LIBRO TERZO I Prediletti di Chemosh

1

Mina passò le dita fra i capelli biondi dell’uomo. Aveva capelli morbidi e sottili, come quelli di un bambino. La frangetta era tagliata corta e gli ricadeva sulla fronte, e Mina la scostò per vedergli gli occhi. Non si ricordava come si chiamasse. Non ricordava mai i nomi. Rammentava però gli occhi, rammentava l’aria indagatrice, bramosa e stupefatta. Dolore, talvolta, infelicità, collera, frustrazione. Adorazione, naturalmente. Tutti la adoravano. Il giovane le prese la mano e le baciò le dita.

Durante la Guerra delle Anime i suoi soldati la adoravano. La adoravano quando lei li conduceva alla morte. La adoravano quando lei si inginocchiava su di loro e pregava per loro, inviando le loro anime nel vasto fiume dei perduti. Vedeva nei loro occhi la paura, paura dell’ignoto.

Tanta paura. Paura della vita, di vivere. Lei aveva il potere di portare via la paura. Portare via l’ignoto. Al suo bacio, lo spirito abbandonava il corpo, percorreva vacillando una breve distanza, con le braccia tese verso Chemosh, come un bambino avanza barcollando verso sua madre. Chemosh rispediva lo spirito nel corpo, lavato, purificato, spogliato di ogni sensazione sgradevole. Niente amore, niente senso di colpa, niente angoscia, niente gelosia...

«Sarai un Prediletto di Chemosh», disse al giovane, con le labbra calde sulla mano aperta di lui. «Avrai vita eterna. La fine del dolore. Non conoscerai mai né freddo né fame.»

«Un dio è uguale all’altro, presumo», disse il giovane, e il suo fiato era bollente sul collo di lei. «Promettono e non mantengono mai, almeno da quanto ho sentito.»

«Chemosh ti darà tutto ciò che io ti ho promesso», continuò Mina, scostandogli all’indietro i capelli biondi. «Vuoi accoglierlo come tuo dio?»

«Se vieni anche tu», rispose il giovane, e rise.

«Viene anche lei», si udì una voce. «È lei che lo accompagna.»

L’innamorato balzò in piedi. Avevano steso una coperta in un luogo isolato sulla riva del fiume, un recesso ombroso di foglie umide e radici di alberi ed erba calpestata.

«Chi siete voi?» domandò il giovane al dio bello ed elegantemente vestito che sembrava essere spuntato fuori dalla terra, poiché lui non aveva udito alcun rumore del suo avvicinarsi.

«Chemosh», rispose, e mentre il giovane restava a bocca aperta il dio allungò la mano e lo toccò sul petto, sopra il cuore. «E tu sei mio.»

Il giovane restò senza fiato per il dolore e si strinse il petto. Il corpo gli rabbrividì. Cadde in ginocchio. I suoi occhi fissavano il dio, mentre la luce al loro interno lentamente svaniva. Cadde in avanti e rimase lì disteso immobile. Chemosh passò sopra il corpo. Guardò Mina, con un’espressione rabbuiata e accigliata.

«Non mi piace questa cosa.»

«Come vi ho recato dispiacere, mio signore?» domandò Mina. Si alzò con dignità e si mise davanti a lui. «Io faccio tutto quello che mi chiedete.»

Ciò che aveva detto era perfettamente vero, ma non fece che rendere ancora più irato Chemosh, così come il fatto di non capire perché dovesse essere in collera con lei.

«Tu sei somma sacerdotessa del Signore della Morte», affermò Chemosh. «Non è opportuno che questi zotici ti strapazzino con le loro mani ruvide e goffe. Tu però sembri trarre un gran piacere da questi strapazzi e maltrattamenti. Forse faccio male a fermarti.»

«Mio gentile signore», disse Mina, avvicinandoglisi e alzando lo sguardo verso di lui. I suoi occhi d’ambra, liquidi e dorati, si riversarono su di lui. «Voi mi ordinate di portare a voi questi giovanotti. Io obbedisco ai vostri comandi.»

Si avvicinò ancora, in modo da fargli sentire il suo calore, annusare la fragranza dei suoi capelli e il profumo della sua carne ancora morbida e arrendevole per il desiderio.

«Le mani che mi toccano sono le vostre mani», gli disse. «Le labbra che mi baciano sono le vostre. Di nessun altro.»

Chemosh la prese fra le braccia e la baciò intensamente, brutalmente, sfogando la propria collera su di lei, che ne era la causa, anche se lui non sapeva dire di preciso perché. Mina rispose al suo bacio, feroce e disperata, come sul campo di battaglia, quando tutto il tumulto del combattimento svanisce e lascia i due avversari avvinghiati assieme in un momento prezioso che vivrà finché uno dei due morirà.

«Mio signore...» sussurrò Mina. «Volete che io gli conceda la vostra benedizione?»

Indicò con un gesto il corpo del giovane disteso sulla coperta presso la riva del fiume.

«Ci penso io», rispose e, chinandosi, pose la mano sul torace immobile del giovane.

Il cadavere aprì gli occhi. Aveva occhi verdi e bei capelli biondi. Guardò Chemosh e riconobbe il Signore della Morte, e nel suo sguardo vi era reverenza. Si alzò in piedi e si inchinò.

«Tu sei uno dei miei Prediletti», disse Chemosh al giovane. «Procedi verso est, verso il mattino della tua nuova vita. E durante il cammino trova altri che giurino di adorarmi e conducili al mio servizio.»

«Sì, mio signore.» Il giovane fece un altro lungo inchino a Chemosh, che lo congedò con un brusco gesto della mano.

Gli occhi del giovane si posarono furtivamente su Mina, la quale gli sorrise, con un sorriso che non conosceva il suo nome. Chemosh aggrottò le sopracciglia, e il giovane si girò e corse via.

«Se riesci a staccare i tuoi pensieri dalla tua conquista, forse possiamo tornare ai nostri affari», disse Chemosh. Sapeva di essere ingiusto. Mina non faceva più di quanto lui l’avesse istruita a fare. Non poté però trattenersi.

«Siete di cattivo umore oggi, mio signore», osservo Mina, intrecciando le mani sul braccio di lui. «Che cosa è successo per gettare questa ombra tenebrosa su di voi?»

«Non capiresti», rispose lui succintamente, spingendole da parte le mani. «Tu sei una mortale.»

«Una mortale che ha toccato la mente di un dio.»

Chemosh le rivolse uno sguardo penetrante. Se fosse stata sorridente, compiaciuta e trionfante, lui l’avrebbe uccisa sul posto.

La vide seria, ignara. Lei lo amava, lo adorava.

Chemosh emise un sospiro profondo, rassicurato.

«È Sargonnas. Il dio dalle corna se ne va in giro per il cielo tutto tronfio e vanitoso come fosse il re di tutti noi.» Chemosh camminava adirato a grandi passi avanti e indietro lungo la riva del fiume. «Si gloria delle sue vittorie a Silvanesti, si vanta di avere schiacciato gli elfi, ride di come ha abbindolato gli orchi facendo loro credere che i minotauri siano loro alleati. Fa lo spaccone dicendo che lui e le sue vacche presto saranno i dominatori incontrastati della parte orientale di Ansalon.»

«Sono solo millanterie, mio signore», commentò sdegnata Mina.

«No», disse Chemosh. «Il dio-toro sarà anche uno zotico maleducato, ma ha un rozzo genere di onore e non mente.» Chemosh si interruppe nel suo andirivieni e si girò verso Mina. «È ora che mettiamo in azione il nostro piano.»

«Sicuramente è ancora presto, mio signore», protestò Mina. «Il numero dei nostri Prediletti cresce, ma non ce ne sono ancora abbastanza e si trovano per lo più nella parte occidentale di Ansalon, non in quella orientale.»

Chemosh scrollò il capo. «Non possiamo aspettare. Sargonnas si rafforza ogni giorno di più e gli altri dèi sono ciechi verso la sua ambizione o troppo preoccupati dei loro interessi per vedere il pericolo. Se lui conquista l’est, davvero credono che si accontenterà di questo? Dopo secoli in cui sono rimasti intrappolati nelle loro isole, i minotauri hanno finalmente conquistato una posizione solida sul continente. Lui mira a dominare non soltanto l’est ma tutto il mondo e per giunta il cielo.»

Chemosh serrò il pugno. «Io sono l’unico in grado di sfidarlo. Devo agire adesso prima che diventi ancora più forte. Dov’è quello sciocco di Krell?» Si guardò attorno, come se il cavaliere della morte potesse essere nascosto sotto una pietra.

«A fare danni da qualche parte, presumo, mio signore», disse Mina. «Ho perso le sue tracce.»

«Anch’io. Lo convocherò perché venga da noi nell’Abisso. Tu devi abbandonare per un po’ di tempo questo piano di esistenza, Mina. Devi abbandonare l’opera che ti è tanto cara.»

Diede un’occhiata sdegnosa alla coperta spiegazzata, all’impronta ancora fresca dei due corpi intrecciati.

«Voi mi siete caro, mio signore», mormorò Mina. «La mia opera è soltanto questo: la mia opera.»

Chemosh vide il proprio riflesso negli occhi d’ambra di lei. Non ne vide alcun altro. Le prese le mani e se le portò alle labbra. «Perdonami. Non sono me stesso.»

«Forse è questo il problema, mio signore», disse Mina.

Chemosh si soffermò a riflettere su questo. «Forse hai ragione. Di questi tempi non sono nemmeno sicuro che cosa sia "me stesso". Era più facile quando in cielo regnavano Takhisis e Paladine. Allora noi conoscevamo la nostra collocazione. Forse non ci piaceva. Forse inveivamo contro di loro e ci irritavamo sotto quel giogo, ma vi erano ordine e stabilità in cielo e nel mondo. C’è qualcosa da dire a favore di pace e sicurezza, dopo tutto. Io potevo dormire con entrambi gli occhi chiusi invece di tenerne uno sempre aperto, sempre sul chi vive perché qualcuno potrebbe intrufolarsi alle mie spalle.»

«Così avete perso qualche millennio di sonno, mio signore», osservò Mina. «Ne sarà valsa la pena, quando sarete il dominatore e gli altri si inchineranno davanti a voi.»

«Come hai acquisito una simile saggezza?» Chemosh la prese fra le braccia, la tenne stretta e le premette le labbra sul collo. «Ho preso una decisione. Mai più i rozzi mortali faranno festa con te. Le goffe labbra mortali non ti provocheranno più lividi sulla carne. Tu sei amata da un dio. Il tuo corpo, la tua anima sono miei, Mina.»

«Lo sono sempre stati, mio signore», disse lei, rabbrividendo nell’abbraccio.

Le tenebre calarono su Chemosh, avvolsero lui e circondarono Mina, trasportando entrambi verso un’oscurità più profonda, più densa, più calda, illuminata dall’unica fiamma di candela dell’estasi.

«E sempre lo saranno.»


Chemosh ritornò nell’Abisso e lo trovò buio e desolato. Non poteva che incolpare se stesso. Avrebbe potuto rischiarare l’Abisso come il cielo, riempirlo di lampadari e candelabri, lampade accese e lanterne luccicanti. Avrebbe potuto popolarlo, arredarlo, arricchirlo di canti e danze. Nei millenni passati l’aveva fatto. Adesso no. Aborriva troppo la sua dimora per cercare di cambiarla. Lui voleva, doveva stare fra i vivi. E adesso era ora di incominciare a mettere in azione il suo progetto per conquistare ciò che desiderava il suo cuore.

Attese con impazienza Krell e fu lieto di udire finalmente il crepitare e lo sferragliare del cavaliere della morte, che attraversava l’Abisso con passo pesante, avanzando a fatica, come stesse arrancando nel fango denso di un campo di battaglia. I suoi occhi erano due punte di spillo rosse. Piccoli e ravvicinati, a Chemosh ricordavano gli occhi di un maiale demoniaco.

Bramando qualcosa di meglio da guardare, Chemosh spostò lo sguardo su Mina. Era vestita di nero, una lunga veste di seta che le ricadeva morbida sulle curve del corpo come il tocco delle mani di lui. Il seno le si sollevava e abbassava con il respiro. Chemosh le vedeva il debole tremolio della pulsazione di vita nell’incavo della gola. A un tratto desiderò che Krell fosse lontano mille miglia, ma adesso non poteva abbandonarsi, non ancora.

«Allora, Krell, finalmente sei qui», lo accolse bruscamente Chemosh. «Mi dispiace averti distolto dal massacro di nani di fosso o da qualche altro tuo divertimento, ma ho un incarico per te».

«Non stavo massacrando nani di fosso», ribatté imbronciato Krell. «Non c’è alcun piacere in questo, quelle bestioline non combattono neanche. Squittiscono come conigli e poi cadono e si pisciano addosso.»

«Era una battuta, Krell. Eri sempre così stupido oppure la morte ha avuto su di te un brutto effetto?»

«Non sono mai stato bravo a capire le battute, mio signore», ammise Krell, soggiungendo freddamente: «E voi dovreste sapere dov’ero. Mi ci avete mandato voi. Eseguivo i vostri ordini, portandovi nuove reclute.»

«Davvero?» Chemosh congiunse la punta delle dita, picchiettandole leggermente. «E sta andando bene?»

«Molto bene, mio signore.» Krell dondolò sui talloni, soddisfatto di sé. «Credo che troverete le mie reclute molto più soddisfacenti di altre.»

Diede un’occhiata a Mina. Lei lo aveva salvato, liberato dalla dea che lo tormentava e dalla prigione fra le rocce, ma lui la odiava, nonostante tutto.

«Per lo meno le mie reclute sono fidate», ribatté Mina. «È improbabile che tradiscano il loro padrone.»

Krell serrò i pugni e fece un passo verso di lei.

Mina si alzò dalla sedia per affrontarlo. Aveva la pelle pallida, gli occhi luccicanti d’oro. Era intrepida, bellissima nel suo coraggio, radiosa nella sua collera. Chemosh si concesse un attimo di piacere, poi si costrinse a tornare agli affari.

«Mina, ritengo che tu debba lasciarci soli.»

Mina rivolse a Krell un’occhiata diffidente. «Mio signore, a me non piace...»

«Mina», disse Chemosh. «Ti ho dato un ordine. Ti ho detto di andartene.»

Mina sembrò incline a discutere. Dopo un’occhiata al viso rabbuiato e torvo del dio, però, si acquietò. Raccolse la lunga gonna e si allontanò.

«Dovete tenerla in riga», consigliò Krell. «Si sta un po’ montando la testa. Peggio di una moglie. Dovreste ucciderla e basta. Da morta darebbe meno fastidio che da viva.»

Chemosh assalì il cavaliere. La luce negli occhi del dio era sinistra, una luce più buia delle tenebre. Quel poco che rimaneva del cavaliere della morte si accartocciò dentro l’armatura.

«Adesso sei mio, Krell, non dimenticarlo», sussurrò Chemosh, «e che con un colpetto del dito posso ridurti a un cumulo di sterco».

«Sì, mio signore», disse Krell, soggiogato. «Chiedo scusa, mio signore.»

Chemosh evocò una sedia, evocò un’altra sedia, evocò un tavolo e lo collocò in mezzo a loro due.

«Siediti, Krell», lo invitò con stizza. «Mi pare che ti piaccia giocare a khas.»

«Forse sì, mio signore», rispose Krell guardingo, sospettando una trappola.

Fissò intensamente la sedia, che si era materializzata dall’oscurità dell’Abisso. Quando pensava che Chemosh non stesse guardando, Krell diede alla sedia un colpetto di nascosto col dito.

«Siediti, Krell», ripeté freddamente Chemosh. «Mi piace vedere gli occhi, perfino gli occhi di maiale, allo stesso livello dei miei.»

Il cavaliere della morte calò pesantemente sulla sedia il proprio nulla incassato nell’armatura.

Chemosh agitò la mano e un unico punto di luce illuminò dall’alto un tabellone per il khas.

«Che ne dici di questi pezzi, Krell?» domandò con noncuranza Chemosh. «Li ho fatti fare appositamente. Sono fatti di osso.»

Krell stava per dire che non gli importava un fico secco anche se fossero stati fatti di sterco di cavallo, ma poi incrociò lo sguardo di Chemosh. Con pollice e indice guantati Krell raccolse una pedina, realizzata in modo da assomigliare a un goblin, e fece finta di ammirarla.

«Ottima fattura, mio signore. È degli elfi?»

«No», disse Chemosh. «Goblin. Questi pezzi sono degli elfi.» Indicò i due chierici elfi.

«Non sapevo che i goblin sapessero intagliare così bene», osservò Krell, stringendo il goblin per il collo mentre lo scrutava intensamente.

Chemosh emise un sospiro profondo. Perfino la vita di un dio era troppo breve per sopportare uno così duro di comprendonio come Ausric Krell.

«Non è affatto intagliato, zuccone ottuso. Quando ho detto che è fatto di osso, volevo dire che... Oh, lascia perdere. È un goblin quello che hai in mano. Un goblin morto, rimpicciolito.»

«Ah, ah!» Krell rise di cuore. «Questa è bella. E questi sono elfi morti?» Diede un colpetto a uno dei chierici. «E questo è un kender morto...»

«Basta, Krell!» Chemosh inspirò profondamente, quindi proseguì con quanta più pazienza poté. «Io sto per lanciare la mia campagna.»

Il dio poggiò i gomiti sul tavolo, sui due lati del tabellone per il khas, e si chinò su questo, come contemplando una mossa.

«L’azione che progetto di intraprendere attirerà necessariamente l’attenzione degli altri dèi. Una sola dea costituisce una minaccia significativa per me. Una sola dea potrebbe essere un ostacolo serio. In effetti ha già incominciato a infastidirmi notevolmente.»

Fissò lo sguardo su Krell, per accertarsi che stesse attento.

«Sì, mio signore.» Krell adesso pareva meno stupido. Campagna, battaglia: queste erano cose che lui capiva.

«La dea che mi interessa è Zeboim», disse Chemosh.

Krell grugnì.

«Si è trovata un seguace, un monaco di Majere espulso dall’ordine, che per caso ha scoperto il segreto dei Prediletti di Chemosh. Lo ha detto a Zeboim, e lei minaccia di smascherarmi se io non ti riporto al Bastione della Tempesta.»

«Voi non avete intenzione di farlo, vero, mio signore?» domandò nervosamente Krell.

Allungando la mano, Chemosh raccolse uno dei suoi pezzi dal lato delle tenebre, il pezzo chiamato cavaliere. Accarezzò il pezzo, lo rigirò in mano.

«In realtà sì. Aspetta!» Sollevò una mano, mentre Krell squittiva un’irata protesta. «Stammi a sentire. Che ne pensi di questa mossa, Krell?»

Lentamente e intenzionalmente collocò il pezzo davanti alla regina nera.

«Non potete fare una mossa del genere, mio signore», tuonò Krell. «È contro le regole.»

«Infatti, Krell», ammise Chemosh. «Contro ogni regola. Prendi quel pezzo. Guardalo bene. Che cosa ti sembra?»

Krell sollevò il pezzo e lo scrutò attraverso le fessure per gli occhi del proprio elmo. «È un cavaliere che cavalca un drago.»

«Descrivilo meglio», lo sollecitò Chemosh.

«Il cavaliere è un Cavaliere delle Tenebre di Takhisis», affermò Krell, dopo un esame più attento. «Ha sull’armatura il simbolo col giglio e col teschio.»

«Acuta osservazione, Krell», osservò Chemosh.

Krell ne rimase compiaciuto, non notando il sarcasmo. «Indossa una cappa e un elmo e cavalca un drago azzurro.»

«Ti sembra di riconoscere quel cavaliere, Krell?» domandò Chemosh.

Krell tenne il pezzo praticamente contro il naso. Gli occhi rossi gli si infiammarono.

«Lord Ariakan!» Krell fissò il pezzo, incredulo. «Fino al minimo dettaglio!»

«Infatti, Lord Ariakan, amato figlio di Zeboim. Il tuo compito è custodire quel pezzo del khas, Krell. Conservalo al sicuro ed esegui alla lettera i miei ordini. Perché è così che terremo imprigionata la Regina del Mare nel suo lato del tabellone, completamente e assolutamente inerme.»

Gli occhi rossi del cavaliere della morte si fissarono sul pezzo e tremolarono dubbiosi. «Non vi capisco, mio signore. Perché alla dea dovrebbe importare un pezzo del khas? Anche se assomiglia effettivamente a suo figlio...»

«Perché è suo figlio, Krell», precisò Chemosh. Si appoggiò all’indietro sulla sedia, poggiò i gomiti sui braccioli e congiunse la punta delle dita.

La mano di Krell si contorse e quasi lasciò cadere il pezzo. Lo depose in fretta e se ne ritrasse.

«Puoi toccarlo, Krell. Non ti morde. Be’, ti morderebbe, se potesse prenderti. Ma non può.»

«Ariakan è morto», fece notare Krell. «Sua madre si è portata via il corpo...»

«Oh, sì, è proprio morto», concordò compiacente Chemosh. «È morto, per via del tuo tradimento, e la sua anima è venuta a me, come tutte le anime dei morti. Per la maggior parte mi passano per le mani fuggevolmente come scintille che si sollevano verso il cielo, dirette verso la prosecuzione del loro viaggio. Altre, come te, Krell, restano imprigionate in questo mondo per punizione.»

Krell ringhiò, un rimbombo nella bara della sua armatura.

«Altre ancora, come il mio Lord Ariakan, si rifiutano di andarsene. Talvolta non sopportano di separarsi da una persona amata. Talvolta non sopportano di separarsi da qualcuno che odiano. Queste anime sono mie.»

Gli occhi rossi tremolarono, quindi Krell incominciò a capire. Gettò indietro la testa ed emise una risata sgangherata che riecheggiò in tutto l’Abisso.

«La sete di vendetta di Ariakan nei miei confronti lo tiene intrappolato qui. Ora, questa sì che è una bella battuta, una che io so apprezzare.»

«Sono contento che tu ti diverta tanto facilmente, Krell. Adesso, se puoi smettere di gongolare per un attimo, ho i miei ordini per te.»

«Sono tutto orecchi, mio signore.»

Krell ascoltò attentamente gli ordini, quindi pose alcune domande che effettivamente rasentavano l’intelligenza.

Soddisfatto perché questa parte del piano sarebbe andata avanti, Chemosh congedò il cavaliere della morte.

«Confido che non ti dispiacerà tornare al Bastione della Tempesta, Krell.»

«No, fintanto che sono libero di andarmene quando voglio, mio signore», disse il cavaliere della morte. «Potrò andarmene quando il mio dovere sarà compiuto?»

«Naturalmente, Krell.»

Il cavaliere della morte raccolse il pezzo del khas, lo guardò per un attimo, ridacchiò, quindi se lo infilò nel guanto. «A dire il vero, sento quasi la mancanza di quel posto.»

«Custodisci bene quel pezzo del khas», lo ammonì Chemosh.

«Non lo perderò di vista», ribatté Krell reprimendo il riso. «Su questo potete contarci, mio signore.»

Krell se ne andò a passi pesanti, continuando a ridere fra sé.

«Mina», disse Chemosh, contrariato, «mi stavi spiando?»

«Non spiavo, mio signore», rispose lei uscendo dall’oscurità. «Ero preoccupata. Non mi fido di quel demonio. Ha tradito già una volta il suo signore. Lo farà di nuovo.»

«Ti assicuro che io sono in grado di sistemarlo, Mina», ribatté freddamente Chemosh.

«Lo so, mio signore. Chiedo scusa.» Mina gli si avvicinò. Lo prese fra le braccia, si strinse a lui. Gli poggiò la testa sul petto.

Chemosh sentiva il calore di lei, percepiva il profumo dei suoi capelli che gli sfioravano la pelle.

Da morta darebbe meno fastidio che da viva.

Era, dopo tutto, una cosa da prendere in considerazione.

«Perché ti preoccupi di Zeboim, mio signore?» domandò Mina, ignara dei pensieri di lui. «Lo so che c’è questo monaco che ficca il naso dappertutto, ma ti basterebbe darmi il permesso di sistemarlo...»

«Il monaco è una scocciatura», taglio corto Chemosh. «Niente di più. L’ho tirato dentro solo per far sapere alla dea che so che cosa sta combinando. E anche per distrarla dal mio vero scopo.»

«E qual è, mio signore?»

«Andremo alla ricerca di un tesoro sepolto, Mina. Il tesoro più ricco mai conosciuto da uomini o dèi.»

Mina lo fissò, perplessa. «Che bisogno avete di un tesoro? La ricchezza per voi è come polvere.»

«Il tesoro che cerco non si compone di cose insignificanti quali monete d’acciaio o corone d’oro, collane d’argento o gingilli di smeraldi», ribatté Chemosh, con scherno. «Il tesoro che cerco io è fatto di materiale molto più prezioso. È fatto di... me stesso.»

Mina lo guardò, lo fissò a lungo negli occhi. «Credo di capire, mio signore. Il tesoro è...»

Lui le mise il dito sulle labbra. «Neanche una parola, Mina. Non ancora. Non sappiamo chi possa essere in ascolto.»

«Posso chiedere dove si trovi questo tesoro, mio signore?»

Lui la prese fra le braccia, la strinse nel suo abbraccio e disse a bassa voce: «Nel Mare di Sangue. È lì che andremo, io e te, quando certi occhi indiscreti saranno chiusi e certi orecchi tesi saranno otturati».

2

Lord Ausric Krell detestava il Bastione della Tempesta. Aveva esultato nel venire liberato da quel luogo, aveva giurato di non metterci piede mai più, se non per demolirlo, eppure quando si trovò di nuovo sulle pietre del cortile spazzato dal vento e dalle onde provò un vero piacere. Se n’era andato da prigioniero, sgattaiolando fuori con ignominia, e adesso ne era signore e padrone.

Rise forte all’udire le fiacche ondate che andavano a frangersi sugli scogli. Sporgendosi oltre il ciglio del dirupo fece un gesto volgare al mare, urlò un’oscenità. Rise di nuovo e riattraversò a passi lunghi e rapidi il cortile, diretto verso la Torre del Giglio e la biblioteca. Zeboim si sarebbe presto resa conto del suo ritorno e lui doveva avere tutto pronto.


Zeboim si trovava nel Mare di Sangue, ad aiutare suo padre, Sargonnas, quando udì l’imprecazione di Krell. I minotauri stavano lanciando una grandiosa forza di spedizione per consolidare il loro dominio su Silvanesti. Una flotta di navi – navi da guerra, navi da carico, trasporto di truppe e navi piene di immigrati – stavano partendo dalle isole dei minotauri, facendo vela per Ansalon.

Questo era il momento di trionfo supremo per Sargonnas e lui non voleva che niente lo guastasse. Chiese alla figlia mari calmi e venti favorevoli, e Zeboim, non avendo niente di meglio da fare, acconsentì ad assecondare la sua richiesta. In cambio, i minotauri le offrirono doni sontuosi e organizzarono giochi di combattimento in suo onore nel loro Circo.

Fu versato del sangue in onore di Zeboim. Braccialetti d’oro e orecchini d’argento ricoprirono i suoi altari. Come poteva una dea rifiutare?

Le vele si gonfiarono. I venti ricoprirono il mare azzurro di schiuma bianca che ribolliva e si frangeva sotto le prue incalzanti dei vascelli dei minotauri. I marinai cantavano e danzavano sui ponti che rollavano. Zeboim danzava con loro sull’acqua spumeggiante.

Poi giunse la voce di Krell a rimbombare in tutto il mondo.

Krell maledisse il nome di Zeboim. Maledisse il suo vento e la sua acqua. Imprecò contro di lei, poi rise.

Volgendo nella sua direzione gli occhi dalla vista acuta, Zeboim vide Krell in piedi su un dirupo in cima al Bastione della Tempesta.

La dea non si soffermò a riflettere. Non si domandò come lui fosse arrivato lì né perché si sentisse tanto audace da sfidarla. Rapida come acque alluvionali impetuose precipitanti dalle montagne, Zeboim attraversò i cieli e si riversò sul Bastione della Tempesta con un torrente di furia che sferzò i mari e li fece sollevare e schiantarsi sui dirupi.

Zeboim percepì la schifosa presenza di Krell nella Torre del Giglio. Percosse la pesante porta che conduceva alla Torre, la mandò in frantumi, e con un ampio gesto della mano scagliò i detriti verso i quattro punti cardinali. Irruppe nei freddi corridoi di pietra, che vennero così inondati di acqua marina, fino a trovare Krell seduto a proprio agio su una sedia nella biblioteca.

La dea era sempre troppo impaziente per soffermarsi a osservare i dettagli, che per lei erano comunque insignificanti. Zeboim non vide nient’altro che il cavaliere della morte. All’improvviso rimase pericolosamente calma, come i mari prima dell’uragano, quando, dicono i marinai, il vento «mangia» le onde.

«Allora, Krell», lo apostrofò Zeboim, con voce bassa e minacciosa. «Chemosh finalmente si è stancato di te e ti ha ributtato in questo mucchio di rifiuti.»

«Veramente, adesso, mia signora», ribatté Krell, appoggiandosi all’indietro comodamente sulla sedia e incrociando le gambe, «non dovreste chiamare mucchio di rifiuti questa bella fortezza che voi stessa avete costruito per il vostro amato figlio, il defunto e compianto Lord Ariakan».

Zeboim attraversò la stanza con un balzo. Un fulmine balenò nel cielo, scoppiò un tuono. L’aria sfrigolò per la collera della dea. Zeboim incombeva su Krell, tuonando e sprizzando scintille.

«Come osi insudiciare il suo nome menzionandolo! L’ultima volta che l’hai fatto ti ho tagliato la lingua col mio coltello e ti ho guardato soffocare nel tuo stesso sangue. Ti restituirò la lingua solo per avere il piacere di tagliartela...»

Sollevò la mano.

«Attenzione, mia signora», la redarguì Krell imperturbabile. «Non fate niente che possa rovesciare il tabellone del khas. Io sono nel bel mezzo di una partita.»

«Vada nell’Abisso la tua partita!» Zeboim abbassò le mani per afferrare il tabellone e rovesciarlo, sparpagliare i pezzi, calpestarli, polverizzarli. «E vai nell’Abisso anche tu, Ausric Krell! Questa volta ti annienterò completamente e definitivamente!»

«Io non lo farei, mia signora», suggerì freddamente Krell. «Non toccherei quel tabellone per il khas se fossi in voi. Se lo toccate, ve ne pentirete.»

Il tono della sua voce, di scherno e compiacimento, e uno scaltro bagliore giallo al centro della fiamma rossa degli occhi fecero esitare la dea. Non capiva che cosa stesse succedendo, e un po’ tardivamente si pose le domande che si sarebbe dovuta porre prima di arrivare al Bastione della Tempesta.

Perché Krell era ritornato volontariamente nella sua prigione? Zeboim aveva immaginato che Chemosh avesse abbandonato il cavaliere della morte, rinchiudendolo di nuovo in questa fortezza. Adesso che vi prestava attenzione, percepì la presenza del Signore della Morte. Chemosh teneva la mano su Krell per proteggerlo, così come Krell teneva la mano sul tabellone del khas per proteggerlo. Krell agiva con la benedizione di Chemosh, una benedizione che rendeva Krell abbastanza ardito da imprecare contro di lei, da sfidarla.

Perché? Qual era il gioco di Chemosh? Zeboim non pensava fosse il khas. Sforzandosi di riacquistare almeno una parvenza di compostezza, si piantò le unghie nella palma delle mani e si rimangiò le parole che avrebbero ridotto Ausric Krell a un mucchio sfrigolante di metallo fuso.

«Di che parli, Krell?» domandò Zeboim. «Perché dovrebbe importarmi qualcosa di questo tabellone del khas o di qualunque altro tabellone del khas se è per questo?»

Parlò con disdegno ma, pensando che Krell non stesse guardando, diede di nascosto un’occhiata rapida e inquieta al tabellone. Sembrava piuttosto normale come un tabellone per il khas. A Zeboim non era mai piaciuto il khas. Non le piaceva nessun gioco, se è per questo. I giochi volevano dire competizione, e competizione voleva dire che qualcuno vinceva e qualcuno perdeva. L’idea che lei potesse perdere era talmente ridicola che non valeva nemmeno la pena di essere presa in considerazione.

«Questo è un tabellone per il khas assai prezioso, mia signora. Vostro figlio, il mio signore Ariakan, l’aveva fatto costruire appositamente per sé. Perché non vi sedete a terminare la partita con me?» la invitò Krell. Indicò con un gesto il tabellone. «Prendete i pezzi neri. Tocca a voi muovere.»

Zeboim scrollò il capo e piovve spuma di mare in tutta la stanza. «Non ho alcuna intenzione...»

«Tocca a voi, mia signora», ripeté Ausric Krell, e gli occhi rossi tremolarono di divertimento.

La presenza di Chemosh era intensissima. Zeboim fu tentata di chiamarlo, poi decise di non dargli questa soddisfazione. Non le piaceva che Krell continuasse a parlare di suo figlio. In lei si destò la paura, una paura irrazionale.

Chemosh era sempre stato un dio ombroso, il meno noto a lei fra tutti gli dèi; si teneva sulle sue, non faceva amicizia, non stringeva alleanze. Dopo il ritorno degli dèi nel mondo, Chemosh si era fatto ancora più riservato, ritirandosi verso ombre più profonde e tenebrose. L’ardore della sua ambizione si percepiva, però, in tutto il cielo, sputava fuori vapore, provocava piccole scosse, come la lava fusa che ribolle nelle profondità oscure di una montagna.

«Non so niente di questo gioco», disse sdegnosamente Zeboim. «Non so quali pezzi muovere e veramente non mi interessa.»

«Posso suggerire una mossa, mia signora?»

Krell faceva l’educato, ma la dea sentì gorgogliare una risata nell’armatura vuota. Le prudevano le mani per afferrare quell’armatura e lacerarla. Si strinse una mano con l’altra per trattenersi.

Krell si chinò sul tabellone. Indicò col grosso dito guantato: «Vedete quel cavaliere sul drago azzurro? Quello vicino alla figura della regina? Io prenderò quel pezzo con la torre se non fate una mossa per impedirmelo.»

La collocazione dei pezzi sugli esagoni del tabellone non le diceva niente. I pezzi erano sparpagliati qua e là, alcuni su esagoni di un lato del tabellone e altri su esagoni dell’altro lato; alcuni erano rivolti verso i loro sovrani e altri erano girati dall’altra parte. Il cavaliere indicato da Krell sembrava essere nel bel mezzo di qualche sorta di azione, poiché lui e la regina di cui era al servizio erano circondati da altri pezzi. Come le risultava più naturale, Zeboim si concentrò sulla regina.

Studiò attentamente il pezzo e all’improvviso le si spalancarono gli occhi. La regina era lei, in piedi su una conchiglia, col vestito verde mare che le schiumava attorno alle caviglie, e il volto intagliato con dettagli delicati.

A Zeboim si intenerì il cuore. Suo figlio aveva fatto evidentemente intagliare questo tabellone come tributo a lei. Strinse affettuosamente il pezzo, riluttante a rimetterlo giù.

«Adesso che avete preso in mano il pezzo, mia signora, dovete muoverlo», le suggerì Krell. «Potreste collocarlo su questo esagono qui. In questo modo io non potrò minacciare vostro figlio.»

Zeboim ancora non capiva bene che cosa stesse succedendo. «Andrò avanti col tuo stupido gioco ancora per poco, Krell», lo avvertì.

Mentre la dea fece per collocare il pezzo dove aveva indicato lui, le parole di Krell all’improvviso la colpirono.

In questo modo io non potrò minacciare vostro figlio.

Zeboim lasciò cadere la regina, che rotolò sul tabellone del khas, rovesciando un paio di pedine, e finalmente si fermò ai piedi del re nero. La dea afferrò il cavaliere sul drago azzurro. Vide immediatamente la somiglianza con Ariakan.

Calarono i venti di tempesta. Le nubi temporalesche si addensarono. Le acque del mare turbinarono, lambendo minacciosamente le rocce del Bastione della Tempesta. La dea rigirò nella mano il pezzo del khas raffigurante suo figlio.

«Una bella somiglianza», osservò con diffidenza.

«Davvero», convenne Krell in tono semiserio. «Penso che lo scultore abbia colto perfettamente Lord Ariakan. Il volto è così espressivo, specialmente gli occhi. Si può guardarvi dentro e vedergli l’anima...»

Le nubi della confusione di Zeboim si diradarono, frantumate da un freddo vento di terrore. Lei aveva amato Ariakan, l’aveva adorato, aveva stravisto per lui. La sua morte aveva lasciato un vuoto che tutto il creato non avrebbe potuto colmare. Guardò gli occhi del pezzo del khas e gli occhi del pezzo guardarono lei, adirati, furiosi, inermi...

Zeboim emise un grido sordo. «Chemosh!» Guardò freneticamente in giro per la stanza. «Chemosh!» ripeté, alzando la voce fino a un ululato di furia e paura e sgomento. «Libera mio figlio! Liberalo! Subito! In questo momento! Altrimenti io...»

«Voi che cosa?» disse Krell.

Allungando la mano, Krell strappò via dalle dita tremanti di Zeboim la figura di Lord Ariakan. «Minacciate ciò che volete, mia signora. Date in escandescenze ed esplodete. Non potete farci niente.»

Ricollocò il pezzo sul tabellone del khas. La figura della dea giaceva ai piedi del re nero, e adesso Zeboim vide che il re era realizzato con le fattezze del Signore della Morte. Zeboim fissò la figura, con la gola che le si serrava, al punto che quasi non riusciva a parlare.

«Che cosa vuole da me Chemosh?» domandò con un tono basso e strozzato.

«Vuole i mari calmi. I venti fermi. Le onde piatte. Vuole che un certo monaco smetta di infastidire. Oltre a questo, qualunque cosa accada in qualsiasi parte del mondo, o al di sotto di esso, voi non intraprenderete alcuna azione. Insomma non farete nulla, perché non vi è nulla che possiate fare, senza mettere in pericolo il vostro caro figlio.»

«Che cosa diamine sta tramando Chemosh?» chiese Zeboim in tono soffocato.

Krell alzò le spalle. Raccogliendo la figura della regina, la tolse dal tabellone e la depose da parte, lontano dalla battaglia. Quindi raccolse la figura del cavaliere. Tenne in mano il cavaliere, stringendogli la testa fra pollice e indice.

«Siete d’accordo, mia signora?»

Zeboim rivolse alla figura un’occhiata tormentata. «Chemosh deve promettere di liberare mio figlio.»

«Oh, sì», rispose Krell. «Lo promette. Il giorno del suo trionfo, re Chemosh libererà l’anima di Lord Ariakan. Avete la sua parola.»

«Re Chemosh!» Zeboim emise una risata amara. «Non succederà mai!»

«Per amore di vostro figlio, mia signora, dovreste pregare che succeda. Accettate?» Avvolse nel pugno guantato il pezzo del khas, nascondendolo alla vista di lei.

«Accetto!» gridò Zeboim, incapace di pensare ad altro che agli occhi tormentati del figlio. «Accetto.»

«Bene», disse Krell. Rimise il cavaliere sul tabellone, lo collocò davanti al re nero. «E adesso io voglio ritornare alla mia partita. Avete il permesso di andare, mia signora.»

La furia pulsava alle tempie di Zeboim, le palpitava in seno, fu sul punto di soffocarla. Su tutto il mondo i cieli si oscurarono. Mari e fiumi presero a sollevarsi. Le navi beccheggiarono precariamente sulle acque turbolente. La gente urlò che l’ira di Zeboim si sarebbe presto scatenata, apportando uragani, tifoni, trombe d’aria, inondazioni, morte e distruzione. Tutti alzarono lo sguardo verso le nubi ondeggianti e ribollenti e attesero con terrore che la violenza della dea si scatenasse su di loro.

Zeboim perlustrò i cieli in cerca di aiuto. Invocò suo padre, Sargonnas, ma lui aveva orecchi soltanto per i suoi minotauri. Cercò il suo fratello gemello, Nuitari, Dio della Luna Nera, ma non si trovava da nessuna parte.

Loro non potevano fare niente comunque, si rese conto Zeboim. Neanche lei poteva fare niente.

La dea emise un profondo gemito raccapricciante. Dai cieli caddero goccioline di pioggia. Le nubi si disintegrarono in filamenti frastagliati. Il vento si smorzò fino a diventare appena un sussurro. Le acque del mare si appiattirono.

Sul Bastione della Tempesta le onde lambivano mitemente gli scogli. Le nubi tonanti si allontanarono e il sole splendette vivido, tanto vivido che Krell, non essendovi abituato, trovò fastidiosa quella luce e fu costretto ad abbandonare la partita a khas per chiudere le imposte.

3

Le navi della forza di spedizione dei minotauri strisciavano come insetti su un mare piatto come l’olio. I rematori delle enormi triremi faticavano incessantemente, giorno e notte, finché molti crollavano per lo sfinimento. Cibo e acqua dovettero essere razionati. Equipaggi e passeggeri incominciarono ad ammalarsi e a morire. In tutto il mondo le navi languivano su mari privi di vita. Dappertutto i marinai pregavano Zeboim perché venisse in loro soccorso, ma non giunse nulla. Per la disperazione, alcuni si rivolsero ad altri dèi affinché intercedessero a loro favore presso Zeboim.

Sargonnas, in particolare, sarebbe stato lieto di farlo. I suoi eserciti dovevano approdare a Silvanesti a mezza estate, per sfruttare il bel tempo per fortificare le difese, conquistare nuovi tenitori, costruire nuove case per gli immigrati. Per come si muovevano lentamente le navi, sarebbero arrivate in tempo per celebrare la festa del solstizio d’inverno.

Quelle che fossero arrivate...

Infuriato, il dio dalle corna percorse a grandi passi i cieli alla ricerca di sua figlia. Non aveva idea di quale perverso capriccio avesse colto Zeboim, ma quest’ultima smania bizzosa doveva finire. I piani di Sargonnas per la conquista sia del mondo mortale sia del piano celeste venivano pregiudicati.

Sargonnas perlustrò i mari e i fiumi, i torrenti e i ruscelli. Cercò fra le nubi che non ribollivano e non si rimescolavano più ma si radunavano in una massa grigia che densa e piangente si disponeva sopra i mari calmi. Il dio dissolse le foschie, lacerò le nebbie e urlò con voce tonante il nome di Zeboim.

La dea non rispose. Era scomparsa e nessuno degli altri dèi, nemmeno Zivilyn dalla vista acuta, sapevano dove fosse andata.


Anche Rhys cercava Zeboim. Pur essendo molto più umile degli dèi, la cercava con pari zelo e finora con pari fortuna.

Rhys e Nightshade rimasero a Solace per diversi giorni, proseguendo le loro indagini su quei morti robusti e amanti della vita. Rhys teneva d’occhio da vicino suo fratello, mentre Nightshade vagabondava per la città, cercando altri cadaveri viventi. Il loro numero cresceva. Il kender ne notava ogni giorno di più. Tutti loro ridevano, parlavano, bevevano, facevano baldoria. Tutti loro erano involucri di carne tenebrosi, vuoti e privi di vita.

«Ieri mattina ne ho vista una di loro che amoreggiava con un giovanotto», raccontò Nightshade a Rhys. «Stamattina ho visto di nuovo lui.»

Rhys rivolse al kender un’occhiata interrogativa.

«Non ho potuto farci niente, Rhys», protestò Nightshade, disorientato. «Ho cercato di avvertirlo di non ronzare attorno a quel genere di donna. Mi ha risposto che dovevo farmi gli affari miei e che se mi avesse beccato di nuovo a ficcare il naso mi avrebbe ridotto in poltiglia e mi avrebbe infilato in una delle mie sacche.»

«Dobbiamo fare qualcosa per fermare questi Prediletti di Chemosh», disse Rhys. «Io sono riuscito a impedire a mio fratello di uccidere diverse volte, più spaventando la vittima e facendola scappare che facendo qualcosa a lui. Lleu si rifiuta di parlare con me, quando si ricorda di me, il che è raro. A quanto pare non ha alcun ricordo di me che cercavo di ucciderlo oppure, se ne ha, non mi serba rancore, perché quando io lo affronto lui si limita a ridere e si allontana. E io non posso stargli attorno giorno e notte. Lui non ha bisogno di dormire. Io sì.»

Guardò con amara frustrazione Lleu, il quale gironzolava spavaldo per la strada principale di Solace, col cappello inclinato all’indietro, come per sentire sul volto il sole del mattino, a parte che piovigginava. Piovigginava ormai da giorni, e Solace era un mare di fango e di abitanti fradici e scontrosi.

Lleu procedeva canticchiando. Dapprima accennava un motivetto ballabile. Poi aveva preso a canticchiarne alcuni brani e frammenti. Adesso il suo canticchiare non era più riconoscibile, era stonato e stridente, come se lui avesse dimenticato la canzone, ed era probabilmente così, pensò Rhys. Proprio come dimenticava da un momento all’altro se avesse mangiato o bevuto oppure no. Proprio come dimenticava Rhys. Proprio come dimenticava le sue vittime nel momento in cui le uccideva.

«Rhys», chiamò all’improvviso Nightshade, tirandolo per la manica bagnata. «Guarda! Dove sta andando?»

Rhys era assorto nei suoi pensieri, che erano deprimenti come la giornata, e non prestava attenzione. Aveva immaginato che Lleu stesse ritornando alla Mangiatoia, dove passava il tempo quando non faceva l’amore micidiale con una giovane donna condannata. Rhys scrutò attraverso la pioggia intermittente e vide che Lleu aveva deviato prendendo una direzione diversa. Si dirigeva verso la strada maestra.

«Credo che stia uscendo dalla città», suggerì Nightshade.

«Penso che tu abbia ragione», convenne Rhys, fermandosi tanto di colpo che colse di sorpresa Atta. La cagna avanzò di alcuni passi prima di rendersi conto di avere perso il padrone. Si girò, lo fissò con uno sguardo offeso, come per dirgli che avrebbe potuto avvertirla, quindi si scrollò di dosso la pioggia e ritornò trotterellando.

«Adesso che ci penso», rifletté Nightshade, «non ho visto nessuno dei Prediletti quando ho attraversato il mercato stamattina e non ce n’erano nemmeno alla taverna. Di solito ce n’è sempre un paio a bazzicare da quelle parti».

«Si stanno trasferendo», disse Rhys. «Sono andato a trovare i genitori della povera Lucy. Speravo di parlare con lei, ma mi hanno detto che è scomparsa e così pure suo marito. Guarda come Lleu si è spostato di città in città. Forse, quando i Prediletti di Chemosh hanno compiuto la loro missione in un posto, hanno l’ordine di passare a un altro e poi a un altro ancora. In questo modo nessuno si insospettisce, come potrebbe avvenire se rimanessero in giro troppo a lungo. E tutti si dirigono verso est.»

«Come fai a saperlo?» domandò Nightshade.

«Non lo so per certo», ammise Rhys, «ma per tutto questo tempo Lleu ha viaggiato in questa direzione. È come se lo stesse attirando qualcosa...».

«Qualcuno», lo corresse cupo Nightshade.

«Chemosh, sì», ammise Rhys. «Per quale motivo, mi domando? Per quale scopo?»

Nightshade alzò le spalle. Non vedeva a che scopo continuare a porre domande che non trovavano risposta e ritornò alle questioni pratiche.

«Gli andiamo dietro?»

«Sì», rispose Rhys, riprendendo il cammino. «Andiamo.»

Nightshade emise un sospiro malinconico. «Non è che così arriviamo da nessuna parte, sai. Spostandoci da un posto all’altro, guardando tuo fratello mangiare venti volte al giorno e bere tanto liquore dei nani da soffocare un coboldo...»

«Non c’è altro da fare», ribatté Rhys, frustrato. «La dea non mi aiuta. Le ho chiesto di aiutarmi a trovare questa Mina e a cercare di scoprire che cosa stia tramando Chemosh. Zeboim non risponde alle mie preghiere. Sono andato al suo tempio e ho scoperto che è chiuso, con la porta sbarrata. Credo che mi stia evitando intenzionalmente.»

«Allora ci limitiamo a seguire tuo fratello e speriamo che ci porti da qualche parte? Da qualche parte al di là della prossima taverna, voglio dire.»

«Proprio così», rispose Rhys.

Nightshade scrollò il capo e proseguì il cammino. Avevano percorso appena qualche centinaio di metri, però, quando udirono delle urla e un rumore di zoccoli.

Rhys si spostò verso il ciglio della strada. Una guardia cittadina tirò le redini fermando il cavallo accanto a loro.

Nightshade fu lesto ad alzare le mani. «Non l’ho preso io», si affrettò a dire, «e se l’ho preso lo restituisco».

La guardia ignorò il kender. «Siete voi Rhys Mason?»

«Sì», rispose Rhys.

«Siete desiderato a Solace. Lo sceriffo mi ha inviato a prendervi.»

Rhys tornò a incamminarsi verso Solace. Nightshade gli si accostò.

«Lo sceriffo non mi ha parlato di kender», osservò la guardia, con uno sguardo torvo.

«Lui è con me», disse Rhys con calma, mettendo una mano sulla spalla di Nightshade.

La guardia esitò per un attimo, rimase a osservare per accertarsi che fossero in cammino, quindi tornò indietro al galoppo per riferire.

«Che cosa pensi che voglia lo sceriffo», domandò Nightshade, «visto che non sono io?».

Rhys scrollò il capo. «Non ne ho idea. Forse c’entra qualcosa una delle vittime di omicidio.»

«Ma nessuno sa che sono state assassinate, tranne noi.»

«Forse lui l’ha scoperto in qualche modo.»

«Sarebbe bello, vero? Per lo meno non saremmo più soli.»

«Sì», assentì Rhys, pensando all’improvviso quanto si sentisse solo, unico mortale a opporsi a un dio. «Sarebbe bellissimo.»


Trovarono Gerard che li attendeva impaziente in fondo alle scale che conducevano alla Taverna dell’Ultima Dimora. Lo sceriffo strinse la mano a Rhys e rivolse perfino un cenno amichevole col capo a Nightshade.

«Grazie per essere venuto, fratello. Vorrei parlarvi in privato, se non vi dispiace.»

Prese da parte Rhys e gli disse a bassa voce: «Pensate che quel vostro cane guardiano di kender possa tenere d’occhio il vostro piccolo amico per un’oretta circa? Voglio che voi veniate con me al carcere. È per un detenuto che abbiamo lì».

«Vorrei che Nightshade mi accompagnasse», ribatté Rhys, pensando che se si fosse trattato di un Prediletto di Chemosh lui avrebbe avuto bisogno dell’aiuto del kender. «Ha dei talenti speciali...»

«E proprio così» disse Nightshade con modestia.

I due uomini si girarono e trovarono il kender in piedi subito dietro a loro. Gerard lo guardò con occhio furioso.

«Oh, per privato immagino intendeste privato», disse Nightshade. «Comunque volevo solo aggiungere che non mi dispiace restare con Atta, Rhys. Ho già visto il carcere di Solace, e anche se è molto carino», si affrettò a soggiungere a beneficio di Gerard, «non è un luogo che io voglia visitare di nuovo».

«Laura gli darà da mangiare», propose Gerard. «E anche al cane.»

Il pasto suggellò l’accordo, per ciò che riguardava Nightshade. «Tu non hai bisogno di me. Sai già piuttosto bene che cosa cercare», disse sottovoce a Rhys. «Gli occhi. Sta tutto negli occhi.»

Rhys mandò Atta con Nightshade, dicendo al kender di tenere d’occhio la cagna e ordinando alla cagna, con una parola muta e un gesto, di tenere d’occhio il kender.

Gerard si allontanò e Rhys lo raggiunse tenendo il suo passo. I due attraversarono in silenzio le strade di Solace. Era ormai metà mattina e malgrado la pioggia le strade erano affollate. La gente rivolgeva saluti rispettosi e amichevoli a Gerard, il quale rispondeva con un cenno allegro della mano o del capo. Gli sfaccendati si allontanavano al suo avvicinarsi, oppure se lui capitava accanto a loro troppo rapidamente chinavano la testa con aria colpevole. Gli sconosciuti lo guardavano con aria audace o furtiva. Gerard prendeva nota di tutti, notò Rhys. Quasi vedeva l’uomo archiviare in testa le loro immagini per una futura consultazione.

«Non siete molto loquace, fratello, vero?» osservò Gerard.

Rhys, non vedendo motivo di rispondere, non rispose.

Gerard sorrise. «Chiunque altro mi avrebbe tempestato di domande, ormai.»

«Non pensavo che avreste risposto», disse dolcemente Rhys, «per cui non vedevo motivo di porle».

«In questo avete ragione. Anche se più che non volere rispondere è che non posso.»

Gerard si asciugò la pioggia dal volto.

«Ecco il nostro carcere, laggiù. Solace è diventata troppo grande per il vecchio carcere, purtroppo, così abbiamo costruito questo qui. È stato terminato appena un mese fa. Ho sentito dire che Lleu Mason ha lasciato la città stamattina», soggiunse Gerard con lo stesso tono di conversazione. «Voi stavate partendo per seguirlo?»

«Sì, certo», rispose Rhys.

«Lleu è sembrato comportarsi bene mentre era qui», lo informò Gerard, rivolgendogli un’occhiata rapida e intensa. «Vostro fratello sembra piuttosto strano, ma nessuno si è lamentato di lui.»

«Che cosa direste, sceriffo, se vi dicessi che mio fratello è un assassino?» domandò Rhys. Il suo bastone sbatteva per terra, sollevando schizzi di fango e acqua ogni volta che toccava il terreno. «Che l’altra notte ha ucciso una giovane donna a Solace?»

Gerard allungò la mano, afferrò Rhys per la spalla e lo girò verso di sé. Lo sceriffo aveva il volto arrossato, i suoi occhi azzurri fiammeggiavano.

«Come? Quale donna? Che diavolo volete dire raccontandomi questa storia, fratello? Che intendete lasciarlo scappare? Per gli dèi, impiccherò voi al suo posto...»

«La donna si chiama Lucy», disse Rhys. «Lucy Wheelwright».

Gerard lo guardò fisso. «Lucy Wheelwright? Ehi, fratello, siete scemo. Io l’ho vista viva e vegeta quanto voi stamattina. Lei e suo marito. Ho domandato che cosa ci facessero in piedi così presto, e lei mi ha risposto che partivano per un villaggio vicino, verso est, per far visita a un cugino.»

Lo sguardo di Gerard si restrinse, si indurì. «È una sorta di scherzo, fratello? Perché se lo è non è divertente.»

«Chiedo scusa per avervi sconvolto, sceriffo», disse con calma Rhys. «L’ho posta solo come domanda ipotetica.»

Gerard scrutò Rhys. «Non fatelo più. Stavate per finire strangolato. Eccoci arrivati. Non è granché a vedersi, ma serve allo scopo.»

Rhys a malapena diede un’occhiata all’edificio che era situato alla periferia della città. Sembrava più una caserma militare che un carcere, e in questo Rhys riconobbe la mano di Gerard, ex cavaliere di Solamnia.

Gerard fece strada all’interno della struttura realizzata in legno e ricoperta di intonaco. Punteggiavano le pareti numerose finestrine con sbarre di ferro, non più grandi del pugno di un uomo. Vi era un’unica porta, un’unica via per entrare e uscire, ed era sorvegliata ventiquattr’ore al giorno. Gerard salutò con un cenno del capo le guardie mentre conduceva Rhys dentro il carcere.

«Un nostro detenuto ha chiesto di vedervi», spiegò Gerard.

«Ha chiesto di vedere me?» ripeté Rhys, sbigottito. «Non capisco.»

«Neanch’io», mormorò Gerard. Era ancora di cattivo umore, ancora infastidito dall’affermazione precedente di Rhys. «Soprattutto perché anche questa persona è forestiera qui a Solace. Ha chiesto di voi per nome. Ho mandato qualcuno alla taverna, ma voi eravate già partito.»

Facendosi dare una chiave dal carceriere, Gerard condusse Rhys per un lungo corridoio fiancheggiato da porte sui due lati. Il carcere aveva il solito fetore di carcere, anche se era più pulito della maggior parte di quelli visti da Rhys. Una grande cella comune era piena zeppa di kender, che salutarono allegramente con la mano al passaggio dello sceriffo e gridarono con tono gioioso domandando quando sarebbero stati liberati. Gerard ringhiò qualcosa di inintelligibile e proseguì lungo il corridoio superando altre grandi celle comuni che lui definì recinti.

«Luoghi dove gli ubriachi possono dormirci sopra, le coppie possono superare i loro bisticci, i truffatori possono stare calmi per un po’.»

Girando l’angolo, entrò in un corridoio fiancheggiato da porte di legno.

«Queste sono le nostre celle private. Per i detenuti più pericolosi.»

Infilò la chiave nel lucchetto di ferro della porta di una cella, aprì il lucchetto e, mentre la porta si apriva, soggiunse: «E per i pazzi».

Un raggio di luce entrava obliquo dalla finestrina, lasciando in ombra gran parte della cella. Inizialmente Rhys non vide niente nella cella tranne un letto, un bugliolo e uno sgabello. Stava per dire a Gerard che la cella era vuota, quando udì un fruscio. Ammassato in un angolo della cella, ammucchiato nella parte più buia della cella, vi era un fagotto di abiti che Rhys immaginò racchiudesse una persona. Non poteva dirlo con certezza, perché non vedeva un volto.

«Io sono Rhys», disse, facendo un passo dentro la cella. Non provava paura, soltanto pietà per l’evidente sofferenza di quella persona. «Lo sceriffo dice che avete chiesto di vedermi.»

«Digli di lasciarci soli», richiese la persona con voce soffocata, col viso ancora nascosto. «E chiudi la porta.»

«Niente da fare», protestò con fermezza Gerard. «Come ho detto: pazzia.»

Alzò gli occhi al cielo e agitò il dito attorno alla tempia.

«Sono in grado di badare a me stesso, sceriffo», lo rassicurò Rhys con un lieve sorriso. «Per favore...»

«Be’, va bene», concesse con riluttanza Gerard. «Ma cinque minuti. Non di più. Io sarò nel corridoio. Se avete bisogno di me, urlate.»

Gerard si chiuse dietro le spalle la porta della cella. La stanza si fece più buia. L’aria era viziata e odorava di pioggia. Rhys appoggiò il bastone contro la parete, quindi si azzardò ad avvicinarsi al detenuto. Si inginocchiò accanto al fagotto informe.

«Che cosa posso fare per aiutarvi?» domandò gentilmente.

Una mano bellissima e aggraziata scivolò fuori dal fagotto di abiti neri. La mano afferrò Rhys per il braccio. Unghie affilate gli penetrarono nella carne. Gli occhi verde mare luccicarono, e una voce sibilò dall’ombra del cappuccio.

«Uccidi Ausric Krell», sibilò Zeboim, pronunciando il nome con odio velenoso, «e salva mio figlio».

4

Gli occhi di Zeboim brillavano di una luce intensa e fiammeggiante. Aveva il volto mortalmente pallido, le guance segnate da graffi sanguinanti, come se fossero state artigliate. Aveva le labbra screpolate e contornate di polvere bianca, come sale marino o forse il sale delle sue lacrime.

«Maestà?» balbettò Rhys, stupefatto. «Che cosa fate in questo posto? In carcere? Siete... siete ammalata?»

Sapeva che era una domanda stupida, ma la situazione era tanto bizzarra e irreale che lui aveva difficoltà a riordinare i pensieri e disse la prima cosa che gli venne in mente.

«O dèi, perché io bazzico voi mortali!» gridò Zeboim. Gli diede uno spintone che gli fece perdere l’equilibrio e lo mandò a ruzzolare di lato. Quindi, tirandosi il cappuccio sopra la testa, nascose il volto fra le mani e prese a singhiozzare.

Rhys guardò severamente la dea. Non sapeva che cosa fosse più incline a fare: consolarla o scrollarla fino a farle battere i denti immortali.

«Che cosa fate qui, maestà, in una cella di prigione?» domandò.

Nessuna risposta. La dea singhiozzava violentemente.

Rhys ci riprovò: «Perché mi avete mandato a chiamare?».

«Perché ho bisogno del tuo aiuto, maledizione!» gridò con un tono soffocato dalle lacrime.

«E io ho bisogno del vostro, maestà. Ho scoperto alcune cose profondamente inquietanti riguardo a questi seguaci di Chemosh. Vi ho pregata innumerevoli volte negli ultimi giorni ma non mi avete risposto. Tutti questi discepoli sono morti. Sembrano vivi, ma non lo sono. Vanno fuori tra i vivi e ingannano persone innocenti inducendole a proclamare la loro devozione a Chemosh, e poi le assassinano...»

«Chemosh!» Zeboim sollevò il volto gonfio e rigato di lacrime per guardare Rhys con occhio furioso. «Dietro tutto questo c’è Chemosh, lo sai. Quell’idiota rivestito d’acciaio di Krell non avrebbe potuto escogitarlo da solo. Ma non importa. Non importa niente. Mio figlio: soltanto questo importa.»

«Maestà, per favore cercate di controllarvi...»

Zeboim balzò su all’improvviso, afferrò Rhys per le braccia, lo strinse con entrambe le mani. «Devi salvarlo, monaco! Altrimenti lo annienteranno. Io non posso fare nulla...» La voce divenne uno strillo. «Devi salvarlo!»

«Tutto bene, fratello?» gridò Gerard, la cui voce riecheggiò per tutto il lungo corridoio.

«Tutto bene, sceriffo», si affrettò a rispondere Rhys. «Datemi ancora qualche istante.»

Prese le mani di Zeboim, le strinse forte. Le parlò con tono tranquillizzante, con voce bassa e ferma. «Dovete spiegarmi che cosa succede, maestà. Non posso aiutarvi se non so di che cosa stiate parlando. Non abbiamo molto tempo.»

Zeboim inspirò singhiozzando. «Hai ragione, monaco. Starò calma. Lo prometto. Devo stare calma.»

Prese ad andare su e giù per la cella, battendo le mani mentre parlava.

«Mio figlio, Lord Ariakan. Sì, lo so che è morto», soggiunse, prevenendo la domanda che era sulle labbra di Rhys. «Mio figlio è morto tanto tempo fa nella Guerra del Chaos.» Serrò le mani a pugno. «È morto a causa di un tradimento, della perfidia di un uomo di cui si fidava. Un uomo che lui aveva sollevato dal fango...»

«Maestà, per favore...» la sollecitò con calma Rhys.

Zeboim si passò una mano sulla fronte, fuori di sé.

«Quando mio figlio è morto, ho pensato... ho immaginato che il suo spirito proseguisse verso la fase successiva del suo viaggio. Invece», respirava a fatica, «invece Chemosh ha trattenuto il suo spirito, l’ha imprigionato. Ha tenuto prigioniero mio figlio per tutti questi lunghi anni.»

La voce di Zeboim si abbassò, pulsante di paura. «Adesso ha dato lo spirito di mio figlio al cavaliere della morte che lo ha tradito. Un cavaliere della morte di nome Ausric Krell», quel nome le andò di traverso, come fosse stato un sapore disgustoso in bocca, «minaccia di distruggere lo spirito di mio figlio, per gettarlo nell’oblio. Naturalmente Krell agisce per ordine di Chemosh».

«Presumo allora, maestà, che Chemosh tenga in ostaggio lo spirito di vostro figlio affinché voi facciate qualcosa per lui in cambio. Che cosa vuole da voi?»

«Prima di tutto, devo fermare te», spiegò Zeboim. «Chemosh ti trova fastidioso.»

«Non capisco perché», disse amaramente Rhys. «Io non sono una minaccia per lui né è probabile che lo diventi, per come stanno andando le cose.»

«Inoltre, io non devo interferire nelle trame e nei progetti di Chemosh. Non ho idea di quali siano», soggiunse la dea, «ma io non devo fare niente per ostacolarlo».

«Allora Chemosh sta tramando qualcosa...» mormorò Rhys.

«Oh, sì», sibilò Zeboim con uno scatto maligno. «Sta tramando qualcosa di grandioso, di questo puoi starne certo. E qualunque cosa sia, mi teme. Teme che io lo blocchi, cosa che farei!»

«E teme anche me, a quanto pare», soggiunse Rhys.

«Te?» Zeboim rise, poi disse di malavoglia: «Be’, sì, suppongo di sì. Io devo sbarazzarmi di te e del kender, ma non è questo l’importante. L’importante è mio figlio. Io non posso fare niente per aiutarlo. Se appena una goccia di pioggia gli cade sull’elmo, Krell annienterà l’anima di mio figlio. Ma tu, monaco...».

Zeboim gli si avvicinò furtiva. Prendendo le mani di Rhys, lo accarezzò. «Puoi andare al Bastione della Tempesta. Krell non sospetterà di te.»

«Maestà», protestò Rhys, preso alla sprovvista, «io non mi metterei in mezzo a una battaglia fra due divinità...».

«Ci sei già in mezzo», ribatté rabbiosamente Zeboim, spingendolo via. «Chemosh ordina che io mi sbarazzi di te. Secondo te intende dire che devo rispedirti al tuo monastero con una pacca sul sedere e l’ordine di fare il bravo bambino?»

Rhys rimase lì fermo nella cella, con lo sguardo fisso sulla dea.

Zeboim si sistemò le vesti, si lisciò i capelli scarmigliati. «Tu andrai al Bastione della Tempesta. Io ti trasporterò lì via etere, non preoccupartene. Dovrai trovare qualche scusa per la tua presenza lì, in modo che Krell non si insospettisca. Ha meno cervello di un mollusco, per cui non sarà difficile. Forse puoi dirgli che sei stato inviato da me per trattare. Sì, a Krell piacerà. Si annoia facilmente e si diverte a torturare le sue vittime. È un peccato che tu non sia più affascinante, più divertente. A lui piace divertirsi.»

«E come mi suggerite di salvare vostro figlio, maestà, se io dovrò essere torturato e ucciso?» domandò Rhys. «Voi dite che questo Krell è un cavaliere della morte. Ciò significa che la sua potenza è di poco inferiore a quella di un dio...»

Zeboim allontanò con un gesto quella considerazione. «Tu sei al mio servizio. Io ti garantirò tutta la potenza di cui hai bisogno.»

«Finora non l’avete fatto», affermò freddamente Rhys.

La dea gli rivolse un’occhiata irosa. «Lo farò. Non preoccuparti. Quanto a come salvare mio figlio», alzò le spalle, «sta a te. Sei abile, come essere umano. Escogiterai un modo».

Rhys si accasciò sul letto, cercò di organizzare i propri pensieri confusi. Si rivelava difficile, poiché non riusciva a credere di essere coinvolto in quella conversazione.

«Dove tiene Krell vostro figlio? Immagino che vi siano delle segrete...»

«Non è tenuto in una segreta», rispose Zeboim, torcendosi le mani. «Il suo spirito è imprigionato dentro», inspirò fremente, a malapena in grado di parlare per via della collera, «dentro un pezzo del khas!».

«Un pezzo del khas», ripeté Rhys, sbalordito. «Ne siete certa?»

«Naturalmente ne sono certa! L’ho visto! Krell l’ha ostentato davanti a me, si è vantato di giocarci ogni sera.»

«Che pezzo è?»

«Uno dei due cavalieri neri.»

«C’è un modo per distinguerli?»

«Sì», disse con tono aspro, «uno è mio figlio. Gli assomiglia proprio».

«Non avendo mai avuto l’onore di conoscere vostro figlio», azzardò con cautela Rhys, «non so che aspetto abbia. Se poteste dirmi qualcosa di più per procedere...».

«Cavalca un drago azzurro. Ma d’altronde anche l’altro cavalca un drago azzurro. Non lo so!» Zeboim si strappò i capelli con le mani. «Non riesco a pensare! Lasciami sola. Vattene e salvalo... Aspetta un momento. I pezzi sono veri. Cadaveri veri. Rimpiccioliti. Tranne quello che mi raffigura, naturalmente. E il re. Quello è Chemosh.»

Rhys si grattò la fronte. Tutto questo si stava trasformando in un sogno strano e terribile.

«È il concetto di scherzo che ha Chemosh», disse Zeboim a mo’ di spiegazione. «Intende umiliarmi. Guarda, monaco, è una cosa davvero importante. Stiamo perdendo tempo...»

«Mi state chiedendo di imbarcarmi in un’impresa senza speranza, maestà. Qualunque informazione mi diate, per quanto vi paia insignificante, potrebbe essermi utile.»

Zeboim emise un sospiro esasperato. «Molto bene. Provo a ripensarci. La regina e il re bianchi sono elfi. La regina nera è... sono io. Il re nero è Chemosh.» Pronunciò il nome digrignando i denti.

«I due chierici bianchi sono monaci di Majere.» Zeboim inarcò un sopracciglio verso Rhys. «Pensa un po’! I due chierici dalle vesti nere sono nani. I due cavalieri bianchi sono elfi che cavalcano draghi argentei. Le pedine dal lato delle tenebre sono goblin. Le pedine dal lato della luce sono kender. Come ho detto, Chemosh ha creato tutto questo per umiliarmi. Il mio valoroso figlio, che combatte contro esseri quali monaci e kender...»

Vi fu un tonante bussare alla porta. Rimbombò la voce di Gerard: «È ora, fratello».

«Un attimo solo», gridò Rhys. Alzandosi in piedi, si rivolse a Zeboim. «Intendiamoci, maestà. O io vado al Bastione della Tempesta e salvo vostro figlio oppure voi mi uccidete...»

«Lo farò, monaco», disse Zeboim, calma come l’occhio del ciclone. «Non pensare mai che io non lo faccia.»

Avvolgendosi nelle veste scure e sbrindellate, si sedette sul letto e fissò la parete di fronte a lei.

Rhys si chinò accanto a lei, le disse a bassa voce: «Sapete, maestà, la mia morte sarebbe più rapida, più facile, se vi dicessi di uccidermi adesso».

Zeboim alzò su di lui gli occhi verde mare. «Potrebbe esserlo, oppure no. Sì o no, non stai tenendo conto del tuo amico kender, né di tutti quei giovani condannati, come tuo fratello, assassinati in nome di Chemosh. Né di tutte quelle migliaia di marinai a bordo di navi disperse in mezzo ai mari piatti e immobili. Marinai che sicuramente moriranno...»

Gerard picchiò nuovamente alla porta. La chiave sferragliò nella serratura.

Rhys si drizzò. «Capisco, maestà», puntualizzò con la calma di chi può solo stare calmo oppure scoppiare in lacrime.

«Penso che tu possa farcela», disse Zeboim con tono languido. «Fammi sapere la tua decisione.»

«Dove sarete, maestà?»

Stendendosi sul letto, la dea radunò le vesti attorno a sé, si tirò il cappuccio sulla testa e girò il viso verso la parete. «Qui. Dove nessuno può trovarmi.»

«È ora», annunciò Gerard, entrando nella cella. «Com’è andata?» domandò a bassa voce.

«Abbastanza bene», rispose Rhys.

Gerard diede un’occhiata al fagotto di abiti sul letto, poi fece uscire Rhys dalla porta. Se la richiuse dietro le spalle e i due si incamminarono lungo il corridoio. Quando non furono più a portata d’orecchio della prigioniera, Gerard si fermò.

«Che faccio di quella pazza?» domandò a bassa voce. «Devo lasciarla andare?»

Rhys non rispose. In verità, non aveva udito la domanda. Stava pensando a ciò che doveva fare e cercava di escogitare qualche modo per farlo e sopravvivere.

Gerard si passò la mano fra i capelli. «Come se io non avessi già abbastanza guai, adesso qualche terribile maledizione si è abbattuta sul lago di Crystalmir...»

«Che c’è?» chiese Rhys, sobbalzando. «Che succede al lago?»

«Non sentite l’odore?» Gerard arricciò il naso. «La puzza arriva fino in cielo. I pesci muoiono a centinaia. Giungono a riva di notte. Imputridiscono al sole. La nostra gente vive grazie all’acqua di quel lago e adesso tutti hanno paura di avvicinarsi. Dicono che sia maledetto. Questa roba e una donna pazza nelle mie mani...»

«Sceriffo», lo interruppe Rhys. «Ho un favore da chiedervi. Progetto di stare via per un po’ e mi serve qualcuno che si occupi di Atta. Volete prendervene cura voi?»

«Acchiapperà i kender per me?» volle sapere Gerard, con gli occhi che gli si illuminavano.

Rhys sorrise. «Vi insegnerò i comandi. E troverò un modo per pagare vitto e alloggio per lei.»

«Se acchiappa bene i kender per me come fa per voi, si ripagherà da sola in abbondanza.» Gerard gli porse la mano. «Affare fatto, fratello. Dov’è che andate?»

Rhys non rispose. «E voi continuerete a prendervi cura di lei se io non ritorno?»

Gerard lo scrutò attentamente. «Perché non dovreste tornare?»

«Solo gli dèi conoscono il nostro destino, sceriffo», rispose Rhys.

«Potete fidarvi di me, fratello. In qualunque guaio vi troviate...»

«Lo so, sceriffo», disse grato Rhys. «È per questo che vi ho chiesto di prendervi cura di Atta.»

«Molto bene, fratello. Non voglio ficcare il naso nei vostri affari. E non preoccupatevi per la cagna. Me ne occupo io.»

Mentre i due proseguivano per il corridoio, a Gerard venne in mente un’altra cosa, una cosa allarmante, a giudicare dal suo tono.

«E quel kender? Non mi chiederete di tenermi anche quello, vero, fratello?»

«No», rispose Rhys. «Nightshade verrà con me.»

5

«Un cavaliere della morte», osservò Nightshade.

«Secondo la dea, sì», ribadì Rhys.

«Noi dovremmo andare al Bastione della Tempesta e affrontare un cavaliere della morte e salvare lo spirito del figlio della dea, che è intrappolato in un pezzo del khas. Da un cavaliere della morte.»

Rhys annuì per muta conferma.

«Hai bevuto?» domandò seriamente Nightshade.

«No», rispose Rhys, sorridendo.

«Hai preso un colpo in testa? Sei stato investito da un carro? Ti ha calpestato un mulo? Sei caduto dalle scale...»

«Sono sano di mente», gli assicurò Rhys. «Per lo meno credo di esserlo. So che sembra incredibile...»

«Fiuuuu ragazzi!» esclamò Nightshade con un fischio.

«Ma ecco la prova.»

Rhys e il kender erano sulla strada ad alcune centinaia di metri dalla riva del lago Crystalmir. Il nome derivava dall’acqua azzurra cristallina, ma il nome ormai era inadeguato. L’acqua aveva una nauseabonda sfumatura giallo-verde e puzzava di uova in putrefazione. Sulla riva giacevano innumerevoli pesci, morti o moribondi. Perfino da quella distanza, col vento che soffiava nella direzione opposta, l’odore era orripilante.

Nightshade si strinse il naso. «Sì, penso che tu abbia ragione. Lo sai che non potrò mai più mangiare pesce», soggiunse con tono addolorato.

I due si incamminarono di nuovo verso Solace, superando la folla di gente che si era recata a vedere la moria di pesci. Ognuno aveva una propria teoria, dall’avvelenamento del lago a opera di banditi fino a una maledizione scagliata dai maghi. La paura ammorbava l’aria tanto quanto l’odore di pesce morto.

«Stavo pensando, Rhys», disse Nightshade, mentre ritornavano in città. «Io non sono molto affidabile e non sono affatto bravo in combattimento. Se tu non vuoi portarmi con te, non ferirai i miei sentimenti. Sarò lieto di restare con lo sceriffo per aiutarlo a prendersi cura di Atta.»

Mise la mano sulla testa di Atta, coccolandola. La cagna glielo permise, anche se teneva lo sguardo fisso su Rhys.

Rhys sorrise alla generosa offerta di Nightshade. «Lo so che è pericoloso. Non ti chiederei di rischiare la vita, amico mio, ma davvero ho bisogno di te. Io non sarei in grado di dire con certezza quale pezzo del khas contenga l’anima del cavaliere...»

«La dea ti ha detto che è il cavaliere nero», lo interruppe Nightshade.

«Mia madre diceva sempre: "tieni conto della fonte"», rispose Rhys beffardo.

Nightshade sospirò. «Già, penso che tu abbia ragione.»

«In questo caso la nostra fonte non è molto attendibile. Potrebbe averci mentito. Krell potrebbe avere mentito a lei. Krell potrebbe spostare lo spirito da un pezzo a un altro. Perché funzioni il mio piano, devo sapere quale pezzo racchiude l’anima del cavaliere. Tu sei l’unico che possa dirmelo. Inoltre», soggiunse Rhys con un sorriso, «pensavo che i kender fossero avventurosi, pieni di curiosità, totalmente privi di paura».

«Io sono un kender», precisò Nightshade. «Non sono stupido. Questa cosa è stupida.»

Rhys era incline a essere d’accordo. «Non abbiamo molta scelta, amico mio. Zeboim ha chiarito bene che se noi non facciamo questo tentativo lei ci ucciderà.»

«Così invece ci ucciderà il cavaliere della morte. Non mi pare che ci guadagniamo molto, tranne forse una gita al Bastione della Tempesta, e probabilmente non vivremo abbastanza da godercela. Sai, Rhys, quasi nessuno affiderebbe a un kender una missione così importante. E devo dire che non gliene farei una colpa. Non si può contare sui kender. Io mi lascerei qui se fossi in te.»

«Io ti ho sempre trovato estremamente degno di fiducia, Nightshade», rispose Rhys.

«Davvero?» Nightshade fu colto di sorpresa. Sospirò. «Allora immagino che dovrei mostrarmene all’altezza.»

«Credo di sì.»

«Per farlo dovrei però sopravvivere», sottolineò Nightshade.

«Mettiamola in questo modo. Per lo meno abbiamo conseguito qualcosa», fece notare Rhys. «Abbiamo attirato l’attenzione del dio.»

«Una cosa che persone con un minimo di buonsenso eviterebbero», osservò contrariato Nightshade. «Mio padre diceva sempre: "Non attirare mai l’attenzione di un dio".»

«Lo diceva tuo padre? Davvero?» Rhys ammiccò al kender.

«Be’, l’avrebbe detto se ci avesse pensato.» Nightshade si fermò in mezzo alla strada per discutere la questione. «Come facciamo a raggiungere il Bastione della Tempesta, Rhys? Io non so niente di barche. E tu? Bene! Allora ecco come ne veniamo fuori. Non possiamo andare al Bastione della Tempesta se non sappiamo come arrivarci. La dea dovrà capirne la logica...»

«La dea ci manderà lì col vento di tempesta, presumo. Devo solo farle sapere che siamo pronti.»

Nightshade alzò gli occhi al cielo. Atta, vedendo il suo padrone abbattuto e scontento, gli leccò delicatamente la mano. Rhys le accarezzò la testa, la strofinò sotto la mascella, le lisciò gli orecchi. Atta gli si strinse addosso, guardandolo con tristezza e desiderando che lui sistemasse tutto per bene.

«Le mancheremo», disse Nightshade con voce strozzata.

«Sì», convenne Rhys tranquillamente, «le mancheremo».

Posò la mano sulla spalla del kender. «Per tutta la tua vita ti sei dato da fare per salvare spiriti perduti, Nightshade. Considera che sei nato per fare questa cosa: sarà la tua più grande impresa.»

Nightshade ci rifletté. «È vero. Immagino che potrò salvare un’anima. Ma se questo vale per me, Rhys, com’è per te? Tu sei nato per fare che cosa?»

«Come tutti gli uomini», disse semplicemente Rhys, «sono nato per morire».


Più tardi quel mattino, fuori della Taverna dell’Ultima Dimora, Rhys si inginocchiò davanti ad Atta e pose la mano sulla testa della cagna, quasi a impartirle una benedizione. «Farai la brava, Atta, e obbedirai a Gerard. Adesso è lui il tuo nuovo padrone. Tu lavorerai per lui.»

Atta alzò lo sguardo verso Rhys. Udiva la sofferenza nella sua voce, ma non la capiva. Non avrebbe capito mai, non avrebbe mai saputo perché lui l’avesse abbandonata. Rhys si alzò. Gli ci volle un momento per parlare.

«Dovreste portarla via, adesso, sceriffo», suggerì.

«Vieni, Atta», chiamò Gerard, impartendo il comando che Rhys gli aveva insegnato. «Vieni con me.»

Atta guardò Rhys. «Vai con Gerard, Atta», gli ingiunse Rhys, con un gesto con la mano, mandando via la cagna.

Atta lo guardò ancora una volta, poi, con la testa e la coda penzoloni, obbedì. Consentì a Gerard di condurla via. Lo sceriffo ritornò, scrollando il capo.

«L’ho riportata alla taverna. Spero che stia bene. Laura le ha offerto del cibo, ma lei non ha voluto mangiare.»

«È un animale sensibile», disse Rhys. «Datele del lavoro per tenerla occupata e tornerà presto in sé.»

«Avrà lavoro in abbondanza con tutti quei kender che sciamano qui per vedere la moria di pesci. Allora voi due ve ne andate. Quando partite?» domandò Gerard.

«Nightshade e io dovremo prima far visita alla prigioniera e poi ce ne andremo.»

«Alla prigioniera?» Gerard era sbalordito. «Quella pazza? Volete vederla di nuovo?»

«Presumo che sia ancora lì», disse Rhys.

«Oh, sì. Mi pare di non riuscire a sbarazzarmi di lei. Perché volete vederla, fratello?» domandò Gerard con curiosità sfacciata.

«A quanto pare ritiene che io possa esserle di aiuto», rispose Rhys.

«E il kender? Anche lui l’aiuta?»

«Io sono un influsso incoraggiante», spiegò Nightshade.

«Non è necessario che ci accompagniate, sceriffo», soggiunse Rhys. «Ci serve soltanto il vostro permesso di entrare nella sua cella.»

«Credo che farei meglio a venire con voi. Giusto per accertarmi che non vi succeda niente. A nessuno di voi.»

Rhys e Nightshade si scambiarono occhiate.

«Dobbiamo parlare con lei in privato», disse Rhys. «La questione è confidenziale. Di natura spirituale.»

«Pensavo che non foste più un monaco di Majere», disse Gerard, rivolgendo a Rhys un’occhiata penetrante.

«Ciò non significa che non posso più assistere chi è turbato», ribatté Rhys. «Per favore, sceriffo. Soltanto alcuni istanti con lei da soli.»

«E va bene», concesse Gerard. «Non vedo come possiate cacciarvi troppo nei guai chiusi a chiave in una cella di prigione.»

«La sa lunga», disse malinconicamente Nightshade.

Dentro il carcere, Nightshade dovette fermarsi a dire qualche parola ai kender. Rhys rimase preoccupato nell’udire Nightshade rivolgere loro quello che sembrava un addio definitivo. Quando il kender mise le mani nelle sacche, preparandosi a distribuire tutte le sue ricchezze terrene (l’equivalente di un testamento per i kender), Rhys afferrò Nightshade per il colletto e lo trascinò via.

Gerard fece un gesto verso la porta della cella. «Non si è mai mossa dal letto», riferì. «Non vuole mangiare. Rimanda via il cibo senza averlo assaggiato. Avete visite, signora», gridò, aprendo la porta.

«Era ora», disse Zeboim, tirandosi su a sedere sul letto.

Si tirò indietro il cappuccio. Gli occhi verde mare luccicarono intensamente.

Rhys spintonò Nightshade, facendolo entrare nella cella, e lo seguì.

Gerard chiuse la porta della cella e inserì la chiave nella serratura. Non la girò ma lasciò la chiave dov’era. Si fermò un attimo ad ascoltare. I tre tenevano bassa la voce, e comunque lui aveva promesso di concedere loro riservatezza.

Scrollando il capo, Gerard se ne andò a passare qualche momento col carceriere.

«Quanto tempo concedete loro, sceriffo?» domandò il carceriere.

«Il solito. Cinque minuti.»

Sulla scrivania vi era una piccola clessidra. Il carceriere la rovesciò, affascinando grandemente i kender, che spuntarono con teste, braccia, mani e piedi fra le sbarre per avere una visuale migliore del procedimento, continuando a tempestare Gerard di domande, la principale delle quali era quanti granelli di sabbia vi fossero nella clessidra, e offrendosi, poiché lui non lo sapeva, di contarli rapidamente.

Gerard ascoltò le lamentele del carceriere riguardo ai kender, lamentele che lui esprimeva quotidianamente, e osservò la sabbia scendere nella clessidra, rimanendo in ascolto di eventuali rumori di trambusto dal fondo del corridoio.

Era tutto silenzioso, però. Quando dal collo sottile della clessidra cadde l’ultimo granello, Gerard urlò: «È ora», e avanzò a passi pesanti lungo il corridoio.

Girò la chiave nella porta e la spinse per aprirla. Si fermò, guardò.

La donna pazza era distesa sul letto, col cappuccio sulla testa, il viso verso la parete. Con lei non c’era nessuno.

Nessun monaco. Nessun kender.

La porta della cella era stata chiusa a chiave. Lui aveva dovuto girare la chiave per entrare. C’era un’unica via d’uscita dal corridoio ed era vicino a lui, e nessuno gli era passato accanto.

«Ehi, voi!» disse alla donna pazza, scrollandola per le spalle. «Dove sono andati?»

La donna fece con la mano un gesto lieve, come per scacciare un insetto. Gerard volò fuori della cella finendo nel corridoio, dove si schiantò contro la parete.

«Non toccarmi, mortale!» disse la donna. «Non toccarmi mai.»

La porta della cella si chiuse di schianto.

Gerard si tirò su. Aveva sbattuto la testa contro il muro, e la mattina dopo sulla spalla avrebbe avuto un livido gigantesco. Con una smorfia di dolore, rimase a fissare la porta della cella. Strofinandosi la spalla, si girò e percorse a passi pesanti il corridoio.

«Lascia liberi i kender», gridò.

I kender si misero a gridare e a strillare. Le loro urla acute avrebbero potuto incrinare la pietra massiccia. Gerard sussultò a quel frastuono.

«Fai come ti dico», ordinò al carceriere. «E alla svelta. Non preoccuparti, Smythe. Io ho un cane meraviglioso che mi aiuterà a tenerli in riga. Il cane ha bisogno di fare qualcosa. Sente la mancanza del suo padrone.»

Il carceriere aprì la porta della cella e i kender sciamarono gioiosamente verso la luce vivida della libertà. Gerard diede un’occhiata alla cella in fondo al corridoio.

«Credo che sentirà la mancanza del suo padrone per molto, ma molto tempo.»

6

Il Vortice del Mare di Sangue di Istar. Un tempo i marinai ne parlavano sottovoce, se ne parlavano. Un tempo il Vortice era una spirale di distruzione, fauci roteanti di morte rossa che afferravano tra i denti le navi e le inghiottivano intere. Una volta fuori da quelle fauci si poteva udire il tuono delle voci degli dèi.

«Guardate questo, mortali, e constatate la nostra potenza.»

Quando il Re-Sacerdote di Istar osò, nella sua arroganza, considerarsi un dio, e il popolo di Istar si inchinò a lui, i veri dèi di Krynn scagliarono su Istar una montagna infuocata, distruggendo la città e trasportandola lontano, sotto il mare. Le acque dell’oceano assunsero un colore marrone rossastro. I saggi affermavano che quel colore provenisse dal terreno sabbioso del fondo marino. La maggior parte della gente riteneva che la sfumatura rossa provenisse dal sangue di coloro che erano morti nel Cataclisma. Quale che ne fosse la causa, il colore diede il nome al mare. Da allora venne chiamato Mare di Sangue.

Sul luogo del disastro gli dèi crearono un vortice. Quell’immenso gorgo tinto di sangue aveva lo scopo di tenere lontano chi avrebbe potuto disturbare il luogo di riposo definitivo dei morti e di servire da costante promemoria ai mortali riguardo alla potenza e alla maestà degli dèi. Temuto e rispettato dai marinai, il Vortice era uno spettacolo terrificante e spaventoso, le cui acque rosse roteanti scomparivano in una voragine infernale di tenebra. Una volta intrappolati nelle sue spire, non vi era via di fuga. Le vittime erano trascinate al loro destino sotto i mari impetuosi.

Poi Takhisis si impadronì del mondo. Senza l’ira degli dèi ad agitarlo, il Vortice prese a ruotare sempre più lentamente e poi si fermò del tutto. Le acque del Mare di Sangue divennero placide come quelle di qualunque laghetto di campagna.

«Ma guarda che cosa è diventato il Mare di Sangue.» La voce di Chemosh aveva una sfumatura di collera e disgusto. «Una fogna.»

Schermandosi gli occhi dal sole del mattino, Mina guardò verso il punto indicato da Chemosh, verso quella che era stata una delle meraviglie di Krynn, uno spettacolo tanto terrificante quanto magnifico.

Il Vortice aveva mantenuto vivo il ricordo e l’ammonimento di Istar. Adesso le acque un tempo famigerate del Mare di Sangue lambivano fiacche gli arenili disseminati di sporcizia e di rifiuti. Resti di casse da imballaggio sfondate e assi coperte di melma, reti in putrefazione, teste di pesci e bottiglie in frantumi, conchiglie schiacciate e alberi di nave scheggiati galleggiavano sull’acqua oleosa, dondolando pigramente avanti e indietro con il faticoso moto del mare. Soltanto i più anziani rammentavano il Vortice e ciò che vi era al di sotto: le rovine di una città, di un popolo, di un’epoca.

«L’Era dei Mortali», sogghignò Chemosh. Con la punta dello stivale scostò una medusa morta. «Ecco il loro lascito. La soggezione e la paura e il rispetto per gli dèi non esistono più, e che cosa rimane al loro posto? Rifiuti e avanzi di mortali.»

«Si potrebbe dire che gli dèi possano incolpare soltanto se stessi», osservò Mina.

«Forse dimentichi che stai parlando con uno di quegli dèi», ribatté Chemosh, con gli occhi scuri scintillanti.

«Chiedo scusa, mio signore», disse Mina. «Perdonatemi, ma qualche volta dimentico...» Si interruppe, incerta su dove avrebbe condotto quella frase.

«Dimentichi che io sono un dio?» domandò lui irosamente.

«Mio signore, perdonatemi...»

«Non scusarti, Mina», disse Chemosh. La brezza marina gli scompigliava i lunghi capelli scuri, soffiandoglieli via dal viso. Chemosh guardò verso il mare, vedendo ciò che vi era un tempo, vedendo ciò che vi era adesso. Sospirò profondamente. «È colpa mia. Io vengo a te da mortale. Io ti amo da mortale. Voglio che tu mi consideri un mortale. Questo mio aspetto è soltanto uno fra tanti. Gli altri non ti piacerebbero molto», soggiunse sarcasticamente.

Allungò la mano verso di lei e Mina la prese. Lui la attirò a sé, e rimasero stretti sulla riva del mare, col vento che mescolava i loro capelli, neri e rossi, ombra e fiamma.

«Hai detto la verità», ammise Chemosh. «La colpa è di noi dèi. Anche se non ci siamo impadroniti noi del mondo, abbiamo dato a Takhisis l’occasione di farlo. Tutti noi eravamo tanto assorti nella nostra piccola parte di creato che ci siamo chiusi nelle nostre bottegucce, seduti sui nostri sgabelli con i nostri piedini intrecciati attorno ai pioli, a scrutare la nostra opera come un sarto miope, lavorando d’ago su qualche pezzetto dell’universo. E quando un giorno ci siamo destati e abbiamo scoperto che la nostra Regina era fuggita col mondo, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo forse afferrato le nostre spade fiammeggianti percorrendo i cieli e sparpagliando le stelle alla sua ricerca? No. Siamo corsi fuori dalle nostre bottegucce tutti sbalorditi e spaventati e ci siamo torti le mani e abbiamo gridato: "Ahinoi! Il mondo non c’è più. Che faremo mai?"»

La voce gli si indurì. «Ho pensato spesso che se il mio esercito si fosse schierato al di fuori delle porte del suo palazzo, con le mie truppe pronte ad assaltare le mura, la Regina Takhisis ci avrebbe pensato due volte. In realtà, sono stato pigro. Mi accontentavo di cavarmela con ciò che avevo. Tutto questo è cambiato. Io non ripeterò mai più lo stesso errore.»

«Vi ho fatto soffrire, mio signore», disse Mina, udendo il rimpianto e l’aspra amarezza nella voce di lui. «Mi dispiace. Questa doveva essere una giornata gioiosa. Una giornata per ricominciare.»

Chemosh prese la mano di Mina, se la portò alle labbra e le baciò le dita. A Mina batteva forte il cuore, aveva il respiro affannoso. Lui sapeva accendere in lei il desiderio con un tocco, con uno sguardo.

«Hai detto la verità, Mina. Nessun altro, nemmeno uno degli altri dèi, oserebbe dire una cosa simile a me. Ai più manca la capacità di capirlo. Tu sei tanto giovane, Mina. Non hai ancora ventun’anni. Dove trovi tanta saggezza? Non nella tua defunta Regina, credo», soggiunse sardonicamente Chemosh.

Mina ci rifletté sopra, guardando verso il mare, piatto ma non particolarmente calmo. L’acqua si agitava incessantemente, avanti e indietro, e le ricordava qualcuno che andasse su e giù all’infinito, nervosamente.

«L’ho vista negli occhi dei morenti», rispose. «Non quelli che adesso offrono la loro anima a te, mio signore. Quelli che una volta offrivano la loro anima a me.»

La battaglia del Canalone di Beckart. I cavalieri di Solamnia avevano fatto irruzione fuori da Sanction, avevano spezzato l’assedio di quella città a opera dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis, allora chiamati ignominiosamente Cavalieri di Neraka. I cavalieri e i soldati di Neraka si erano dati alla fuga quando i cavalieri di Solamnia si erano riversati fuori dalla fortezza. Mentre il comando di Neraka si sgretolava, Mina aveva preso in mano la situazione. Aveva ordinato alle sue truppe di uccidere coloro che scappavano, aveva ordinato di uccidere i compagni, gli amici, i fratelli. Ispirati dalla luce dell’ambra dorata luccicante, i soldati le avevano obbedito. I cadaveri si erano ammucchiati, ostruendo il passaggio. Qui l’assalto dei cavalieri di Solamnia si era bloccato, interrotto da una diga fatta di ossa spezzate e carne insanguinata. La battaglia era stata vinta da Mina. Aveva trasformato una disfatta in una vittoria. Aveva percorso il campo di battaglia, tenendo la mano a coloro che morivano a causa del suo comando, e aveva pregato per loro, offrendo le loro anime a Takhisis.

«Però le anime non andavano a Takhisis», sussurrò Mina al mare che l’aveva cullata da bambina. «Le anime venivano a me. Come fiori, io le coglievo e le radunavo nel mio cuore, tenendole strette, anche mentre pronunciavo il nome di lei.»

Si girò verso Chemosh. «Questa è la mia verità, mio signore. Non l’ho capita per molto tempo. Io gridavo "per la gloria di Takhisis" e pregavo lei ogni giorno e ogni notte. Ma quando le truppe cantilenavano il mio nome, quando urlavano "Mina, Mina", io non le correggevo. Io sorridevo.»

Rimase in silenzio a guardare le onde vagare senza meta verso riva, a guardarle depositare sporcizia ai suoi piedi.

«Ancora una volta l’umanità avrà timore degli dèi», sentenziò Chemosh, «o per lo meno di uno di loro. Laggiù», indicò sotto la sporcizia, i detriti, i rifiuti, «laggiù vi è l’inizio della mia ascesa a re del Pantheon. Ti racconterò una storia, Mina. Sotto il mare vi è un cimitero, il più grande del mondo, e questo è il racconto di coloro che sono sepolti sotto le onde...».


La mia storia ha inizio nell’Era dei Sogni, quando un mago potente di nome Kharro il Rosso stabilì che gli Ordini della Magia avessero bisogno di rifugi sicuri in cui i maghi potessero incontrarsi, studiare assieme, operare assieme. Avevano bisogno di luoghi in cui conservare al sicuro libri di incantesimi e oggetti magici. Propose ai maghi di costruire le Torri dell’Alta Magia, roccaforti della magia.

Kharro inviò maghi in tutto Ansalon per individuare i luoghi in cui costruire queste nuove torri. Le Vesti Bianche, sotto la guida di una maga di nome Asanta, scelsero come loro sede un povero villaggio di pescatori chiamato Istar.

Le Vesti Nere e le Rosse scelsero città grandi e prospere in cui costruire le torri. Kharro convocò Asanta a Wayreth e chiese di conoscere il motivo della sua scelta. Asanta era una veggente. Vedeva il futuro di Istar e predisse che un giorno la sua gloria avrebbe eclissato tutte le altre città di Ansalon. Alle Vesti Bianche fu concesso il permesso di iniziare la costruzione della torre, e quarant’anni dopo Asanta guidò l’incantesimo che istituì la Torre dell’Alta Magia di Istar.

Asanta aveva intravisto l’ascesa di Istar. Non ne aveva previsto il crollo. Nemmeno noi dèi potevamo prevederlo.

Per molti decenni i maghi della Torre di Istar governarono con benevolenza sulla popolazione di quel villaggio e ne favorirono la rapida crescita. Presto Istar non fu più un villaggio ma una città prospera e ricca. Non molto tempo dopo divenne un impero.

Con la crescita di Istar stimolò anche il potere dei suoi chierici, in particolare quelli di Mishakal e di Paladine. Alla fine, uno di tali chierici divenne una figura preminente nel governo di Istar. Si proclamò sovrano, attribuendosi il titolo di Re-Sacerdote. Da quel momento in poi l’influenza dei maghi prese a scemare e quello dei chierici a crescere.

Continuò a sussistere un’alleanza inquieta fra i chierici e i maghi, anche se la diffidenza si accumulava da entrambe le parti. Un mago dalle Vesti Bianche di nome Mawort, Maestro della Torre di Istar, riuscì a mantenere la pace tra le due fazioni.

Il Conclave dei Maghi considerava Mawort un fantoccio del Re-Sacerdote, e quando morì nominarono Maestro della Torre un mago dalle Vesti Rosse, sperando con ciò di ristabilire l’indipendenza dei maghi e di avere maggiore influenza sulla politica di Istar.

Il Re-Sacerdote era furioso, i cittadini di Istar erano indignati. La diffidenza verso i maghi si intensificò divenendo odio. Tradimento e sfortuna fecero scoppiare una guerra aperta fra il Re-Sacerdote, i suoi seguaci e i maghi. Così ebbero inizio le Battaglie Perdute, così chiamate perché nessuno ne uscì vincitore.

Il Re-Sacerdote dichiarò una guerra santa contro i maghi di Ansalon. I maghi si ritirarono nelle loro roccaforti, minacciando di distruggere le Torri e i loro dintorni se fossero stati attaccati. Il Re-Sacerdote non badò a quell’ammonimento e attaccò la Torre di Daltigoth. Sapendo di dover soccombere alla sconfitta, i maghi mantennero la promessa e distrussero la Torre. Nella distruzione andarono perdute moltissime vite innocenti. I maghi ne furono rattristati, ma ritenevano di avere in realtà salvato delle vite, poiché sarebbero morte molte migliaia di persone in più se i libri di incantesimi e gli oggetti magici dei maghi fossero caduti nelle mani di coloro che li avrebbero usati impropriamente.

Sconvolto da questa calamità e temendo che i maghi passassero poi a distruggere la Torre di Istar, il Re-Sacerdote si offerse di negoziare una composizione pacifica. I maghi avrebbero accettato di abbandonare le Torri di Istar e Palanthas. In cambio sarebbe stato loro garantito un rifugio sicuro nella Torre di Wayreth. Il Conclave discusse a lungo e aspramente, ma alla fine i maghi si resero conto di non avere scelta. Il Re-Sacerdote era immensamente potente e sembrava avere dalla sua parte la benedizione degli dèi. I maghi accettarono le sue condizioni.

Un mese dopo le Battaglie Perdute, dalla Torre di Istar uscì l’Arcimaga, ultima fra i maghi ad andarsene. Ne sigillò le porte e cedette la Torre al Re-Sacerdote.

Il Re-Sacerdote non sapeva bene che fare con la Torre e per mesi l’edificio rimase chiuso e vuoto. Poi, seguendo il suggerimento del suo consigliere, Quarath di Silvanesti, trasformò la Torre in una sala di trofei, mettendo in mostra oggetti magici sequestrati agli accusati di eresia e di adorazione di dèi malvagi.

Nei due decenni successivi, centinaia di idoli, icone, oggetti magici e reliquie sacre furono portate alla Torre che fu ribattezzata Solio Febalas, Sala del Sacrilegio. Molti miei oggetti magici furono portati lì, perché naturalmente i miei seguaci furono tra i primi a essere perseguitati. Essendo in comunicazione con gli spiriti dei morti, venni a sapere degli ambiziosi progetti del Re-Sacerdote di ascendere alla condizione di divinità. Intendeva conseguirla rovesciando la bilancia, distruggendo il potere degli dèi delle tenebre e della neutralità. Quindi avrebbe usurpato il potere degli dèi della luce.

Io cercai di avvisare gli altri dèi che presto sarebbe toccato a loro. Sarebbe venuto il giorno in cui anche le loro reliquie sacre sarebbero entrate nella Sala del Sacrilegio. Loro alzarono le spalle e ci risero sopra.

Non risero a lungo, però. Ben presto i miti e inoffensivi chierici di Chislev vennero stanati dalle loro foreste e imprigionati o uccisi. Le icone di Majere fecero la loro comparsa nelle teche del Re-Sacerdote.

Gilean si unì a me nell’avvertire che la bilancia del mondo veniva inclinata e alcuni dèi della luce sommarono le loro voci alle nostre. Il Re-Sacerdote individuò tali dèi quali successivi bersagli della persecuzione, e alla fine perfino il simbolo di guarigione di Mishakal fu trovato esposto al ludibrio nella Sala del Sacrilegio.

Il Re-Sacerdote annunciò al mondo che lui era più saggio degli dèi. Era più potente degli dèi. Si proclamò dio e pretese di essere adorato come un dio. Fu allora che i veri dèi scagliarono su Istar la montagna infuocata.

La terra tremò per la nostra ira. I terremoti spianarono la città e spezzarono in due la Torre dell’Alta Magia di Istar. Il fuoco la sventrò, distruggendo la Sala del Sacrilegio. La Torre crollò in macerie, che furono trasportate fino sul fondo del Mare di Sangue assieme al resto di quella città condannata.


«Lì giace la Torre ancora oggi», concluse Chemosh, «e dentro quelle rovine si trovano molti degli oggetti magici e delle reliquie sacre più potenti del mondo».

«Una pia illusione, temo, mio signore», osservò Mina. «Non sarebbero potuti sopravvivere a una distruzione tanto terribile.»

«Non so degli altri dèi», Chemosh sorrise scaltramente, «ma io ho fatto in modo che i miei oggetti magici fossero al sicuro. E non ho dubbi che gli altri abbiano fatto lo stesso.»

«Mi sembrate certissimo, mio signore.»

«Ne sono certo. Ne ho le prove. Poco dopo la distruzione di Istar, io andai alla ricerca della Torre, ma scoprii che gli Dèi della Magia l’avevano nascosta alla vista. Zeboim è sorella gemella di Nuitari e cugina degli altri Dèi della Magia. Questi andarono da lei e la convinsero a usare la potente turbolenza del Vortice per seppellire la Torre molto al di sotto del fondo marino, in modo che nessun occhio, mortale o immortale, la scoprisse mai.

«"Ora", mi domandai, "perché gli Dèi della Magia dovettero prendersi tutto questo disturbo per nascondere una tonnellata di macerie carbonizzate e bruciate? A meno che non vi fosse all’interno delle macerie qualcosa che loro non volevamo farci trovare...".»

«I vostri oggetti sacri», concluse Mina.

«Precisamente.»

«E adesso che il Vortice si è placato, voi potete andare a cercarli.»

«Non solo posso andare a cercarli, ma posso cercarli senza tema di essere interrotto. Se io avessi immerso anche solo un dito del piede nella spuma del mare, Zeboim l’avrebbe saputo. Sarebbe accorsa dagli angoli più remoti dei cieli per fermarmi. Invece in questa bella giornata lei non si trova da nessuna parte. Io posso fare quello che voglio nel suo mare, anche pisciarci, se voglio, e lei non oserà protestare.»

Chemosh strinse la mano di Mina, intrecciò le dita alle sue. «Insieme, Mina, io e te scoveremo le favolose e da tempo perdute rovine della Sala del Sacrilegio. Pensaci, amore mio! Centinaia di oggetti sacri laggiù, alcuni risalenti all’Era dei Sogni, impregnati di una potenza divina che in questa "Era dei Mortali" non è neanche immaginabile. E non è raggiungibile. Laggiù vi sono oggetti magici appartenenti a Takhisis. Anche se lei non c’è più, la sua potenza vive ancora dentro di essi.

«Manufatti di Morgion, Hiddukel, Sargonnas. Manufatti appartenenti a Paladine e Mishakal. Io progetto di distribuire queste reliquie potenti fra i Prediletti, che stanno percorrendo Ansalon, diretti qui per riceverle. Una volta compiuto questo, i miei seguaci saranno i più formidabili e potenti del mondo. Io allora sarò in grado di sfidare gli altri dèi per la sovranità sui cieli e sul mondo.»

«Io verrei con voi in capo al mondo, mio signore, e vedrei volentieri le meraviglie che vivono nelle profondità marine, ma come io dimentico che voi siete un dio, voi dimenticate che io non lo sono», fece notare Mina, sorridendo. «Io so nuotare, ma non molto bene. Quanto a trattenere il respiro...»

Chemosh rise. «Non ti serve nuotare, Mina. E neanche trattenere il respiro. Tu camminerai con me sul fondo marino come cammini sul pavimento della tua camera da letto. Respirerai l’acqua così come respiri l’aria. Il peso dell’acqua ti sarà lieve sulle spalle quanto un mantello di pelliccia.»

«Allora voi mi trasformerete in un dio, mio signore», lo canzonò Mina.

La risata di Chemosh si interruppe. L’espressione nei suoi occhi era profonda e insondabile, più tenebrosa delle profondità marine.

«Non posso farlo, Mina. Perlomeno, non ancora.»

Mina avvertì un’improvvisa fitta di paura, un terrore che le scioglieva le ossa, come quello che aveva provato sull’infida scalinata spezzata del Bastione della Tempesta, guardando giù lontano verso le rocce frastagliate e affilate come rasoi e l’acqua schiumante e famelica. Le si serrò la gola; il cuore le rabbrividì. Ebbe voglia, all’improvviso, di girarsi e scappare, correre via. Non aveva mai provato un terrore così, nemmeno quando il feroce drago Malys stava calando in picchiata su di lei dai cieli da cui pioveva sangue, nemmeno quando la Regina Takhisis, mortalmente pazza, avanzava a grandi passi verso di lei, con l’intento di strapparle la vita.

Mina fece un passo indietro, ma Chemosh la trattenne.

«Che cosa c’è, Mina? Che ti succede?»

«Io non voglio essere un dio, mio signore!» gridò Mina, lottando, cercando di liberarsi della sua presa.

«Tu volevi il potere, Mina, il potere sulla vita e sulla morte...»

«Ma non così! Voi dimenticate, mio signore», protestò, «che io ho toccato la mente di un dio. Io ho guardato dentro quella mente, ho visto l’immensità, il vuoto, la solitudine! Non posso sopportare...».

Le parole le si congelarono sulle labbra. Mina guardò Chemosh con terrore. Proprio lei, che aveva tradito i segreti più intimi di lui.

«Io ero solo, Mina», mormorò Chemosh. «Io ero vuoto. Poi ho trovato te.»

La strinse fra le braccia. La premette contro di sé, corpo contro corpo, carne mortale contro carne di dio resa mortale. Chemosh mise la bocca su quella di lei, con le labbra ansiose e calde. La trascinò giù sulla sabbia, i suoi baci si riversarono come melassa sulla paura di lei, celando il suo terrore sotto la dolcezza di lui che le arrivava densa in bocca. Mina si consumò nell’amore di lui finché della sua paura rimase soltanto il ricordo e le carezze di lui ben presto lo dissiparono nell’ardore.

La marea si alzò mentre loro erano distesi fra le dune sabbiose. Le onde lambirono loro i piedi, poi le caviglie. L’acqua del mare si insinuò attorno a loro, liscia e morbida come lenzuola di seta. Le onde ricoprirono le spalle di Mina. I suoi capelli rossi le si appiccicarono alla carne bagnata. Mina sentì in bocca il sale e tossì.

Chemosh la strinse. «Il prossimo bacio che ti darò, Mina, porterà via il tuo respiro di mortale. Ti sentirai soffocare per un istante, ma solo per un istante. Io ti insufflerò nei polmoni il respiro degli dèi. Fintanto che sarai sott’acqua, il mio respiro ti sosterrà. L’acqua sarà per te ciò che adesso è l’aria.»

«Capisco, mio signore», rispose Mina. I suoi capelli turbinavano nell’acqua, una fiamma immersa nel sangue.

«Non sono sicuro che tu capisca, Mina», disse Chemosh, guardandola intensamente. «L’acqua sarà per te come l’aria. Ciò significa che l’aria sarà come l’acqua. Quando ti avrò fatto questo, se risalirai alla superficie, annegherai.»

Per tutta risposta, Mina accostò le labbra alle sue, chiuse gli occhi e lo strinse forte. Lui la afferrò, la premette contro di sé e mettendo la bocca su quella di lei aspirò l’aria da quel corpo, le risucchiò la vita dai polmoni.

L’acqua si sollevò sopra la testa di Mina. Lei non riusciva a respirare. Ansimò alla ricerca di aria, ma nella bocca le entrò acqua. Mina si sentì soffocare, strozzare. Chemosh la tenne forte. Lei cercò di non opporsi, ma non poté farne a meno. L’istinto di sopravvivenza del suo corpo fu più forte del suo cuore. Lottò per divincolarsi dalla presa del dio, ma lui era troppo forte. Le dita di Chemosh le si conficcavano nella carne e nei muscoli e nelle ossa, le gambe di lui la inchiodavano giù sott’acqua.

«Mi sta uccidendo», pensò Mina. «Mi ha mentito...»

Il cuore le palpitava, il petto le ardeva. Spaventose esplosioni di stelle le oscuravano la vista. Mina si dimenò nella stretta di Chemosh e ansimò, e l’acqua le entrò nei polmoni e nel corpo mentre il mare si faceva sempre più alto, dondolandola dolcemente. Mina era troppo stanca per lottare, così chiuse gli occhi e si offrì a quella tenebra tinta di sangue.

7

Mina si destò in un mondo che non aveva mai conosciuto la luce del sole, un mondo di notte profonda ed eterna.

L’acqua marina premeva su di lei, la circondava, l’avvolgeva e l’abbracciava. La spingeva e la tirava, con un movimento continuo. Non vi era né su né giù. Niente sotto i suoi piedi né sopra la testa per orientarsi. Era alla deriva, da sola.

Mina poteva respirare l’acqua altrettanto bene quanto prima respirava l’aria; per lo meno cercò di convincersi che era così. Si sentiva soffocare, mezzo asfissiata. Dentro di lei si agitava il panico. All’improvviso temette di rimanere intrappolata per sempre in quella tenebra opprimente e liquida. Il suo impulso fu di nuotare fino alla superficie, ma si costrinse ad abbandonare quell’idea. Non aveva idea di dove fosse la superficie, e agitandosi nell’acqua avrebbe potuto affondare di più anziché risalire.

Non riusciva a chiamare Chemosh. Non riusciva a gridare o a urlare. L’acqua inghiottiva la sua voce. Si sforzò di vincere il senso di panico, cercò di rimanere calma, rilassata.

«Ho percorso i luoghi tenebrosi di Krynn», si disse Mina. «Ho percorso i luoghi tenebrosi della mente di un dio. Io non sono sola...»

Una mano toccò la sua. Mina strinse quella mano con gratitudine, la tenne forte.

«Non hai avuto paura, vero?» le chiese Chemosh, con tono mezzo canzonatorio e mezzo serio. «Puoi parlare, Mina. Ricordati, l’acqua è per te come l’aria. Parla. Io sentirò le tue parole.»

«Stavo per dire che se ho avuto paura è solo perché la paura è la maledizione dei mortali, mio signore», rispose Mina.

«È vero», concordò Chemosh, con un tono diventato severo. «La paura conferisce ai mortali buoni istinti.»

«Qualcosa non va, mio signore?»

«C’è un’agitazione, un’energia che non c’era quando sono venuto qui appena un anno fa. Potrebbe non avere nulla a che fare con la nostra caccia al tesoro, però non mi piace. Ha l’odore di un dio.»

«Zeboim?» domandò Mina.

Chemosh scrollò il capo. «Lo pensavo anch’io, e sono ritornato alla superficie. Non si radunano nubi temporalesche, non ululano venti sferzanti. Il mare è così piatto che gli uccelli incominciano a costruirsi nidi sull’acqua. No, quello che non va è qua sotto; non è colpa di Zeboim.»

«Quali altri dèi potrebbero essere all’opera nel mare, mio signore?»

«Habbakuk domina le creature marine. Non mi preoccupo di lui, però. È indolente e pigro, come ci si potrebbe aspettare da un dio che passa il tempo fra i pesci.»

Si interruppe per ascoltare. Anche Mina ascoltò ma, nonostante ciò che aveva detto Chemosh, aveva gli orecchi ostruiti dall’acqua. Non udiva niente tranne il suono del proprio sangue pulsante e la voce del dio.

«Io non sento niente», disse alla fine Chemosh, sembrando perplesso, «eppure la sensazione persiste. Forse è soltanto la mia fantasia. Vieni, troviamo quello che cerchiamo. Le rovine non sono lontane».

Camminava nell’acqua come camminasse sulla terraferma. Mina cercò di imitarlo, ma trovò difficile procedere. Finì per nuotare e camminare insieme, spingendosi in avanti con ampie bracciate e scalciando con le gambe. Quell’oscurità insondabile incominciò a farsi più chiara; lei e Chemosh stavano risalendo verso la superficie, verso la luce solare.

Chemosh si fermò di nuovo, con l’espressione cupa. Guardò Mina, guardò la veste di seta trasparente che indossava. «Non avrei mai dovuto permetterti di scendere qui sotto disarmata e senza armatura protettiva. Ti rimanderò indietro...»

«Non mandatemi via, mio signore. La mia armatura è la mia fede in voi. La mia arma è il mio amore per voi.»

Chemosh la trasse a sé. I capelli di Mina galleggiavano nell’acqua, spostandosi attorno alla testa e alle spalle con onde sensuali. Gli occhi d’ambra sembravano luminescenti, l’acqua rosso sangue conferiva loro una sfumatura arancione, per cui avevano un bagliore ardente.

«Non meraviglia che io abbia scelto te come somma sacerdotessa, Mina», osservò Chemosh. «Tuttavia ti darò qualcosa di più sostanzioso della fede per proteggere il tuo corpo di mortale, e un’arma maggiormente capace di arrecare danni.»

Si tuffò nel buio, precipitando fino sul fondo del mare. In pochi istanti ritornò, portando con sé uno scheletro umano.

«Non è molto carino, ma è pratico. Non farai la schizzinosa a indossare la gabbia toracica di un uomo, vero, Mina?»

«L’armatura datami Takhisis era lorda del sangue di un uomo che aveva osato canzonarla», rispose Mina. «Mi farete da scudiero, mio signore?»

«Solo per questa volta», rispose lui con un sorriso, e prese a fissarle al corpo quell’armatura ossuta. «Ti sta bene? Se no, posso trovare qualcos’altro di più adatto. Abbiamo una scorta illimitata di scheletri.»

«Mi sta perfettamente, mio signore.»

La sua corazza era costituita dallo sterno e dalle costole di un uomo. Le clavicole le proteggevano le spalle, le tibie le gambe, gli omeri le braccia. Chemosh saldò tutto assieme con la sua potenza, rinforzò le ossa con la sua energia. Quando l’ebbe vestita, guardò quell’equipaggiamento e ne rimase soddisfatto.

«E adesso l’elmo», disse Chemosh.

«Non un cranio, mio signore», protestò Mina. «Non voglio sembrare Krell.»

«Gli dèi ce ne scampino!» esclamò con sarcasmo Chemosh. «No, Mina. Ecco il tuo elmo.»

Le prese la testa fra le mani, la baciò sulla fronte, sulle guance, sul mento e infine sulla bocca.

«Ecco, sei protetta.» Esitò, continuando a tenerla. Strinse la presa su di lei. «Mina», le disse a bassa voce, «io...».

«Che cosa, mio signore?» domandò lei.

«Niente», disse lui bruscamente. Si allontanò da lei, dal suo contatto, dai suoi occhi d’ambra.

«Vi ho contrariato, mio signore?» chiese Mina, turbata.

«No», rispose lui, e ripeté: «No».

La guardò, guardò il suo corpo, caldo e cedevole e morbido, stretto nell’orribile armatura di ossa di uomo morto, e fu il Signore della Morte a rabbrividire.

Le strappò di dosso lo scheletro, lacerandolo e rigettandolo nel mare.

«Davvero non mi dava fastidio, mio signore», protestò Mina.

«Dava fastidio a me», disse lui e si girò bruscamente.

Procedettero alla deriva nelle profondità illuminate dal sole, alla ricerca delle rovine della Torre.

Quella potenza ignota che Chemosh percepiva lì sotto aumentava, non diminuiva, o per lo meno così giudicò Mina dall’espressione sempre più cupa di lui. Chemosh non le parlava. Non la guardava.

Mina cercò di rimanere concentrata, di stare all’erta in caso di pericolo. Lo trovava difficile, però. Si trovava in un mondo diverso, un mondo dalla bellezza strana ed esotica, ed era continuamente distratta. I pesci la superavano nuotando, le sfrecciavano attorno, alcuni la scrutavano curiosi, altri la ignoravano completamente. Banchi di coralli con sfumature rosa si innalzavano dal fondo del mare, ospitando una vera e propria foresta di piante dall’aspetto strano, ed esseri che sembravano piante ma non lo erano, come scoprì Mina quando toccò quello che le pareva un fiore e che la sferzò, pungendola. I colori di tutto, pesci e piante, erano più vividi, più luminosi e vibranti di qualunque colore lei avesse mai visto sulla terraferma.

Mina dimenticò il pericolo e si abbandonò a quell’incanto. Banchi di pesci argentei si muovevano a scatti e ruotavano su se stessi all’unisono come argento vivo. Pesci minuscoli guizzavano verso di lei, le mordicchiavano le dita. Altri si nascondevano alla vista, scomparendo dentro usci di corallo e tuffandosi in finestre di corallo.

All’improvviso Chemosh sibilò un avvertimento. Afferrando Mina, la trascinò fra le ombre di rami verdi e ondeggianti.

«Che cosa c’è?» domandò lei a bassa voce.

«Guarda! Guarda lì!» rispose lui, incredulo e furioso.

Dal fondo marino si innalzava un edificio dalle pareti di cristallo liscio e luccicante. Quella struttura cristallina catturava i raggi di luce solare immersi nell’acqua e li teneva prigionieri, cosicché l’edificio brillava di lastre tremolanti di luce acquosa. Sovrastava l’edificio una cupola di marmo nero. In cima alla cupola luccicava al sole un cerchietto di oro rosso lucidato e intessuto d’argento. Il centro del cerchietto era nerissimo, come se nel mare si fosse aperto un buco per rivelare il vuoto dell’universo.

«Che cos’è quel luogo, mio signore?» domandò Mina, in soggezione.

«La Torre dell’Alta Magia di Istar, dissacrata, bruciata, colpita da meteore, sventrata dal fuoco, disseminata di macerie», rispose Chemosh, soggiungendo con un’imprecazione: «In qualche modo è stata ricostruita».

8

Un attimo prima Rhys e Nightshade erano nella cella di Zeboim, a discutere pazientemente con la dea, cercando di farla ragionare. Un attimo dopo, nello spazio fra un respiro e l’altro, una parola e l’altra, uno strepito e l’altro, Rhys si trovò in piedi su una pietra da lastrico parzialmente sbriciolata, nel mezzo di un’isola-fortezza, con l’eco del mare infuriato che continuava a rombargli nella testa. Stancatasi della discussione, Zeboim vi aveva posto fine.

Rhys non era mai stato sul Bastione della Tempesta. Ne aveva udito delle storie, ma aveva prestato scarsa attenzione a quei racconti. Non era tipo da bramare l’avventura. Non si univa ai monaci più giovani, che si emozionavano nell’udire storie di fantasmi narrate attorno al fuoco nelle sere d’inverno. Il più delle volte abbandonava quel fuoco confortevole per andare a camminare da solo sulle colline gelate, godendosi la bellezza fredda e luccicante delle stelle ricoperte di brina.

I corpi di quei giovani monaci giacevano sottoterra. I loro spiriti, si sperava, vagavano liberi fra quelle stesse stelle. Lui era partito per risolvere il mistero della loro morte. Conoscendone il come, doveva ancora scoprirne il perché. La sua ricerca l’aveva condotto qui. Ripensando alla strada percorsa, non la vedeva interamente per via di tutte le curve e le deviazioni intraprese.

Se avesse obbedito a Majere e fosse rimasto al monastero a cercare la perfezione di corpo e mente, che cosa starebbe facendo adesso? Conosceva bene la risposta. Era l’ora del tramonto. Era quasi il momento di riportare le pecore giù dalle colline. Lui sarebbe stato seduto comodo nell’erba alta, cullando fra le braccia il bastone, con Atta distesa al suo fianco. La cagna sarebbe stata lì a osservare le pecore e a osservare lui, in attesa del comando che l’avrebbe spedita a sfiorare l’erba, correndo su per la collina.

La scena era pacifica, ma lui no. Il suo spirito era turbato, infestato da dubbi e tumulti interiori. Non era più libero di vagare tra le stelle di notte. Sarebbe andato ogni sera a far visita alla fossa comune e avrebbe pensato, guardando la nuova erba che incominciava a ricoprirla, di avere tradito i suoi confratelli, tradito i suoi familiari, tradito l’umanità. Rhys guardò quello che sarebbe potuto essere e l’immagine si dissolse. Se fosse morto in questo luogo orribile, come sembrava più che probabile, il suo spirito avrebbe proseguito verso la fase successiva del suo viaggio, soddisfatto di sapere che lui aveva agito bene, anche se tutto era poi finito male.

Un tramonto sgargiante inondava il cielo di colori rosso e oro e porpora, chiazzando di colori splendenti le mura grigie del Bastione della Tempesta. Il primo pensiero incongruo di Rhys fu che la fortezza aveva un nome sbagliato. Sul Bastione della Tempesta non infuriavano tempeste. Il cielo era limpido, a parte l’unico sbuffo solitario di una nube bianca che corse via rapidamente, timorosa di essere catturata. Non si agitava nessuna brezza sulla terra o sull’acqua. Il mare sciabordava cupo contro i dirupi. Piccole onde lambivano il fondo delle rocce frastagliate, blandendole, accarezzandole.

Rhys studiò l’ambiente circostante, esaminandolo a lungo e attentamente: le formidabili torri che si protendevano in alto verso il cielo abbagliante, la piazza d’armi su cui lui si trovava, i vari edifici annessi sparpagliati fra le rocce. E al di là e tutto attorno a lui il mare, che osservava avidamente ogni suo movimento.

Ogni suo movimento. Suo e soltanto suo. Il kender non si vedeva da nessuna parte. Rhys sospirò e scrollò il capo. Aveva cercato di spiegare a Zeboim che la presenza del kender era essenziale per il suo piano. Aveva ritenuto di averla convinta; di questo, per lo meno, se non di altro. Forse il kender era ruzzolato fuori dall’etere cadendo su una diversa parte dell’isola. Forse...

«Nightshade?» chiamò a bassa voce Rhys.

Rispose uno squittio indignato. Lo squittio proveniva dalla bisaccia di cuoio appesa alla cintura di Rhys, e dopo un attimo di stupore Rhys emise un sospiro di sollievo. Zeboim aveva attuato il piano di Rhys con la sua consueta impetuosità, solo che non si era presa la briga di dirglielo.

«Rhys!» piagnucolò Nightshade, con la voce soffocata dalla bisaccia in cui era celato, «che è successo? Dove sono? È buio pesto qui dentro e puzza di formaggio di capra!».

«Stai zitto, amico mio», ordinò Rhys e mise la mano con fare rassicurante sopra la bisaccia.

La bisaccia obbediente si zittì, anche se Rhys se la sentiva fremere contro la coscia. Diede al kender una pacca tranquillizzante.

«Sei dentro la mia bisaccia. Io e la bisaccia siamo sul Bastione della Tempesta.»

La bisaccia ebbe un sobbalzo.

«Nightshade», disse Rhys, «devi restare perfettamente immobile. Ne va della nostra vita».

«Scusa, Rhys», squittì il kender. «Sono un po’ sorpreso, ecco tutto. È stato tutto così improvviso!» L’ultima parola era uno strillo.

«Lo so», rispose Rhys, sforzandosi di mantenere calmo il proprio tono. «Nemmeno io mi aspettavo di compiere questo viaggio. Ma adesso siamo qui e dobbiamo andare avanti col nostro piano come abbiamo discusso. Tu puoi farcela?»

«Sì, Rhys. Per un attimo ho perso il controllo. È un po’ un brutto colpo, sai, trovarti alto cinque centimetri e infilato in una sacca che puzza di formaggio di capra e poi scoprire che sei venuto a far visita a un cavaliere della morte.» Nightshade sembrava amareggiato.

«Capisco», disse Rhys, contento che il kender non potesse vedere il suo sorriso.

«Adesso però ho superato tutto questo», soggiunse Nightshade dopo una pausa per riprendere fiato. «Puoi contare su di me.»

«Bene.» Rhys si guardò di nuovo attorno. «Non ho idea di dove siamo né dove dovremmo andare. Zeboim ci ha mandati via prima che potessi chiederglielo.»

Le torri della massiccia fortezza si innalzavano sui dirupi. Tutti gli edifici sembravano essere stati scolpiti sull’isola come uno scultore ricava la sua opera da un blocco di marmo, lasciando la base sgrossata, la sommità liscia e conformata e lavorata con destrezza. Rhys aveva la strana sensazione di trovarsi sul punto più elevato di una scheggia di terra frastagliata, col resto del mondo a digradare tutto attorno a lui. Sulla sua collina si era spesso sentito in comunione con un universo benevolo. Qui si sentiva solo, isolato e abbandonato, in un universo a cui non importava un fico secco.

Le pietre da lastrico della piazza d’armi irradiavano nell’aria il calore del sole pomeridiano. Il sudore gocciolava sul collo e sul petto di Rhys. Il kender, pensò Rhys, probabilmente stava soffocando. Rhys aprì leggermente la bisaccia per lasciare entrare più aria.

«Stai zitto», ripeté. «E stai fermo.»

A un’estremità dell’isola si trovavano due torri enormi che dovevano essere gli edifici principali della fortezza. Rhys avrebbe dovuto attraversare tutta la piazza d’armi per raggiungerle. Alzando lo sguardo sulla miriade di finestre su quelle alte torri, Rhys si rese conto che il cavaliere della morte, Ausric Krell, poteva essere lì a osservarlo.

Ripensò alla conversazione che si era tenuta nella cella della prigione qualche istante prima che lui partisse tanto inaspettatamente per questo viaggio.

Maestà, io e Nightshade abbiamo bisogno del vostro aiuto se dobbiamo sopravvivere a questo incontro col cavaliere della morte. Mi avevate promesso di conferirmi la vostra potenza sacra...

Ho cambiato idea, monaco. Ci ho riflettuto. Ciò che tu chiedi è troppo pericoloso per mio figlio. Se tu fallisci, Ariakan sarà ancora nelle mani di Chemosh. Se lui anche solo sospetta che io ti abbia aiutato, si vendicherà sul mio povero figlio.

Signora, senza il vostro aiuto, noi non possiamo procedere...

Bah! Il tuo piano è buono, che più buono non si può, date le circostanze. Potresti riuscirci. Se ci riesci, non hai nulla di cui preoccuparti. Se non ci riesci, la morte per te non avrà importanza. Per via del tuo sacrificio, ti sarà garantita una vita pacifica dopo la morte. Majere difficilmente potrà negartela, mentre il mio povero figlio...

Maestà...

Fu allora che Zeboim pose fine alla discussione.

Adesso lui si trovava sul Bastione della Tempesta, costretto ad affrontare un cavaliere della morte avendo come arma soltanto il suo bastone e per compagno un kender in miniatura, senza alcun dio a fornirgli aiuto. Guardando lontano verso le onde cupe e il cielo limpido che si oscurava, Rhys strinse il bastone, che era stato un ultimo mesto dono di Majere, e recitò una preghiera. Non sapeva chi stesse pregando, forse nessuno: forse il mare, forse il cielo infinito. Non chiese incantesimi, né magia sacra, né poteri divini. Inutile chiedere. Non avrebbe risposto nessuno.

«Datemi forza», pregò, e con questo si incamminò verso la fortezza per cercare il cavaliere della morte.

Aveva compiuto appena qualche passo quando un’ombra discese su di lui da dietro. L’ombra era fredda come la disperazione, tenebrosa come la paura. Rhys udiva alle proprie spalle il cigolio del cuoio e lo sferragliare dell’armatura e il rumore del respiro, che non era il rumore di un respiro vivente ma il suono sibilante e stridulo di un morto vivente che cerca di rammentare come si faccia a respirare. Il fetore della putrefazione, della morte, gli riempì il naso e la bocca. Tra il fetore e l’orrore, Rhys era tanto disgustato che per un attimo temette di perdere i sensi.

Rhys strinse forte il bastone. Il suo io spirituale ingaggiò una battaglia. La paura era l’arma più potente del cavaliere della morte. Rhys doveva sconfiggere la paura oppure crollare sul posto. Il suo spirito combatté la paura, l’anima cercò di vincere la debolezza intrinseca della carne. La lotta fu breve, intensa. Rhys si era addestrato a questo in tutti i suoi giorni trascorsi al monastero. Non poteva invocare Majere in suo aiuto, ma poteva invocare gli insegnamenti di Majere. Lo spirito vinse. L’anima trionfò. La sensazione di disgusto passò. Il formicolio ardente negli arti si attenuò, anche se la mano che stringeva il bastone gli si era intorpidita.

Padrone di sé, conservò questa padronanza e si girò con calma, senza fretta, per guardare in faccia la paura.

Alla vista del cavaliere della morte, la determinazione di Rhys fu sul punto di sgretolarsi. Krell era vicino a Rhys, incombeva su di lui. Guardando nelle fessure per gli occhi dell’elmo, Rhys vide la maledetta luce dei morti viventi, una luce feroce e infuocata come il sole, che però non poteva illuminare la tenebra di quell’essere intrappolato all’interno dell’armatura macchiata di sangue. Rhys si fece forza per guardare quell’essere al di là della luce ardente.

Non era imponente. Era ignobile e avvizzito.

Gli occhietti rossi di Krell scrutavano Rhys. «Prima di ucciderti, monaco della Mantide, ti darò la possibilità di dirmi che cosa ci fai sulla mia isola. La tua spiegazione dovrebbe essere divertente.»

«Vi sbagliate, signore. Io non sono un monaco di Majere. Sono venuto a parlare a nome di Zeboim, per negoziare riguardo all’anima di suo figlio.»

«Sei vestito da monaco», sogghignò Krell, guardandolo di traverso.

«Le apparenze ingannano», ribatté Rhys. «Voi, signore, siete vestito da cavaliere.»

Krell lo guardò con occhio furioso. Aveva la sensazione di essere stato insultato, ma non ne era certo. «Lascia perdere. Sarò io a ridere per ultimo, monaco. Riderò per giornate intere, purché tu non mi muoia troppo presto, come tanti di quei bastardi.»

Krell dondolò all’indietro sui talloni, dondolò in avanti, con le mani agganciate alla cintura.

«Zeboim vuole negoziare, giusto? Molto bene. Ecco le mie condizioni, monaco: tu mi intratterrai come fanno tutti i miei "ospiti" giocando con me a khas. Se per caso mi batti ti ricompenserò tagliandoti la gola.» Soggiunse, caso mai Rhys non avesse afferrato: «Ti ucciderei rapidamente, capisci».

Rhys annuì, tenne stretto il bastone. Finora tutto bene. Tutto stava andando come previsto.

«Se non mi batti, e ti avverto che io sono un giocatore esperto, ti darò un’altra possibilità. Io non sono tanto cattivo, dopo tutto. Ti darò una possibilità dopo l’altra di battermi. Giocheremo una partita dopo l’altra dopo l’altra.»

Krell fece un movimento con la mano guantata. «Il tabellone è pronto in biblioteca. Una camminata piuttosto lunga, ma per lo meno puoi goderti questa giornata insolitamente bella che abbiamo. Ti potrà far piacere dare un’ultima occhiata al tramonto.»

Krell ridacchiò, con un suono orribile, il suo divertimento riecheggiò sordamente nell’armatura vuota. Si avviò a passi pesanti, strofinandosi allegramente le mani in previsione della partita. A metà del cortile si fermò e si girò verso Rhys.

«Ti ho accennato che per ogni pezzo di khas che perdi, monaco, ti spezzerò un osso?» Krell rise apertamente. «Io comincio con le ossa piccole, le dita delle mani e dei piedi. Poi ti rompo le costole, una dopo l’altra. Dopo di che forse una clavicola, un polso o un gomito. Poi passo alle gambe: una tibia, un femore, il bacino. Ti lascio la spina dorsale fino alla fine. Per allora mi supplicherai di ucciderti. Ti ho detto che trovo divertente questo gioco! Adesso vado a sistemare il tabellone. Non farmi aspettare. Non vedo l’ora di sentire che cosa ha da offrirmi Zeboim in cambio di suo figlio.»

Il cavaliere della morte si allontanò a grandi passi. Rhys rimase immobile a guardarlo. «Oh, Rhys!» gridò Nightshade, inorridito.

«Non parlare così forte. Tu sei bravo a giocare a khas?» domandò a bassa voce Rhys.

«Non molto», rispose Nightshade, con la voce tremante. «Saremo costretti a dare dei pezzi, Rhys. È l’unico modo per giocare. Mi dispiace. Cercherò di trovare rapidamente Ariakan.»

«Fai del tuo meglio, amico mio», disse Rhys e, stringendo il bastone, si incamminò verso la torre.

9

Krell si alzò dalla sedia quando Rhys entrò nella biblioteca. Inchinandosi con un’ostentazione canzonatoria di benvenuto educato, il cavaliere della morte condusse Rhys a una sedia collocata accanto a un tavolino su cui era disposto il tabellone del khas. La stanza era fredda e opprimente, e puzzava di carne in putrefazione. Krell con irritazione scalciò via diverse ossa che ingombravano il pavimento.

«Scusa il disordine. Ex giocatori di khas», disse a Rhys.

Ossa di gambe, ossa di braccia, clavicole, dita delle mani e dei piedi, crani: tutti spezzati o sfondati, alcuni in vari punti. Krell ne calpestò con noncuranza alcuni sotto i piedi, riducendoli in polvere.

Sistemò sulla sedia il proprio ponderoso corpo munito di armatura e con un altro gesto indicò a Rhys di sedersi. Il tabellone rotondo del khas era sistemato fra i due giocatori; i corpi rimpiccioliti che costituivano i pezzi del khas erano collocati sugli esagoni bianchi, neri e rossi, due eserciti contrapposti che si affrontavano su un campo di battaglia suddiviso in esagoni.

Sedendosi, Rhys sembrò avere perduto il coraggio. La sua usuale calma lo aveva abbandonato. Rabbrividiva, le mani gli tremavano al punto che il bastone gli scivolò via dalle palme sudate e cadde a terra.

Cercò di togliersi dalla cintola la bisaccia e lasciò cadere anche quella. Rhys si chinò per raccogliere la bisaccia.

«Lasciala lì», ringhiò Krell. «Comincia a giocare.»

Rhys si deterse il sudore dalla fronte con la manica della veste. Mentre si accasciava, tremante, sulla sedia, ebbe uno scatto col ginocchio, colpendo il tabellone del khas e rovesciandolo. Il tabellone cadde dal supporto. I pezzi precipitarono a terra e si sparpagliarono in tutte le direzioni.

«Stupido imbranato!» ringhiò Krell. Il cavaliere della morte si chinò per raccogliere i pezzi del khas, cercandone uno in particolare che si affrettò a prendere in mano.

Rhys non poté guardarlo bene, perché Krell vi chiuse sopra la mano guantata.

«Tu raccogli il resto, monaco», grugnì Krell. «E se qualche pezzo è danneggiato, ti spezzerò due ossa per ogni pezzo che perderai. Sbrigati.»

Rhys strisciò sul pavimento, a quattro zampe, annaspando per raccogliere i pezzi, alcuni dei quali erano rotolati lontano nella stanza.

«Nella mano umana ci sono ventisette ossa», affermò Krell, rimettendo sul tabellone del khas i pezzi che aveva raccolto. «Io comincio con l’indice della mano destra e vado avanti. Ti manca una pedina, uno dei kender. È laggiù vicino al caminetto.»

Rhys raccolse l’ultimo pezzo, una pedina kender, e lo collocò sul tabellone.

«Che stai facendo, monaco?» domandò Krell.

La mano di Rhys sul kender si immobilizzò. Sentiva Nightshade tremargli sotto le dita.

«Le pedine non vanno lì», la redarguì Krell con disgusto. «Su quell’esagono va messa la torre. La pedina va qui.»

«Chiedo scusa», disse Rhys e spostò Nightshade sull’esagono indicato. «Io so pochissimo del gioco.»

Krell scrollò il capo. «E io che speravo tu vivessi abbastanza da intrattenermi per almeno una settimana. Comunque», soggiunse allegramente il cavaliere della morte, «nel piede umano vi sono ventisei ossa. Durerai almeno un paio di giorni. Spetta a te la prima mossa».

Rhys tornò a sedersi. Mettendo saldamente il piede sopra la pedina kender che aveva scambiato con Nightshade, spinse la pedina sotto la sedia.

Rhys prese Nightshade, che se ne stava rigido e dritto come le altre pedine, e avanzò il kender di una casella. Quindi esitò. Non si ricordava se dovesse muovere di una casella o di due nel suo gambetto di apertura. Nightshade a quanto pareva percepì il suo dilemma, poiché si dimenò leggermente. Rhys lo spinse di un’altra casella in avanti e poi si accasciò di nuovo sulla sedia. Il suo tremare e fremere era stato una recitazione, ma il sudore sulla fronte era reale. Se lo deterse di nuovo con la manica della veste.

Krell spinse una pedina goblin di due caselle sul lato opposto del tabellone.

«Tocca a te, monaco.»

Rhys guardò il tabellone e si sforzò di ricordare le sue lezioni di khas, impartitegli da Nightshade la sera prima. Avevano in mente un piano di gioco, con lo scopo di spingere Nightshade abbastanza vicino ai cavalieri neri perché potesse scoprire quale fosse Ariakan. Nightshade gli aveva spiegato tutte le evenienze: che cosa muovere se Krell muoveva così, che cosa muovere se Krell muoveva colà. Purtroppo Rhys si era rivelato un allievo scarso.

«Devi pensare come un guerriero, Rhys», gli aveva detto Nightshade a un certo punto, esasperato, «non come un pastore!».

«Io sono un pastore», aveva ribattuto Rhys, sorridendo.

«Be’, smettila di pensare come un pastore. Non puoi proteggere tutti i pezzi. Devi sacrificarne qualcuno per vincere.»

«Non sono tenuto a vincere», aveva fatto notare Rhys. «Devo restare in gioco abbastanza a lungo perché tu possa portare a termine la tua missione.»

Ciò che nessuno dei due aveva preso in considerazione erano le ossa spezzate.

Rhys mise la mano su una pedina e guardò Nightshade. Il kender si irrigidì sul posto, scrollò il capo impercettibilmente. Rhys sollevò la mano dal pezzo.

«Ah, monaco!» tuonò Krell, chinandosi in avanti con uno sferragliare di armatura. «Hai toccato il pezzo. Devi muoverlo.»

Nightshade incurvò le spalle. Rhys spostò la pedina. Aveva appena allontanato la mano quando Krell piombò giù. Prendendo un suo pezzo, lo fece scivolare sul tabellone e fece cadere la pedina di Rhys. Krell spostò con aria trionfante la pedina sul suo lato del tavolo.

«Tocca di nuovo a me», disse Krell.

Alzandosi dalla sedia, con gli occhietti rossi che fiammeggiavano per l’aspettativa, il cavaliere della morte afferrò la mano di Rhys.

Rhys rimase senza fiato e rabbrividì al tocco del cavaliere della morte, che gli bruciò la carne con quell’odio al calor bianco che i maledetti morti nutrono per i vivi.

I monaci di Majere sono addestrati a sopportare il dolore senza lamentarsi, sfruttando molte discipline, fra cui quella chiamata Fuoco Gelido. Grazie alla pratica costante e alla meditazione, il monaco è in grado di scacciare completamente i dolori di scarsa rilevanza, che non vengono più avvertiti, e può ridurre il dolore debilitante a un livello tale per cui può continuare ad agire. Il «fuoco» viene ricoperto di ghiaccio, il monaco immagina la brina depositarsi sul dolore, cosicché questo si placa sotto il freddo gelido che intorpidisce la parte del corpo interessata.

Rhys contava sull’uso di questa disciplina per poter vincere il dolore delle ossa spezzate, almeno per un po’. Meditazione e disciplina non furono all’altezza del tocco del cavaliere della morte. Rhys una volta aveva rovesciato una lanterna, versandosi olio fiammeggiante sulle gambe nude. Sulla carne gli si erano formate vesciche e bolle, il dolore era stato tanto intenso che lui quasi era svenuto. Il tocco di Krell fu come olio fiammeggiante versatogli nelle vene. Rhys non poté trattenersi. Urlò di dolore, il corpo gli sobbalzò spasmodicamente nella stretta di Krell.

Stringendo l’indice della mano destra di Rhys, Krell gli impartì una torsione da esperto. L’osso si spezzò all’altezza della nocca. Rhys gemette. Fu pervaso da un’ondata di calore nauseabondo e di vertigine.

Krell lo lasciò andare e tornò lentamente a sedersi.

Rhys si accasciò all’indietro, lottando per non svenire, inspirando profondamente nel modo usato per schiarirsi la mente ed entrare nello stato del Fuoco Gelido. Aveva difficoltà. Il dito spezzato si era scolorito e incominciava a gonfiarsi. La carne dove Krell l’aveva toccata era di un’orribile sfumatura di bianco, come quella di un cadavere. Rhys si sentiva debole e malfermo. Vedeva i pezzi del khas ondeggiare, la stanza roteare.

«Se ti arrendi adesso, tutto è perduto», si disse, vacillando sull’orlo dell’incoscienza. «Questo comportamento è imperdonabile. Il Maestro sarebbe amaramente deluso. Tutti quegli anni passati sono stati una menzogna?»

Rhys chiuse gli occhi e si rivide sulle colline, seduto sull’erba a osservare le nubi vagare nel cielo, quasi rispecchiando le pecore dalla lana bianca che gironzolavano sul fianco della collina. Lentamente prese a riguadagnare padronanza di sé, il suo spirito trionfava sul corpo ferito.

Accarezzandosi il dito rotto, rivolse nuovamente l’attenzione al tabellone del khas. Le lezioni di Nightshade gli tornarono in mente e lui sollevò la mano (la mano ferita) e fece la mossa.

«Sono impressionato, monaco», disse Krell, guardando Rhys con un’ammirazione riluttante. «Quasi tutti gli uomini perdono i sensi con me e io devo aspettare che rinvengano.»

Rhys a malapena lo udì. Con la prossima mossa avrebbe avanzato Nightshade, ma voleva dire sacrificare un altro pezzo.

Krell fece la sua mossa e rivolse a Rhys un cenno del capo.

Rhys finse di studiare il tabellone, acquietando nel frattempo il proprio spirito, preparandosi ad affrontare il seguito. Mise la mano sul pezzo del khas, guardò Nightshade.

Il kender era impallidito fortemente, per cui adesso era a malapena distinguibile dal resto dei cadaveri di kender rimpiccioliti. Nightshade sapeva quanto Rhys che cosa fosse in arrivo, ma si doveva fare così. Annuì lievemente.

Rhys sollevò il pezzo, lo spostò, lo depose, e dopo appena una lieve esitazione allontanò la mano. Udì Krell ridacchiare di piacere, lo udì rovesciare uno dei suoi pezzi, udì il cavaliere della morte alzarsi ponderosamente in piedi.

La fredda ombra del cavaliere della morte discese su di lui.


Per un orribile minuto Nightshade si convinse che sarebbe svenuto. Aveva udito chiaramente il rumore straziante e improvviso di quel primo osso spezzato, e il gemito di dolore di Rhys, e il kender dal cuore tenero si era accalorato spiacevolmente. Soltanto il pensiero terribile di se stesso (un pezzo del khas) che si accasciasse all’improvviso totalmente privo di sensi sul suo esagono nero (una mossa non reperibile in nessun regolamento) lo mantenne in piedi. Vacillante ma determinato, portò avanti la sua parte della missione.

Nightshade era un kender insolito nel senso che non era amante dell’avventura. I suoi genitori la consideravano una caratteristica deplorevole e cercavano di farlo ragionare, invano. Suo padre sosteneva tristemente che questa carenza di vero spirito kender derivasse probabilmente dal fatto che Nightshade frequentasse amichevolmente i morti. Certi morti hanno un’analoga visione negativa della vita.

Finora questa avventura aveva fatto molto per confermare l’opinione sfavorevole di Nightshade.

Fin da principio non era stato entusiasta del progetto di Rhys di ridurlo alle dimensioni di un pezzo del khas. In un mondo di gente alta, Nightshade si riteneva già abbastanza basso di statura. Inoltre, non gli piaceva l’idea di dover contare su Zeboim perché in primo luogo lo rimpicciolisse e in secondo luogo lo riportasse alle dimensioni normali. Rhys aveva assicurato Nightshade che avrebbe indotto Zeboim a giurare su qualunque cosa giurino le dee che avrebbe agito come richiesto. Purtroppo la dea aveva inflitto l’incantesimo al kender prima che avessero avuto la possibilità di concludere questo aspetto importante delle trattative. Nightshade si era trovato accanto a Rhys nella cella di prigione della dea e un attimo dopo era finito dentro una puzzolente bisaccia di cuoio, a sudare e a rammentare con uno spasimo che aveva saltato la colazione.

Aveva desiderato uscire da quella bisaccia finché non si era fatto vedere il cavaliere della morte, e poi aveva soltanto desiderato strisciare dentro le cuciture della bisaccia. Riteneva di essere coraggioso quanto ogni kender vivente, ma perfino il suo famoso zio Tas, secondo la leggenda, aveva avuto paura di un cavaliere della morte.

Dopo di che non c’era stato tempo per la paura. Quando Rhys aveva lasciato cadere la bisaccia, Nightshade aveva avuto appena qualche secondo per strisciare fuori dalla bisaccia e rotolare via prima che il cavaliere della morte lo scorgesse. Quindi vi era stata la questione di restare rigido e immobile quando Rhys l’aveva raccolto (il più delicatamente possibile) e l’aveva sistemato sul tabellone del khas. Nella preoccupazione e nell’ansia per tutto questo, non aveva avuto il tempo di essere intimorito dal cavaliere della morte.

Quando quel turbinio di attività si concluse, però, Nightshade poté vedere bene Krell, poiché era costretto a fronteggiare il cavaliere della morte, che era orripilante proprio come se lo era immaginato il kender.

Nightshade si domandò se qualcuno l’avrebbe notato se avesse chiuso gli occhi. Un’occhiata di nascosto gli indicò che tutti gli altri kender sul tabellone avevano gli occhi spalancati.

«Naturalmente, sono cadaveri: bastardi fortunati», gorgogliò Nightshade.

Krell non sembrava un grande osservatore, ma avrebbe potuto notarlo. Nightshade era costretto a fissare dritto il cavaliere della morte; forse non sarebbe stato in grado di sopportare quella vista orrenda ma all’improvviso intravide lo spirito di Krell. Krell era grosso e orribile e terrificante. Il suo spirito invece era piccolo e orribile e codardo. Nel mondo degli spiriti, Nightshade avrebbe potuto aggredire Krell, gettarlo a terra e sederglisi sulla testa. Questa consapevolezza lo fece sentire immensamente meglio, e lui incominciava a pensare che forse sarebbero potuti uscire vivi da tutto questo (una cosa che non aveva realmente previsto) quando Krell spezzò il primo dito di Rhys, e Nightshade quasi crollò.

«Prima porti a termine la tua parte della missione», si disse Nightshade per impedirsi di perdere i sensi, «prima tu e Rhys potete andarvene da qui».

Nightshade deglutì, sbatté gli occhi per scacciare le lacrime e procedette con quello che era stato mandato qui a fare: scoprire quale pezzo del khas racchiudesse lo spirito di Lord Ariakan».

Quando aveva sentito dire che tutti i pezzi del khas erano cadaveri rimpiccioliti, Nightshade si era preoccupato di trovarsi in mezzo a una miriade di spiriti dei morti. Fortunatamente gli spiriti dei morti se n’erano andati da tempo, lasciando lì i loro corpi tormentati. Nightshade percepì la presenza di un solo spirito, ma quello spirito era irato abbastanza per venti.

In condizioni normali Nightshade avrebbe potuto sfruttare simili forti emozioni che sentiva risuonare da parte dello spirito per stabilire quale pezzo del khas fosse quello giusto. Purtroppo la collera che si riversava sul tabellone del khas era tanto intensa che rendeva impossibile distinguere i pezzi. La collera e il feroce desiderio di vendetta erano dappertutto e sarebbero potuti provenire da qualunque pezzo.

Zeboim aveva insistito nell’affermare che suo figlio era intrappolato in uno dei due cavalieri neri, ciascuno in groppa a un drago azzurro, poiché così le aveva detto Krell. Nightshade lo considerava probabile, ma non poteva scartare la possibilità che Krell avesse mentito. Guardò oltre le teste dei goblin disposti di fronte a lui e sbirciò al di là del cadavere di un mago dalla veste nera per osservare bene i due cavalieri e vedere se notasse in loro qualcosa che lo aiutasse a decidere.

Sperava che uno potesse fremere di indignazione o emettere uno sbuffo malefico o punzecchiare un altro pezzo con la lancia...

Niente. I cavalieri restavano rigidi e immobili come, be’, cadaveri.

C’era un unico modo per scoprirlo. Lui si sarebbe palesato allo spirito e lo avrebbe pregato di rivelarsi.

Nightshade generalmente parlava agli spiriti con un tono di voce normale; a loro di solito piaceva così, li faceva sentire a proprio agio. Parlare ad alta voce qui non era possibile. Anche se Krell non sembrava troppo intelligente, perfino lui si sarebbe insospettito di un pezzo del khas parlante. Nightshade poteva, se necessario, parlare agli spiriti al loro livello con una voce affine alla loro, una cosa che talvolta doveva fare con spiriti molto timidi.

Purtroppo, essendo a sua volta un morto vivente, Krell si trovava su entrambi i piani di esistenza (quello mortale e quello spirituale) e avrebbe potuto udire il kender. Nightshade decise di correre il rischio. Non poteva lasciare che Rhys subisse altre torture.

Nightshade guardò intensamente Krell e il suo spirito. Il cavaliere della morte sembrava totalmente immerso nella partita e nella tortura di Rhys. Krell pareva ben saldo sul piano mortale, al pari del suo spirito piccolo e orribile.

«Scusatemi», chiamò Nightshade con un sussurro educato, cercando di guardare entrambi i cavalieri più Krell, «sto cercando Lord Ariakan. Potete farvi riconoscere, per favore?».

Attese con ansia, ma nessuno rispose al suo richiamo. L’onda impetuosa di furia non si placò, tuttavia. Ariakan era lì, il kender ne era sicuro.

Nightshade veniva ignorato.

Con la coda dell’occhio Nightshade vide la mano ferita di Rhys librarsi sopra il tabellone del khas. Nightshade alzò timoroso lo sguardo per vedere che cosa stesse per fare Rhys. Avevano messo a punto diverse strategie con l’obiettivo di far avanzare Nightshade sul tabellone verso i cavalieri. Il kender si tese nel vedere le dita abbassarsi ed emise un breve sospiro di sollievo quando Rhys eseguì la mossa giusta. Nightshade sospirò di nuovo, in maniera più profonda e addolorata. Con questa mossa Rhys avrebbe sacrificato un pezzo. Krell gli avrebbe spezzato un altro osso. Nightshade si risolse a farsi più deciso.

«Lord Ariakan...» cominciò a dire a voce più alta, assumendo un tono più spiccio.

«Zitto», gli ingiunse una voce, fredda e sepolcrale.

«Oh, siete lì!» Nightshade si concentrò sul cavaliere nero collocato sul suo lato del tabellone. «Sono contento di avervi trovato. Siamo venuti a salvarvi. Io e il mio amico.» Non poteva girarsi, ma roteò gli occhi e fece un piccolissimo gesto col capo verso Rhys.

La furia si ridusse parzialmente. Nightshade adesso aveva attirato in pieno l’attenzione dello spirito.

«Un kender e un monaco di Majere qui per salvarmi da Chemosh?» Ariakan emise una risata amara. «Improbabile.»

«Io sono un kender. Lo ammetto. Ma Rhys non è più un monaco di Majere. Be’, lo è, ma non lo è, se capite quello che voglio dire, mio signore, ma probabilmente no, perché non lo capisco bene neanch’io. E non è stata una nostra idea venire qui. Ci ha mandati vostra madre.»

«Mia madre!» Ariakan sbuffò. «Adesso tutto ha un senso.»

«Credo che stia cercando di esservi d’aiuto», accennò Nightshade.

Ariakan sbuffò di nuovo.

Dietro le spalle Nightshade udì spezzarsi un altro osso. Rhys gemette e poi rimase in silenzio, tanto in silenzio che per un attimo Nightshade temette che l’amico avesse perso i sensi. Quindi udì un respiro aspro e vide la mano di Rhys spostarsi sul tabellone.

Dalla carne gli spuntava un osso dai margini frammentati. Il sangue schizzò sul tabellone del khas. Il kender deglutì, il cuore gli si contorse per la sofferenza dell’amico.

«Adesso che sapete che siamo qui per salvarvi, mio signore», proseguì Nightshade, affrettando disperatamente le cose, «ecco il nostro piano...».

«State sprecando tempo. Io non vengo via di qui», ribatté ferocemente Ariakan, «finché non strappo via il fegato a mani nude a questo traditore e non glielo faccio mangiare a pezzetti».

«Lui non ha un fegato», disse irritato Nightshade. «Non più. E vorrei solo dire che è questo genere di atteggiamento negativo ad avervi tenuto in prigione per tutti questi anni. Ora, ecco il piano. Rhys vi catturerà» (Nightshade lo affermò con sicurezza, anche se nutriva dei dubbi in proposito) «e vi sposterà sul suo lato del tabellone. Io distrarrò Krell. Rhys vi metterà in tasca e noi fuggiremo e vi riporteremo sano e salvo alla dea vostra madre. Tutto quello che dovete fare voi è...».

«Io non voglio essere salvato», ribadì Ariakan. «Se ci provate, scatenerò un inferno. Nemmeno Krell potrà mancare di notarlo. Ho paura che abbiate sprecato il vostro tempo. E la vostra vita.»

«Decisamente ha preso da sua madre», mormorò Nightshade. «Povero Rhys», soggiunse, sobbalzando nell’udire l’amico trattenere il fiato. «Non può sopportarne molte di più. Oh, no! Eccolo che sta per muovere il pezzo sbagliato!»

Nightshade ebbe uno scatto violento col capo e roteò gli occhi e fortunatamente Rhys colse il suggerimento. La sua mano (adesso usava la sinistra) si spostò dalla regina a una torre. Nightshade emise un sospiro profondo e diede un’occhiata a Krell.

«Questa dovrebbe dargli da pensare», disse il kender con soddisfazione.

Il cavaliere della morte rimase impressionato dalla mossa. Krell si chinò sul tabellone, fece per muovere un pezzo, ci ripensò. Tamburellando con le dita guantate sul bracciolo di legno scolpito della sedia, si appoggiò all’indietro e fissò il tabellone.

Nightshade diede un’occhiata di nascosto a Rhys. Il monaco era pallidissimo, aveva il viso ricoperto da una patina di sudore. Sedeva con la mano destra avvolta nella sinistra. Aveva le vesti chiazzate di sangue. Non emetteva suoni, non gemeva, anche se il dolore doveva essere lancinante. Ogni tanto Nightshade udiva quell’inspirare lieve e rapido.

I kender sono per natura bonari, disposti a scordarsi il passato, a vivere e lasciar vivere, a porgere l’altra guancia, a non giudicare un libro dalla copertina e a non piangere sul latte versato. Ma qualche volta si incattiviscono. E chiunque su Krynn potrà confermare che non vi è nulla al mondo di più pericoloso di un kender che abbia perso le staffe.

«Eccoci qui», disse fra sé Nightshade, «a rischiare la vita per salvare questo cavaliere, solo per scoprire che questo somaro rivestito d’acciaio si rifiuta di essere salvato. Be’», affermò arcignamente, «lo vedremo!».

Non era necessario «prendere a prestito» niente alla maniera dei kender. Nessun abile gioco di prestigio, nessuna manovra astuta. Soltanto un rozzo arraffa-arraffa. Nightshade non aveva modo di avvertire Rhys del cambiamento di piano. Poteva solo sperare che il suo compagno seguisse il suggerimento, che, dopo tutto, sarebbe stato estremamente evidente.

Krell allungò la mano guantata per eseguire la mossa. Come Nightshade aveva previsto, il cavaliere della morte stava per prendere in mano il cavaliere nero. Stava per muovere Lord Ariakan.

Nightshade abbassò la testa come aveva visto fare a un toro a una fiera e attaccò.

10

Qualcosa in Rhys era consapevole del tabellone del khas e dei pezzi su di esso e di ciò che avveniva nella partita. Qualcos’altro in lui no. Questo qualcos’altro si trovava sul fianco della collina, coi piedi nudi freschi nell’erba verde spruzzata di rugiada, il sole caldo sulle spalle. Rhys trovava però sempre più difficile rimanere sulla collina.

Acute fitte di dolore gli scombussolavano lo stato meditativo. Ogni volta che Krell posava su Rhys la mano fredda e disincarnata, quel tocco orribile gli prosciugava ulteriormente le forze e la volontà.

Secondo il loro piano, doveva andare avanti ancora per diverse mosse. Avrebbe dovuto perdere altri pezzi.

Fuori era calata la notte. Attraverso la finestra Rhys vedeva il tremolio dei fulmini all’orizzonte; Zeboim attendeva notizie con impazienza.

Dentro non ardeva nessun fuoco, non era accesa nessuna candela. Il tabellone era illuminato dal bagliore rosso degli occhi di Krell. Rhys cercava di concentrarsi... ma trovava impossibile trarre un senso da una partita che non aveva mai avuto senso. Cercando di ricordare quale pezzo dovesse muovere, si allarmò nel vedere gli esagoni neri sollevarsi dal tabellone e librarsi a cinque centimetri buoni dalla superficie. Rhys sbatté gli occhi e inspirò profondamente, e gli esagoni neri ritornarono nella posizione normale.

Krell tamburellava con le dita sulla sedia. Si chinò in avanti, allungando la mano verso uno dei cavalieri neri. Quando Nightshade si mise all’improvviso a correre, Rhys temette che gli occhi lo stessero di nuovo ingannando. Fissò quel pezzo del khas, intimandogli di ritornare normale.

Krell emise un grugnito stupefatto e Rhys si rese conto che non aveva visioni. Nightshade aveva preso in mano la partita. La pedina stava muovendo da sola.

Scansando di qua e di là i pezzi del khas, Nightshade attraversò difilato il tabellone e si lanciò dritto contro il cavaliere nero. Il kender avvolse entrambe le braccia attorno alle gambe del drago azzurro e continuò a correre.

Pedina e cavaliere ruzzolarono fuori del tabellone.

«Ehi», rimproverò Krell con severità. «Questo è contro le regole.»

Rhys non vedeva i due pezzi del khas, ma li udì atterrare sul pavimento, uno con un rumore di ferraglia e l’altro con un urlo.

Krell emise un cupo rombo di collera. I suoi occhi rossi puntarono su Rhys.

Afferrando il bastone e reggendolo con entrambe le mani, Rhys si alzò dalla sedia e spinse il bastone con tutte le sue forze al centro dell’elmo del cavaliere della morte, colpendo Krell in mezzo agli occhi infuocati.

Rhys sperava che quel colpo di punta nel pesante elmo d’acciaio distraesse il cavaliere della morte, lo rallentasse abbastanza da permettergli di trovare Nightshade e Lord Ariakan. Rhys non prevedeva di causare alcun danno a Krell.

Ma il bastone era sacro, benedetto da Majere, ultimo dono del dio alla sua pecorella smarrita.

Agendo di propria iniziativa, il bastone volò via dalle mani di Rhys. Sotto il suo sguardo sbalordito, il bastone cambiò forma, diventando un’enorme mantide, l’insetto sacro al dio Majere.

La mantide era alta tre metri, con gli occhi tondeggianti e il corpo verde corazzato, e sei enormi zampe verdi. La gigantesca mantide religiosa afferrò con le zampe anteriori provviste di aculei la testa del cavaliere della morte. Le mandibole si serrarono sullo spirito rannicchiato di Krell e l’insetto prese a mangiarselo, con le mascelle del dio che laceravano l’armatura per raggiungere l’anima maledetta sottostante.

Stretto nella presa del gigantesco insetto, Krell urlò di orrore, mentre il suo cuore di codardo avvizziva.

Rhys sussurrò una rapida preghiera di ringraziamento al dio e si inginocchiò velocemente per recuperare il pezzo del khas e il kender. Li trovò con una certa facilità, poiché Nightshade stava saltellando su e giù e si sbracciava e strillava. Rhys raccolse Nightshade.

«Lui non vuole essere salvato!» gridò il kender.

Rhys infilò Nightshade nella bisaccia di cuoio, quindi raccolse il cavaliere nero del khas. Il peltro era incandescente al tatto, come fosse appena uscito dalla fusione nel fuoco.

Rhys guardò Krell, che lottava a corpo a corpo col dio, e immaginò che l’anima assetata di vendetta di Ariakan sarebbe rimasta legata a questo mondo ancora per molto tempo a venire.

A Zeboim interessava lo spirito di suo figlio. Rhys depositò il pezzo del khas nella bisaccia, sobbalzando all’urlo del kender quando Nightshade venne a contatto col metallo infuocato. Rhys non aveva tempo di aiutarlo. Krell incominciava a riprendersi dal primo orripilante colpo dell’attacco della mantide e adesso combatteva, colpendo forte con i pugni il corpo verde dell’insetto, scalciandolo selvaggiamente, cercando di scagliarselo via di dosso. Rhys doveva portare a termine la fuga mentre Krell e la mantide stavano ancora combattendo. Rhys sperava che la mantide annientasse Krell, ma non osò restare lì per vedere l’esito finale.

Si girò per scappare. Aveva compiuto appena pochi passi quando si rese conto che non sarebbe riuscito ad andare lontano. Era troppo debole.

Ansimante, in preda a nausee e capogiri, uscì barcollando nella notte. Le gambe gli tremavano, i piedi incespicavano sull’acciottolato irregolare e lui inciampò su una pietra spezzata. Era tanto debole che non riuscì a recuperare l’equilibrio. Cadde in avanti finendo a quattro zampe. Cercò di riprendere a correre. Tutto quello che riusciva a fare era ansimare. Stava male. Era esausto. Era finito. Gli mancava la forza di correre, e dietro di lui udiva dei passi pesanti e Krell che ruggiva di collera.

Rhys alzò lo sguardo verso il cielo stellato.

«Zeboim», gridò, col fiato corto. «Vostro figlio è al sicuro in mio possesso. Tocca a voi adesso.»

Il mare si agitò. Nubi grigie, ammassate all’orizzonte, attendevano l’ordine di attaccare. Anche Rhys attendeva, fiducioso che da un momento all’altro la dea li avrebbe trasportati via da quell’isola.

Un unico fulmine saettò dal cielo fino a terra. Colpendo la sommità della torre, il fulmine fece saltare via un grosso pezzo di pietra. Rimbombò un tuono, distante in lontananza. Rhys era in piedi nel cortile, con il kender e il pezzo del khas nella bisaccia.

I pesanti stivali del cavaliere della morte si avvicinavano rimbombando.


L’orripilante attacco della mantide aveva fatto impazzire di paura Krell. Nessun mortale poteva infliggere dolore a un cavaliere della morte, ma un dio sì, e Krell conobbe la sofferenza e il terrore quando le mandibole dell’insetto gli masticarono l’anima, mentre quegli orribili occhi tondeggianti riflettevano il nulla dell’esistenza maledetta del cavaliere della morte.

Krell aveva sempre detestato gli insetti.

In preda al panico, riuscì a portare a segno alcuni pugni e questi furono sufficienti per staccarsela di dosso. Krell strappò via la spada dal fodero e conficcò la lama nel corpo dell’insetto. Zampillò fuori sangue verde. Le mascelle della mantide scattarono orribilmente. I suoi artigli aculeati sferzarono Krell.

Krell portò furiosi colpi di taglio contro la mantide, colpendola ripetutamente. Sferrava colpi alla cieca, agitando il braccio, senza capire che cosa stesse colpendo, desiderando soltanto quell’insetto morto, morto, morto. Gli ci vollero alcuni istanti per rendersi conto che sferzava l’aria.

Krell si fermò, si guardò attorno timoroso.

La mantide non c’era più. Il bastone del monaco era lì, disteso a terra. Krell sollevò il piede, pronto a calpestare il bastone e a ridurlo in frammenti. Rimase col piede sospeso in aria. E se toccandolo avesse fatto ritornare l’insetto? Lentamente Krell abbassò il piede a terra e si allontanò. Tenendosi il più lontano possibile dal bastone, gli girò con cautela attorno.

Krell sbirciò sotto il tavolo. Il pezzo del cavaliere non c’era, e nemmeno il kender.

Krell guardò il tabellone. L’altro cavaliere era ancora lì, fermo sul suo esagono. Lo raccolse, lo osservò speranzoso, poi lo scagliò via con un’amara imprecazione.

Poiché durante il furto il cavaliere della morte aveva avuto la visuale bloccata dalla gigantesca mantide che cercava di mangiargli la testa, Krell non aveva realmente visto Rhys scappare via col pezzo del khas. Ma il cavaliere della morte non ebbe alcuna difficoltà a immaginare che cosa fosse successo. Si mise all’inseguimento del monaco, spronato dalla terribile consapevolezza di ciò che gli avrebbe fatto Chemosh se avesse perduto Ariakan.

Krell si precipitò fuori nel cortile. Vide Rhys a una certa distanza più avanti, che correva a perdifiato. Vide anche le nubi temporalesche, grigie e minacciose, radunarsi in alto. Un fulmine colpì una delle torri. Il fulmine successivo, Krell aveva questa sensazione, sarebbe stato mirato contro di lui.

«Giù le mani da me, Zeboim!» urlò Krell, con una finzione disperata. «Il vostro monaco ha rubato il pezzo sbagliato del khas. Vostro figlio è ancora in mio possesso. Se farete qualcosa per aiutare questo ladro a fuggire, Chemosh fonderà il vostro bel ragazzo di peltro e gli martellerà l’anima fino all’oblio!»

I fulmini balenarono di nube in nube; il tuono emise un ringhio cupo e minaccioso. Si alzò il vento, i cieli si fecero scuri e ancora più scuri. Cadde qualche goccia di pioggia, assieme a un paio di chicchi di grandine.

E finì lì.

Krell ridacchiò e, strofinandosi le mani, inseguì il monaco.


Rhys udì l’urlo di Krell e si sentì mancare il cuore.

«Zeboim!» gridò con impazienza Rhys. «Sta mentendo. Ho io vostro figlio! Portateci via di qui!»

Balenò un fulmine. Il rombo del tuono era soffocato. Le nubi che roteavano in alto erano confuse, incerte. Il cavaliere della morte attraversava di corsa la piazza d’armi. Con i pugni serrati, gli occhi rossi infuocati, Krell avanzava, infiammato d’ira. Quando avesse preso Rhys, gli avrebbe fatto ben di più che spezzargli qualche dito.

«Maestà», pregò Rhys, «abbiamo rischiato la vita per voi. Adesso è ora che voi rischiate qualcosa per noi».

La pioggia scendeva con piccoli tonfi discontinui tutto attorno a lui. Il vento sospirò e rinunciò. Le nubi presero a ritirarsi.

«Molto bene, maestà», disse Rhys. Si strappò via dalla cintola la bisaccia. «Perdonatemi per quello che sto per fare, ma non mi lasciate altra scelta.»

Afferrando la bisaccia con la mano buona, Rhys si guardò attorno, orientandosi, valutando le distanze. Questa sarebbe stata la sua ultima mossa, avrebbe consumato tutte le forze che gli rimanevano. Si lanciò nel suo scatto finale.

I cieli si aprirono. La pioggia cadde pesante, martellandolo. Rhys ignorò l’avvertimento della dea. Poteva dare in escandescenze, esplodere e minacciare quanto voleva. Non avrebbe osato fargli niente di drastico, perché lui poteva davvero avere in proprio possesso suo figlio.

Zeboim provò a farlo incespicare. Rhys si tirò su e riprese a correre. La dea gli scagliò chicchi di grandine in faccia. Lui tirò su il braccio per proteggersi gli occhi e proseguì.

Krell gli andava dietro a passi pesanti. I passi del cavaliere della morte facevano tremare il terreno.

Rhys scivolava e incespicava, le forze gli venivano meno. Non aveva molta strada da percorrere, però. La piazza d’armi terminava su un’accozzaglia di rocce, e al di là vi era il mare.

Krell vide il pericolo e accelerò il passo.

«Fermatelo, Zeboim», gridò irosamente Krell. «Altrimenti ve ne pentirete!»

Rhys si infilò nel pettorale della veste la bisaccia contenente il kender e il pezzo del khas e si arrampicò sulle rocce frastagliate che erano bagnate e scivolose per la pioggia. Scivolò, dovette usare entrambe le mani per rimanere in equilibrio, e singhiozzò per il dolore provocato dalle dita spezzate.

Udiva dietro di sé il respiro sibilante di Krell e ne percepiva la furia. Rhys continuò ad avanzare.

Le sue forze erano ormai esaurite quando raggiunse il margine dell’isola. A quel punto non ne aveva più bisogno, comunque. Aveva soltanto un ultimo passo da compiere e questo non gli avrebbe richiesto molta energia.

Rhys guardò giù. Si trovava in cima a un dirupo scosceso. Sotto di lui, molto più sotto di lui, il mare si sollevava e si gonfiava e si schiantava sulla parete rocciosa. L’ira e la paura della dea illuminavano la notte fino a renderla chiara quanto il giorno. Rhys notò piccoli dettagli: la spuma turbinante, la distesa verde di alghe trascinata via da uno scoglio luccicante, a galleggiare sulla superficie come i capelli di un annegato.

Rhys guardò lontano oltre il mare verso l’orizzonte, avvolto nella foschia e nella pioggia battente.

Krell aveva raggiunto le rocce e le risaliva annaspando, imprecando e maledicendo e agitando la spada.

Muovendosi attentamente in modo da non scivolare, Rhys si arrampicò su una sporgenza che si protendeva sul mare. Rimase sospeso, con l’animo calmo.

«Tieni duro, Nightshade», disse Rhys. «Sarà un po’ burrascoso.»

«Rhys!» piagnucolò il kender, terrorizzato. «Che stai facendo? Non vedo niente!»

«Meglio così.»

Rhys sollevò il viso verso il cielo.

«Zeboim, siamo nelle vostre mani.»

Stava in piedi come sulla verde collina, con le pecore distribuite su di essa in un ammasso bianco, Atta in posizione al suo fianco, a guardarlo in faccia, dimenando la coda, in impaziente attesa del comando.

«Atta, via», disse Rhys, e saltò.

11

La notte filtrava dalle profondità del Mare di Sangue, diffondendosi a macchia d’inchiostro nell’acqua, spingendosi delicatamente verso la superficie. Mina alzò lo sguardo, osservando l’ultimo vestigio della tremolante luce solare luccicare sulla superficie dell’acqua. Quindi la luce scomparve, e Mina rimase nell’oscurità assoluta.

Durante le ore che avevano trascorso in attesa, osservando la torre nel Mare di Sangue, Mina e Chemosh non avevano visto nessuno entrarvi, nessuno uscirvi. Le creature marine passavano accanto alle pareti di cristallo con la stessa indifferenza con cui passavano accanto alla barriera corallina o allo scafo di una nave naufragata adagiata sul fondo del mare. I pesci sfioravano le pareti, percorrendo in su e in giù la superficie liscia, trovando da mangiare o affascinati dal loro stesso riflesso. Nessuno sembrava avere paura della Torre, anche se Mina notò che le creature marine evitavano quello strano cerchietto in oro giallo-rosso e argento sulla sommità. Nessuno si avvicinava al buco nero centrale.

All’arrivo della notte sotto le onde, Chemosh rimase a guardare per vedere se nella Torre comparissero delle luci.

«Nella Torre di Istar vi erano finestre», rammentò, «anche se di giorno non si vedevano. Non si vedeva altro che le pareti di cristallo lisce e perpendicolari. Quando calava la notte, però, i maghi nelle loro stanze accendevano le lampade. La Torre luccicava di puntini di fuoco. La gente di Istar diceva che i maghi avevano catturato le stelle e le avevano portate in città a loro regale gloria».

«La Torre deve essere deserta, mio signore», suggerì Mina. Annaspò nel buio cercando la mano di lui, lieta di percepire il suo contatto, di udire il suono della voce di Chemosh. L’oscurità era assoluta al punto che Mina incominciava a dubitare della propria realtà. Doveva sapere che il dio era con lei. «Non sembra esservi nulla di sinistro. I pesci ci vanno proprio vicino.»

«I pesci non sono noti per la loro intelligenza, qualunque cosa in contrario dica Habbakuk. Comunque, come dici tu, non abbiamo visto nessuno avvicinarsi a questo luogo. Andiamo a indagare.» Svincolò la mano dalla stretta di Mina e si allontanò.

«Mio signore», chiamò Mina, allungando la mano verso di lui. «I miei occhi di mortale sono ciechi in questo buio. Non vi vedo. Non vedo neanche me stessa! Più di preciso, non vedo dove sto andando. Potete in qualche modo rischiararmi il cammino?»

«Chi vede può anche essere visto», disse Chemosh. «Io preferisco rimanere avvolto nell’oscurità.»

«Allora dovete guidarmi, mio signore, come il cane guida un mendicante cieco.»

Chemosh la prese per mano e la trainò rapidamente nell’acqua, senza alcuna differenza tra questa e l’aria. L’acqua scorreva oltrepassando Mina, fluendole sul corpo. A un certo punto, dei tentacoli le sfiorarono il braccio e lei si ritrasse di scatto. La creatura provvista di tentacoli non la inseguì. Forse Mina aveva un cattivo sapore. Se Chemosh notò la creatura, non le prestò attenzione. Continuò ad avanzare, ansioso e impaziente.

Mentre si avvicinavano alla Torre, Mina si rese conto che le pareti brillavano di una debole fosforescenza, di colore azzurro-verdastro. Quella luce misteriosa ricopriva le pareti di cristallo, conferendo alla Torre un’aria spettrale.

«Aspettami qui», disse Chemosh, lasciando andare la mano di Mina.

Mina galleggiò nel buio, osservò il dio avvicinarsi alla Torre. Chemosh passò le mani sulla superficie liscia delle pareti e scrutò attraverso quei muri di cristallo, cercando di vedere dentro.

Il cristallo rifletteva verso di lui la sua stessa immagine.

Chemosh allungò il collo. Guardò in su e in giù e tutto attorno. Scrollò il capo, profondamente perplesso.

«Non ci sono finestre», disse a Mina. «Né porte. Nessun modo per entrare, che io veda, eppure deve esserci. L’ingresso è nascosto, ecco tutto.»

Si spostò lungo le pareti, cercando con le mani oltre che con gli occhi. Mina vedeva la silhouette di Chemosh, nera contro il bagliore fosforescente verde. Lo seguì con lo sguardo fintanto che poté, poi lui scomparve, superando un angolo dell’edificio.

Mina rimase sola, completamente sola, come si trovasse sull’orlo del Caos.

Era arsa dalla sete e affamata. La fame poteva sopportarla; era rimasta senza mangiare durante molte lunghe marce con il suo esercito. La sete era un’altra questione. Si domandò come potesse avere sete, se aveva la bocca piena d’acqua, anche se l’acqua sapeva di sale e il sale le accresceva la sete. Non sapeva quanto a lungo sarebbe potuta sopravvivere senza bere, prima che il bisogno di acqua diventasse critico e lei dovesse confessare a Chemosh di non essere più in grado di proseguire. Avrebbe dovuto rammentargli ancora una volta che lei era una mortale.

Chemosh ritornò all’improvviso, stagliandosi imponente nel buio.

«Certo, erano passati molti secoli da quando avevo visto l’ultima volta questa Torre, eppure qualcosa non mi quadrava. Ho capito che cosa non va. Almeno un terzo della Torre rimane sepolto sotto il fondo marino. Lì vi è presumibilmente anche l’ingresso. Ai vecchi tempi, conduceva dentro la Torre un’unica porta e adesso quella porta è sepolta nella sabbia. Io non riesco a trovare altro modo...»

Chemosh si interruppe, con lo sguardo fisso. «Le vedi?»

«Le vedo, mio signore», rispose Mina, «ma non sono sicura di crederci».

In profondità dentro la Torre si accesero le luci. Prima una. Poi un’altra. Piccoli globi di luce biancoazzurra comparvero su piani diversi della Torre: alcuni molto più in alto di loro, presso la sommità; altri giù in basso. Alcune luci parevano risplendere dalle profondità dell’interno della Torre, altre più vicino alle pareti di cristallo.

«Sono come me le ricordavo», disse Chemosh. «Stelle tenute prigioniere.»

Le luci erano come stelle, fredde e dai margini aguzzi. Non illuminavano niente, non emettevano calore, né splendore. Mina ne osservò attentamente una. «Come se qualcuno o qualcosa ci fosse passato davanti.»

«Dove? Quale luce?»

«Lassù, circa due piani. Mio signore», soggiunse Mina, «voi potete entrare nella Torre. Voi siete un dio. Queste pareti, non importa se massicce o illusorie, non possono fermarvi».

«Sì», rispose lui, «ma tu no».

«Voi dovete entrare, mio signore», lo spronò Mina. «Io vi aspetterò fuori. Quando troverete un ingresso, verrete a prendermi.»

«Non mi piace lasciarti sola», disse Chemosh, eppure era tentato.

«Vi chiamerò se avrò bisogno di voi.»

«E io verrò, anche se sarò all’estremità dell’universo. Aspettami qui. Non ci metterò molto.»

Nuotò verso la parete di cristallo, nuotò attraverso la parete di cristallo. Il buio, caldo e soffocante, opprimeva Mina.

Mina continuava a osservare le luci simili a stelle, concentrandosi su di esse e non sulla propria sete, che si faceva acuta. Contò otto luci sparse per tutta la torre, e non ce n’erano due sullo stesso piano, se vi erano piani. Nessuna di esse era intermittente, tutte risplendevano di continuo.

Sentì la mancanza di Chemosh, della sua voce. Il silenzio era denso e pesante quanto il buio. All’improvviso, piuttosto vicino a lei, si illuminò una nona luce.

Questa luce era diversa dalle altre. Era di colore giallo e pareva più calda, più luminosa.

«Posso restare qui, senza pensare a niente a parte il silenzio insopportabile e il sapore dell’acqua fresca sulla lingua, oppure posso andare a scoprire la fonte di questa luce.»

Mina si spinse attraverso l’acqua, un po’ nuotando, un po’ strisciando, muovendosi lentamente e furtivamente verso la strana luce.

Nell’avvicinarsi vide che non era un unico punto di luce, come lei aveva inizialmente supposto, ma molteplici luci, come un gruppo di candele. Mina si rese conto che le luci parevano diverse, più calde, più luminose, perché erano al di fuori delle pareti. Vedeva la luce rispecchiarsi sulla superficie di cristallo. Si avvicinò, curiosa.

Le luci erano sospese in acqua, come legate assieme, simili a piccole lanterne appese a una corda. Le luci erano allineate a formare una fila, frastagliata e irregolare, che si agitava e andava alla deriva e ondeggiava delicatamente con le correnti sottomarine.

«Strano», si disse Mina. «Sembra una specie di rete...»

In quel momento il pericolo le balenò davanti. Cercò di fuggire, ma il movimento sott’acqua era dolorosamente lento e pigro. Le luci presero a ruotare rapidamente, abbagliandola, cosicché Mina rimase accecata e confusa. Una rete di pesanti funi schizzò fuori dal centro delle luci roteanti e, prima che Mina potesse sfuggire, le si depositò sopra.

Mina lottò disperatamente per liberarsi delle falde avvolgenti di funi pesanti che le ricadevano sulla testa e sulle spalle, le avvolgevano le braccia e le mani e le sferzavano le gambe. Cercò di sollevare le falde della rete, di spingerle di lato, di scagliarle via, ma le luci erano tanto intense che lei non vedeva che cosa stesse facendo.

La rete si strinse attorno a lei, sempre più stretta, finché Mina rimase con le braccia serrate contro il petto, i piedi e le gambe avviluppati, per cui non poteva muoversi.

Mina vedeva e sentiva la rete venire trascinata nell’acqua con lei dentro, spostandosi rapidamente verso la parete di cristallo. La rete non si fermò quando raggiunse la parete e sembrò che Mina dovesse schiantarsi contro il cristallo. Chiuse gli occhi e si preparò a quell’impatto devastante.

Una sensazione di freddo intorpidente, come se lei fosse caduta in acqua freddissima, fu tutto ciò che avvenne. Ansimando per lo spavento, Mina aprì gli occhi e vide che era passata attraverso una sorta di oblò che si era aperto ruotando per farla entrare e adesso le si chiudeva a spirale dietro le spalle.

Il movimento della rete cessò. Mina rimase sospesa nell’acqua. Ancora impigliata nella rete, non riusciva facilmente a girare la testa e aveva soltanto una visuale limitata dell’ambiente circostante. Da quanto vedeva, si trovava in qualche sorta di stanzetta ben illuminata e piena di acqua marina.

Attraverso una lastra di cristallo due volti la scrutavano.

«Pescatori», si rese conto all’improvviso Mina, rammentando come i pescatori dell’isola di Schallsea utilizzassero di notte le luci per attirare i pesci verso le loro reti. «E io sono la loro preda.»

Non poté guardare bene coloro che l’avevano catturata, poiché la rete prese a ruotare e lei li stava perdendo di vista. I due, a quanto pareva, erano sconvolti nel vedere Mina quanto lei lo era di vedere loro. Presero a parlare fra loro; Mina riusciva a vedere le loro bocche muoversi, ma non udiva che cosa dicessero.

Fu allora che notò la superficie sopra la sua testa incresparsi, come se nella stanza venisse insufflata dell’aria. Alzando lo sguardo, vide che il livello dell’acqua incominciava a calare. I pescatori stavano pompando l’acqua fuori dalla stanza, sostituendola con aria.

L’acqua sarà per te come aria... l’aria sarà come acqua.

Mina rammentò l’avvertimento di Chemosh riguardo all’incantesimo a cui l’aveva assoggettata, un avvertimento che in quel momento lei non aveva preso molto sul serio, poiché non aveva immaginato che loro due si sarebbero separati.

Il livello dell’acqua calava rapidamente.

Mina spinse la rete con le mani e scalciò con i piedi, cercando freneticamente di liberarsi. I suoi sforzi erano inutili, facevano soltanto ruotare rapidamente la rete.

Cercò di attirare l’attenzione sulla sua situazione incresciosa, facendo del suo meglio per scrollare il capo, indicando verso l’alto.

I volti dietro la finestra osservavano con avido interesse i suoi sforzi. O non capivano o non gliene importava.

Mina non aveva dimenticato l’esortazione di Chemosh a chiamarlo se si fosse trovata nei guai. Era rimasta troppo sbalordita per farlo quando era rimasta impigliata nella rete, e poi era stata troppo impegnata nel cercare di liberarsi. Dopo di che era stata troppo orgogliosa. Chemosh le rammentava in continuazione che lei era debole come sono deboli tutti i mortali. Mina voleva dimostrargli ciò che valeva, così come gliel’aveva dimostrato sul Bastione della Tempesta. Il buon senso le imponeva adesso di chiedergli aiuto.

Mina non voleva però gridare il suo nome in preda al panico. Anche se fosse morta in questo momento, il suo orgoglio non le consentiva di supplicare il dio.

«Chemosh», disse a bassa voce Mina, fra sé, al ricordo degli occhi scuri e del tocco ardente di lui. «Chemosh, sono in difficoltà. Gli abitanti di questa Torre mi hanno catturata con una sorta di rete.»

Con la sommità della testa emerse alla superficie dell’acqua. Mina sentiva l’aria sul cuoio capelluto. Presto sarebbe stata esposta all’aria.

«Chemosh», pregò rapidamente, mentre il livello dell’acqua continuava a calare, «se non venite da me subito, io morirò, perché mi stanno togliendo l’acqua che mi serve per respirare».

Silenzio. Se il dio l’aveva udita, non rispose.

Il livello dell’acqua le scese alle spalle. Mina non osava inspirare. Tenne l’acqua nei polmoni quanto più a lungo poté, finché i polmoni le bruciarono e le dolsero. Quando il dolore si fece troppo intenso, aprì la bocca. L’acqua le sgorgò fuori scendendole sul mento. Mina cercò di respirare, ma era come un pesce fuor d’acqua. Ansimò disperatamente, con la bocca che le si apriva e le si chiudeva.

«Chemosh», disse, mentre la luce incominciava a svanire, «vengo a voi. Non ho paura. Abbraccio la morte. Perché adesso non sarò più una mortale...».


La rete e la sua preda caddero a terra. Impazienti, i due maghi girarono la maniglia della porta della cassa d’aria e corsero dentro, con l’orlo delle loro vesti nere a sguazzare nell’acqua alta fino alle caviglie. I due si chinarono per guardare meglio la loro preda.

La donna era distesa sul dorso, avvolta nella rete, con gli occhi spalancati, la bocca ansimante, le labbra blu. Le mani e i piedi le si contorcevano spasmodicamente.

«Avevi ragione tu», disse un mago all’altro, con un tono di interesse accademico. «Sta annegando nell’aria.»

12

Scivolando attraverso le pareti cristalline della Torre, Chemosh si ritrovò in una stanza predisposta per essere usata come biblioteca in qualche momento futuro. La stanza era in disordine, ma gli scaffali che fiancheggiavano le pareti erano indubbiamente fatti per contenere libri. Al centro della stanza vi erano custodie vuote per rotoli, insieme a diversi scrittoi, un assortimento di sgabelli di legno e numerose poltrone di pelle dallo schienale alto, tutto ammassato assieme. Sugli scaffali vi erano alcuni libri, ma questi per lo più rimanevano dentro scatoloni e casse di legno.

«Mi sembra di essere arrivato nel giorno del trasloco», commentò Chemosh.

Andando a uno scaffale, raccolse uno dei volumi polverosi che si era rovesciato su un lato. Il libro era rilegato in pelle nera senza scritte sulla copertina. Una serie di geroglifici incisi sul dorso recava il titolo del libro, o per lo meno così immaginò Chemosh. Lui non sapeva leggerli, non gli interessava leggerli. Li riconobbe per ciò che erano: parole della lingua della magia.

«Allora...» mormorò. «Come sospettavo.»

Lasciando cadere a terra il libro, si guardò attorno alla ricerca di qualcosa con cui pulirsi le mani.

Chemosh continuò a rovistare qua e là, sbirciando nelle casse, sollevando il coperchio degli scatoloni. Non trovò niente di interessante per lui, però, e uscì dalla biblioteca attraverso una porta all’estremità opposta. Entrò in uno stretto corridoio che curvava verso destra e verso sinistra. Guardò da una parte e poi dall’altra, non vide nulla che gli stimolasse la curiosità. Si incamminò verso destra, dando un’occhiata dentro le porte aperte mentre procedeva. Trovò stanze vuote, destinate a diventare alloggi o aule scolastiche. Di nuovo, nulla di interessante, a meno che non si considerasse interessante il fatto che qualcuno si preparasse ad accogliere una folla.

Chemosh non aveva mai prima d’ora percorso i corridoi di una delle Torri dell’Alta Magia. Dominio degli dèi della magia, le Torri sono sede dei maghi e dei loro laboratori, dei loro libri di incantesimi e dei loro oggetti magici, tutti gelosamente custoditi, il cui accesso è vietato a tutti gli estranei. Compresi gli dèi.

Specialmente gli dèi.

Prima dell’ascesa di Istar, Chemosh non aveva mai provato alcuna inclinazione a entrare in una delle Torri. Che i maghi si tenessero i loro piccoli segreti. Fintanto che loro non interferivano con i suoi chierici, i suoi chierici non interferivano con i maghi. Poi venne il Re-Sacerdote e all’improvviso il mondo, come pure il cielo, cambiò.

Quando il Re-Sacerdote fece uscire dai gangheri i maghi di Istar e poi riempì la Torre di oggetti sacri, sottratti alle rovine di templi demoliti, gli dèi si infuriarono. Diversi fra i più militanti, compreso Chemosh, proposero di assalire la Torre di Istar e asportare con la forza gli oggetti magici. La proposta fu discussa in cielo e alla fine scartata; l’idea era che in questo modo avrebbero sottratto il libero arbitrio agli esseri da loro creati. L’umanità doveva risolvere i problemi dell’umanità. Gli dèi non sarebbero intervenuti, a meno che non avessero visto chiaramente minacciate le fondamenta stesse dell’universo. Chemosh voleva che gli fossero restituiti i suoi oggetti magici, ma voleva ancor più l’annientamento del Re-Sacerdote e di Istar, per cui si adeguò agli altri. Convenne di aspettare e restare a vedere.

L’umanità fece fiasco. Collaborò col Re-Sacerdote, lo appoggiò. L’universo ebbe un sobbalzo pericoloso. Gli dèi dovevano agire.

Fecero piovere sul mondo la distruzione. I chierici scomparvero. Ebbe inizio l’Era della Disperazione. Gli dèi si tennero da parte, rimasero a distanza, in attesa che la popolazione tornasse da loro. Chemosh avrebbe potuto mettere al sicuro i propri oggetti magici allora, ma era immerso fino al collo in un complotto oscuro e segreto, volto a riportare nel mondo la Regina Takhisis. Non osò fare nulla che potesse attirare l’attenzione sulla loro trama. Quando ebbe inizio la Guerra delle Lance e gli altri dèi furono occupati, Chemosh entrò nel Mare di Sangue per cercare la Torre. Non c’era più, sepolta in profondità sotto le sabbie mobili del fondo marino.

Ora la Torre era stata ricostruita e lui non aveva dubbi che i suoi oggetti magici e quelli degli altri dèi dovessero trovarsi da qualche parte all’interno. Non erano stati distrutti. Chemosh percepiva la propria potenza promanare da quelli che lui aveva benedetto e in alcuni casi forgiato. La sua essenza era piuttosto lieve, non abbastanza intensa da aiutarlo a localizzare le sue reliquie sacre, ma c’era: un alito di morte fra le rose.

Chemosh con irritazione si strofinò via una chiazza di polvere dalla manica della casacca. Stava riflettendo sul da farsi, chiedendosi se valesse la pena di avviare una perlustrazione.

Una voce tranquilla, bassa ma carica di minaccia e malvagità, ruppe il silenzio: «Che cosa stai facendo nella mia Torre, Signore della Morte?».

Una testa gibbosa, pallida come un cadavere, era sospesa incorporea nell’oscurità. Gli occhi senza palpebre erano più scuri del buio; le labbra grosse e piene si spingevano in dentro e in fuori.

«Nuitari», disse Chemosh. «Immaginavo di poterti trovare a gironzolare qui da qualche parte. Non ti ho visto molto, ultimamente. Adesso capisco perché. Eri occupato.»

Nuitari scivolò silenziosamente in avanti. Le sue mani pallide scivolarono fuori dalle pieghe delle maniche della sua veste di velluto nero. Le dita lunghe e delicate erano in movimento costante, arricciandosi come per afferrare, simili ai tentacoli di una medusa.

«Ti ho fatto una domanda: che cosa stai facendo qui, Signore della Morte?» ripeté Nuitari.

«Facevo una passeggiata...»

«Sul fondo del Mare di Sangue?»

«... e per caso sono passato di qui. Non ho potuto fare a meno di notare le migliorie che hai apportato a questa zona.» Chemosh si guardò languidamente attorno. «Bel posticino hai qui. Ti dispiace se do un’occhiata in giro?»

«Sì, mi dispiace», rispose Nuitari. Gli occhi privi di palpebre non sbattevano mai. «Credo che faresti meglio ad andartene.»

«Me ne andrò», disse Chemosh, compiacente, «non appena mi avrai restituito i miei oggetti magici».

«Non ho idea di che cosa tu stia parlando.»

«Allora lascia che ti rinfreschi la memoria. Io sono qui per recuperare gli oggetti magici che mi sono stati rubati dal Re-Sacerdote e nascosti in questa Torre.»

«Ah, quegli oggetti. Temo che dovrai tornartene a casa a mani vuote. Purtroppo sono stati tutti distrutti, ridotti in cenere nell’incendio che ha distrutto la Torre.»

«Come mai io non ti credo?» domandò Chemosh. «Forse perché sei un bugiardo matricolato.»

«Quegli oggetti sono stati distrutti», ripeté Nuitari. Infilò le mani inquiete dentro le maniche della veste.

«Mi chiedo», disse Chemosh scrutando intensamente Nuitari, «se i tuoi cugini, Solinari e Lunitari, sanno di questo tuo piccolo progetto edilizio. Nel mondo rimangono due Torri dell’Alta Magia: la Torre di Wayreth e la Torre di Palanthas nascosta nel Nightlund. Voi tre vi dividete la custodia di quelle Torri. La mia ipotesi è che tu non divida con gli altri te custodia di questa qui. Approfittando della confusione quando siamo ritornati nel mondo, tu hai deciso di intraprendere qualcosa da solo. I tuoi cugini lo scopriranno prima o poi, ma solo dopo che tu avrai trasferito qui le tue Vesti Nere e tutti i loro libri di incantesimi e le loro attrezzature, cosicché sarà difficile per chiunque sloggiarti. Dubito che i tuoi cugini ne saranno molto contenti».

Nuitari rimase in silenzio, gli occhi privi di palpebre erano scuri e impassibili.

«E gli altri dèi?» proseguì Chemosh, ampliando l’argomento. «Kiri-Jolith? Gilean? Mishakal? E tuo padre, Sargonnas? Ora, ecco un dio che sarà molto interessato a venire a sapere della tua nuova Torre, specialmente perché è ubicata sotto la rotta marina che seguono le sue navi verso Ansalon. Ehi, scommetto che il dio dalle corna dorme più tranquillo la notte, sicuro nel sapere che dei Maghi dalle Vesti Nere, che l’hanno sempre disprezzato, esercitano le loro arti oscure sotto la chiglia delle sue navi. E poi c’è Zeboim, la tua cara sorella. Devo continuare?»

Le labbra grosse e piene di Nuitari si arricciarono in un ghigno. Anche se Zeboim e Nuitari erano gemelli, fratello e sorella si disprezzavano a vicenda così come disprezzavano i genitori divini che li avevano messi al mondo.

«Nessuno degli altri dèi lo sa, vero?» concluse Chemosh. «Tu l’hai tenuto segreto a tutti noi.»

«Non mi pare che siano affari vostri», rispose Nuitari, stringendo gli occhi privi di palpebre.

Chemosh alzò le spalle. «Personalmente non mi interessa ciò che fai, Nuitari. Puoi costruire torri a tuo piacimento. Puoi costruirle sulla luna nera, se lo desideri. Oh, brutta battuta.» Sorrise. «Io non dirò neanche una parola se tu mi restituisci i miei oggetti magici. Dopo tutto», soggiunse Chemosh con un gesto di biasimo, «sono oggetti sacri, reliquie benedette dal mio tocco. Non servono a niente a te e ai tuoi maghi. Potrebbero in effetti essere micidiali se qualcuno dei tuoi Maghi dalle Vesti Nere fosse tanto sciocco da cercare di armeggiarci. Faresti meglio a consegnarmeli».

«Ah, ma a me sono utili», ribatté freddamente Nuitari. «Il loro potere d’acquisto da solo vale qualcosa, come tu hai appena dimostrato facendo un’offerta per averli.»

Nuitari sollevò un dito pallido e magro, per sottolineare un aspetto: «Sempre ammesso che simili oggetti esistano, ma per quanto ne so non esistono.»

«Per quanto ne sai?» Ora fu Chemosh a sogghignare e Nuitari ad alzare le spalle.

«Sono stato estremamente impegnato. Non ho avuto il tempo di guardarmi in giro. Ora, mio signore, per quanto io abbia apprezzato la conversazione con te, davvero dovresti andartene.»

«Oh, intendo proprio andarmene», lo rassicurò Chemosh. «La mia prima tappa sarà il cielo, dove gli altri dèi saranno affascinati nel venire a sapere di come ti sei dato da fare ultimamente. Prima, però, poiché sono arrivato fin qui, darò un’occhiata in giro.»

«Qualche altra volta, forse», ribatté Nuitari, «quando io sarò libero e potrò accompagnarti».

«Non serve che ti disturbi, Dio della Luna Nera.» Chemosh fece un gesto aggraziato. «Mi limiterò a fare un giretto da solo. Chissà, potrei imbattermi per caso nelle mie reliquie sacre. In tal caso le porterò via con me. Ti toglierò questo ingombro.»

«Sprechi il tuo tempo», ribadì Nuitari.

Indicò un grosso baule di legno posato sul pavimento. Il baule era oblungo, di lunghezza pari quasi all’altezza di un uomo, e costruito in assi di rovere sgrossate. Il baule aveva due maniglie d’argento, una a ciascuna estremità, e un’altra maniglia d’oro sul lato anteriore per facilitare il sollevamento del coperchio. Niente serratura, niente chiave. Nel legno sui lati erano marchiate a fuoco delle rune.

«Prova ad aprirlo», suggerì Nuitari.

Chemosh, stando al gioco, pose la mano sulla maniglia anteriore. Il baule prese a brillare di un debole bagliore rossastro. Il coperchio non si mosse. Nuitari diede un colpetto con la mano pallida a una delle porte chiuse. Anche questa prese a emettere il medesimo bagliore rossastro.

«Chiuso da un mago», disse Nuitari.

«Aperto da un dio», ribatté Chemosh.

Colpì il baule con la mano. Le assi di rovere si spezzarono. Le maniglie d’argento caddero a terra sbattendo e seppellirono la maniglia d’oro sotto una catasta di schegge di rovere. I libri contenuti nel baule si riversarono sul pavimento ai piedi del Signore della Morte.

«... le tue chiusure da mago. Adesso devo sfondare la porta con un calcio? Ti avverto, Nuitari, troverò i miei oggetti magici a costo di sfondare tutti gli scatoloni e tutte le porte di questa Torre, per cui sii ragionevole. Sarà tanto lavoro in meno per i tuoi carpentieri se solo mi consegni i miei oggetti...»

«La tua mortale sta morendo», annunciò Nuitari.

Chemosh interruppe ciò che stava dicendo, rendendosi conto, nel momento dell’interruzione, di avere commesso un errore. Avrebbe dovuto dire subito: «Quale mortale?» come se non avesse avuto idea di che cosa stesse parlando Nuitari e non gli importasse minimamente.

Disse proprio quelle parole, ma era troppo tardi. Si era tradito.

Nuitari sorrise. «Questa mortale», rispose tendendo la mano.

Sulla palma della mano si dimenava qualcosa. L’immagine era sfocata e Chemosh inizialmente pensò fosse qualche sorta di creatura marina, poiché era bagnata e si agitava qua e là dentro una rete come un pesce appena pescato.

Poi vide che era Mina.

Mina aveva gli occhi fuori dalle orbite, la bocca spalancata e ansimante. Si contorceva per il dolore, cercando disperatamente di trovare aria. Le sue labbra dalla sfumatura blu compitarono un nome.

«Chemosh...»

Il dio era pronto con la sua risposta e la pronunciò abbastanza calmo, anche se non poté staccare lo sguardo da lei.

«Ho tanti mortali al mio servizio e tutti stanno morendo, perché questo è il destino dei mortali, per cui non ho idea di chi sia questa qui.»

«Ti invoca. Tu non la senti?»

«Io sono un dio», rispose Chemosh con indifferenza. «Innumerevoli mi invocano.»

«Eppure le sue preghiere sono speciali per te, credo», disse Nuitari, piegando indietro la testa.

La voce di Mina riecheggiò nel buio.

Chemosh... vengo a voi. Non ho paura. Abbraccio la morte. Perché adesso non sarò più una mortale.

«Amore e fede tanto devoti», disse Nuitari. «Immagina la sorpresa dei miei maghi quando, cercando di pescare tonni, hanno preso invece una giovane donna bellissima. E immagina la loro sorpresa nello scoprire che lei respira in acqua e annega nell’aria.»

Sarebbe bastato invertire l’incantesimo e Mina sarebbe sopravvissuta. Chemosh doveva però localizzarla. Si trovava da qualche parte in questa Torre, ma la Torre era immensa e a lei restavano soltanto pochi secondi. Stava perdendo conoscenza, il corpo le tremava.

«È una mortale, niente di più. Io posso averne cento, mille, se voglio», si disse, pur emettendo filamenti della propria potenza, alla ricerca di Mina. «Per me è un fardello. Io sono dentro la Torre. Posso portarmi via ciò che sono venuto a prendere e Nuitari non può impedirmelo.»

Non riusciva a trovarla. Un velo di tenebra circondava Mina, la nascondeva a lui.

«Muore», ribadì Nuitari.

«Che muoia», replicò Chemosh.

«Sei sicuro, mio signore?» Nuitari mostrò Mina nella palma della mano, pose su di lei l’altra mano, tenendo Mina sospesa nel tempo. «Guardala, Signore della Morte. La tua Mina è una donna magnifica. Più di un dio ti invidia, avere una simile mortale al tuo servizio...»

«Sarà mia nella morte come lo è stata in vita», ribatté Chemosh, con disinvoltura.

«Non sarà proprio la stessa cosa», disse sarcasticamente Nuitari.

Chemosh decise di ignorare quell’insinuazione salace. «Nella morte, la sua anima verrà a me. Tu non puoi impedirlo.»

«Non mi sognerei di provarci.»

Gli occhi di Mina si dischiusero. Il suo sguardo morente incontrò Chemosh. Mina tese la mano verso di lui, non per supplicarlo. Per dirgli addio.

Chemosh rimase con le braccia lungo i fianchi. I pugni, nascosti dal pizzo dei polsini, erano serrati.

Nuitari chiuse le dita su Mina.

Tra le dita del dio filtrò del sangue. Le gocce rosse caddero a terra, dapprima lentamente, una dopo l’altra. Quindi le gocce divennero un rigagnolo, il rigagnolo un torrente. La mano del dio era imbevuta di sangue. Nuitari la aprì...

Chemosh si voltò.

13

Su tutto il continente di Ansalon i Prediletti di Chemosh percorrevano il territorio. Giovani uomini e donne, sani, forti, belli, morti. Assassini tutti, vagavano apertamente qua e là, non temendo legge né giustizia. Seguaci di Chemosh, si crogiolavano al sole ed evitavano i cimiteri. Prediletti di Chemosh, gli portavano nuovi seguaci di notte, uccidendo impunemente, seducendo le loro vittime con dolci baci e ancora più dolci promesse: vita eterna, bellezza che non sfiorisce, giovinezza infinita. Tutto ciò che chiedevano in cambio era un giuramento a Chemosh, poche semplici parole, pronunciate con indifferenza; il bacio letale, il segno delle labbra marchiato a fuoco sulla carne, un cadavere che risuscita.

Col passare del tempo, i Prediletti scoprirono che la vita eterna non era tutto ciò che avessero guadagnato. Incominciarono a perdere la memoria di chi fossero, di ciò che avessero fatto, di dove fossero stati. I loro ricordi venivano sostituiti da una coazione a uccidere, una coazione a trovare nuovi convertiti. Se fallivano in questo, se passava una notte senza che loro dessero quel bacio fatale, il dio faceva loro sapere la sua delusione. Vedevano nella loro mente morta il suo volto, i suoi occhi che li osservavano. Percepivano nel loro corpo morto la sua ira, che ardeva nella loro carne morta, facendosi più dolorosa giorno dopo giorno. Soltanto quando i Prediletti venivano a lui con offerte di nuovi convertiti il dio alleviava il loro tormento.

E così i Prediletti di Chemosh vagavano per Ansalon, spostandosi di villaggio in città, di fattoria in foresta, viaggiando sempre verso est, col sole mattutino in viso, per incontrare il loro dio.

Un dio che non era disponibile a riceverli.


Il Signore della Morte si allontanò dalla presenza di Nuitari più che determinato a perlustrare l’intera maledetta Torre, dalle guglie alle cantine, dai pilastri alle colonne, alla ricerca dei suoi oggetti sacri. Aprì una porta e lì c’era Mina.

Adesso non sarò più una mortale.

Chiuse quella porta sbattendola, ne aprì un’altra. Mina era lì.

Più utile da morta...

Mina era in ogni stanza in cui lui entrasse. Lo accompagnava nei corridoi della Torre. I suoi occhi d’ambra lo scrutavano nel buio. La sua voce, la sua ultima preghiera, era sussurrata ripetutamente. Il rumore del sangue che cadeva, goccia dopo goccia, sul pavimento ai piedi di Nuitari gli provocava tonfi sordi nel petto come il battito del cuore di un mortale.

«Questa è pazzia», disse fra sé Chemosh con rabbia. «Io sono un dio. Lei è una mortale. Lei è morta. E allora? I mortali muoiono ogni giorno, a migliaia. Lei è morta. Le sue debolezze da mortale sono morte con lei. Il suo spirito sarà mio per l’eternità, se lo desidero. Posso scacciarlo se non lo voglio. Molto più pratico...»

Si sorprese a fissare un baule vuoto, soltanto i cieli sapevano quanto a lungo, senza vedere che era vuoto, vedendo solo il volto di Mina, che lo fissava a sua volta. Si rese conto di stare perdendo tempo.

«Nuitari mi ha colto di sorpresa. Io non mi aspettavo di trovare la Torre ricostruita. Non mi aspettavo di trovare il Dio della Luna Nera assumere la residenza qui. Non c’è da meravigliarsi se sono fuori di me. Mi serve tempo per pensare come combatterlo. Tempo per progettare, per escogitare una strategia.»

Chemosh si calmò, riflettendo.

«Adesso me ne andrò, ma ritornerò», promise al dio dal volto di luna.

Attraversò le pareti di cristallo, le profondità marine in movimento, attraversò l’etere per tornare alle tenebre dell’Abisso.

Tenebre vuote e silenziose.

Tanto silenziose. Tanto vuote.

«Il suo spirito sarà qui», si disse. «Forse deciderà di proseguire per la fase successiva del viaggio della sua vita. Forse mi lascerà, mi abbandonerà, come io ho abbandonato lei.»

Si incamminò verso il luogo in cui le anime passano da questo mondo all’aldilà, varcando la porta che le conduce dovunque abbiano bisogno di andare per compiere la missione della loro anima. Lui andò lì per accogliere l’anima di Mina.

O per guardarla allontanarsi da lui.

Si fermò. Non poteva andare nemmeno lì. Non sapeva dove andare e alla fine non andò da nessuna parte.


Chemosh era disteso sul letto, sul loro letto.

Riusciva ancora a sentire il profumo di Mina. Vedeva l’incavo sul cuscino dove lei poggiava la testa. Trovò un capello rosso luccicante e lo raccolse e se lo avvolse ripetutamente sul dito. Passò la mano sul lenzuolo, lisciandolo, come per passare la mano sulla pelle morbida e liscia, deliziandosi per la sensazione della sua carne calda e arrendevole.

Deliziandosi della vita. Perché lei gli portava la vita.

Una volta le aveva detto: «Quando sono con te, è il momento in cui sono maggiormente vicino alla mortalità. Ti vedo distesa sul cuscino, e il tuo corpo è ricoperto di una lieve patina di sudore, e tu sei arrossata e languida. Il cuore ti batte forte, il sangue ti pulsa sotto la pelle. Io sento la vita in te, Mina».

Tutto questo era finito.

Chemosh rimaneva disteso sul letto vuoto e fissava il buio. I suoi progetti erano tutti scompigliati. I «Prediletti» vagavano per Ansalon, i loro baci micidiali portavano sempre più convertiti al suo culto, convertiti che avrebbero obbedito al suo minimo comando. Lui avrebbe avuto a sua disposizione un esercito potente. Non sapeva bene che farsene.

Aveva previsto che fosse Mina a comandarli.

Chemosh chiuse gli occhi addolorato e, quando li riaprì, Mina era in piedi davanti a lui.

«Mio signore.»

«Sei venuta a me.»

«Naturalmente, mio signore», rispose Mina. «Ho giurato fedeltà a voi, amore mio.»

Chemosh allungò la mano verso di lei.

Gli occhi d’ambra erano di cenere. Le labbra erano polvere. La sua voce era un fantasma di voce. Il suo tocco era di un freddo spettrale.

Chemosh si rotolò sul letto, allontanandosi da lei.

Nessun mortale, nemmeno se morto, deve vedere un dio piangere.

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