Bob Shaw Antigravitazione per tutti

1

Il viaggio in macchina verso Chivenor era stato lungo e faticoso. Col passare dei chilometri era peggiorato il dolore alla schiena di Hasson, e con l’aumentare del dolore si era deteriorato il suo stato d’animo. Dapprima timori da poco, accenni di depressione che chiunque avrebbe provato passando attraverso una serie di città e villaggi dove le gelide piogge di marzo sembravano aver cancellato ogni attività, ogni segno di vita comunitaria. Però, quando raggiunsero la costa nord del Devon, Hasson si sentiva più abbattuto del normale, e quando la macchina superò una salita, regalando ai tre passeggeri la vista dell’estuario del Taw, capì di essere terrificato dal viaggio che lo attendeva.

«Com’è possibile?» pensò, incapace di far quadrare le sue sensazioni con quelle che avrebbe provato, in circostanze simili, sei settimane prima. «Mi offrono un viaggio gratis in Canada, tre mesi di vacanza a stipendio pieno, tutto il tempo che mi occorre per riposare e riprendermi…»

— Io continuo a pensare che ci sia qualcosa di giusto nell’idea degli idrovolanti — disse Colebrook, il medico della polizia che sedeva sul sedile posteriore con Hasson. — Il concetto di volare sul mare con un’imbarcazione, di usare come punto d’atterraggio i quattro quinti del globo… Mi sembra naturale, se capisci quello che voglio dire: tecnologia e natura che procedono mano nella mano.

Hasson annuì. — Capisco dove vuoi arrivare.

— Ma guardali. — Un gesto della mano grassoccia, forte, di Colebrook abbracciò la striscia d’acqua blu e gli idrovolanti, che sembravano disposti a caso nel cielo. — Uccelli d’argento, come direbbero i nostri cugini polinesiani. Lo sai perché non li dipingono?

Hasson scosse la testa, cercando d’interessarsi alla conversazione del medico. — Non ne ho idea.

— Il fattore peso. Motivi economici. Il peso della vernice sarebbe pari al peso di un passeggero in più.

— Sul serio? — Hasson sorrise, depresso, e vide scomparire dalla faccia di Colebrook l’entusiasmo infantile, sostituito da un’aria di preoccupazione professionale. Si maledisse per non essersi sforzato di coprire meglio le sue sensazioni.

— Problemi, Rob? — Colebrook si girò di lato per scrutare più da vicino il suo paziente. Sul suo vestito, all’altezza dello stomaco, si crearono pieghe in diagonale. — Come stai?

— Un po’ stanco. Dolori e indolenzimento generale. Ma sopravviverò.

— Non parlavo di questo. Oggi hai preso il Serenix?

— Ecco… — Hasson rinunciò al tentativo di mentire. — Non mi piace mandare giù pillole.

— Che cavolo c’entra? — chiese Colebrook, spazientito. — Nemmeno a me piace lavarmi i denti, ma se smetto mi procuro un sacco di guai e una bocca sdentata. Per cui mi lavo i denti.

— Non è la stessa cosa — protestò Hasson.

— È esattamente la stessa cosa, amico mio. Il tuo sistema nervoso ti farà vedere le stelle per un paio di mesi, forse di più, ma il fatto che una cosa sia naturale non significa che bisogna sopportarla. Non danno medaglie per questo, Rob. Non c’è la Croce al Dolore o il Diploma di Depressione…

Hasson alzò un dito. — A me va bene, dottore. Mi piace così.

— Butta giù un paio di quelle capsule, Rob. Non fare il cretino. — Colebrook, che aveva troppa esperienza per permettersi di restare sconvolto da un paziente recalcitrante, si tese in avanti e batté sulla spalla del capitano della polizia aerea, Nunn. Il medico si sentiva di nuovo espansivo. — Perché non ce ne andiamo tutti in Canada, Wilbur? Un po’ di ferie ci farebbero bene. Nunn era quasi sempre rimasto al volante da Coventry, e adesso dava segni di stanchezza. — Alcuni di noi sono indispensabili — disse, rifiutando di lasciarsi coinvolgere dallo scherzo. — Comunque, per i miei gusti è troppo presto. Preferisco aspettare che sgombrino il corridoio Islanda-Groenlandia.

— Ci vorranno mesi.

— Lo so, ma alcuni di noi sono indispensabili. — Nunn appoggiò sul volante tutto il peso degli avambracci, facendo chiaramente intendere che non aveva voglia di parlare. Il cielo si era schiarito a un blu asettico, ma il terreno era ancora umido e le gomme dell’auto fischiavano sull’asfalto della discesa. Stavano scendendo verso il campo di volo e terminal per idrovolanti di Chivenor. Nunn continuò a guidare veloce, con estrema concentrazione. L’estuario scomparve dietro una fila di sempreverdi gocciolanti d’acqua.

Hasson, terribilmente a disagio sul sedile posteriore, fissò la nuca del suo superiore. Sarebbe stato meglio se nessuno avesse accennato allo sgombero dei corridoi aerei. Il suo volo doveva partire entro poco meno di un’ora, e l’ultima cosa cui voleva pensare era la possibilità di andarsi a scontrare coi corpi umani che forse fluttuavano tra le nubi basse e la nebbia che spesso oscurava le linee aeree dell’Atlantico.

Nel mondo occidentale, nessuno aveva un’idea precisa di cosa succedesse in ampie zone del territorio dell’emisfero orientale, dalla Nuova Zemlja alla Siberia, ma ogni inverno una bufera rarefatta e lenta di corpi congelati, tenuti in aria dal corpetto AG, antigravità, si abbatteva sul polo, creando seri problemi al traffico aereo fra l’Inghilterra e l’America del Nord.

L’opinione generale era che si trattasse di contadini asiatici, ignari dei pericoli di un balzo anche ad altitudini modeste nel clima invernale, oppure vittime di improvvise variazioni climatiche, congelati senza nemmeno avere la possibilità di capire cosa stesse succedendo. Un gruppo isterico, piccolo ma rumoroso, sosteneva che si trattasse di prigionieri politici deliberatamente abbandonati alle correnti aeree per danneggiare, anche in piccola misura, il flusso dei commerci occidentali. Hasson aveva sempre ritenuto quell’idea indegna della sua attenzione, e il fatto che in quel momento gli tornasse in mente era un altro indice del peggiorare del suo stato di salute. Infilò la mano nella tasca della giacca e la chiuse sulla scatola delle capsule Serenix, per assicurarsi di averle a disposizione.

Pochi minuti dopo la macchina raggiunse il campo di volo e lo aggirò, puntando verso i moli degli idrovolanti. I lunghi, argentei alettoni degli scafi spuntavano qua e là, al di sopra delle banchine spartiacque e degli uffici galleggianti. Parecchi uomini, in uniformi contrassegnate da scritte fosforescenti, volavano tra le banchine e i velivoli ancorati più in là lungo l’estuario. Al limite della visuale di Hasson, somigliavano al continuo agitarsi di macchioline colorate.

Nunn fermò la macchina in un parcheggio all’esterno della rete che delimitava l’area di decollo. Era il comandante del distretto di Hasson, per cui il lavoro sotterraneo per far scomparire Hasson dal paese e trovargli un posto dove potesse restare tre mesi in perfetto anonimato era toccato quasi tutto a lui. Non esistevano procedure sperimentate per nascondere e proteggere testimoni-chiave che potevano essere in pericolo di vita, e il capitano Nunn aveva avuto parecchi guai a trovare un ospite sicuro per Hasson in un altro paese. Alla fine aveva raggiunto un accordo con un ufficiale della polizia canadese, che anni prima era stato ospitato per un viaggio d’istruzione dalla polizia di Coventry. Nunn era un uomo che odiava tutto quello che sconvolgeva la routine amministrativa, e adesso era ansioso di togliersi Hasson dai piedi.

— Noi non entreremo con te, Rob — disse, spegnendo il motore. — Meno ci vedono assieme, meglio è. È inutile correre rischi.

— Rischi! — sbuffò Hasson, irritato da quella che per lui era una precauzione inutile. — Quali rischi? Sullivan è un delinquente ma è anche un uomo d’affari, e sa che per lui sarà finita se comincia a uccidere dei poliziotti.

Nunn tamburellò con le dita sul bordo dentellato del volante. — Noi non siamo poliziotti, Rob, siamo poliziotti dell’aria. E ci uccidono in continuazione. Quanti sono ancora vivi nella tua squadra?

— Non molti. — Hasson girò la testa per nascondere l’improvviso, incontrollabile tremito delle labbra.

— Scusa. Non avrei dovuto dirlo. — Nunn sembrava irritato, più che dispiaciuto.

Colebrook, sempre all’erta, afferrò il braccio di Hasson appena sopra il gomito e lo strinse forte. — Prendi due capsule, adesso, Rob. È un ordine.

Imbarazzato e vergognoso, Hasson tirò fuori la scatoletta di plastica, versò due capsule verde-oro nel palmo della mano e le inghiottì. In bocca erano asciutte e leggerissime, come minuscole uova di minuscoli uccelli.

Nunn si schiarì la voce. — Il punto che volevo chiarire è che il caso Sullivan non è più di competenza della polizia dell’aria, quindi dobbiamo attenerci agli ordini della Sicurezza. Se loro pensano che tu sia un testimone abbastanza importante perché l’organizzazione di Sullivan cerchi di chiuderti la bocca, dobbiamo accettare la loro idea. Sono affari loro.

— Lo so, ma è tutto così… — Hasson, disperato, girò attorno gli occhi. — Capisci… Identità falsa, passaporto falso! Come farò ad abituarmi a sentirmi chiamare Haldane?

— A me non sembra un gran problema — rispose bruscamente Nunn, stringendo le labbra. — Cerca di assumere un atteggiamento più positivo, Rob. Vattene in Canada, mangia e bevi e dormi un sacco, e goditela finché è possibile. Ti verremo a prendere quando dovrai testimoniare.

— Parlando da medico, mi pare un ottimo consiglio.

Colebrook aprì lo sportello, scese e si avviò verso il retro della macchina. Alzò il coperchio del portabagagli e cominciò a tirar fuori le valigie di Hasson.

— Io non scendo — disse Nunn, tendendo la mano verso il sedile posteriore. — Abbi cura di te, Rob.

— Grazie. — Hasson strinse la mano che l’altro gli porgeva e scese dall’auto. Ormai il cielo si era completamente schiarito, era d’un azzurro pallidissimo, e una brezza debole spirava dall’Atlantico. Hasson rabbrividì al pensiero delle migliaia di chilometri di mare aperto che si stendevano fra lui e la sua destinazione. Il viaggio gli sembrava eccessivo per qualsiasi imbarcazione; e ancora più incredibile era l’idea che qualche mese prima lui, Robert Hasson, trovandosi nella necessità di trasferirsi in Canada, si sarebbe tranquillamente allacciato un corpetto antigravità e sarebbe partito da solo, avendo come unica protezione un casco e una tuta termica. Al pensiero di alzarsi ancora in volo, della possibilità di cadere, Hasson si sentì mancare le ginocchia. Si appoggiò al veicolo, facendo in modo che il gesto sembrasse casuale. Il metallo verniciato gli gelò le dita.

— Ti accompagno all’accettazione — disse Colebrook. — Non sembrerà strano a nessuno vederti con un medico.

— Preferirei andare da solo, grazie. Sto bene.

Colebrook sorrise con aria d’approvazione. — Così va bene. Tieni a mente quello che ti ha detto il fisioterapista per gli oggetti pesanti. — Hasson annuì, salutò il medico e s’incamminò verso il cancello che immetteva nel terminal di partenza. In una mano reggeva una valigia grossa e nell’altra una piccola. Teneva la schiena diritta e i diversi pesi in equilibrio. Il dolore alla spina dorsale e all’articolazione ricostruita del ginocchio era notevole, ma aveva imparato che il fatto di muoversi, per quanto spiacevole, giocava a suo favore. Il dolore vero, la fitta terribile e paralizzante, giungeva dopo essersi trovato costretto a restare immobile per parecchio tempo per poi dover compiere un’azione di per sé semplicissima, ad esempio scendere dal letto. Era come se il suo corpo, respinti gli effetti magici della chirurgia, ubbidisse a un richiamo masochistico alla sofferenza.

Entrò nel terminal passeggeri, dove lui e i suoi bagagli furono sottoposti a una serie di controlli piuttosto superficiali. Scoprì che per quel particolare volo era in attesa un’altra ventina di passeggeri: l’idrovolante, evidentemente, viaggiava quasi a pieno carico. In maggioranza si trattava di coppie di mezza età, gente con l’aria emozionata ed eccitata di chi non è abituato a viaggi sulle lunghe distanze. Hasson pensò che andassero a trovare dei parenti. Si tenne in disparte da loro. Bevve il caffè delle macchinette, chiedendosi perché mai persone che potevano restarsene tranquillamente a casa si mettessero in volo sopra un oceano agitato dall’inverno.

— Attenzione, prego — disse un’hostess che aveva capelli scolpiti a rasoio e lineamenti duri, decisi. — Il volo Bo uno due sei partirà per St. John tra una ventina di minuti circa. A causa della forza e della direzione del vento che si è alzato nelle ultime ore, siamo stati costretti ad ancorare il velivolo più lontano del solito, e le nostre motolance sono gravate di lavoro extra. Comunque non si verificherà alcun ritardo nella partenza se possiamo raggiungere a volo l’imbarcazione. C’è qualche passeggero con la carta d’imbarco per il volo Bo uno due sei che non sia in grado di volare per mezzo chilometro?

Il cuore di Hasson ebbe un sobbalzo folle: guardandosi in giro, aveva scoperto che tutti annuivano con aria incoraggiante.

— Molto bene — disse l’hostess. — Troverete corpetti AG standard sulla rastrelliera vicino al…

— Chiedo scusa — intervenne Hasson. — Non sono autorizzato a usare i corpetti AG.

Gli occhi della ragazza tremarono un attimo, e dagli altri passeggeri si levò un mormorio di scontento. Diverse donne scrutarono Hasson: le loro occhiate erano indagatrici e risentite. Lui si girò senza dire nulla, e aveva ancora attorno l’aria gelida che gli correva incontro a una velocità folle mentre precipitava su Birmingham, sui livelli di volo affollati di pendolari, dopo una caduta di tremila metri, e le luci della città s’ingrandivano sotto di lui come enormi fiori ingioiellati…

— In questo caso è inutile che gli altri si mettano in volo. — La voce dell’hostess era neutra. — Se volete accomodarvi, vi chiamerò non appena avremo a disposizione una lancia. Cercheremo di fare il possibile per ridurre al minimo il ritardo. Grazie. — Si avvicinò a un apparecchio di intercomunicazione, nell’angolo della sala d’attesa dalle pareti di vetro, e cominciò a bisbigliare qualcosa.

Hasson rimise giù il bicchiere del caffè e, perfettamente conscio del fatto che tutti lo fissavano, entrò nella toilette. Si chiuse in uno stanzino, si appoggiò un attimo alla porta, poi tirò fuori la scatoletta e infilò in bocca altre due capsule. Le due che aveva inghiottito in macchina non avevano ancora fatto effetto, e lui rimase lì fermo nel piccolo, triste universo di muri divisori e piastrelle, implorando la tranquillità. Poi capì che il suo crollo era stato completo. Aveva visto altri uomini cedere per la tensione del troppo lavoro, per le troppe ore di pattuglia aerea di notte, quando il pericolo di una collisione con un suicida aereo faceva vibrare i nervi come fili del telefono spazzati dalla tempesta. Ma aveva sempre osservato avvenimenti del genere con una specie di soddisfatta superiorità. Al di sotto della partecipazione umana, della comprensione degli aspetti medici della cosa, c’era sempre stato un certo disprezzo, e la sicurezza che il poliziotto colpito, l’uccello ferito, avrebbe recuperato la stabilità mentale, si sarebbe liberato dei propri mali e avrebbe ricominciato tutto come prima. Il suo senso di sicurezza era talmente forte che non era nemmeno riuscito a riconoscere i sintomi premonitori della sua disgrazia: la depressione acuta, l’irritabilità, il pessimismo crescente che toglieva ogni sapore alla vita. Senza saperlo, Hasson era stato terribilmente vulnerabile, e in quelle fragilissime condizioni, spoglio d’ogni armatura, era sceso nell’arena per combattere un nemico beffardo, che indossava un mantello nero e reggeva una falce…

Un improvviso attacco di claustrofobia costrinse Hasson ad aprire la porta dello stanzino. Si avvicinò a un lavandino, lasciò scorrere un po’ d’acqua fredda. Stava cominciando a buttarsela in faccia quando si accorse di avere qualcuno alle spalle. Era uno dei passeggeri del suo volo, un uomo sulla sessantina, di corporatura robusta, con gli occhi velati da un’espressione sardonica.

— Non c’è di che vergognarsi — disse, con accento del nord.

— Cosa? — Hasson cominciò ad asciugarsi la faccia. — Non c’è di che vergognarsi. È quello che stavo raccontando a tutti. Certa gente non può usare i corpetti, ecco tutto.

— Credo che lei abbia ragione. — Hasson represse la voglia di raccontargli che aveva volato per moltissime ore, e che al momento la cosa gli era proibita per ragioni mediche. Se cominciava a giustificarsi col primo che incontrava, avrebbe continuato così per tutto il resto della vita. E poi c’era una bugia: non aveva alcun motivo fisiologico per evitare il volo.

— D’altra parte — continuò l’uomo dalla faccia rossa — certa gente affronta l’aria come un’anitra affronta l’acqua. Io avevo quasi quarant’anni quando mi sono preso il primo corpetto, e nel giro di una settimana volavo tra le nuvole come un uccello.

— Che meraviglia — rispose Hasson, allontanandosi.

— Sì, e continuo a volare in una zona pericolosa. I ragazzini non ci mettono niente ad arrivarti addosso apposta, e a farti cadere giù per venti o trenta metri. — L’uomo si interruppe per ridacchiare. — Comunque non mi preoccupo. Ho lo stomaco forte.

— Grande. — Hasson corse alla porta, poi gli venne in mente che un compagno di viaggio chiacchierone poteva proprio essere quello che gli occorreva per non pensare troppo durante la traversata dell’Atlantico. Si fermò e aspettò che l’altro lo raggiungesse. — Però va in Canada in idrovolante.

— Per forza — disse l’uomo, battendosi le mani sul petto. — I miei polmoni non sopportano più il freddo, se no mi risparmierei il prezzo del biglietto. Un furto bello e buono, ecco cos’è.

Hasson annuì, mentre rientrava in sala d’attesa col suo nuovo amico. Il volo personale era facile ed economico, e con l’avvento dei corpetti antigravità i metodi di trasporto aereo tradizionale avevano conosciuto un declino improvviso. All’inizio era stata solo una faccenda di risparmio, poi i cieli si erano riempiti di gente: milioni di persone liberate, irrefrenabili, scatenate, incontrollabili, che rendevano impossibile il volo agli aerei, se non in corridoi minuziosamente tenuti sgombri. Il traffico aereo sull’Atlantico del Nord, un tempo così redditizio, era stato sostituito da imbarcazioni da carico che trasportavano anche una manciata di passeggeri, senza voli frequenti, e il prezzo del biglietto era aumentato di conseguenza.

Raggiunti gli altri passeggeri, Hasson scoprì che l’uomo si chiamava Dawlish e che doveva andare a Montreal a trovare un cugino ammalato, forse nella speranza di ereditare un po’ di soldi. Hasson conversò con lui per dieci minuti, rassicurato dal senso di calma che si espandeva radialmente nel suo sistema nervoso per effetto delle capsule di Serenix. Anche il sapere che quella sensazione era prodotta artificialmente non la rendeva meno preziosa, e quando arrivò la lancia per trasportare i passeggeri del volo Bo 162 allo scafo, lui provava un’euforia silenziosa.

Durante il tragitto sulle acque increspate sedette vicino alla prua della lancia, piacevolmente eccitato al pensiero dei tre mesi all’estero che l’attendevano. L’idrovolante sembrava preistorico, con griglie sui tubi aspiranti della turbina e una corazzatura sui bordi del profilo aerodinamico, ma ormai Hasson nutriva la fiducia che la grande macchina sospesa sulla sua testa fosse in grado di portarlo dappertutto. Salì a bordo, respirando il caratteristico aroma di olio per motori, corde bagnate dall’acqua salmastra e cibo caldo, e sedette dalla parte del finestrino, quasi all’estremità della zona passeggeri. Dawlish gli si accomodò di fronte, con la schiena rivolta al divisorio mobile che permetteva di ampliare o ridurre lo spazio riservato alle merci secondo la necessità.

— Belle macchine, queste qui — disse Dawlish, con l’aria dell’intenditore. — E hanno una storia molto interessante.

Come Hasson prevedeva, Dawlish si lanciò in una dissertazione sulla travagliata storia degli idrovolanti. Da quel resoconto disordinato seppe che erano scomparsi dal mondo dell’aviazione negli anni Cinquanta, causa la difficoltà di pressurizzare lo scafo per le operazioni ad alta quota richieste dai motori a getto, e che erano ricomparsi nel ventunesimo secolo quando, di necessità, tutti i mezzi aerei dovevano volare a bassa quota e a velocità ridotta.

In un’altra occasione Hasson si sarebbe sentito annoiato o irritato, ma in quel momento Dawlish gli era d’aiuto. Riconoscente, si concentrò sul fiume di parole dell’altro, mentre i quattro motori si accendevano e la nave cominciava a rullare nel vento. Nonostante le capsule, ebbe un momento di panico: il decollo sembrava interminabile, le onde martellavano con rumore di tuono il fondo della carena, ma d’improvviso il rumore cessò e l’imbarcazione si alzò tranquillamente in volo. Hasson guardò il solido ponte sotto i suoi piedi e si sentì al sicuro.

— … Le turbine a propellente unico andrebbero bene anche ad alta quota — stava dicendo Dawlish — ma se si va a sbattere contro qualcuno a bassa quota è logico che il corpo sarà abbastanza tenero e le schermature di protezione reggeranno il colpo. Provi a immaginare il cozzo con un corpo congelato a quasi mille chilometri l’ora! Il Titanic non sarebbe… — Dawlish s’interruppe e sfiorò il ginocchio di Hasson. — Scusi, giovanotto. Non dovrei dire cose del genere.

— Sto benissimo — rispose Hasson, mezzo addormentato, accorgendosi d’improvviso che per un uomo distrutto come lui quattro capsule di Serenix erano troppo. — Continui pure. Scarichi il suo sistema.

— Cosa vorrebbe dire?

— Niente. — Hasson desiderava sinceramente essere diplomatico, ma ormai gli era difficile cogliere le sfumature di significato delle sue stesse parole. — Pare che lei ne sappia parecchio sul volo.

Apparentemente irritato dal tono di Hasson, Dawlish distolse lo sguardo. Teneva semisocchiuse le palpebre. — Certo che questo non è volare sul serio. Sguazzare tra le nubi, quello sì! È impossibile capire cosa significhi volare se non ci si infila un corpetto e non si sale di cinque, seicento metri, con niente sotto i piedi, solo aria. Vorrei tanto poterle raccontare com’è.

— Sarebbe… — Hasson rinunciò al tentativo di parlare. L’universo della coscienza si allontanò da lui a velocità vertiginosa.


Era sospeso a tremila metri al di sopra di Birmingham, la massima altezza raggiungibile senza un impianto speciale di riscaldamento della tuta, al centro di una sfera di chiarore lattiginoso creata dai suoi faretti… poco lontano, il corpo del suo compagno morto, Lloyd Inglis, fluttuava sostenuto dall’impianto di stabilità altimetrica, eseguendo una strana danza nell’aria… e, appena al di sotto del raggio dei faretti, era in agguato l’assassino di Lloyd…

Quando l’attacco iniziò, non ci furono voci umane: solo il sibilo sempre più forte dell’aria quando i campi antigravitazionali dei due corpetti si annullarono a vicenda, facendo precipitare come pietre i due uomini…

Ci volle un minuto per piombare giù da tremila metri, un minuto orribile, straziante, in cui l’urlo del vento a velocità limite diventò lo squillo delle campane dell’inferno. In quel minuto le corsie di bassa quota per pendolari, splendenti come la galassia delle luci d’individuazione di decine di migliaia di volatori, s’ingrandirono voracemente sotto di lui, aprendosi come un fiore carnivoro. In quel minuto, il dolore e lo spavento lo privarono della capacità di pensare, e la sua mente era ancora più sconvolta dall’osceno stridore del corpo dell’assassino psicopatico vicino a lui…

E poi, quando era così tardi, quando era così disperatamente tardi, riuscì finalmente a liberarsi, a guizzare via, e il corpetto cercò inutilmente di riportarlo verso l’alto… e l’impatto… l’impatto terrificante col suolo… le ossa che si fracassavano, la terribile esplosione delle vertebre spinali…


Hasson aprì gli occhi e ammiccò, incapace di comprendere quel mondo di finestrini aperti sul cielo blu, di pannelli ricurvi sul soffitto, di reticelle portabagagli, di motori che rombavano in sordina. «Sono su un idrovolante» pensò. «Cosa ci faccio su un idrovolante?» Si tirò su, disfatto come un pugile dopo un ko, e vide che Dawlish si era addormentato sul sedile davanti al suo. Stringeva ancora nella mano dalle nocche bluastre un microlettore. Capì che aveva perso conoscenza per un po’ di tempo, e i ricordi gli si affollarono alla memoria: riscoprì il fatto di essere in volo verso il Canada, dove avrebbe incontrato la sfida di una nuova identità e di una nuova vita.

La prospettiva era scoraggiante, ma non quanto l’idea di raccogliere la sfida in quello stato di stupore indotto dalla droga, sorretto da una stampella psicotropica. Aspettò per qualche minuto, respirando a fondo, poi si alzò e raggiunse la toilette sul fondo della zona passeggeri. Lì dentro l’isolamento acustico non funzionava bene come nel resto dell’imbarcazione, e per un attimo lui rimase sconcertato dai pugni dell’atmosfera che battevano sulla pelle dello scafo. Poi si appoggiò al divisorio e tolse di tasca la scatoletta dei medicinali. Sfilò il coperchio e, senza concedersi il tempo di un ripensamento, vuotò nella tazza del water una manciata di capsule verde-oro.

Quando ritornò al suo sedile si sentiva ancora ubriaco, pronto ad addormentarsi, ma per lo meno provava la debole soddisfazione che nasce sempre dal rifiuto dei compromessi. Non era il Robert Hasson di sempre, o il Robert Hasson che aveva immaginato di essere. Si sentiva incompleto, ferito, incrinato, però il suo futuro era una sua proprietà personale, e non sarebbe scappato davanti a nessuno dei problemi che gli avrebbe portato.

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