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Difficoltà tecniche avevano fatto chiudere il corridoio aereo transcontinentale a ovest di Regina, per cui Hasson terminò il viaggio in treno.

Era metà mattina quando arrivò a Edmonton, e scendendo dal treno fu immediatamente colpito dall’aria freddissima, piena di bagliori solari, che gli turbinava attorno come le acque di un torrente di montagna. Aveva incontrato una temperatura e un chiarore così forti solo una volta, un mattino di primavera, mentre pattugliava dall’alto la catena dei Pennini, in Inghilterra. Per un istante si trovò di nuovo a volare, con uno stormo di gabbiani che brillavano come stelle laggiù in fondo, e le ginocchia gli cedettero ancora. Si guardò attorno per la stazione, ancorandosi al terreno, assorbendo i particolari dell’ambiente. Il marciapiede continuava ben oltre il soffitto a travi, perdendosi in un mucchio di neve compatta, solcata da tracce di pneumatici. Gli edifici della città formavano come una palizzata contro i campi di neve che intuiva a nord. Chiedendosi come avrebbe fatto a riconoscere l’uomo che lo attendeva, esaminò le persone più vicine. Gli uomini erano grandi e d’aspetto terribilmente gioviale. Molti indossavano giubbe rosse a quadrettoni, come per adeguarsi alle idee preconcette dei turisti sull’abbigliamento dei canadesi. Improvvisamente depresso e spaventato, raccolse le valigie e s’incamminò verso l’uscita della stazione. Nello stesso momento, un uomo quasi bello, di carnagione olivastra, con un paio di baffi sottilissimi e occhi straordinariamente luminosi, gli si avvicinò, porgendogli la mano. L’espressione di amicizia e piacere dello sconosciuto era così intensa che Hasson si spostò, temendo di ostacolare una riunione familiare. Gettò un’occhiata indietro e fu sorpreso di scoprire che non c’era nessuno.

— Rob! — Lo sconosciuto afferrò Hasson per le spalle. — Rob Hasson! È meraviglioso rivederti. Davvero meraviglioso!

— Io… — Hasson fissò gli occhi scintillanti che lo guardavano con affetto smisurato, e fu costretto ad ammettere che quell’uomo era il suo ospite canadese, Al Werry. — È bello rivederti.

— Qua, Rob. Credo che un bicchierino ti farebbe piacere, vero? — Werry strappò le valigie alle dita di Hasson, che non opposero resistenza, e si avviò al cancello. — Ho una bottiglia di Scotch in macchina, e indovina di che marca.

— Che marca?

— È il tuo preferito. Lockhart.

Hasson fu colto alla sprovvista. — Grazie, ma come mai…?

— Che notte abbiamo passato in quel pub! Sai, quello sull’autostrada, a dieci minuti dal quartier generale della polizia dell’aria. Come si chiamava?

— Non me lo ricordo.

— L’Haywain — gli suggerì Werry. — Tu bevevi whisky Lockhart, Lloyd Inglis si dava da fare con la vodka, e io imparavo a bere la vostra birra Boddington. Che notte! — Werry raggiunse una macchina lucida, che sul fianco aveva dipinto lo stemma di una città, aprì il portabagagli e cominciò a caricare le valigie, regalando a Hasson un momento per riflettere. Sette o otto anni prima, lo ricordava vagamente, aveva fatto parte di un gruppo che offriva ospitalità ad alcuni ufficiali della polizia canadese, ma i particolari di quella serata erano persi nel nulla. Era chiaro che Werry faceva parte della comitiva di ospiti, e lui si sentiva imbarazzato e allarmato per l’abilità dell’altro nel ricordare con tanta chiarezza un fatto di così scarsa importanza.

— Salta dentro, Rob, e faremo fuoco e fiamme. Voglio portarti a Tripletree in tempo per il pranzo. May ci sta preparando bistecche di alce, e scommetto che l’alce non l’hai mai assaggiato. — Parlando, Werry si era tolto il cappotto; poi lo piegò con cura e lo adagiò sul sedile posteriore. La sua uniforme color cioccolato, su cui erano cucite le insegne di capo della polizia, non aveva nemmeno una piega. Sedendosi, l’uomo lisciò per bene il dietro della giacca, per impedire che il sedile la stropicciasse. Hasson spalancò la portiera dall’altra parte e salì, impiegando altrettanta cura per accertarsi che la spina dorsale fosse diritta e ben equilibrata sulla regione lombare.

— Ecco qui quello che ti ci vuole — disse Werry, prendendo una bottiglia piatta da uno scomparto nel cruscotto e passandola ad Hasson. Poi gli sorrise con aria indulgente, mettendo in mostra denti robusti e sanissimi.

— Grazie. — Obbediente Hasson accettò la bottiglia e bevve un sorso. Mentre piegava la testa, si accorse che sul sedile posteriore, accanto al cappotto di Werry, c’erano una tuta da volo e un corpetto antigravità del tipo in dotazione alla polizia. Il liquore era un po’ caldo, insipido e stranamente forte, ma Hasson fece finta di assaporarlo con piacere: una fatica degna di Ercole, quando il whisky si fermò in una delle ulcere alla bocca che lo tormentavano da settimane.

— Tientela stretta. Ci vuole più di un’ora per arrivare a Tripletree. — Werry accese il motore, e pochi secondi dopo s’infilarono in una corrente di traffico automobilistico diretto a nord. Quando la macchina superò gli edifici della parte bassa della città, divennero visibili ampie fette di cielo, e Hasson scoprì sopra di sé un fantastico complesso di autostrade aeree. Le immagini bilaser parevano reali e irreali al tempo stesso: curve, salite, rettilinei, stazioni d’ingresso e d’uscita a imbuto, tutto sembrava modellato in una gelatina colorata e scaraventato in cielo per guidare la corrente di volatori che dovevano sbrigare affari in città. Migliaia di macchioline nere si muovevano lungo quelle corsie inconsistenti. Pareva un modello di gas per un esperimento di fisica.

— Bello, vero? Che tecnica! — Werry si tese in avanti, scrutando il cielo con entusiasmo.

— Molto grazioso. — Mentre studiava le proiezioni tridimensionali dai colori accesi, Hasson cercò una posizione comoda sul sedile troppo morbido. In Inghilterra avevano tentato soluzioni simili per il controllo del traffico, nei giorni in cui si sperava ancora di salvare un po’ di spazio per il traffico aereo convenzionale, ma erano state abbandonate perché troppo costose e troppo complicate. Con milioni di individui che si levavano in volo al di sopra di una piccola isola, quasi tutti insofferenti alla disciplina, si era deciso che fosse meglio un espediente molto più semplice: indicatori di rotta a forma di colonna, con fasce di colore diverse a seconda dell’altitudine. Gli impianti bilaser di tipo più elementare erano in grado di proiettare colonne che sembravano solide, e in più c’era il vantaggio che l’ambiente aereo appariva relativamente sgombro. Agli occhi di Hasson, lo sfavillio sospeso sopra Edmonton assomigliava ai visceri di un enorme mollusco semitrasparente.

— Tutto bene, Rob? — chiese Werry. — Posso fare niente per te?

Hasson scosse la testa. — Un viaggio troppo lungo, ecco tutto.

— Mi hanno detto che sei andato in pezzi.

— È solo uno scheletro infranto — disse Hasson, ricordando una vecchia battuta. — Quanto ti hanno raccontato, fra l’altro?

— Non molto. Meglio così, credo. Ho detto a tutti che sei un mio cugino inglese, che ti chiami Robert Haldane, che fai l’assicuratore e che sei in convalescenza dopo un brutto incidente automobilistico.

— Mi pare abbastanza plausibile.

— Lo spero. — Werry tamburellò le dita sul volante, per dimostrare la propria insoddisfazione. — È una faccenda un po’ strana, comunque. In Inghilterra la polizia dell’aria si occupa solo di certe cose, capisci? Non avrei mai creduto che ti saresti trovato fra i piedi criminali professionisti.

— Le cose sono andate così. Lloyd Inglis e io stavamo facendo la posta a un gruppo di giovani angeli, e quando Lloyd è rimasto ucciso, il… — Hasson s’interruppe. La macchina aveva sbandato un poco. — Scusa. Non te l’hanno detto?

— Non sapevo che Lloyd fosse morto.

— Nemmeno io mi sono ancora abituato all’idea. — Hasson fissò la strada davanti a loro, un canale nero circondato dalla neve. — Uno degli angeli era il figlio di un grosso criminale che stava comperandosi la rispettabilità come se si trattasse di terreno da costruzione, e il ragazzo trasportava certi documenti che avrebbero distrutto gli investimenti del padre. È una storia lunga, e complicata… — Hasson, stanco di parlare, sperò di avere già detto abbastanza per soddisfare la curiosità professionale di Werry.

— Okay, dimentichiamo tutta questa storia, “cugino”. — Werry sorrise, rivolgendo ad Hasson una strizzata d’occhi esagerata. — Voglio solo che tu ti riposi e ti rimetta in sesto. I prossimi tre mesi te li ricorderai per sempre. Credimi.

— Certo. — Hasson diede un’occhiata discreta, riconoscente, al suo nuovo amico. Il corpo di Werry era robusto e armonioso, e i muscoli ben evidenti: una forza naturale tenuta in forma dal continuo esercizio. Pareva che ricavasse un ingenuo piacere dalla perfezione dell’uniforme, il che, unito alla fisionomia da indigeno dell’America Latina, gli conferiva l’aria di un giovane, battagliero colonnello di una repubblica rivoluzionaria. Perfino il suo modo di gridare (appena un po’ aggressivo e plateale) indicava un uomo perfettamente a suo agio nel proprio ambiente, che accettava le sfide con sicurezza invidiabile. Hasson, ammirando la corazza psicologica dell’altro, intatta e scintillante, si chiese come gli fosse stato possibile scordare il primo incontro con Werry.

— Tra parentesi — disse Werry — a casa non ho raccontato niente di te. Ci sono May, Ginny e Theo, il mio ragazzo. Solo la storia ufficiale, naturalmente. Ho pensato che era meglio tenerci tutto per noi. È più semplice.

— Probabilmente hai ragione. — Hasson meditò un attimo su quella nuova informazione. — A tua moglie non è parso un po’ strano veder spuntare dal nulla un cugino nuovo di zecca?

— May non è mia moglie. Non ancora. Sybil mi ha lasciato un anno fa circa, May e sua madre si sono trasferite da me appena il mese scorso, per cui è tutto a posto. Potrei avere cugini nel mondo intero, per quanto ne sanno loro.

— Capisco. — Hasson provò un fremito di disagio al pensiero di dover incontrare altri tre estranei e coabitare con loro, e di nuovo capì di essere ormai entrato nella schiera delle persone ferite a morte. La macchina, adesso, correva su un’autostrada perfettamente rettilinea, circondata da enormi quantità di neve abbagliante. Frugò nel taschino della giacca, tirò fuori un paio d’occhiali scuri e li infilò, felice della barriera che creavano contro le pressioni di un universo incontrollabile. Si accomodò meglio sul sedile, appoggiandosi in grembo la bottiglia di whisky che non desiderava, e tentò di venire a patti col nuovo Robert Hasson.

Un termine banale e ambiguo come “collasso nervoso”, aveva scoperto, era un’etichetta generica per un’infinità di terribili sintomi mentali e fisici; ma anche il sapere che soffriva di una malattia classica, curabilissima, non gli serviva ad alleviare i sintomi. Per quanto continuasse a ripetersi che sarebbe tornato alla normalità in un futuro non troppo remoto, depressioni e paure rimanevano nemici implacabili, rapidissimi nel colpire, tenaci, lenti ad abbandonare la presa. Nel suo caso si era creato un regresso emozionale, che lo portava a rivivere i turbamenti dell’adolescenza.

Suo padre, Desmond Hasson, faceva il negoziante in un villaggio di campagna. Costretto dalle circostanze ad andare a lavorare in città, non aveva mai nemmeno cercato di adattarsi al nuovo ambiente. Ingenuo, goffo, patologicamente timido, aveva condotto un’esistenza di esilio disperato a soli duecento chilometri dal luogo di nascita, limitato dalla ristrettezza d’una mentalità troppo rigida. In pubblico sussurrava sempre per il timore che il suo accento campagnolo attirasse occhiate di curiosità.

Il matrimonio con una ragazza di città, di mentalità molto pratica, era servito soltanto a lasciar invadere la sua casa dall’incomprensibile stranezza del mondo delle fabbriche e degli uffici, e lui si era chiuso in una perenne riservatezza, rifiutando la comunicazione. Era stata un’amara disillusione scoprire che suo figlio accettava con naturalezza, con piacere, l’ambiente urbano, e per qualche anno Desmond aveva fatto del suo meglio per correggere quello che considerava un serio difetto di carattere.

C’erano state le lunghe, inutili passeggiate in campagna (Desmond Hasson, stranamente, sapeva pochissimo del mondo della natura che mostrava al figlio), le futili ore di pesca in corsi d’acqua inquinati, la noia di essere costretto a lavorare in un giardino. Al giovane Rob Hasson non piaceva nessuna di quelle cose, ma le vere tare psicologiche erano state causate dai tentativi del padre di plasmare la sua intima essenza.

Rob era un ragazzo socievole, aperto, e da quello erano derivati tremendi conflitti di personalità. Si era trovato continuamente soffocato, umiliato, rattristato dall’ammonizione (sempre lanciata a voce bassa, tra stupore e timore) che compiendo una certa azione la gente lo avrebbe guardato. Era cresciuto nella convinzione che la cosa più scandalosa che potesse fare era attirare l’attenzione di altri in pubblico. Aveva sofferto di altre limitazioni, in particolare per quanto concerneva la sessualità. Ma la costrizione principale, quella che non accennava ancora a scomparire e gli rendeva difficile la vita, era il bisogno di non farsi notare. Anche alle soglie della maturità, al college e durante il breve servizio sotto le armi, ogni volta che si era trovato costretto a dover fare qualcosa davanti a un gruppo di persone era stato colto dal terrore e dalla paralisi intellettuale: rivedeva gli occhi azzurri di suo padre colmi di panico, risentiva la sua voce che sussurrava: — Ti guarderanno tutti!

Col tempo, Hasson aveva infranto quel condizionamento, e parecchi anni dopo la morte del padre se n’era creduto libero per sempre; ma l’impatto della malattia nervosa doveva aver compromesso il suo carattere adulto, quasi si trattasse di una statuina di vetro. Era come se suo padre stesse arrivando a una vittoria postuma, tornando a esistere nel suo unico figlio. Ora Hasson trovava estremamente difficile sostenere ogni tipo di conversazione, e il pensiero di dover entrare in una casa piena d’estranei lo sommergeva d’un freddo timore. Fissò quel paesaggio sconosciuto, coperto di neve, e desiderò disperatamente ritrovarsi nelle due stanze del suo appartamento di Warwick, con la porta chiusa a chiave e la compagnia senza pretese di un televisore per unico sollievo.

Al Werry, come accorgendosi dei suoi bisogni, restò in silenzio per tutta l’ora successiva. Solo di tanto in tanto gli diede brevi informazioni sulla geografia locale. A tratti la radio della macchina uscì in qualche strepito e gracidio, ma non arrivarono chiamate. Hasson sfruttò l’occasione per ricaricare le batterie spirituali. Si sentiva un po’ più in forma quando al di sopra dell’orizzonte apparve un viluppo di costruzioni aeree dalla luminescenza debole, ad annunciargli che erano vicini a Tripletree. Stava scrutando il profilo vago della rete di controllo traffico quando i suoi occhi vennero attratti dalla silhouette di una bizzarra struttura architettonica vicina alla città, che si stagliava nettamente contro lo sfondo di colori vivaci. Da lontano sembrava un fiore mostruoso, ritto sullo stelo e cresciuto fino a un’altezza di forse quattrocento metri. Si chiese che scopo potesse avere, poi si rivolse a Werry.

— Cos’è quell’affare? — gli chiese. — Non sarà un serbatoio idrico? O sì?

— I tuoi occhi funzionano benissimo, Rob. — Werry sporse la testa all’insù per qualche secondo, per accertarsi di riuscire a sua volta a vedere l’oggetto. — È il marchio di riconoscimento della nostra città, la Follia di Morlacher, altrimenti noto come Hotel Chinook.

— Strana architettura, per un hotel.

— Già, ma non così strana come potrebbe sembrare. Lo sai cos’è il chinook?

— Un vento caldo che soffia d’inverno.

— Giusto, solo che noi non ne godiamo sempre. Dalle nostre parti ha l’abitudine di soffiare a un’altezza di cento o duecento metri. A volte si abbassa fino ai cinquanta. A livello del suolo, certi giorni siamo a dieci sotto zero, per cui noi ci congeliamo e gli uccelli si pigliano il sole a dieci o quindici gradi sopra zero. Era quella l’idea del vecchio Harry Morlacher quando ha costruito l’hotel. La fascia degli appartamenti si trova a quell’altezza, nel bel mezzo dell’aria calda. Doveva essere un posto di ritrovo di lusso per i magnati del petrolio di tutta l’Athabasca.

— È andato storto qualcosa?

— È andato storto tutto. — Werry uscì in un leggero sbuffo, il che poteva indicare partecipazione, meraviglia, o disprezzo. — Le imprese di costruzione della zona non avevano mai provato a mettere in piedi un giocattolo così gigantesco, per cui i costi hanno continuato a crescere, e Morlacher ha speso fino all’ultimo centesimo. Poi hanno inventato un nuovo sistema per sfruttare le sabbie petrolifere, e in un paio d’anni la vecchia tecnica è caduta in disuso. Poi sono saltati fuori i motori a propellente unico e il petrolio non serviva più a nessuno, per cui al Chinook Hotel non si è mai fermato un solo cliente pagante. Neanche uno! Quando un cretino ha in mano troppi soldi…

Hasson, che aveva scarsa pratica di faccende economiche, fece schioccare la lingua. — Tutti possono commettere uno sbaglio.

— Non uno sbaglio del genere. Ci vuole un talento particolare per commettere uno sbaglio così. — Werry sorrise ad Hasson e aggiustò l’inclinazione del berretto. Era sprezzante, deciso, in perfetta salute e ben integrato: il ritratto di un poliziotto destinato a fare carriera, un uomo assolutamente certo della propria abilità. Hasson provò una punta d’invidia.

— Comunque è un buon argomento di conversazione — disse.

Werry annuì. — Ci passeremo vicini, entrando in città. Se vuoi vedertelo per bene possiamo fermarci.

— Mi piacerebbe.

In quel paesaggio bianco e monotono c’era poco altro d’interessante. Hasson tenne gli occhi fissi sulla notevole costruzione che ingrandiva continuamente sul vetro del parabrezza. Fu solo quando si trovarono a un chilometro di distanza che cominciò ad apprezzare in pieno l’audacia di quella singolare architettura. La colonna centrale sembrava sottile fino all’impossibile. Saliva in alto e sbocciava in una raggiera di travi che sostenevano l’hotel vero e proprio. Dava l’impressione di essere stata ricavata da un unico blocco d’acciaio inossidabile, anche se Hasson era certo che un’ispezione più minuziosa avrebbe rivelato i punti di saldatura. Il sole traeva riflessi dalla facciata in vetro e plastica dell’hotel vero e proprio, facendolo apparire lontano e irraggiungibile, un Olimpo per una razza di uomini simili a dèi.

— In quella colonna non c’è molto spazio per un ascensore — commentò Hasson. Erano giunti ai sobborghi di Tripletree; viaggiavano tra abitazioni lussuose, ben distanziate le une dalle altre, erette su pendii coperti di neve.

— Non ce n’è proprio, di spazio — disse Werry. — L’idea originale era di mettere due ascensori tubolari che corressero lungo i fianchi del pilone, per fare scena, ma le cose si sono fermate prima. Sotto l’hotel si vedono le aperture in cui dovevano entrare.

Hasson, socchiudendo gli occhi all’intensa luminosità del cielo, era appena riuscito a distinguere due aperture circolari quando la sua attenzione fu attratta da una macchiolina che si muoveva in aria, sotto l’hotel. — C’è un volatore.

— Sì? — Werry non pareva troppo interessato. — Può darsi che sia Buck Morlacher, il figlio del vecchio Harry. Buck, o uno dei suoi uomini.

— L’hotel è inutilizzato, no?

— No, viene utilizzato, ma non come avevano in mente i Morlacher — rispose con aria truce Werry. — Anche noi abbiamo i nostri angeli, sai, e il Chinook è un pollaio di lusso. Di notte arrivano da tutta la zona per le loro riunioni.

Hasson immaginò cosa dovesse significare pattugliare di notte quella costruzione enorme, e avvertì un gelo allo stomaco. — Non potete chiudere tutto?

— Ci sono troppi vetri. Scelgono una finestra, segano le sbarre, e sono dentro.

— E i neutralizzatori di campo AG? Un edificio come quello deve possederli, per tenere lontano i guardoni.

— I soldi sono finiti prima che li installassero. — Werry diede un’occhiata all’orologio. — Senti, Rob, avrai una fame del diavolo. Adesso ti porto a casa a mangiare. A dare uno sguardo all’hotel possiamo venirci un’altra volta. Che ne dici?

Hasson, per cortesia, era sul punto di accettare la proposta; poi si accorse che non aveva alcuna voglia di mangiare. Per di più, una visita da vicino a quel fantastico edificio avrebbe rimandato l’incontro con gli altri membri della famiglia di Werry.

— Veramente non ho ancora fame — disse, per saggiare le reazioni dell’altro, — Una colonna così alta deve avere delle fondamenta enormi.

— Sì, sotto terra, dove non si vedono.

— Eppure…

— Turisti — sospirò Werry. Poi svoltò a sinistra, infilò un viale contornato d’alberi che correva verso l’hotel. Così da vicino, per chi viaggiava in macchina, l’edificio non era nient’altro che una colonna argentea che spuntava alle spalle di edifici normali e saliva vertiginosamente a regioni invisibili. L’idea di seguire il pilone fino in cima, per quattrocento metri, scoprire un mondo di sale da conferenza, saloni da ballo, bar e camere da letto pareva del tutto assurda, uscita da una favola, come il castello del gigante in cima alla pianta di fagiolo.

Hasson si guardò attorno con interesse. La macchina raggiunse una zona di terreno piatto e incolto, che avrebbe fornito un parcheggio spazioso all’hotel. L’area era delimitata da un reticolato di fil di ferro a quattro giri, abbattuto in diversi punti, e qui e là, sotto la neve, si distinguevano antiche ferite lasciate sul terreno da macchinari di scavo. L’aria di desolazione, di battaglia persa, era aumentata dalle condizioni del basso edificio circolare che circondava la base della colonna di supporto. Quasi tutte le finestre recavano buchi a forma di stella, e i muri erano coloriti esempi di graffiti a vernice spray. Una striscia di tessuto impermeabile, staccata quasi completamente dal tetto, oscillava nel vento.

Quando la macchina si fermò, Hasson notò un altro veicolo (una vettura sportiva color vinaccia, dall’aria costosa) parcheggiato appena oltre la rete di ferro. Ci stava appoggiato un uomo sulla trentina, con un cappellino di pelo e un fucile da caccia in mano. Indossava un completo da volo nero, lucido, con sopra un corpetto antigravità d’un arancione fluorescente. Quando sentì arrivare la loro macchina girò un attimo la testa verso Werry e Hasson, riflettendo i raggi del sole nelle lenti a specchio degli occhiali, poi ricominciò a studiare, con estrema concentrazione, la parte di hotel sopra di sé.

— È Buck Morlacher — disse Werry. — Fa la guardia al patrimonio familiare.

— Sul serio? Con un fucile?

— È solo per fare scena, più che altro. Buck si diverte a immaginare di essere un uomo di frontiera.

Hasson si fermò mentre stava aprendo la portiera. — Non ha i contenitori. Non dirmi che vola con un fucile tra le mani.

— Impossibile! — Werry abbassò un poco la punta del berretto. — Non avrebbe molta importanza, comunque. Non c’è in giro nessuno a cui possa cadere in testa.

— Sì, ma… — Hasson smise di parlare quando capì che stava per intromettersi in faccende che non erano di sua competenza. Una delle misure legislative più generali e indispensabili relative al volo individuale era quella che proibiva il trasporto di oggetti solidi, se non in speciali contenitori appositamente costruiti. Nonostante quella precauzione, il tasso annuale di decessi a causa di oggetti caduti era mostruosamente elevato, e in ogni paese del mondo l’infrazione a quella legge comportava pene severissime. L’istinto diceva ad Hasson che Morlacher aveva appena volato col fucile, o che si apprestava a farlo. Si sentì profondamente sollevato all’idea che non fosse compito suo far rispettare la legge. Era un lavoro per un uomo efficiente, duro, perfettamente padrone di sé.

— Vuoi scendere? — chiese Werry, con un’altra occhiata all’orologio.

— Da qui non vedo niente. — Hasson spalancò la portiera, spostò i piedi di fianco e rabbrividì: la sua spina dorsale si era immobilizzata, con una sensazione simile a quella di un osso sfregato sulla smitsonite. Tirò il fiato e cominciò, da diversi angoli, a cercare un punto d’appoggio sulla carrozzeria. Era alle prese col difficile problema meccanico di far assumere la posizione eretta al suo scheletro. Werry scese dall’altra parte senza accorgersene, si aggiustò il berretto, controllò che i suoi stivali lucidissimi brillassero sulla neve, lisciò l’uniforme sulla schiena e raggiunse Morlacher a passi misurati.

— ’Giorno, Buck — disse. — Vuoi andare a caccia di anitre?

— Vattene, Al. Ho da fare. — Morlacher continuò a guardare in alto. I suoi occhi erano nascosti dai riflessi del cielo azzurro. Era un individuo grosso, obeso, coi capelli color rame e un triangolo di rosa acceso su ogni guancia. Teneva le labbra tirate all’indietro, mettendo in mostra denti troppo solidi e robusti, quasi inumani, con enormi molari al posto degli incisivi. Hasson si sentì subito spaventato da quell’uomo.

— Lo vedo che hai da fare — rispose, accomodante, Werry. — Solo mi chiedevo che cosa hai da fare.

— Che ti succede? — Un’espressione impaziente comparve sulla faccia di Morlacher, che abbassò la testa a fissare Werry. — Lo sai che faccio il lavoro che dovresti fare tu, se avessi un po’ di fegato. Perché non te ne torni nella tua bella macchinina e mi lasci in pace? D’accordo?

Werry guardò Hasson, che era riuscito a mettersi in piedi con le braccia distese sulla sommità della portiera. — Adesso stammi bene a sentire, Buck — disse Werry. — Che cosa ti fa…?

— Stanotte sono tornati di nuovo — lo interruppe Morlacher. — Hanno tenuto una delle loro luride riunioni, hanno violato la mia proprietà, l’hanno violata, mi senti? E tu cosa fai? Niente. Ecco cosa fai. Niente! — Morlacher si rabbuiò. Le sue sopracciglia anemiche si inarcarono, e il suo sguardo celato dalle lenti a specchio si puntò su Hasson, quasi si accorgesse di lui per la prima volta. Hasson, che stava ancora cercando di decidere se riusciva o meno a reggersi in piedi senza appoggi, fissò lo sguardo in lontananza. Distinse un movimento al limitare della visuale e alzò gli occhi: un volatore stava scendendo giù dall’hotel.

— Forse ce n’è dentro ancora uno o due — continuò Morlacher — e, se è così, Starr e io li scoveremo e ce ne occuperemo personalmente. Come ai vecchi tempi.

— Non c’è bisogno di dire certe cose — disse Werry. Fissava, perplesso, Morlacher quando il volatore gli si avvicinò alle spalle. Era un ragazzo con pochi ciuffi di barba. Indossava una tuta da volo blu e portava a tracolla un fucile ad aria compressa. Sotto gli occhi di Hasson, portò una mano alla cintura e spense, deliberatamente, il campo antigravità mentre si trovava ancora a un’altezza di tre metri dal suolo. Cadde immediatamente, ma la spinta residua della traiettoria curva lo mandò a sbattere contro le spalle di Werry. Werry volò a terra, il viso sepolto nella neve.

— Scusa, Al. Scusa. Scusa. — Il ragazzo aiutò Werry a rimettersi in piedi e cominciò a scrollargli via la neve dall’uniforme. — Si è trattato solo di un incidente. Mi ha abbagliato il chiarore della neve. — E intanto strizzava l’occhio a Morlacher.

Mentre fissava Al Werry, Hasson sentì l’adrenalina invadergli il corpo. Aspettava che l’altro reagisse come la situazione imponeva. Werry si rimise in piedi e fissò, incerto, il ragazzo che gli stava davanti, ripulendogli con aria eccessivamente premurosa l’uniforme. «Adesso» implorò Hasson. «Adesso, prima che passi altro tempo. Adesso che lo hai davanti in tutta la sua arroganza».

Werry scosse la testa e prese, disastrosamente, a sorridere. — La sai una cosa, Starr Pridgeon? Non credo che riuscirai mai a controllare quel corpetto.

— La sai una cosa, Al? Penso che tu abbia ragione. — Il ragazzo scoppiò a ridere, e a metà della risata, come aveva fatto Morlacher, si girò e puntò gli occhi su Hasson, quasi lo vedesse per la prima volta. Hasson, veterano di migliaia di incontri simili, riconobbe tutti i manierismi dell’imitazione e dedusse immediatamente che, dei due, Morlacher era la figura preminente. Restò appoggiato alla portiera della macchina, cercando di raddrizzare la schiena mentre Pridgeon gli si avvicinava. Le sue articolazioni stavano gemendo di dolore. Erano come cuscinetti metallici fuori uso, e non gli permettevano di muoversi.

— Questo dev’essere il cugino inglese di Al — disse Pridgeon. — Cosa ne pensi del Canada, cugino di Al?

— Non ho ancora avuto il tempo di farmi un’opinione — rispose seccamente Hasson.

Pridgeon guardò gli altri. — Ma come parla bene! — Si girò di nuovo verso Hasson. — Quel piccolo incidente non è la cosa più stupida che tu abbia mai visto?

— Non ne ho visto molto.

— No? — Pridgeon lo studiò un attimo con aria critica. — Sei zoppo o roba del genere?

Orripilato, Hasson scoprì che le proprie labbra si atteggiavano a un sorriso. — Più o meno.

— Uh! — Pridgeon, con aria insoddisfatta, si allontanò, arrivò a fianco di Morlacher, e Hasson capì che l’altro lo aveva richiamato con un leggero cenno della testa. Il che confermava la sua supposizione circa i rapporti fra i due uomini, ma non gli serviva a niente.

— Hai visto qualcosa, lassù? — chiese Morlacher a Pridgeon, come fossero soli e non fosse accaduto niente.

— No. Se c’è qualcuno, sta lontano dalle finestre.

— Verrò su con te. — Morlacher cominciò a stringere le cinghie del suo corpetto.

— Basta che non ti porti dietro quel fucile — disse Werry, severo. — Non possiamo permettere che tu spari come ti pare alla gente.

Morlacher continuò a rivolgersi a Pridgeon. — Mi porterò su il fucile, e se vedo qualcuno gli sparo.

— Be’, non so come state voialtri, ma io ho fame — disse Werry, girandosi verso Hasson, improvvisamente allegro e gioviale. — Andiamo, Rob. May diventerà una furia se non arriviamo in tempo per quelle bistecche.

Tornò alla macchina e si accomodò dietro il volante, facendo sobbalzare le sospensioni. Hasson, che aveva appena scoperto di potersi muovere senza pericolo, risalì in macchina e chiuse la portiera. Abbassò le mani sulle ginocchia e restò a fissarle. Werry accese il motore, tracciò un semicerchio sulla neve compatta e ritornò in strada. Un minuto di silenzio fu il massimo che Hasson riuscì a sopportare.

— Al — chiese tranquillamente — quand’è che chiami gli altri?

— Gli altri? — Werry sembrava davvero sorpreso. — E perché?

— Hai colto Pridgeon in flagrante. Volava col fucile in spalla. E Morlacher ha intenzione di fare lo stesso.

— Non c’è troppo da preoccuparsi. Per di più, eravamo sulla proprietà privata di Buck.

— Questo non conta, per i regolamenti aerei.

Werry rise. — Calma, Rob. Questa non è l’Inghilterra. Qui la gente non sta gomito a gomito. Abbiamo milioni di chilometri quadrati di terreno aperto, e lì potresti far cadere interi quartieri senza che nessuno se ne accorga.

— Ma… — Hasson strinse più forte le ginocchia con le mani, e le ossa delle nocche si tesero sotto la pelle come collinette immacolate, ognuna solcata da una sottile linea rosa. Adesso capiva perché non ricordava il primo incontro con Werry: aveva creduto che Werry fosse un uomo di un certo tipo, un uomo che invece non esisteva.

— Pridgeon ha fatto apposta a farti cadere, sai — disse. Capiva benissimo che non erano affari suoi, ma non riusciva a stare zitto.

— Ne combina sempre una delle sue — rispose Werry, indifferente. — Crede di essere spiritoso. Ma non significa niente.

«È qui che ti sbagli» pensò Hasson. «Il simbolismo significa tutto». — Da quello che ho visto…

— Credevo che non avessi visto niente — lo interruppe Werry. — Quando Starr te l’ha chiesto, hai detto di non aver visto niente.

— Sì, ma… — Hasson si sentì colto sul vivo dalla risposta di Werry, soprattutto perché non poteva negare i fatti, e si abbandonò a un silenzio vergognato, colpevole. Entrarono nel cuore di Tripletree e lui cominciò a studiare le sagome sconosciute dei negozi, degli uffici; ritirandosi in se stesso, cogliendo particolari che non gli erano familiari, notando i molti modi in cui era possibile combinare finestre, pareti e porte, paragonando con una punta di nostalgia quello che vedeva all’architettura familiare dei villaggi rurali inglesi. Le strade erano affollate di acquirenti, e molti indossavano, come protezione contro il freddo, tute da volo dai colori sgargianti. Due poliziotti (uno grasso e sulla mezza età, l’altro poco più che adolescente) rivolsero cenni di cortesia a Werry quando la macchina si fermò a un incrocio. Werry li gratificò di una parodia di saluto d’ordinanza, poi sorrise, di nuovo perfettamente a suo agio nella propria parte. Il poliziotto grasso mimò i gesti di chi impugna coltello e forchetta. Werry annuì, e immediatamente i due uomini girarono sui tacchi, infilandosi in una tavola calda.

— Mangiano sempre, quei due — commentò Werry. — Però, se non altro, so dove trovarli.

Hasson, sorpreso dal tono informale dei rapporti di Werry coi suoi uomini, decise che quello era un altro segno: era solo, abbandonato, orfano in un mondo sconosciuto. Si stava di nuovo cullando nei meravigliosi recessi dell’autocommiserazione, quando scoprì che la macchina si addentrava in un’altra zona residenziale, dopo aver superato solo tre o quattro strade periferiche.

— Quante persone abitano a Tripletree? — chiese guardandosi attorno con una certa sorpresa.

— Ventiseimila, stando all’ultimo censimento. — Werry gli lanciò un’occhiata divertita. — Comunque noi continuiamo a chiamarla una città. Quando le province sono diventate autonome e hanno ottenuto di governarsi da sé, ogni buco del Canada ha voluto diventare una città a tutti gli effetti, per cui adesso siamo pieni di città. Qui nell’Alberta non ci sono villaggi o paesi. Solo città. A centinaia. — Werry rise e tirò su il berretto. Sembrava che gli fosse tornato tutto il buonumore.

— Capisco. — Hasson cercò di digerire l’informazione. — E quanti uomini hai a disposizione?

— In servizio attivo, quattro. I due che hai visto entrare da Ronnie son metà delle mie forze. L’altra metà si occupa del traffico aereo.

— Non mi sembrano sufficienti.

— Me la cavo, e poi questo lavoro comporta la carica di capo della polizia. Se mi trasferiscono in una grossa città, sarà come capo della polizia.

Hasson cercò d’immaginare come fosse possibile svolgere un effettivo lavoro di polizia con soli quattro uomini, ma la sua immaginazione si arrese. Era sul punto di fare altre domande quando Werry rallentò in un corto viale con case rustiche dipinte di bianco. Lì, a differenza della via principale, la neve, non spalata, si ammassava sulle banchine in mucchi sporchi di fango. Quando capì che erano arrivati a casa di Werry e che stava per incontrare la sua famiglia, il cuore cominciò ad accelerare i battiti. L’auto si fermò a metà del viale, davanti a una casa in parte nascosta da giovani abeti.

— Eccoci qua — disse allegramente Werry. — Rob, tra un attimo avrai i piedi sotto la tavola.

Hasson tentò di sorridere. — Ricorda — gli aveva detto il dottor Colebrook. — Una persona che ha subìto un esaurimento nervoso ed è riuscita a sconfiggerlo può affrontare la vita molto meglio di chi non è mai passato attraverso un’esperienza del genere. La battaglia per riacquistare l’autocontrollo mette a nudo forze interiori e risorse che altrimenti non si scoprirebbero mai. — Ricordando quelle parole, Hasson cercò di trarne conforto mentre, timoroso di guardare la casa e di poter incontrare occhi di estranei, apriva la portiera e appoggiava i piedi a terra. Scoprì che la sosta di pochi minuti prima all’hotel gli era servita a riportare alla normalità la spina dorsale e i muscoli lombari, e che stava in piedi benissimo. Felice di quel sollievo, insistette e strappò due delle sue valigie dalle mani di Werry, e le trasportò lungo il sentiero che conduceva alla casa.

Werry spalancò giovialmente la porta esterna e quella interna e lo fece entrare in un’atmosfera calda, che sapeva di cibo, di cera per pavimenti, e di canfora. Una scala partiva sulla destra del piccolo ingresso, e lo spazio era ulteriormente ridotto da un attaccapanni vecchio stile che rigurgitava di indumenti pesanti, tute da volo imbottite e corpetti AG. Ai muri erano appese fotografie incorniciate e alcuni pastelli molto dilettanteschi, che davano un senso d’intimità domestica. Hasson si sentì più che mai straniero in terra straniera, perché la casa che ospitava quegli oggetti non era casa sua.

Si stava guardando attorno, depresso e paralizzato, quando una donna sulla trentina aprì la porta all’estremità della parete. Era d’altezza media, bionda, coi fianchi piccoli ma il corpo pieno, e lo stesso identico tipo di labbra piene, di vivace sensualità, che Hasson aveva visto in centinaia di vecchi film bidimensionali proiettati ai cineclub. Quella, pensò, era la ragazza del saloon contenta del proprio lavoro, l’amica del gangster, l’amante che viveva alle spalle del pezzo grosso, la cameriera del caffè lungo la strada per i cui favori i camionisti si picchiavano a colpi di sedia. Era vestita in maniera adatta alle diverse parti: scarpe coi tacchi alti, calzoncini da toreador, e maglietta bianca a T, aperta. Hasson non riuscì a sostenere lo sguardo.

— May — disse Werry, e la sua voce era piena d’un orgoglio sconfinato — sono lieto di presentarti mio cugino, Rob Haldane. Ha viaggiato per giorni ed è affamato. Giusto, Rob?

— Giusto — capitolò Hasson, accettando l’idea che non esisteva un modo diplomatico per far capire a Werry che aveva bisogno soprattutto di solitudine e riposo. — Come va?

— Salve, Rob. — May afferrò la mano che lui le tendeva, e nell’istante del contatto gli lanciò un sorriso improvviso, timido ed esplicito al tempo stesso, quasi si fosse verificata un’imprevista reazione chimica d’umanità che l’aveva colta di sorpresa. Il trucco era così scoperto da imbarazzare Hasson, eppure lui si sentì immediatamente lusingato.

Werry sorrideva radioso a tutti e due. — Dovremmo bere qualcosa. Dov’è finita la bottiglia, Rob?

— Eccola. — Hasson scoprì di avere infilato la bottiglia di whisky nella tasca della giacca. Stava per estrarla quando furono raggiunti da una donna sulla sessantina, di lineamenti angolosi e spalle sottili. Era vestita come se dovesse uscire per una festa: gioielli in quantità e capelli tinti in armonia con l’abito scuro.

— E questa è Ginny Carpenter, la madre di May — disse Werry — Ginny, Rob.

— Piacere. — Lei squadrò Hasson ad occhi socchiusi e non fece cenno di volergli stringere la mano. — Sei quello che per poco non si è ucciso in macchina?

Hasson fu preso alla sprovvista. — Infatti.

— Non ci sono buoni ospedali in Inghilterra?

— Andiamo, Ginny — intervenne Werry a placarla. — Rob ha ricevuto tutte le cure ospedaliere necessarie. È qui per riposarsi e rimettersi in forma.

— Ne ha bisogno — disse Ginny, continuando a esaminare Hasson con aria critica. — Vedrete cosa gli faranno un paio di mesi di buona cucina.

Hasson tentò di risponderle per le rime, di dire a quella donna che era abituato da sempre a mangiare bene e che pensava di continuare a farlo anche dopo avere lasciato il Canada, ma quei modi caustici gli avevano mandato in confusione il cervello. La fissò, ammutolito e disperato, cercando le parole adatte.

— Volevi alzare il gomito? — chiese lei, prevenendolo, gettando un’occhiata significativa alla bottiglia che lui teneva in mano. — Se ne hai bisogno, fa’ pure. L’odore non mi disturba.

Le frasi che Hasson tentava disperatamente di mettere assieme si scontrarono con quelle che già gli turbinavano in mente, rendendolo ancor più incapace di parlare. Si girò verso gli altri due. Werry annuiva soddisfatto, quasi si stesse godendo uno scambio di battute fra amici di vecchia data; May continuava a fissarlo a occhi spalancati, con candore ingenuo, proiettando onde di stupefatta tenerezza. Hasson represse l’impulso di scappare via.

— Quella bottiglia è mia, Ginny — disse Werry, dopo quello che parve un intervallo molto lungo. — Rob l’ha presa dalla macchina per me.

— E perché non me l’hai detto? — ribatté Ginny, mentre scompariva nella stanza da cui era emersa. — Vado a mettere le bistecche sulla griglia. Avanti, ragazza! Oggi non mi sembri molto attiva, e c’è un sacco di lavoro extra da fare. — May, obbediente, la seguì, lanciando un ultimo sguardo armonioso ad Hasson mentre chiudeva la porta.

— Quella Ginny è proprio un bel tipo — disse Werry, ridacchiando. — Sempre la stessa. Non ha paura di dire quello che pensa a nessuno. Dovevi vedere la tua faccia quando ti ha chiesto se volevi alzare il gomito!

Hasson sorrise a sua volta, stupefatto, domandandosi fino a che punto potesse giungere l’insensibilità umana. — Sono un po’ stanco. Se non ti spiace, vorrei fare un salto nella mia camera.

— L’hai appena toccato — notò Werry, dispiaciuto, alzando la bottiglia di whisky verso la luce. — L’ho preso apposta per te.

— Grazie, ma io… La mia stanza è di sopra?

— Seguimi. — Werry raccolse le due valigie più grandi e lo guidò su per la scala stretta. Sistemò Hasson in una bella stanza quadrata, che aveva un letto matrimoniale e fotografie di squadre di hockey su ghiaccio appese ai muri. I mobili erano moderni, a eccezione di una libreria a vetri piena di volumi rilegati in pelle nera. I titoli dei libri, corrosi, si erano ridotti a rade macchioline d’oro o argento. Due finestre lasciavano entrare una luce bianca, riflessa dalla neve all’esterno, che si proiettava verso l’alto, creando un’atmosfera simile a quella della cabina passeggeri dell’idrovolante su cui aveva traversato l’Atlantico. Hasson studiò la stanza, vedendola con una chiarezza sovrannaturale che gli derivava dal sapere che per tre mesi sarebbe diventata la sua fortezza personale. Controllò che la porta avesse una serratura funzionante, e quasi subito individuò l’angolo migliore per sistemare un televisore portatile.

— Il bagno e la toilette sono qui vicino, sul pianerottolo — disse Werry. — Appena ti sei dato una rinfrescata, vieni giù a mangiare. Oggi Theo esce presto da scuola, e anche lui vorrà conoscerti.

— Scendo subito — rispose Hasson, desiderando che l’altro se ne andasse. Appena si ritrovò solo, si sdraiò sul letto, rilassò il corpo fissando la luce che si muoveva sul soffitto. «Dove sono?» pensò. «Dove sono le forze interiori e le risorse che il dottor Colebrook mi ha promesso?» Portò il dorso della mano alla bocca e chiuse gli occhi, per escludere l’impietosa luminosità bianca che lo circondava da ogni lato, come un esercito che lo stringesse d’assedio.

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