo corpo ricevevano altri messaggi, ricordandogli che lo scopo principale della vita è la vita, e che per lui non era ancora finito tutto. La rivelazione lo sconvolse per la sua forza e semplicità, lo spinse ad allontanarsi da May per poterla guardare di nuovo.

— È bellissimo — disse, cercando disperatamente tempo per pensare — ma sono molto stanco. Devo andare a letto.

— Forse è meglio così — rispose May con un candore totale, che Hasson trovò infinitamente lusinghiero e conturbante.

— Scusami. — Girò su se stesso, riuscì a trovare la porta che dava sull’ingresso, e l’attraversò. L’ingresso era deserto, buio, ma qualcuno aveva usato il vecchio attaccapanni per appendere una tuta da volo con l’elmetto ancora al suo posto, e le luci delle spalle e delle caviglie accese. Hasson oltrepassò quella specie di golem, salì alla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservò quel paesaggio notturno che non gli era familiare. Dall’oscurità del cielo scendeva la neve. Appena fuori della finestra c’era un grande albero spoglio, e attraverso i rami, a gelidi cerchi concentrici, filtrava la luce di un lampione stradale. Sembrava che lungo le tangenti dei cerchi fossero state seminate a piene mani miriadi di scintillii, luccichii e riflessi. Si aveva l’impressione di guardare in un lungo tunnel illuminato, pieno di ragnatele.

Hasson scrutò il paesaggio forse per un minuto, cercando di accettare l’idea di averlo visto per la prima volta solo dodici ore prima, di avere vissuto meno di un giorno del periodo destinato al riposo e al recupero delle forze. Mentre si avvicinava al letto, si spogliava e infilava il pigiama, la sua mente traboccava di ricordi appena nati: facce, voci, nomi e idee. Come succedeva sempre di notte, si muoveva agilmente, senza dolore, perché l’attività prolungata gli aveva sciolto muscoli e giunture; ma era arrivata l’ora del suo supplizio notturno.

Si sdraiò sul letto, e non appena la schiena, non più protetta dai vestiti, entrò in contatto col materasso, iniziò la guerra. Il conflitto si svolgeva tra diverse fasce muscolari, per vedere quale avrebbe tratto vantaggio da nuove posizioni di rilassamento o tensione, per vedere quale avrebbe lanciato le salve d’agonia più consistenti. In ogni caso, chi perdeva era Hasson. Sopportò in silenzio la battaglia, finché gli spasmi si fecero meno frequenti, e subito dopo si addormentò, guerriero ferito, esausto, sconfitto in ogni scaramuccia della giornata.

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