Il palanchino nero arrivò nella città di Staughton al mattino presto della festa chiamata Alba di Primavera. I festeggiamenti comprendevano una fiera, un banchetto e l’annuale Danza dei Fiori. La celebrazione dell’Alba di Primavera, una delle feste più popolari del calendario, attirava ogni anno a Staughton folle di persone. Anche se il giorno ancora non era altro che una striscia rossa e calda all’orizzonte, le porte che conducevano dentro la città fortificata, situata nel nord dell’Abanasinia, erano già stipate di gente.
Le code si muovevano piuttosto rapidamente, poiché le guardie erano di buonumore, al pari di quasi tutti nella folla. L’Alba di Primavera contrassegnava la fine dell’inverno buio e freddo e il ritorno del sole. La festa era una celebrazione schiamazzante che inneggiava alla vita. Ci sarebbero state bevute e danze e risate e qualche lieve danno. I partecipanti si sarebbero svegliati il giorno dopo con mal di testa, ricordi confusi e vaghi sensi di colpa, il che significava che dovevano essersi divertiti moltissimo. I bambini che nascevano nove mesi dopo questa notte erano chiamati figli dell’Alba di Primavera ed erano considerati fortunati. Dopo questa festa vi erano sempre numerosi matrimoni allestititi in tutta fretta.
La natura stessa della festa attirava tutti i buoni a nulla da un raggio di vari chilometri: borsaioli, ladri, truffatori, prostitute e giocatori d’azzardo. Le guardie sapevano che era inutile sperare di tenerli tutti fuori dalla città: quelli respinti a una porta avrebbero cercato di entrare da un’altra e alla fine sarebbero riusciti a intrufolarsi. Il borgomastro aveva detto alle guardie che non c’era bisogno di bloccare la coda interrogando diffusamente le persone, rendendole infastidite e incollerite, mentre lui voleva che spendessero denaro alle bancarelle del mercato, nelle locande e nelle taverne della città. Le guardie avevano ordini di respingere tutti i kender, ma questa era più che altro una finzione. Tanto le guardie quanto i kender sapevano che entro mezzogiorno i kender sarebbero sciamati per la città.
L’inverno era stato mite in questa parte dell’Abanasinia, e un po’ per l’inverno mite e un po’ per la morte del temibile drago dominatore Beryl vi era molto da festeggiare. Alcuni proponevano anche di festeggiare il ritorno degli dèi, ma la maggior parte degli abitanti era ambivalente in proposito. Staughton si era sempre considerata una città virtuosa. La popolazione sentì la mancanza degli dèi quando se ne andarono per la prima volta dopo il Primo Cataclisma, ma la vita proseguì, e la popolazione si abituò a non avere dèi in giro. Poi gli dèi ritornarono e la popolazione fu lieta di vederli tornare, e la vita proseguì con gli dèi più o meno come era andata avanti senza di loro. Gli dèi se ne andarono di nuovo, durante il Secondo Cataclisma, e questa volta la popolazione era tanto indaffarata a far andare avanti la vita che a malapena se ne accorse. Adesso gli dèi erano tornati di nuovo e tutti dicevano di essere contenti, ma in realtà era tutto così seccante, dover chiudere i templi, poi riaprirli, richiuderli e aprirli di nuovo. Nel frattempo la vita andava avanti.
Staughton era un paesino di circa duecento abitanti all’epoca del Primo Cataclisma. Nei secoli successivi era cresciuta e aveva prosperato. La sua popolazione adesso ammontava a circa seimila persone e si era estesa due volte più in là delle mura, le quali erano state abbattute, portate più all’esterno e ricostruite. Vi erano la parte interna chiamata Città vecchia e l’anello esterno chiamato Città nuova e un’ulteriore estensione che ancora non aveva una denominazione ufficiale ma sul luogo veniva chiamata «nuovissima». Tutte le zone della città era state ripulite in onore della festa e decorate con festoni e fiori primaverili. I giovani si erano svegliati presto, impazienti per l’inizio dei divertimenti. Questa era la giornata in cui potevano fare baldoria, una giornata in cui mamme e papà chiudevano opportunamente un occhio su baci rubati e appuntamenti a mezzanotte.
Questa era la giornata e questo era l’umore della città e della sua popolazione quando il palanchino nero giunse ondeggiante in vista, muovendosi lento e maestoso lungo la strada verso la città. Attirò immediatamente l’attenzione. Coloro che facevano la coda, non appena lo videro, lo fissarono sbalorditi, quindi tirarono per la manica quelli che stavano davanti a loro, dicendo di voltarsi a guardare. Ben presto l’intera coda di gente in attesa di entrare in città allungava il collo ed esclamava di meraviglia a quella vista.
Il palanchino non si unì alla coda ma avanzò lungo la strada verso la porta. La gente si trasse di lato e lasciò passare il palanchino. Sulla folla cadde un silenzio sgomento e inquieto. Nessuno, dal nobile cavaliere al mendico itinerante, aveva mai visto niente di simile.
Le tende che coprivano il palanchino erano di seta nera che ondeggiava dolcemente col movimento dei portantini. L’intelaiatura era nera, ornata di teschi d’oro luccicanti. Ad attirare la massima attenzione erano i portantini: quattro femmine umane, ciascuna alta ben più di un metro e ottanta e muscolosa come gli uomini. Ogni donna era identica di aspetto alle altre e tutte erano bellissime. Indossavano lunghe vesti nere diafane che stavano loro attillate al corpo in maniera seducente, cosicché sembrava quasi di poter vedere attraverso il tessuto sottile che fluiva e si increspava al loro procedere. I portantini non guardavano né a destra né a sinistra, nemmeno quando qualche giovane ubriaco li chiamava. Avanzavano a grandi passi, tenendo facilmente in equilibrio sulle spalle quel fardello pesante, e il loro volto era indurito e freddo e privo di espressione.
Coloro che riuscivano a guardare qualcosa al di fuori dei portantini fissavano il palanchino, cercando di scorgere la persona all’interno. Spesse tende nere, appesantite da una frangia di perline d’oro, ostruivano la vista.
Mentre passava il palanchino, un uomo (un chierico di Kiri-Jolith) riconobbe i teschi d’oro sul fianco.
«State attenti, amici miei», gridò, accorrendo per fermare alcuni bambini turbolenti, che correvano dietro il palanchino. «Quei teschi sono simboli di Chemosh!»
Immediatamente la notizia secondo cui la persona nel palanchino era un chierico del Signore della Morte di diffuse lungo tutta la gente in coda. Alcuni rabbrividirono e distolsero lo sguardo, ma i più rimasero affascinati. Dal palanchino non emanava alcuna sensazione di terrore; anzi, dalle tende ondeggianti si spargeva la dolce fragranza di un profumo speziato.
Il chierico di Kiri-Jolith, che si chiamava Lleu, vide che la gente era curiosa, non spaventata, e lui si sentì a disagio, incerto sul da farsi. I chierici di tutti gli dèi si aspettavano che Chemosh cercasse di strappare via a Sargonnas le redini del potere. Da un anno, fin dal ritorno degli dèi, i chierici facevano congetture su quale mossa audace avrebbe fatto Chemosh. Adesso sembrava che si fosse finalmente messo in marcia. Lleu vedeva nella folla molti che lo osservavano con grandi aspettative, sperando che facesse una scenata. Lui rimase in silenzio, mentre gli strani portantini lo superavano a grandi passi, anche se fissò intensamente le tende, cercando di vedere chi vi fosse all’interno.
Dopo il passaggio del palanchino, Lleu abbandonò il suo posto in coda per seguirlo con discrezione, camminando lungo i margini della folla. Quando il palanchino raggiunse la porta, la persona all’interno si sarebbe dovuta fare riconoscere dalle guardie, e Lleu intendeva darle un’occhiata.
Molti altri ebbero la stessa idea, però, e la folla avanzò, accalcandosi dietro il palanchino, e la gente si spintonava per cercare di conquistare una buona visuale. Le guardie, avendo udito le dicerie secondo cui questo aveva a che fare con Chemosh, avevano inviato un messaggero a grande velocità a chiedere ordini allo sceriffo. Lo sceriffo arrivò a cavallo per prendere il comando della situazione e interrogare questa persona. Sulla folla calò un silenzio assoluto quando il palanchino arrivò alla porta, e tutti attesero di sentir parlare il misterioso occupante.
Lo sceriffo diede un’occhiata al palanchino e alle femmine che lo reggevano e si grattò il mento, chiaramente perplesso.
«Mio signore sceriffo», sussurrò Lleu, «se posso essere d’aiuto...»
«Fratello Lleu, sono contento che siate tornato!» esclamò lo sceriffo, sollevato. Si chinò dalla sella per un breve colloquio. «Pensate che sia un sacerdote di Chemosh?»
«Questa è la mia ipotesi, signore», disse Lleu. «Sacerdote o sacerdotessa.» Scrutò il palanchino. «I teschi d’oro sono indubbiamente quelli di Chemosh.»
«Che faccio?» Lo sceriffo era un uomo grosso e robusto, abituato ad affrontare risse in taverna e ladri di strada, non femmine alte un metro e ottanta, che non muovevano gli occhi e trasportavano un palanchino contenente un viaggiatore misterioso. «Li mando via?»
Lleu fu tentato di rispondere di sì. L’arrivo di Chemosh non era di buon auspicio per nessuno, lui ne era convinto. Lo sceriffo aveva il potere di negare l’ingresso a chiunque per qualsiasi motivo.
«Chemosh è un dio del male. Ritengo che rientri certamente nei vostri poteri...»
«... fare che cosa?» gridò una donna, con la voce tremante per l’indignazione. «Proibire al sacerdote di Chemosh di entrare nella nostra città? Immagino che la prossima volta vorrete bruciare il mio tempio e scacciare me!»
Lleu sospirò profondamente. La donna indossava la lunga veste verde e azzurra di una sacerdotessa di Zeboim. La città di Staughton era edificata sulle rive di un fiume. Zeboim era una delle dee più seguite in città, specialmente durante la stagione delle piogge. Se lo sceriffo avesse negato l’accesso a un rappresentante di un dio delle tenebre, si sarebbero diffuse voci sull’eventualità che Zeboim sarebbe stata la prossima ad andarsene.
«Permettete loro di entrare», mormorò Lleu, soggiungendo ad alta voce affinché la folla sentisse: «Gli dèi della luce favoriscono il libero arbitrio. Noi non diciamo alla gente che cosa possa o non possa credere».
«Siete sicuro?» domandò lo sceriffo, accigliandosi. «Io non voglio guai.»
«Questo è il mio consiglio, signore», ribadì Lleu. «La decisione finale naturalmente spetta a voi.»
Lo sceriffo spostò lo sguardo da Lleu alla sacerdotessa di Zeboim al palanchino. Nessuno di loro gli offriva molto aiuto. La sacerdotessa di Zeboim lo osservava stringendo gli occhi. Lleu aveva detto tutto quanto avesse da dire. Il palanchino era fermo davanti alla porta, con i portantini in paziente attesa.
Lo sceriffo avanzò per rivolgersi all’occupante invisibile.
«Dichiarate il vostro nome e la natura delle vostre attività nella nostra bella città», disse con tono sbrigativo.
La folla trattenne collettivamente il fiato.
Per un attimo non vi fu risposta. Poi una mano, una mano femminile, scostò le tende. La mano era aggraziata. Gioielli rossi come il sangue luccicavano sulle dita snelle. Lleu intravide la donna dentro il palanchino nero. Rimase a bocca aperta e con gli occhi spalancati.
Non aveva mai visto prima d’ora una donna simile. Era giovane, neanche ventenne. Aveva i capelli castano ramati, del colore delle foglie d’autunno, acconciati in maniera elaborata sotto un copricapo nero e oro. Gli occhi erano d’ambra, luminosi, radiosi, caldi, come se tutto il mondo fosse stato freddo e i suoi occhi l’unico calore rimasto all’uomo. La donna indossava un abito nero di qualche tessuto impalpabile che lasciava intendere tutto quanto vi era sotto ma non rivelava nulla. La donna si muoveva con grazia studiata e in quegli occhi vi era un’aria di sapienza, una conoscenza di segreti che nessun altro mortale possedeva.
Quella donna era inquietante. Pericolosa. Lleu voleva girare sui talloni e allontanarsi con disdegno, invece rimase a fissarla, incantato, incapace di muoversi.
«Mi chiamo Mina», disse la donna. «Sono venuta nella vostra città con lo stesso scopo di tutta questa buona gente.» Fece un gesto per indicare la folla. «Per partecipare alle celebrazioni della primavera.»
«Mina!» esclamò Lleu restando senza fiato. «Conosco questo nome.»
Kiri-Jolith è un dio militante, un dio dell’onore e della guerra, patrono dei Cavalieri di Solamnia. Lleu non era un cavaliere, e nemmeno di Solamnia, ma si era recato a Solamnia per studiare con i cavalieri quando aveva deciso di consacrarsi a Kiri-Jolith. Aveva udito da loro le storie della Guerra delle Anime, aveva udito i racconti di una giovane donna di nome Mina che aveva guidato i suoi eserciti delle tenebre a una vittoria strabiliante dopo l’altra, compreso l’annientamento del grande drago dominatore Malys.
«Ho sentito parlare di voi. Siete una seguace di Takhisis», disse aspramente Lleu.
«La dea che salvò il mondo dal terrore dei draghi dominatori. La dea che fu spregevolmente tradita e annientata», specificò Mina. Un’ombra le incupì gli occhi d’ambra. «Io onoro la sua memoria, ma adesso seguo un dio diverso.»
«Chemosh», disse Lleu in tono accusatorio.
«Chemosh», disse Mina, e abbassò gli occhi con riverenza.
«Signore della Morte!» soggiunse Lleu, con tono di sfida.
«Signore della Vita Eterna», ribatté Mina.
«Allora è così che si fa chiamare di questi tempi», commentò Lleu sprezzante.
«Venite a trovarmi per scoprirlo», propose Mina.
La sua voce era calda come gli occhi, e Lleu all’improvviso si accorse della folla radunata attorno a lui, con gli orecchi tesi per udire ogni parola. Adesso tutti guardavano lui, domandandosi se avrebbe accettato l’invito, e Lleu si rese conto, con mortificazione, di essere stato attirato in una trappola. Se avesse rifiutato, avrebbero pensato che avesse paura di affrontare Chemosh e sarebbero subito balzati alla conclusione che questo doveva essere un dio potente, eppure Lleu non voleva parlare con questa donna. Non voleva trovarsi in presenza di lei.
«Sono appena ritornato dopo una lunga assenza», spiegò Lleu, prendendo tempo. «Ho molte cose da fare. Se ne trovo il tempo, forse passo per una discussione teologica con voi. Ritengo che possa essere piuttosto interessante.»
«Anch’io», sussurrò Mina, e lui ebbe la sensazione che lei non parlasse di teologia.
A Lleu non veniva in mente nulla da dire in risposta. Chinò cortesemente la testa e si fece largo tra la folla, fingendo di non udire gli scherni e le frecciate. Sperava ardentemente che lo sceriffo si rifiutasse di lasciar entrare quella donna. Andando direttamente al suo tempio, si mise davanti alla statua di Kiri-Jolith e trovò conforto e consolazione nel volto severo e implacabile del dio guerriero. Si calmò e, dopo avere reso grazie al dio, poté andare avanti col lavoro che si era accumulato durante la sua assenza.
Lo sceriffo, perso in quegli occhi d’ambra, concesse a Mina l’accesso alla città, fornendole anche il nome della locanda migliore.
«Vi ringrazio, signore», disse Mina. «Avete qualcosa in contrario se io parlo alla gente? Non vi causerò alcun fastidio, ve lo prometto.»
Lo sceriffo si scoprì curioso riguardo a ciò che lei aveva da dire. «Fatela breve», le disse.
Mina lo ringraziò e quindi chiese ai portantini di abbassare il palanchino fino a terra.
I portantini obbedirono. Mina scostò le tende e uscì.
La folla, che per la maggior parte non era riuscita a vedere Mina prima d’ora, si meravigliò ad alta voce a quella vista. Mina stava in piedi davanti a loro nel suo abito nero a ragnatela sottile, col suo profumo che si spargeva con la lieve brezza primaverile. Mina alzò le mani per ottenere silenzio.
«Io sono Mina, somma sacerdotessa di Chemosh», gridò con un tono sonoro, lo stesso che un tempo riecheggiava sui campi di battaglia. «Egli viene nel mondo con un messaggio nuovo, un messaggio di vita eterna. Io non vedo l’ora di comunicare a tutti voi questo messaggio durante la mia visita nella vostra bella città.»
Mina ritornò al palanchino. Pagò allo sceriffo la tassa imposta a tutti i veicoli per l’ingresso in città e chiuse la tenda. I portantini sollevarono il palanchino e trasportarono Mina oltre la porta. La folla rimase a osservare in un silenzio sgomento finché il palanchino si perse di vista. Quindi le lingue incominciarono a muoversi senza sosta.
Tutti erano concordi su una cosa: questa Alba di Primavera prometteva di essere particolarmente interessante.
L’Alba di Primavera a Staughton si rivelò molto più interessante di quanto chiunque avesse previsto. Ben presto si diffuse in tutta la città la notizia che alla locanda aveva avuto luogo un miracolo. Col diffondersi della notizia la gente prese ad allontanarsi dalla zona dei festeggiamenti e ad affrettarsi per vedere di persona.
Uno stalliere era stato testimone oculare ed era adesso al centro dell’attenzione, sollecitato a raccontare ripetutamente la sua storia a beneficio di coloro che erano arrivati tardi.
Secondo lo stalliere, che era considerato persona sobria e responsabile, lui stava tornando dalle scuderie della locanda quando fu trasportato nel cortile il palanchino nero. I quattro portantini abbassarono il palanchino a terra. Mina ne uscì. I portantini tirarono fuori dal palanchino un baule di legno dagli intagli fantasiosi e su ordine di Mina lo portarono nella sua camera. Mina entrò nella locanda e non si vide più, anche se lo stalliere indugiò appositamente nel cortile, sperando di intravederla ancora. Le quattro femmine che facevano da portantini tornarono al palanchino, presero posizione davanti e dietro al palanchino e rimasero lì immobili.
Un kender scese subito verso i portantini e incominciò a infastidirli con domande. I portantini si rifiutarono di rispondere, mantenendo un dignitoso silenzio. Quelle femmine erano tanto silenziose, in effetti, e completamente indifferenti al kender (quando ormai qualunque persona normale gli avrebbe mollato uno schiaffo sulle orecchie) che lui diede un colpetto alle costole di una di loro.
Il kender rimase senza fiato e diede un altro colpetto alla donna.
«È pietra massiccia!» strillò il kender. «Questa signora si è trasformata in pietra!»
Lo stalliere sul momento immaginò che il kender stesse mentendo. Un’ulteriore indagine svelò che non era così. Le quattro femmine che facevano da portantini erano quattro statue di marmo nero. Il palanchino nero era un palanchino di marmo nero. La gente sciamò verso la locanda per vedere quello spettacolo mirabile, operando ulteriori miracoli per gli affari del locandiere in termini di birra e liquore dei nani.
Malgrado un temporale con pioggia torrenziale, il cortile della locanda si affollò ben presto di gente, e la folla traboccò nelle vie adiacenti. La gente prese a cantilenare «Mina! Mina!» e quando, dopo circa due ore, Mina comparve a una finestra del piano superiore la folla impazzì, acclamandola ed esortandola a parlare.
Aprendo una finestra di vetro dagli infissi di piombo, Mina tenne un breve discorso, spiegando che Chemosh era ritornato nel mondo con poteri nuovi e più forti di prima. Mina era interrotta continuamente dal rombo del tuono e dallo scoppiettare dei fulmini, ma persistette, e la folla pendeva dalle sue labbra. A Chemosh non interessava più vagare per i cimiteri a risuscitare cadaveri, disse Mina. A lui interessavano la vita e i vivi, e aveva un dono speciale da offrire a chiunque l’avesse seguite. Tutti i suoi fedeli avrebbero conseguito la vita eterna.
«Non diventerete mai più vecchi di quanto siete oggi», promise Mina. «Non vi ammalerete mai. Non conoscerete mai la paura né il freddo né la fame. Sarete immuni da malattie. Non assaporerete mai l’amarezza della morte.»
«Io diventerò un seguace!» gridò scherzando un giovane, uno dei migliori clienti della locanda in fatto di liquore dei nani. «Ma solo se tu scendi giù e mi fai vedere come si fa.»
La folla rise. Mina gli sorrise.
«Io sono la somma sacerdotessa di Chemosh, sono qui per recare il messaggio del dio alla sua gente», proseguì in tono amabile. «Se tu sei seriamente intenzionato a diventare un suo seguace, Chemosh ti guarderà nel cuore e invierà da te qualcuno a nome suo.»
Mina chiuse la finestra e scomparve nella camera, sottraendosi alla vista. La folla attese un attimo per vedere se sarebbe ritornata, poi qualcuno andò a casa ad asciugarsi, mentre altri andarono a toccare e pizzicare le statue o a osservare coloro che cercavano invano di scheggiarle con martello e scalpello.
Naturalmente la prima cosa che fece la gente fu trasmettere in fretta la notizia delle statue di pietra a Lleu, il chierico di Kiri-Jolith.
Lleu non ci credette.
«È qualche trucco da illusionista da strapazzo», disse con scherno. «Rolf lo stalliere è un credulone dei peggiori. Io non ci credo.» Si alzò dalla scrivania, dove stava scrivendo una lettera al suo superiore a Solanthus, esponendogli in dettaglio le sue preoccupazioni riguardo a Chemosh. «Vado a smascherare questa ciarlatana per quella che è.»
«Non è un trucco, Lleu», disse Marta, sacerdotessa di Zeboim, entrando nello studio. «Io le ho viste. Di pietra massiccia sono. Nere come il cuore di Chemosh.»
«Sei sicura?» domandò Lleu.
Marta annuì cupa, e Lleu tornò a sedersi. Marta sarà anche stata sacerdotessa di una dea crudele e capricciosa, ma la sacerdotessa di per sé era sincera, assennata e non incline a voli di fantasia.
«Che facciamo?» domandò lui.
«Non lo so», confermò Marta. «La mia dea non è contenta.» Un tuono immane che rovesciò diversi libri dagli scaffali testimoniò lo stato d’animo turbato di Zeboim. «Ma se noi andiamo lì a guardare a bocca aperta le statue come ogni altra persona di questa città non faremo che dare credito a questo miracolo. Io dico di ignorarlo.»
«Hai ragione», ammise Lleu. «Dovremmo ignorarlo. Questa Mina se ne andrà entro un paio di giorni. La gente se ne dimenticherà e passerà a qualche altro miracolo: un vitello a due teste o qualcosa del genere.»
Sobbalzò quando un altro tuono tremendo fece tremare il terreno.
«Magari riuscissi a convincere di questo Sua Santità», mormorò Marta, guardando i cieli inzuppati di pioggia. Scrollando il capo, uscì da quel tempio per ritornare al suo.
Lleu sapeva che il proprio consiglio era saggio, ma scoprì di non riuscire a rimettersi al lavoro. Percorse a grandi passi il tempio, confuso e in disaccordo con se stesso. Ogni volta che passava davanti alla statua del dio, Lleu guardava quel volto severo e implacabile e desiderava di possedere una simile determinazione e forza di volontà. Un tempo pensava di averle. Rimase turbato nello scoprire che forse non era così.
Stava ancora camminando su e giù quando alla porta del tempio qualcuno bussò. Il chierico aprì la porta e trovò un garzone della locanda.
«Ho un messaggio per padre Lleu», esordì il ragazzo.
«Sono io», disse Lleu.
Il garzone gli porse un rotolo legato con un nastro nero e sigillato con cera nera.
Lleu si accigliò. Fu tentato di sbattere la porta in faccia al garzone, poi si rese conto che si sarebbe diffusa la notizia che lui aveva paura. Era giovane e insicuro. Non si trovava da molto a Staughton e si sforzava di consolidare se stesso e la sua religione in una città a cui il culto interessava solo marginalmente. Prese il rotolo.
«Hai il permesso di andare», disse al garzone.
«Devo rimanere, padre, caso mai vi sia una risposta.»
Lleu stava per dire che non ci sarebbe stata risposta, che lui non aveva nulla da dire a una somma sacerdotessa di Chemosh, ma di nuovo pensò a che cosa ne avrebbero pensato. Strappò via il nastro nero, ruppe il sigillo e lesse in fretta la missiva.
Pregusto la discussione con voi. Sarò libera di ricevervi all’ora in cui sorge la luna.
In nome di Chemosh.
«Riferisci alla somma sacerdotessa Mina che mi piacerebbe molto parlare di teologia con lei, ma ho questioni urgenti da sbrigare nel mio tempio», fu la risposta di Lleu. «Ringraziala per avere pensato a me.»
«Ci ripenserei se fossi in voi, padre», suggerì il garzone strizzando l’occhio. «Quella è uno splendore.»
«La somma sacerdotessa è una religiosa ed è più vecchia di te», disse Lleu, guardandolo con occhio torvo. «E anch’io. Tu ci devi maggiore rispetto.»
«Sì, padre», disse il garzone a quel rimprovero. Sgattaiolò via.
Lleu ritornò all’altare. Il chierico tornò a guardare il volto di Kiri-Jolith, questa volta per ricevere rassicurazione.
Il dio lo osservò con uno sguardo freddo. Lleu quasi ne sentiva la voce: «Non voglio codardi al mio servizio».
Lleu non pensava di agire da codardo, ma da persona sensata. Non aveva bisogno di scambiare parole con questa donna e certamente non aveva interesse per Chemosh.
Tornò nel suo studio per finire la lettera.
La penna d’oca schizzò. Lleu rovesciò l’inchiostro. Alla fine si arrese. Guardando fuori verso la pioggia battente che picchiava sul tetto del tempio come un tamburo che chiamasse a battaglia tutti i veri cavalieri, Lleu cercò di liberarsi del ricordo di quegli occhi d’ambra.
All’ora del sorgere della luna Lleu era fuori della locanda. Guardò le statue di marmo, che brillavano di una luce spettrale al chiarore argenteo della luna Solinari. Zeboim, a quanto pareva, si era stancata e aveva condotto altrove il suo accesso di stizza, poiché il temporale finalmente si era placato e le nubi imbronciate se n’erano andate.
Lleu trovò le statue profondamente inquietanti. Bramava toccarne una ma temeva che vi fosse ancora gente a osservare. Rabbrividì, poiché la notte primaverile era fresca e umida, e si guardò attorno. Dall’area dei festeggiamenti provenivano rumori di risate e bisbocce. In quell’area vi erano birra gratis e un maiale arrosto e quasi tutta la cittadinanza partecipava alla festa. La locanda era silenziosa.
Lleu allungò la mano per toccare una delle statue.
La porta della locanda si aprì e Lleu rapidamente tirò indietro la mano.
In piedi sulla soglia stava Mina, una figura snella di tenebra sullo sfondo di un chiarore di caminetto.
«Entrate», lo invitò Mina. «Sono lieta che abbiate cambiato idea.»
Mina non aveva l’aspetto di una somma sacerdotessa. Si era cambiata, abbandonando l’abito morbido e allettante e togliendosi il copricapo nero e oro. Indossava una lunga e leggera veste nera aperta sul davanti, allacciata in vita da una cintura di cordino d’oro. I capelli castano ramati erano semplicemente intrecciati e attorcigliati sul capo, tenuti fermi da una spilla d’ambra ingioiellata. Nell’aria si spandeva un profumo di mirra.
«Non posso fermarmi», si affrettò a dire Lleu.
«Certo che no», disse Mina in tono comprensivo.
Si fece da parte per lasciarlo entrare.
La sala di ritrovo era deserta. Mina voltò le spalle a Lleu e prese a salire le scale.
«Dove andate?» domandò Lleu.
Mina si girò per guardarlo in viso. «Ho ordinato una cena leggera. Ho chiesto che mi venga servita nella mia stanza. Avete cenato? Volete unirvi a me?»
Lleu arrossì. «No, grazie. Credo che ritornerò al tempio. Ho del lavoro da sbrigare...»
Mina andò da lui, gli posò la mano sull’avambraccio e gli sorrise, con un sorriso amichevole, innocente. «Come vi chiamate?»
Lui esitò, temendo che perfino darle quella piccola informazione potesse in qualche modo intrappolarlo.
Alla fine rispose: «Mi chiamo Lleu Mason».
«Io mi chiamo Mina, ma lo sapete già. Siete venuto qui per una discussione teologica, e la sala di ritrovo di una locanda non è proprio il luogo adatto per trattare questioni serie, non credete?»
Lleu Mason era un giovane di poco più di vent’anni. Aveva capelli biondi che portava alla maniera dei chierici di Kiri-Jolith: lunghi fino alle spalle, con scriminatura centrale e frangetta dritta. Aveva gli occhi marroni e intensi, con uno sguardo inquieto e indagatore. Era ben proporzionato, con i muscoli da soldato, non da studioso, il che non sorprendeva. I chierici di Kiri-Jolith si addestravano assieme ai cavalieri di cui erano al servizio ed erano noti fra i chierici di Ansalon per essere abili nell’uso della spada lunga. Suo nonno era stato un muratore, e per questo lui si chiamava Mason.
Guardò Mina. Si guardò attorno nella locanda, ma non ne vide granché. Fece un lieve sorriso.
«No, non è molto adatta.» Lleu inspirò profondamente. «Verrò di sopra con voi.»
Mina tornò a salire le scale. Questa volta lui la seguì. Lleu era solennemente cortese, si spostò per precederla lungo il corridoio e le aprì la porta della stanza. Era una sala da pranzo privata con tavolo e sedie e un caminetto acceso. Il tavolo era apparecchiato. Un servitore si trovava ossequente sullo sfondo. Lleu fece accomodare Mina e poi si sedette di fronte a lei.
La cena era buona, con carni arrosto e pane, seguiti da un dolce. Durante il pasto parlarono poco, poiché era presente il servitore. Quando ebbero terminato, Mina lo congedò. Presero entrambi un boccale di vino, ma nessuno dei due bevve molto, si limitarono a sorseggiare mentre spostavano le sedie verso il caminetto.
Parlarono della famiglia di Lleu. Il fratello maggiore, ora trentacinquenne, era diventato un mastro muratore e lavorava col padre nell’azienda di famiglia. Lleu era il più giovane e non aveva interesse per i lavori in muratura. Sognava di diventare un soldato e a questo scopo si era recato a Solamnia. Una volta lì era stato introdotto al culto di Kiri-Jolith e si era reso conto che la sua vera vocazione era servire il dio.
«Si potrebbe dire che la chiesa sia una costante nella mia famiglia», soggiunse con un sorriso. «Mia nonna era chierica di Paladine e il mio fratello di mezzo è un monaco dedito al culto di Majere.»
«Davvero?» disse Mina, interessata. «Che pensa vostro fratello del fatto che voi siete diventato un chierico di Kiri-Jolith?»
«Non ne ho idea. Il suo monastero è situato in qualche luogo isolato e i monaci raramente se ne allontanano. Da molti anni non vediamo mio fratello né abbiamo sue notizie.»
«Da molti anni.» Mina era perplessa. «Come può essere? Gli dèi, compreso Majere, sono ritornati nel mondo appena poco più di un anno fa.»
Lleu alzò le spalle. «A quanto mi raccontano, alcuni di questi monasteri sono tanto isolati che i monaci non sapevano niente di quello che accadeva nel mondo. Hanno mantenuto il loro modo di vivere fatto di meditazione e preghiera malgrado non avessero alcun dio a cui pregare. Una simile vita è adatta a mio fratello. Lui è sempre stato austero e ritirato, dedito a vagare da solo per le colline. Ha dieci anni più di me, per cui io non l’ho mai conosciuto bene.»
Lleu, dimentico di se stesso, aveva spostato la sedia più vicino a lei. Durante la cena si era rilassato, disarmato dalla cordialità di Mina e dal suo interesse per lui. «Ma basta parlare di me. Ditemi di voi, Mina. C’è stato un tempo in cui il mondo intero parlava di voi.»
«Sono andata alla ricerca di un dio», rispose Mina, guardando fisso il fuoco. «L’ho trovato. Ho conservato la fede nel mio dio sino alla fine. Non c’è molto altro da dire.»
«Tranne che adesso seguite un dio nuovo», disse Lleu.
«Non è un dio nuovo. È un dio antichissimo. Antico quanto il tempo.»
«Ma... Chemosh.» Lleu fece una smorfia. Guardando Mina, era consumato dall’ammirazione. «Voi siete tanto giovane e bella, Mina. Io non ho mai visto una donna tanto bella. Chemosh è un dio di cadaveri in putrefazione e vecchie ossa ammuffite. Non scrollate il capo. Non potete negarlo.»
«Invece lo nego», ribatté con calma Mina. Tese il braccio, gli prese la mano. Il contatto con lei fece ardere il sangue a Lleu. «Avete paura della morte, Lleu?»
«Io... sì, immagino di sì», rispose lui. In quel momento non voleva pensare alla morte. Stava pensando moltissimo alla vita.
«Un chierico di Kiri-Jolith non dovrebbe temere la morte, vero?»
«No, noi non dovremmo.» Cominciò a sentirsi a disagio e cercò di sottrarsi al contatto con lei.
Mina gli premette la mano con solidarietà e lui, quasi inconsapevolmente, gliela strinse più forte.
«Che cosa vi dice il vostro dio sulla morte e sull’aldilà?»
«Che quando moriamo affrontiamo la parte successiva del viaggio della nostra anima; che la morte è una porta che conduce a un’ulteriore conoscenza di noi stessi.»
«Voi ci credete?»
«Voglio crederci», rispose lui, stringendo la mano. «Voglio crederci davvero. Combatto con questo interrogativo fin da quando sono diventato chierico. Mi dicono di avere fede, ma...»
Scrollò il capo. Guardò fisso il fuoco, meditando, sempre stringendo la mano di lei. Le si rivolse bruscamente.
«Voi non avete paura della morte.»
«Io no», confermò Mina, sorridendo, «perché io non morirò mai. Chemosh mi ha promesso vita eterna».
Lleu la fissò. «Come può fare una promessa del genere? Non capisco.»
«Chemosh è un dio. I suoi poteri sono illimitati.»
«È il Signore della Morte. Va sui campi di battaglia, risuscita i corpi insepolti e li costringe a eseguire i suoi ordini...»
«Questo succedeva ai vecchi tempi. Le cose sono cambiate. Questa è l’Era dei Mortali. Un’era per i vivi. A lui non servono i resti scheletrici. Lui vuole seguaci che siano come voi e come me, Lleu. Giovani e forti e pieni di vita. Una vita che non avrà mai fine. Una vita che apporti piaceri come questo.»
Chiuse gli occhi e si chinò verso di lui, dischiudendo le labbra, invitanti. Lui la baciò, dapprima in maniera esitante, poi la passione si impadronì di lui. Mina era morbida e cedevole, e Lleu, prima di capire che cosa stesse facendo o come lo stesse facendo, aveva le mani sotto le vesti di lei e accarezzava carne nuda e calda. Emise un lieve gemito e i suoi baci si fecero più intensi.
«La mia camera da letto è alla porta accanto», sussurrò Mina, sfiorando con le labbra quelle di lui.
«Questa è una cosa sbagliata», sussurrò Lleu, ma non riusciva a separarsi da lei.
Mina lo strinse fra le braccia, premette il corpo contro il suo. «Questa è vita», gli disse.
Lo condusse nella sua camera da letto.
La loro passione durò per tutta la notte. Si amarono e dormirono e si svegliarono per amarsi di nuovo. Lleu non aveva mai fatto l’amore così, non aveva mai conosciuto simili trasporti di gioia. Non si era mai sentito tanto vivo e desiderava che quella sensazione durasse per sempre. Si addormentò fra le braccia di lei, con quel pensiero in mente. Si destò all’alba, l’alba di primavera. Trovò Mina accanto a lui, appoggiata su un gomito, che lo guardava e gli passava delicatamente la mano sui peli del petto.
Lleu si tirò su per baciarla, ma lei si ritrasse.
«E Chemosh?» domandò Mina. «Hai pensato a tutto quello che ti ho detto?»
«Hai ragione, Mina. Effettivamente ha senso che un dio voglia far vivere per sempre i suoi seguaci», ammise Lleu, «ma io che devo fare per ottenere questa fortuna? Ho sentito raccontare storie di sacrifici di sangue e di altri riti...».
Mina gli sorrise. Gli passò la mano sulla carne nuda. «Non sono altro che questo: soltanto storie. Tutto ciò che devi fare è donarti al dio. Devi dire: "Offro la mia fede a Chemosh".»
«Tutto qui?»
«Tutto qui. Puoi perfino ritornare al culto di Kiri-Jolith, se vuoi. Chemosh non è geloso. È comprensivo.»
«E io vivrò per sempre? E ti amerò per sempre?» Le diede un bacio rapido.
«Da oggi in poi non invecchierai più», gli promise Mina. «Non soffrirai mai dolore né conoscerai la fame né ti ammalerai. Te lo prometto.»
«Allora non ho nulla da perdere.» Lleu le sorrise. «Offro la mia fede a Chemosh.»
La cinse col braccio, l’attirò a sé. Mina premette le labbra contro il petto di lui, sopra il cuore. Lui ebbe un fremito di gioia, poi il suo corpo rabbrividì.
Lleu spalancò gli occhi. Il dolore arse in lui, un dolore terribile, e Lleu guardò Mina con orrore. Lottò, cercò di liberarsi, ma lei lo teneva inchiodato, e il suo bacio gli succhiava via la vita. Il cuore gli palpitava irregolarmente. Le labbra di lei sembravano nutrirsi di quel cuore. Il dolore lo faceva contorcere e dimenare. Lleu emise un grido soffocato e afferrò spasmodicamente Mina. Si contorse per il dolore. Il cuore gli si arrestò, tutto si arrestò.
La testa di Lleu era posata rigida sul cuscino. I suoi occhi fissavano il nulla. Il volto era congelato in un’espressione di orrore innominato.
Chemosh stava in piedi accanto al letto.
«Mio signore», lo accolse Mina. «Vi porto il vostro primo seguace.»
«Ben fatto, Mina», la lodò lui. Chinandosi, piegandosi sopra il corpo del giovane, baciò Mina sulle labbra. Con la mano le accarezzò il collo, le lisciò i capelli. «Ben fatto.»
Mina si ritrasse da lui, coprendosi la nudità con la veste.
«Che c’è, Mina?» domandò lui. «Che succede? Hai già ucciso in precedenza, in nome di Takhisis. Sei diventata all’improvviso schizzinosa?»
Mina guardò il cadavere del giovane. «Voi gli avevate promesso la vita, non la morte.» Alzò lo sguardo verso Chemosh, e i suoi occhi d’ambra erano rattristati. «Mi avevate promesso il potere sulla vita e sulla morte, mio signore. Se avessi voluto semplicemente commettere omicidi, sarei potuta andare in qualunque vicolo buio...»
«Non hai fede in me, Mina?»
Mina rimase per un attimo in silenzio, raccogliendo il coraggio. Sapeva che il dio si sarebbe potuto adirare con lei, ma doveva correre il rischio.
«Un dio mi ha già tradita una volta. Voi mi avete chiesto di dimostrarvi ciò che valgo. Adesso è ora che voi dimostriate a me ciò che valete, mio signore.»
Aspettò, tesa, che la collera di Chemosh si riversasse su di lei. Lui non disse nulla, e dopo un attimo Mina osò alzare lo sguardo verso di lui.
Chemosh le sorrideva. «Come ti ho detto, Mina, non sarai la mia schiava. Io ti dimostrerò ciò che valgo. Avrai ciò che ho promesso. Metti la mano sul cuore del giovane.»
Mina fece come lui le aveva detto. Mise la mano sulla carne che si raffreddava, sopra il cuore scoppiato, sopra l’impronta delle sue labbra, impresse a fuoco nella carne.
«Il cuore non batterà mai più», intonò Chemosh, «ma la vita scorrerà in questo corpo. La mia vita. La vita eterna. Bacialo, Mina».
Mina pose le labbra sull’impronta a fuoco del suo bacio. Il cuore del giovane rimase fermo, ma lui inspirò profondamente, il respiro del dio. Al tocco di Mina il torace di lui si alzò e si abbassò.
«Tutto sarà come gli ho promesso, Mina. Lui non può morire, poiché è già morto. La sua vita andrà avanti in eterno. In cambio io gli chiedo soltanto una cosa. Deve portarmi altri seguaci. Ecco, amore mio, ti ho dimostrato quanto valgo?»
Mina guardò Lleu, che si muoveva, si stiracchiava, si svegliava. Mina si rese conto di non avergli soltanto tolto la vita ma di avergliela anche restituita. Aveva il potere di offrire a chiunque al mondo la vita eterna. Il suo potere... e quello del dio.
Allungò la mano verso Chemosh, che la strinse fra le sue. «Noi cambieremo il mondo, mio signore!»
Mina aveva ancora un interrogativo, un dubbio persistente. Si mise la mano sul petto, dove il marchio di Chemosh era nero sulla pelle candida. «Mio signore, il mio cuore batte ancora. Il mio sangue è ancora caldo e così pure la mia carne. Voi non mi avete tolto la vita...»
Chemosh non le disse che era la vita ciò che lui amava in Mina. Quel cuore caldo che batteva, quel sangue bollente che pulsava. E nemmeno le disse che il dono della vita eterna che lei conferiva a questi mortali non era splendente e luminoso come appariva in superficie. Chemosh avrebbe potuto conferirlo anche a Mina, ma allora l’avrebbe perduta e lui non era pronto a rinunciare a lei. Non ancora. Forse, un giorno, quando si sarebbe stancato di lei.
«Io sono circondato da morti, Mina», le disse, a mo’ di scusa. «Giorno dopo giorno. Come quello sciocco di Krell, che non mi lascia in pace, mi tormenta in continuazione. Tu sei un "alito di vita" per me, Mina.»
Rise per la propria battuta, diede a Mina un bacio di saluto e se ne andò.
Mina scivolò fuori dal letto. Raccolse un pettine e se lo passò tra i capelli aggrovigliati, prese a sciogliere i nodi con lentezza e attenzione.
Udì dietro di sé un fruscio. Guardandosi dietro le spalle vide Lleu tirarsi su a sedere fra le lenzuola. Appariva confuso e stringeva la mano sul cuore, sobbalzando come al ricordo del dolore.
Mina lo osservò e continuò a pettinarsi.
L’espressione di Lleu si rischiarò. Gli occhi gli si spalancarono. Si guardò attorno di nuovo, come vedendo tutto per la prima volta. Balzò fuori dal letto, andò verso di lei, si chinò e le baciò il collo.
«Grazie, Mina», disse con fervore.
Voleva fare di nuovo l’amore con lei. Cercò di baciarla. Posando il pettine, Mina si girò verso di lui e gli scostò le mani indagatrici.
«Non con me, Lleu», disse. «Con altre.»
Lo guardò negli occhi che erano lucidi e vigili, non più perplessi, non più inquieti. Con un dito percorse il bacio impresso a fuoco nella pelle di lui. «Capisci?»
«Capisco. E ti ringrazio per questo dono.»
Lleu le prese la mano e gliela baciò. La pelle di lui appariva fresca al tatto. Non del freddo della morte, ma più fredda del solito, come se lui fosse appena arrivato da un luogo fresco come un boschetto ombroso o una grotta. Sotto ogni altro aspetto Lleu sembrava normale.
«Ti rivedrò, Mina?» domandò lui con ardore, mentre indossava le vesti di chierico di Kiri-Jolith.
«Forse», rispose Mina, alzando le spalle. «Non contarci. Ho i miei obblighi con Chemosh, e anche tu.»
Lui si accigliò, deluso. «Mina...»
Lei continuò a voltargli le spalle. Tamburellava impaziente con le unghie.
«Lode a Chemosh», disse lui, dopo un attimo, e se ne andò.
Mina udì il rumore degli stivali di Lleu per le scale, lo udì rivolgere al locandiere un saluto impetuoso.
Mina raccolse il pettine e prese a rimuovere con pazienza i nodi dai capelli castano ramati. Le parole di Chemosh indugiavano ancora in lei, al pari del suo bacio.
Lui le aveva promesso il potere sulla vita e sulla morte e aveva mantenuto la promessa. Aveva mantenuto la parola datale.
«Lode a Chemosh», mormorò.
Rhys sedeva in mezzo all’erba alta ai piedi della collina, cullando distrattamente fra le braccia il bastone, mentre i suoi pensieri vagavano verso il cielo, lassù dove le nubi bianche correvano spinte dal vento nel cielo azzurro e limpido. Sparpagliate sulla collina sopra di lui, le pecore pascolavano placide. Nell’erba attorno a Rhys ronzavano le cavallette. Le farfalle svolazzavano da un ranuncolo all’altro. Rhys stava seduto tanto immobile che di quando in quando le farfalle si posavano su di lui, ingannate dal colore arancione bruciato delle sue vesti tessute in casa.
Rhys stava attento alle pecore, poiché era il loro pastore, ma non le teneva d’occhio costantemente. Non ce n’era bisogno. La sua cagna, Atta, era distesa sul ventre a poca distanza da lui. Con la testa sulle zampe, osservava attentamente le pecore, notando ogni loro movimento. Atta ne vide tre che stavano per allontanarsi dal gregge, vagando in una direzione che presto le avrebbe condotte al di là della collina, dove Atta non le avrebbe più viste. Sollevò la testa e drizzò gli orecchi, mentre il suo corpo si tendeva. Diede un’occhiata al padrone, per vedere se Rhys avesse notato.
Rhys aveva visto le pecore erranti, ma fece finta di no. Continuò a restare seduto comodo, ascoltando il canto di passeri e cardellini, osservando un bruco arrampicarsi su un filo d’erba; i suoi pensieri erano con il suo dio.
Il corpo di Atta ebbe un fremito. La cagna emise un ringhio basso di avvertimento. Le pecore erano quasi in cima alla collina. Rhys cedette.
Si alzò in piedi agilmente, senza sforzo. Aveva trent’anni. La sua età gli si vedeva nel viso, che era di pelle scura e segnato dalle intemperie, ma non nel corpo. L’esercizio fisico quotidiano, la rigorosa vita all’aperto e l’alimentazione semplice lo rendevano forte, snello, flessuoso. Portava i capelli scuri lunghi, raccolti in un’unica treccia lungo la schiena. Allungando il braccio con un gesto ampio, diede il comando: «Vai».
Atta corse su per il fianco della collina, e il suo corpo bianco e nero divenne indistinto sullo sfondo verde. Non puntò direttamente verso le pecore e nemmeno guardò verso di loro. Un simile comportamento da parte di un animale che le pecore equiparano a un lupo avrebbe scatenato in loro il panico. Guardando dall’altra parte, osservando le pecore con la coda dell’occhio, Atta si avvicinò dal lato destro, facendole così voltare verso sinistra e tornare verso il gregge.
Rhys si mise le dita in bocca ed emise un fischio penetrante. La cagna era troppo lontana per udire la sua voce, ma quel fischio acuto le arrivò chiaramente. Atta piombò giù sul ventre, tenendo lo sguardo sulle pecore, in attesa del prossimo comando.
Rhys chiuse la mano a pugno, la tenne fra il sole e l’orizzonte. Un pugno per ogni ora mancante al tramonto. Era ora di pensare a riportare il gregge all’ovile per essere di ritorno per la cena e i rituali esercizi di allenamento. Emise un altro fischio acuto: prima lungo, poi breve. Questo significava «via», un comando che fece spostare la cagna verso sinistra.
Atta condusse le pecore giù dalla collina, riportandole dove stava Rhys col suo bastone. La cagna teneva il corpo in linea retta col pastore, bilanciando i propri movimenti con i suoi, e le pecore stavano in mezzo a loro due. Se Rhys si spostava verso destra, Atta andava a sinistra. Il suo compito era tenere le pecore in movimento, nella direzione giusta, accertandosi che rimanessero assieme, e fare tutto questo senza indurle a fuggire in preda al panico.
Il gregge era sceso fino a circa metà della collina quando Rhys scorse una pecora rimasta indietro. Si era spinta in un tratto di erba alta e lui non l’aveva notata. Rhys fischiò di nuovo, un comando diverso, che significava «stai giù».
Atta rallentò il passo. Il comando non andava preso alla lettera, anche se talvolta la cagna si metteva davvero giù sul ventre. In questo caso si fermò. Il gregge rallentò il passo. Atta fissò le pecore con i suoi ipnotici occhi marroni, per trattenerle, e loro si fermarono.
Rhys fischiò di nuovo, un segnale ancora diverso. «Torna indietro» era l’ordine.
Sicura che il gregge sarebbe rimasto lì, Atta tornò indietro e corse su per la collina. Scorse la pecora rimasta sola e la mise in movimento, in direzione del gregge. Quando fu evidente che la pecora si sarebbe ricongiunta col gregge, Atta sollecitò le pecore a proseguire verso Rhys.
Tutto stava andando bene quando a un montone passò per la testa lanosa di sfidare Atta. Il montone, che era molto più pesante e diverse volte più grande della cagnetta, si girò, pestò la zampa e si rifiutò di muoversi.
Atta si accovacciò, rimanendo immobile sul posto. Guardò fisso il montone, con occhi attenti. Se il montone fosse rimasto ostinato, Atta poteva accorrere per dargli un morso sul naso, ma questo succedeva di rado. Il montone abbassò la testa. Atta prese ad avanzare strisciando, sempre accovacciata, tenendo gli occhi fissi sul montone. Dopo un attimo di teso confronto, il montone all’improvviso cedette davanti allo sguardo ipnotico della cagna e si girò per unirsi al gregge. Atta fece ripartire le pecore.
Rhys sentì scorrere dentro di sé le benedizioni del dio. Il fianco verde della collina, il cielo azzurro, le nubi bianche, le pecore bianche, la cagna bianca e nera che volava sull’erba, le rondini che sfrecciavano, un falco che volteggiava, le cavallette che gli saltavano sulle vesti; il sole caldo e splendente che calava; la sensazione dell’erba sotto i piedi nudi callosi: tutto era Rhys e lui era tutto. Tutto era di Majere e il dio era tutto.
Col sangue che gli circolava caldo nel corpo, col bastone che picchiava lieve a terra, Rhys si muoveva senza fretta. Si godeva la giornata, si godeva il panorama, si godeva quei momenti trascorsi da solo sulle colline. Gli piaceva rientrare la sera. Le pareti di granito del monastero si ergevano in cima a una collina di fronte a lui. e dentro quelle pareti vi erano fratellanza, ordine, quieto appagamento.
Il tran tran di questa giornata era stato esattamente uguale a quello di innumerevoli giornate precedenti. A Majere piacendo, l’indomani non sarebbe stato diverso. Rhys e gli altri monaci dell’Ordine di Majere si alzavano all’ora buia prima dell’alba. Trascorrevano un’ora in meditazione e preghiera a Majere, quindi uscivano nel cortile di pietra per eseguire gli esercizi rituali che riscaldavano e stiravano il corpo. Dopo di che facevano colazione con carne o pesce, accompagnati da pane e formaggio di capra, e latte di capra da bere. Il pranzo (pane e formaggio) era consumato nei campi o dovunque loro si trovassero in quel momento. La cena era costituita da zuppa di cipolle, calda e nutriente, accompagnata da carne o pesce, pane e una mistura di ortaggi e verdure fresche in estate, mele e frutta secca in inverno.
Dopo colazione i monaci si dedicavano alle loro attività quotidiane, che variavano a seconda delle stagioni. D’estate lavoravano nei campi, badavano alle pecore, ai maiali e ai polli ed eseguivano riparazioni sugli edifici. L’autunno significava portare a termine il raccolto e riempire i depositi, salare la carne affinché si conservasse nei lunghi mesi di freddo e neve in arrivo, stipare le mele in barili di legno. L’inverno era la stagione dei lavori all’interno: cardare e pettinare la lana, tessere le stoffe, tagliare e cucire gli abiti; lavorare il cuoio; miscelare pozioni per i malati. L’inverno era anche la stagione per la mente: scrivere, insegnare, imparare, tenere discorsi, discutere, congetturare. Majere insegnava che la mente del monaco doveva essere lesta e flessuosa quanto il corpo.
Le sere, in qualunque momento dell’anno, venivano trascorse nell’addestramento rituale al combattimento disarmato, chiamato «disciplina misericordiosa». I monaci di Majere si rendevano conto che il mondo è un luogo pericoloso e, sebbene praticassero e seguissero i precetti di Majere riguardo alla pace e alla fratellanza con l’intera umanità, capivano che talvolta la pace va salvaguardata mediante la forza e che per proteggere la vita propria e altrui dovevano essere pronti a combattere oltre che a pregare. Ogni sera (pioggia o sereno, neve o caldo torrido) i monaci si riunivano nel cortile esterno per l’addestramento. Combattevano alla luce del sole declinante d’estate, al buio o alla luce delle fiaccole d’inverno. Tutti dovevano partecipare all’addestramento, dal più anziano, il Maestro, che aveva superato gli ottant’anni, al più giovane. L’unica scusante per saltare l’addestramento serale era la malattia.
Svestiti fino alla cintola, con i piedi nudi che scivolavano sul terreno ghiacciato d’inverno o nel fango d’estate, i monaci trascorrevano lunghe ore ad addestrare la mente e il corpo al combattimento disciplinato. Non potevano usare né spade né frecce né alcun altro tipo di arma d’acciaio, poiché Majere imponeva che i suoi monaci non togliessero la vita a nessuno, a meno che non fossero in pericolo vite innocenti e, anche allora, solo se tutte le altre possibilità si fossero già rivelate inutili.
L’arma preferita da Rhys era l’emmide, un bastone piuttosto simile a un’asta di legno lunga e sottile. Il termine «emmide» era di origine elfica; gli elfi usavano un bastone simile per far cadere i frutti dagli alberi. Rhys era diventato un maestro dell’arte di combattere con l’emmide, al punto che adesso la insegnava agli altri.
Rhys era contento di quella sua vita ordinata, profondamente contento, adesso che Majere era ritornato fra loro. Si vedeva a ottant’anni di età (l’età del Maestro) con un aspetto simile a quello del Maestro: capelli grigi, pelle segnata dalle intemperie e tesa su muscoli, tendini e ossa, volto profondamente scavato, occhi scuri e placidi con la saggezza del dio. Rhys non intendeva abbandonare mai questo luogo dove era giunto a conoscere se stesso e a fare pace con se stesso. Non voleva tornare mai nel mondo.
Il mondo era dentro di lui.
Rhys arrivò all’ovile. Le pecore trotterellarono docilmente superandolo ed entrando nel recinto, con Atta dietro di loro.
«Bene così», disse Rhys alla cagna.
Questo era il comando che la liberava delle sue protette. Atta si dimenò tutta per il piacere e andò trotterellando da Rhys, con la lingua che ciondolava e gli occhi luminosi. Lui le diede la ricompensa: una pacca sulla testa e una carezza giocosa sugli orecchi.
Rhys chiuse le pecore nell’ovile per la notte. Atta raggiunse gli altri cani pastori, fratelli e sorelle e cugini, che la salutarono con annusate e scodinzolamenti. La cagna si sistemò vicino all’ovile a sgranocchiare ossa e sonnecchiare, tenendo sempre d’occhio il gregge. Mentre riposavano o dormivano, i cani fungevano da guardie per tutta la notte. Lupi e gatti selvatici non erano un grosso problema nei mesi estivi, quando per chi viveva allo stato brado il cibo era abbondante. Il periodo invernale era il più pericoloso. Spesso i monaci venivano destati dal sonno dall’abbaiare furioso dei cani, allora balzavano giù dal letto per scacciare i predatori con fiaccole accese.
Indugiando accanto all’ovile, osservando una cagna madre tenere saldamente giù con la zampa un cucciolo squittente mentre lo leccava tutto, Rhys a poco a poco si rese conto che c’era qualcosa di diverso. Qualcosa era cambiato. La tranquillità del monastero era stata turbata. Rhys non avrebbe saputo dire come se ne fosse accorto, se non che aveva vissuto lì per tanto tempo che riusciva a cogliere anche le differenze più impercettibili nella sensazione di quel luogo. Si allontanò dall’ovile, girò attorno agli edifici annessi: la fucina, il grosso forno del panettiere, le latrine, i depositi, e giunse in vista del monastero vero e proprio.
Il monastero era stato costruito dai monaci di Majere centinaia di anni prima e in tutto quel tempo era cambiato poco. Di struttura semplice, più simile a una fortezza che a un tempio, l’edificio a due piani era stato innalzato dalle mani dei monaci stessi, costruito in pietra da loro scavata in una cava vicina. L’edificio principale racchiudeva al piano superiore gli alloggi dei monaci e al piano inferiore la sala da pranzo comune, la sala per il riscaldamento, l’infermeria e la cucina. Ciascun monaco aveva la propria cella, arredata solamente con un materasso di paglia. Ciascuna cella aveva una finestra aperta all’aria tutto l’anno. Non vi erano porte alle celle né ad alcuna stanza. L’edificio principale aveva un portone all’ingresso, anche se Rhys spesso si era domandato perché si fossero presi questo disturbo, dato che non era mai sbarrato.
I monaci non avevano paura di essere derubati. Perfino i kender passavano accanto al monastero alzando le spalle e sbadigliando. Tutti sapevano che i monaci di Majere non avevano cripte con tesori, neanche un singolo centesimo, poiché non era loro permesso maneggiare soldi. Non avevano beni, niente che valesse la pena di rubare per chi non fosse un lupo amante della carne di pecora.
Girando attorno all’edificio fino alla porta d’ingresso, Rhys si imbatté in uno strano carro parcheggiato all’esterno. Era appena arrivato, a quanto pareva, poiché due giovani monaci stavano staccando i cavalli da tiro per condurli a mangiare e a riposarsi, in attesa di una bella strigliata.
Che i cavalli venissero staccati era un brutto segno, pensò Rhys, poiché significava che gli intrusi si sarebbero fermati. Girò sui tacchi e si allontanò, dirigendosi verso il monastero. Non aveva alcun desiderio di incontrare questi visitatori. Non era minimamente curioso nei loro riguardi. Non aveva motivo di pensare che queste persone avessero qualcosa a che vedere con lui e pertanto rimase sbalordito quando udì una voce chiamarlo.
«Fratello Rhys! Fermati un attimo. Sei convocato dal Maestro.»
Rhys si arrestò, tornando a guardare verso il carro. I due monaci novizi, che stavano guidando i cavalli nella stalla, si inchinarono nel passargli accanto, poiché lui era un maestro d’arme, chiamato Maestro di Disciplina. Lui si inchinò in risposta e proseguì. Lui e il monaco che l’aveva chiamato (che era il Maestro della Casa) si inchinarono contemporaneamente, per riflettere la loro parità di livello.
«I visitatori sono qui per vedere te, fratello», disse il monaco. «Adesso sono dal Maestro. Devi raggiungerli.»
Rhys annuì per dire che aveva capito. Aveva domande da fare, naturalmente, ma i monaci si astenevano da ogni parola non necessaria e, poiché le sue domande avrebbero presto trovato risposta, non vi era bisogno di avviare una conversazione. I due monaci si inchinarono di nuovo, e Rhys entrò nel monastero, mentre il Maestro della Casa, che sovrintendeva alla gestione quotidiana del monastero, andò avanti con le sue attività.
Il superiore del monastero era chiamato semplicemente Maestro. Aveva un ufficio non lontano dall’area comune. L’ufficio non era privato, poiché fungeva anche da biblioteca del monastero e da aula scolastica. La stanza senza finestre era arredata con diversi banchi di legno di costruzione semplice e solida e con sgabelli di legno. Contornavano le pareti scaffali pieni di libri e di rotoli. La stanza odorava di cuoio e pergamena e inchiostro e dell’olio che i monaci strofinavano sul legno dei banchi.
Il Maestro era il monaco più anziano. Ottant’anni di età, viveva nel monastero da oltre sessanta di quegli anni, essendovi entrato all’età di sedici anni. Sebbene rispondesse al Profeta di Majere, che era il capo di tutti i monaci di Majere in tutto il continente di Ansalon, il Maestro aveva incontrato il Profeta soltanto una volta, vent’anni prima, nel giorno in cui era stato consacrato Maestro.
Due volte l’anno il Maestro redigeva una relazione scritta sugli affari del monastero, una lettera che veniva recapitata al Profeta da uno dei monaci. Il Profeta rispondeva con una lettera che confermava il ricevimento della relazione, e questo era l’unico scambio che avessero i due fino alla lettera successiva. Non vi erano andirivieni fra i monasteri, né scambi di notizie fra un monastero e l’altro. Tanto isolati erano i monasteri che i monaci di uno avevano spesso scarse conoscenze su dove fosse ubicato un altro. I monaci itineranti avevano il permesso di sostare in un monastero, ma i più sceglievano di non farlo, poiché, quando uscivano nel mondo, di solito per un viaggio personale e spirituale, avevano l’ordine di camminare fra la gente.
I monaci di Majere non avevano interesse per notizie dei loro confratelli. Non avevano interesse per la politica di nessuna nazione, non si schieravano in alcuna guerra o conflitto e, per questo motivo veniva loro chiesto spesso di fare da negoziatori di pace o da giudici nelle dispute. Le relazioni annuali redatte dal Maestro erano spesso poco più che un’annotazione delle morti tra i confratelli, una registrazione di coloro che erano entrati di recente e di coloro che erano usciti nel mondo. Vi era anche una breve descrizione delle condizioni atmosferiche e di come queste avessero influito sulle coltivazioni o sul raccolto, nonché delle eventuali aggiunte o variazioni apportate agli edifici del monastero.
I cambiamenti e i rivolgimenti del mondo esterno avevano un effetto tanto scarso sul monastero che una lettera scritta dal Maestro di un monastero nel 4000 PC sarebbe parsa simile a una redatta dal Maestro dello stesso monastero secoli dopo.
Rhys arrivò nell’ufficio e trovò nella stanza tre persone col Maestro: un uomo e una donna di mezza età, che apparivano afflitti e a disagio; e un giovane, che indossava le vesti di chierico di Kiri-Jolith, il quale sorrideva, a proprio agio. Rhys si fermò sulla soglia. Aveva l’impressione che in quelle persone vi fosse qualcosa di familiare, gli sembrava di conoscerle. Rhys attese in silenzio che il Maestro lo notasse.
Il Maestro ostentava lunghi capelli grigi che gli ricadevano sulle spalle. Aveva il viso raggrinzito come una mela d’inverno, con gli zigomi alti, la mascella forte e il naso prominente. Aveva gli occhi scuri e penetranti. Era un Maestro di Disciplina e nel monastero non vi era un monaco, nemmeno Rhys, che potesse superarlo nel combattimento.
Il Maestro stava ascoltando pazientemente l’uomo di mezza età, il quale parlava tanto rapidamente che Rhys non riusciva a distinguere quell’accozzaglia di parole. La donna stava in piedi accanto a lui in silenzio e annuiva per dirsi d’accordo, gettando di quando in quando un’occhiata ansiosa verso il giovane. La voce e il modo di parlare dell’uomo erano familiari a Rhys. Finalmente il Maestro guardò verso di lui e Rhys si inchinò. Gli occhi del Maestro tremolarono in risposta, ma lui continuò a rivolgere la sua piena attenzione ai visitatori.
Finalmente l’uomo di mezza età si fermò per riprendere fiato. La donna si asciugò gli occhi. Il giovane sbadigliò, apparentemente annoiato. Il Maestro si volse verso Rhys.
«Venerabile», disse Rhys, inchinandosi profondamente verso il Maestro. Si inchinò di nuovo verso gli sconosciuti. «Compagni viandanti.»
«Questi sono i tuoi genitori», annunciò il Maestro senza preamboli, rispondendo alla domanda che Rhys non aveva espresso. «E questo è il tuo fratello minore, Lleu.»
Rhys rivolse verso di loro il suo sguardo calmo. «Papà, mamma», disse educatamente. «Lleu.» Si inchinò di nuovo.
Suo padre si chiamava Petar, sua madre Brandwyn. Suo fratello, Lleu, era un bambino quando lui se n’era andato di casa.
Il volto di suo padre arrossì di collera. «Dopo quindici anni, è tutto quello che hai da dire ai tuoi genitori?»
«Zitto, Petar», lo rabbonì la madre, posando la mano sul braccio del marito. «Che cosa dovrebbe dire Rhys? Noi siamo degli sconosciuti per lui.»
Rivolse a Rhys un lieve sorriso. Non era in collera, come il padre, soltanto stanca per il viaggio, e sconvolta per qualche guaio che l’aveva indotta a percorrere tutta quella distanza per andare a cercare un figlio che a malapena ricordava, un figlio che non aveva mai capito.
Bran, il primogenito, era stato il suo preferito. Il piccolo Lleu, il suo beniamino. Rhys era il bambino di mezzo che non si era mai inserito bene. Era il bambino tranquillo, il bambino «diverso». Perfino di aspetto era diverso, con gli occhi scuri e i capelli neri e il corpo snello e asciutto; un forte contrasto con i fratelli biondi dalle ossa grosse.
Il padre guardò Rhys da sotto le sopracciglia aggrottate. Rhys sostenne il suo sguardo, e il padre abbassò gli occhi. Petar Mason, ormai con i capelli grigi ma dai capelli di stoppa in gioventù, non si era mai sentito a proprio agio con Rhys. Anche se Petar adorava la moglie, forse persisteva in lui qualche dubbio, forse nemmeno riconosciuto, sul fatto che il figlio di mezzo, tanto diverso dagli altri due, non fosse realmente sua progenie. Rhys era evidentemente figlio di sua madre, poiché aveva preso dalla famiglia di lei. Gli zii erano tutti uomini scuri e asciutti. Del padre lui non aveva niente. Ciò nonostante, la madre trovava difficile amare quel bambino, che parlava raramente e non rideva mai.
Rhys non serbava animosità nei confronti dei genitori. Capiva. Aveva sempre capito. Attese in silenzio paziente che gli spiegassero il motivo della loro visita. Anche il Maestro attese in silenzio, poiché aveva detto tutto quanto fosse necessario. La madre di Rhys guardò ansiosa il padre, che era in agitazione, snervato. Il silenzio si fece fastidioso, almeno per i visitatori. I monaci talvolta passavano giornate intere senza parlare, e né il Maestro né Rhys ne erano infastiditi. Fu il fratello minore alla fine a parlare.
«Vogliono parlarti di me, Rhys», spiegò Lleu con un tono disinvolto, eccessivamente familiare, irritante. «E non possono con me qui. Vado a fare un giro in cortile. Col vostro permesso, naturalmente», soggiunse, rivolgendosi con un sorriso al Maestro. «Anche se non penso che voi abbiate molto da nascondere. C’è qualche possibilità che il vostro Dio Insetto mi procuri un bicchiere di liquore dei nani?»
«Lleu!» esclamò il padre, inorridito.
«Immagino di no.» Lleu fece l’occhiolino a Rhys e uscì dalla biblioteca per andare a bighellonare, fischiettando un motivetto osceno.
Rhys e il Maestro si scambiarono occhiate. Majere era chiamato da alcuni Dio Mantide, poiché la mantide religiosa era sacra a Majere ed era usata dal dio come suo simbolo, poiché la mantide sembra essere sempre nell’atto di pregare, restando ferma e zitta, ma ha la capacità di attaccare rapidamente la preda. Il giovane era, stando al suo abbigliamento, un chierico di Kiri-Jolith. Certamente non si comportava da chierico di Kiri-Jolith, il quale era severo e serio e non avrebbe tollerato un sacrilegio quale chiamare Majere «Dio Insetto».
«Chiedo scusa, Maestro», disse Petar, e il colore rosso del volto gli si accentuò, ma adesso per l’imbarazzo, non per la collera. Si deterse il viso con la manica. «Nessuno dei miei figli è stato educato a parlare con quel tono ai sacerdoti. Tu lo sai, Rhys.»
Rhys lo sapeva. Suo padre, la cui madre era stata chierica di Paladine, era sempre stato rispettoso degli dèi e di ogni sacerdote. Perfino nell’epoca in cui gli dèi se n’erano andati, Petar aveva insegnato ai suoi ragazzi a conservarli nel cuore.
«Lleu è cambiato, Rhys», esordì Brandwyn, con voce tremante. «È per questo che siamo venuti qui. Noi... noi non lo riconosciamo più! Passa il suo tempo nelle taverne, a bere e a fare baldoria e a bazzicare un gruppo di giovani furfanti e prostitute. Perdonatemi, padre», soggiunse, arrossendo, «se dico queste cose».
Gli occhi scuri del Maestro tremolarono di divertimento. «Noi monaci di Majere facciamo voto di castità, ma non siamo ignari della vita. Capiamo ciò che avviene fra un uomo e una donna, e nella maggior parte dei casi lo approviamo. Altrimenti saremmo presto a corto di monaci.»
I genitori di Rhys sembravano perplessi riguardo a questo discorso. Lo trovavano vagamente sconcertante.
«Vostro figlio, stando al suo abbigliamento, è un chierico di Kiri-Jolith», osservò il Maestro.
«Non per molto», disse gravemente Petar. «I chierici lo hanno scacciato. Lui ha violato molte loro leggi. Non dovrebbe indossare quelle vesti, ormai, ma sembra divertirsi a rendersi sciocco.»
«Noi non sappiamo che fare», soggiunse Brandwyn con un groppo alla gola. «Abbiamo pensato che forse Rhys potrebbe parlargli...»
«Dubito di avere molta influenza su un fratello che evidentemente non ha alcun ricordo di me», commentò dolcemente Rhys.
«Male non può fargli», disse il padre, sul punto di incollerirsi di nuovo.
«Per favore, Rhys», supplicò la madre. «Siamo disperati. Non sappiamo dove sbattere la testa!»
«Certamente, gli parlerò», disse gentilmente Rhys. «Volevo soltanto avvertirvi di non aspettarvi troppo. Ma farò di più che parlargli. Pregherò per lui.»
I suoi genitori parvero sollevati, speranzosi. Il Maestro offrì loro una camera per la notte e li invitò a condividere il semplice pasto serale dei monaci. I genitori di Rhys accettarono con gratitudine e andarono in camera a riposarsi, esausti per il viaggio e per la loro ansia.
Rhys stava per andare alla ricerca del fratello quando si sentì toccare lo spirito, in maniera chiara come sentirsi toccare il braccio.
«Sì, Maestro?»
«Lleu è la propria ombra», disse il Maestro.
Rhys rimase sbigottito, turbato. «Che cosa volete dire, Venerabile?»
«Non lo so», ammise il Maestro aggrottando la fronte. «Non ne sono sicuro. Non ho mai visto niente di simile. Devo pensarci su.» Rivolse lo sguardo verso Rhys, ed era uno sguardo serio, penetrante. «Parlagli, fratello, in ogni caso. Ma stai attento.»
«È giovane e pieno di buonumore, Maestro», disse Rhys. «La vita di un chierico non è per tutti.»
«C’è qualcosa di più», lo avvertì il Maestro. «Molto di più. Stai attento, Rhys», disse, ed era insolito per lui pronunciare il nome di Rhys. «Io mi dedico alle mie preghiere, se hai bisogno di me.»
Il Maestro si sedette a gambe incrociate sul pavimento dell’ufficio. Posandosi le mani sulle ginocchia, chiuse gli occhi. Sul volto del vecchio discese un’aria di riposo pacifico. Era col suo dio.
Majere non aveva luoghi di culto formali, né templi pieni di panche, né altari. Il mondo è il tempio di Majere, il cielo il suo grande soffitto a volta, le colline erbose le sue panche, gli alberi i suoi altari. Non si cercava il dio dentro un ambiente formale ma si guardava dentro di sé, dovunque ci si trovasse.
Rhys lasciò il Maestro alle sue preghiere e uscì a cercare il fratello. Non ne vide traccia, ma udendo abbaiare i cani Rhys si diresse da quella parte. Voltando l’angolo del deposito, giunse in vista dell’ovile e lì vi era suo fratello.
Le pecore erano tutte ammassate assieme all’estremità opposta del recinto. Atta si trovava fra Lleu e le pecore. La cagna aveva gli orecchi all’indietro, muoveva la coda lentamente da un lato all’altro, teneva le zampe rigide e scopriva i denti.
«Bestia schifosa!» Lleu imprecava contro di lei. «Vai fuori dai piedi!»
Fece per scalciare selvaggiamente ma Atta fece un lieve balzo di lato, evitando facilmente lo stivale dell’uomo. Furioso, Lleu cercò di colpirla con la mano.
Atta gli diede un morso e Lleu emise un grido di dolore. Tirò indietro la mano, guardando con rabbia il taglio rosso che ne percorreva il dorso.
«Atta, stai giù», ordinò Rhys.
Con sua sorpresa, Atta rimase in piedi, tenendo gli occhi marroni fissi su Lleu. La cagna ringhiò, arricciando il labbro.
«Atta, giù!» disse di nuovo Rhys, severamente.
Atta si stese sul ventre. Sapeva da questo tono insolitamente forte che Rhys era contrariato. La cagna rivolse al padrone uno sguardo supplichevole come per dire: «Non ti arrabbieresti se capissi.» Spostò lo sguardo attento di nuovo verso Lleu.
«Quel cane demoniaco mi ha aggredito!» gridò Lleu, col volto contorto da uno sguardo torvo. Teneva l’altra mano su quella ferita, massaggiandosela. «Quella bestia è cattiva. Bisognerebbe tagliarle la gola.»
«Il compito del cane è proteggere le pecore. Tu non dovevi infastidirle, e nemmeno dovevi cercare di scalciarla o colpirla. Quel morso è stato un avvertimento, non un attacco.»
Lleu guardò la cagna con occhio torvo, quindi mormorò qualcosa e distolse lo sguardo. Atta continuò a osservarlo con circospezione, e gli altri cani erano desti e stavano in allerta, col pelo intorno al collo sollevato. La cagna madre diede dei morsi ai cuccioli, che volevano giocare, facendo loro sapere che questo era il momento di stare seri. Rhys trovò strana la reazione dei cani. Si sarebbe pensato che vi fosse un lupo in cerca di preda.
Rhys scrollò il capo. Non era un esordio favorevole a una conversazione confidenziale tra fratelli.
«Fammi vedere dove ti ha morso», propose Rhys. «L’infermiere ha degli unguenti che possiamo metterci su per impedire che si infetti, anche se in genere i morsi di cani guariscono in maniera pulita. Più pulita dei morsi umani.»
«Non è niente», disse Lleu con tono imbronciato. Continuò a premersi la mano sulla ferita.
«Ha i denti aguzzi», disse Rhys. «Il taglio sanguinerà.»
«No, davvero. È solo un graffio. Io ho avuto una reazione eccessiva.» Lleu infilò le mani nelle maniche della veste sacerdotale che non aveva più il diritto di portare. Soggiunse, con una smorfia: «Presumo che papà ti abbia mandato fuori a farmi la predica sui miei peccati».
«Se è così, resterà deluso. Non sta a me dire a qualcun altro come vivere la propria vita. Ti darò dei consigli, se saranno richiesti, ma nient’altro.»
«Bene, allora, fratello, i tuoi consigli non sono richiesti», tagliò corto Lleu.
Rhys alzò le spalle, in segno di accettazione.
«Voi confratelli qui che fate per divertirvi?» domandò Lleu, dando un’occhiata inquieta al campo di addestramento. «Dov’è la cantina? Voi monaci fate tutti il vostro vino, così mi dicono. Andiamo a stappare una bottiglia.»
«Il vino che facciamo lo usiamo per scopi medicinali», spiegò Rhys, soggiungendo, mentre Lleu strabuzzava gli occhi per il disgusto: «Mi pare di ricordare che da bambino ti piacesse sentire racconti di battaglie e guerrieri. Da chierico di Kiri-Johth sei un guerriero addestrato. Forse ti interessa apprendere qualche nostro metodo di combattimento?».
A Lleu si illuminò il volto. «Ho sentito dire che voi monaci avete uno stile poco ortodosso. Non usate armi, soltanto le mani. È vero?»
«In un certo senso», disse Rhys. «Vieni con me nei campi. Ti darò una dimostrazione.»
Fece un gesto ad Atta, congedandola dal servizio e rimandandola con gli altri cani. Lleu si unì a lui e si diressero verso il campo di addestramento. Rhys udì dietro di sé uno zampettare e voltò la testa.
Atta lo stava seguendo. Di nuovo aveva disobbedito al suo comando.
Rhys si fermò. Non disse niente, si limitò ad accigliarsi, in modo che lei vedesse dalla sua espressione che non era contento. Fece un gesto energico, indicando il recinto.
Atta mantenne la posizione. I suoi occhi marroni incrociarono quelli di lui. Sapeva che gli stava disobbedendo. Gli stava chiedendo di fidarsi di lei.
Rhys rammentò un altro caso in cui lui e Atta stavano cercando una pecora smarrita nel mezzo di una fitta nebbia. Lui le aveva ordinato di scendere a valle, pensando che l’animale seguisse il percorso più facile. Atta si era rifiutata, insistendo ostinatamente per salire lungo la collina. Rhys si era fidato di lei, e Atta aveva avuto ragione.
Lleu rideva. «Chi dei due è stato addestrato?» domandò con un sorriso malizioso.
Rhys guardò Lleu, rammentò l’osservazione del Maestro. Lleu è la propria ombra. Rhys continuava a non capire, ma forse Atta vedeva più chiaramente di lui nella nebbia.
Rhys fece il gesto che diceva al cane di stare alle sue calcagna. Allungò la mano e toccò leggermente Atta sulla testa, facendole sapere che tutto andava bene.
Atta gli ficcò il naso nella palma della mano, quindi rimase indietro di un passo, trotterellando tranquillamente alle sue calcagna.
«Tu porti una spada, vedo», disse Rhys al fratello. «Sei bravo a usarla?»
Lleu si lanciò in un resoconto entusiastico dell’addestramento con i cavalieri di Solamnia. Rhys osservò il fratello parlare, guardandolo da vicino, ascoltando soltanto in parte metà le sue parole e cercando di vedere ciò che avevano visto il Maestro e Atta. Si rese conto, mentre camminavano, di avere già percepito che in Lleu qualcosa non andava. Altrimenti non l’avrebbe condotto nei campi per mostrargli l’arte della disciplina benevola. Rhys avrebbe potuto condurre il fratello nel cortile di esercitazione, dove facevano pratica i monaci, ma aveva preferito di no.
Il cortile di esercitazione non era un luogo sacro, se non per il fatto che tutti i luoghi sono sacri a Majere, e non era nemmeno segreto. Eppure Rhys si sentiva più a suo agio col fratello fuori all’aperto, lontano dal monastero. Ombra o no, Lleu era un influsso fastidioso, che forse si sarebbe dissipato nella brezza rinfrescante, sotto il cielo limpido.
«È vero che noi non usiamo armi fatte d’acciaio», spiegò Rhys, in risposta alla domanda precedente. «Usiamo però delle armi, quelle che ci forniscono la natura e Majere.»
«Per esempio?» lo incalzò Lleu.
«Per esempio questa.» Rhys indicò l’emmide.
«Un bastone?» Lleu diede un’occhiata severa alla lunga e sottile asta di legno. «Contro una spada? Neanche una possibilità in tutto l’Abisso!»
«Proviamo», lo invitò Rhys indicando con un gesto la spada che il fratello portava al fianco. «Sguaina la tua arma e vienimi incontro.»
«Non è proprio equo...» protestò Lleu. Con un gesto indicò loro due. «Siamo della stessa altezza, ma io sono più pesante di te. Sono più grosso di spalle, più muscoloso. Potrei farti male.»
«Correrò il rischio», insistette Rhys.
Di carnagione scura, snello, non aveva carne in eccesso. Era tutto ossa, tendini e muscoli, mentre nel fratello poteva vedere i segni rivelatori della sua vita dissipata. I muscoli di Lleu erano flaccidi, il volto aveva un colore pallido, malsano.
«Benissimo, allora, fratello», sorrise Lleu. «Ma non dire che non ti avevo avvertito... specialmente quando ti staccherò il braccio.»
Rilassato e sicuro di sé, Lleu sguainò la spada e assunse la posizione di combattimento, con l’arma nella mano destra. Atta era stesa a terra all’ombra di un albero. Vedendo quell’uomo in procinto di aggredire il suo padrone, ringhiò e si alzò.
«Atta, seduta», comandò Rhys. «Va tutto bene», soggiunse per rassicurazione.
Atta si sedette, ma evidentemente non era contenta, poiché non si mise a sonnecchiare, come avrebbe fatto se lui fosse stato lì a fare pratica di tecniche di combattimento con un altro monaco. Rimase sveglia, vigile, con lo sguardo fisso sul padrone. Rhys rivolse la sua attenzione di nuovo al fratello. Vedendo Lleu con la spada in mano, Rhys si rammentò del morso della cagna. Guardò con preoccupazione la mano del fratello, sperando che non gli facesse troppo male.
Lleu aveva cercato di colpire Atta con la mano destra, la mano che reggeva l’arma. Rhys vedeva molto chiaramente i segni lasciati dai denti di Atta. La cagna non aveva morsicato forte l’uomo, solo quel tanto che bastava per indurlo a pensarci bene prima di avvicinarla. Comunque la ferita appariva profonda, anche se non aveva sanguinato molto, a quanto pareva, poiché non vi erano macchie di sangue sulla pelle né sulla manica della veste. Rhys non vedeva bene la ferita, poiché la mano del fratello continuava a muoversi, ma notò che aveva un aspetto insolito, più di livido che di taglio, poiché la ferita aveva uno strano colore viola-bluastro.
Rhys rimase tanto sconcertato da questo fatto che continuò a fissare la ferita, anziché osservare il fratello, e fu colto di sorpresa quando Lleu balzò all’improvviso contro di lui, abbassando la spada con un movimento di taglio, inteso a sfondare un elmo o un cranio e concludere in fretta il combattimento.
Lleu mise nel colpo tutta la sua forza. Rhys, tenendo l’emmide con entrambe le mani, sollevò il bastone sopra la testa per opporsi alla spada. La lama colpì l’emmide. Il bastone resistette, anche se l’impatto di quel colpo devastante scosse le braccia di Rhys e si riverberò in tutto il corpo. Rhys sentì la forza del colpo perfino nei denti. A quanto pareva, aveva giudicato male il fratello. Quei muscoli non erano tanto flaccidi come sembravano.
Il volto di Lleu si contorse in un ringhio. I muscoli delle braccia gli si gonfiarono, gli occhi gli brillarono. Si aspettava che la lama facesse a pezzi quel bastone fragile, ed era irritato e frustrato perché il suo attacco era stato respinto. Sollevò la spada sopra la testa, intendendo colpire di nuovo il bastone.
Rhys scattò con i piedi nudi: prima uno, poi l’altro, colpendo Lleu al plesso solare.
Lleu gemette e si accartocciò, lasciando cadere la spada.
Rhys indietreggiò, aspettando che il fratello si riprendesse.
«Mi hai colpito con i piedi!» ansimò Lleu, drizzandosi lentamente e massaggiandosi lo stomaco.
«Già», rispose Rhys.
«Ma...» Lleu esitò. «Non è valido!»
«Forse no in un torneo di cavalieri», concordò educatamente Rhys. «Ma se io combatto per salvarmi la vita, uso ogni arma a mia disposizione. Raccogli la spada. Riprovaci se vuoi.»
Lleu afferrò la spada e si scagliò contro Rhys. La lama della spada ebbe un bagliore rosso sotto il sole calante. Lleu portò colpi di punta e di taglio, combattendo più con forza che con abilità, poiché lui era un chierico, che solo di recente era giunto a maneggiare la spada, non un cavaliere addestratosi per gran parte della vita.
Rhys non fu mai in pericolo. Avrebbe potuto concludere il combattimento quasi prima che incominciasse con un colpo di punta al ventre, una percossa alla testa o un altro calcio ben mirato. Non voleva far del male al fratello, ma ben presto vide che Lleu non aveva simili remore. Lleu era oltraggiato, ferito tanto nell’orgoglio quanto nel corpo. Con pazienza, Rhys parò i colpi di Lleu, che si facevano sempre più frenetici e disperati, e attese la sua occasione.
Abbassandosi per schivare uno dei colpi di taglio portati con traiettoria arcuata da Lleu, Rhys infilò l’emmide tra le gambe del fratello, sgambettandolo. Lleu cadde pesantemente sulla schiena. Riuscì a trattenere la spada, ma uno strattone dell’emmide fece volare in aria l’arma mandandola a cadere nell’erba vicino ad Atta.
Lleu imprecò e balzò in piedi.
«Atta, fai la guardia», comandò Rhys, indicando la spada.
La cagna balzò in piedi, sistemandosi davanti all’arma.
La mano di Lleu scattò verso la cintola. Estraendo un coltello, balzò verso la cagna.
Rhys afferrò la mano che teneva il coltello e strinse l’avambraccio di Lleu, premendo le dita in profondità nelle parti molli del polso.
La mano di Lleu di botto si afflosciò. Il coltello cadde a terra.
Rhys si chinò, raccolse il coltello e se lo infilò alla cintola.
«La paralisi è solo temporanea», spiegò Rhys al fratello, che fissava la mano sbalordito e ammutolito per la sorpresa. «Entro qualche minuto ti ritornerà la sensibilità alle dita. Questo era un combattimento amichevole. Almeno così pensavo io.»
Lleu si accigliò, quindi parve vergognarsi. Carezzandosi la mano inutilizzabile, indietreggiò, allontanandosi dalla cagna.
«Volevo solo spaventare quel cagnaccio pulcioso, tutto qui. Non gli avrei fatto del male.»
«Questo è vero», disse Rhys. «Non avresti fatto del male ad Atta. Adesso saresti steso a terra con la gola squarciata.»
«Mi sono lasciato trasportare, ecco tutto», proseguì Lleu. «Ho dimenticato dov’ero, pensavo di trovarmi sul campo di battaglia.» Soggiunse freddamente: «Posso riavere la mia spada e il mio coltello? Prometto di trattenermi».
Rhys gli porse il coltello. Recuperando la spada e sottraendola alla custodia della cagna, la diede al fratello, che la prese con la mano sinistra. Lleu guardò l’arma, accigliandosi: «Continuo a pensare che avrei dovuto spezzare quel tuo bastone. Questa maledetta lama deve essere smussata. La farò affilare quando torno a casa».
«Non c’è niente che non vada nella lama», disse Rhys.
«Bah! Certo che c’è!» esclamò Lleu con scherno. «Non mi dirai che quello stecco resiste a una spada lunga!»
«Questo "stecco" ha resistito a innumerevoli spade nell’arco di cinquecento anni», rispose Rhys. «Vedi queste intaccature?» Sollevò il bastone per farlo esaminare da Lleu. «Sono state fatte da spade e mazze e ogni genere di armi d’acciaio. Nessuna l’ha spezzato e nemmeno danneggiato granché.»
Lleu parve disorientato. «Avresti potuto dirmi che questo maledetto bastone era magico. Per forza ho perso!»
«Non sapevo che fosse una questione di vincere o perdere», ribatté Rhys dolcemente. «Pensavo fosse una dimostrazione di tecniche di combattimento.»
«Come ho detto, mi sono lasciato trasportare», mormorò Lleu. Dimenò la mano destra. Adesso riusciva muovere le dita e infilò la spada nel fodero. «Penso che basti come dimostrazione per oggi. Quand’è che si mangia qui? Sto morendo di fame.»
«Fra poco», rispose Rhys.
«Bene. Vado a lavarmi. Ci vediamo a cena.» Lleu si girò, poi gli venne in mente qualcos’altro e si voltò di nuovo. «Ho sentito dire che voi monaci vivete solo di erbe e bacche. Non è vero, spero.»
«Avrai una buona cena», lo rassicurò Rhys.
«Ci conto!» Lleu lo salutò con un gesto e si allontanò. Apparentemente era tutto dimenticato, perdonato.
Lleu si fermò perfino per scusarsi con Atta, grattandole la testa. La cagna accettò la carezza, ma solo dopo un cenno col capo da parte di Rhys, e si scrollò tutta nel momento in cui Lleu si allontanò, come per togliersi ogni traccia di lui. Trotterellando verso Rhys, gli premette il muso sulla gamba e lo guardò con i suoi espressivi occhi marroni.
«Che c’è, ragazza?» domandò Rhys, frustrato. La strofinò dietro gli orecchi. «Che cos’hai contro di lui, a parte il fatto che è giovane e incosciente e ha un’opinione troppo alta di sé? Vorrei che tu potessi farmi sapere ciò che pensi. D’altronde, c’è un motivo per cui gli dèi hanno fatto gli animali muti.»
Lo sguardo turbato di Rhys seguì la figura di suo fratello che avanzava sul prato. «Noi non potremmo sopportare di sentire le verità che ci direste.»
Rhys non ritornò subito al monastero. Lui e Atta andarono al torrente che forniva acqua a uomini e bestie e si sedettero sull’erba sotto i salici. Atta si rotolò su un fianco e si mise a dormire, esausta per i rigori di una giornata trascorsa a fare la guardia prima alle pecore e poi al suo padrone. Seduto a gambe incrociate sulla riva, Rhys chiuse gli occhi e si diede al proprio dio, Majere. I sospiri del vento tra i rami dei salici e il dolce canto serale dei fringuelli si mescolavano al ridacchiare del torrente, alleviando le preoccupate congetture sullo strano comportamento del fratello di Rhys.
Malgrado il fatto che lui non avesse impartito lezioni al fratello e non gli avesse cambiato la vita all’istante, come suo padre aveva sperato, Rhys non riteneva di avere fallito. I monaci di Majere non vedono la vita in termini di successo e fallimento. Non si fallisce mai in un compito. Semplicemente non si ha successo. E poiché ci si sforza sempre di avere successo, fintanto che si prosegue lo sforzo non si può mai fallire veramente.
Né Rhys provava risentimento verso i genitori per avere scaricato questa responsabilità addosso a lui: a un figlio a cui probabilmente non pensavano più da quindici anni. Vedeva che erano disperati. Rhys si sentiva male perché avrebbe dovuto dire loro che lui non poteva farci niente. Avrebbe prima parlato col Maestro, naturalmente, ma Rhys sapeva che cosa gli avrebbe detto il monaco anziano. Lleu era adulto. Aveva scelto il suo cammino da percorrere. Poteva essere persuaso con consigli saggi e con l’esempio, ma se ciò non lo trasformava, nessuno aveva il diritto di sbarrargli la strada o di costringerlo a mutare cammino o a cambiare direzione, anche se tale cammino fosse stato autodistruttivo. Lleu doveva scegliere di cambiare, altrimenti sarebbe tornato presto sulla stessa strada. Così insegnava Majere, e così credevano i monaci.
Suonò la campana che annunciava l’ora della cena. Rhys non si mosse. I monaci avevano l’obbligo di essere presenti a colazione, quando si discutevano eventuali questioni legate al monastero. L’ora della cena era informale e coloro che preferivano continuare a meditare o a lavorare avevano il permesso di farlo. Rhys sapeva di dover partecipare, ma lo infastidiva abbandonare la sua solitudine pacifica.
Suo fratello e i suoi genitori sarebbero stati lì e si sarebbero aspettati che lui sedesse con loro. L’incontro sarebbe stato fastidioso. Avrebbero voluto parlare con lui di suo fratello, ma sarebbero stati riluttanti a discutere di Lleu in presenza degli altri monaci. E così la loro conversazione si sarebbe limitata a questioni familiari: le attività lavorative del padre, la notizia della nascita dell’ultimo nipote da parte di sua madre. Poiché Rhys non sapeva niente di tutto questo, e in verità non gli interessava, non avrebbe dato alcun contributo. Loro non sarebbero stati particolarmente interessati alla sua vita. La conversazione si sarebbe inceppata e prima o poi smorzata in un silenzio teso.
«Io sono più utile qui», si disse Rhys.
Rhys rimase col suo dio, unendosi a lui; la mente dell’essere umano si liberava del corpo per toccare la mente della divinità, un contatto che il Maestro paragonava alla manina minuscola del neonato che si agita e trova e stringe forte un dito della mano enorme di suo padre. Rhys presentò a Majere le proprie preoccupazioni riguardo a Lleu, passando al vaglio i molti interrogativi nella sua mente e in quella del dio, sperando di trovare risposte, sperando di trovare qualche modo per essere d’aiuto.
Discese tanto in profondità nel suo stato meditativo che perse ogni cognizione del tempo. A poco a poco, una fitta fastidiosa, come l’inizio di un mal di denti, divenne tanto irritante che Rhys fu costretto a prestarvi attenzione. Provando una vera riluttanza e tristezza per essere costretto a ritornare nel mondo degli uomini, si separò dal dio. Aprì gli occhi, percependo che qualcosa non andava.
Dapprima non riuscì a capire che cosa. Tutto sembrava a posto. Il sole era tramontato, era calata l’oscurità. Atta dormiva pacificamente sull’erba. Niente cani che abbaiassero, niente allarmi dall’ovile o dalla stalla, niente odore di fumo che indicasse un incendio. Eppure qualcosa non andava.
Rhys balzò in piedi, e il suo movimento improvviso fece sussultare Atta, che si rigirò sul ventre, gli orecchi tesi, gli occhi spalancati.
Allora Rhys capì. La campana dell’addestramento con le armi non aveva suonato.
Rhys per un attimo dubitò di se stesso. Il suo orologio interno poteva ben essere stato sballato dal suo profondo stato meditativo. Eppure un’occhiata alla posizione della luna e delle stelle gli confermò il suo calcolo. In tutti i quindici anni che aveva trascorso al monastero e in tutti gli anni di esistenza del monastero stesso la campana dell’addestramento aveva suonato ogni sera alla stessa ora immancabilmente.
Rhys fu colto dalla paura. L’addestramento era una parte importante della disciplina praticata dai monaci. Un’interruzione dell’addestramento poteva essere normale in qualunque altro luogo. Un’interruzione nell’addestramento dei monaci era devastante, catastrofica. Rhys raccolse l’emmide e con Atta ritornò di corsa al monastero. Aveva una visione notturna ben sviluppata per il fatto di dover fare pratica con le armi nell’oscurità profonda durante i mesi invernali, e conosceva ogni centimetro di terreno. Sapeva (e una volta gli era capitato) ritrovare la strada di ritorno in una nebbia fitta nella notte più buia. Questa sera la luce argentea di Solinari illuminava il cielo scuro e le stelle vi aggiungevano la loro pallida radiosità. Rhys vedeva chiaramente la strada.
Fu sul punto di ordinare ad Atta di tornare all’ovile. Decise invece, quando aveva ormai il comando sulle labbra, di tenerla con sé, almeno fino a quando avesse saputo che cosa non andava.
Arrivò nel cortile del monastero e trovò tutto silenzioso e pacifico: brutto segno. I monaci dovevano essere nel campo di addestramento, ad ascoltare un maestro dare dimostrazione di una tecnica oppure a fare pratica con i compagni. Rhys avrebbe dovuto udire il rumore dei colpi di emmide e di asta, i grugniti degli sforzi, i tonfi quando un compagno ne abbatteva un altro. E per tutto il tempo le voci dei maestri che rimproveravano, correggevano, lodavano.
Rhys si guardò rapidamente attorno. Una luce gialla fuoriusciva dalle finestre della sala da pranzo dove venivano serviti i pasti ai monaci. Già questo non andava bene. A quest’ora della sera le luci venivano spente, i tavoli erano puliti, i taglieri di legno e le stoviglie, i bollitori e le pentole erano lavati e pronti per la colazione dell’indomani. Rhys si diresse da quella parte, sperando in qualche spiegazione logica. Gli venne in mente che il Maestro poteva essere a colloquio con i suoi familiari e questo avrebbe impedito agli altri monaci di procedere all’addestramento perché lui aveva bisogno della loro assistenza. Un simile evento era completamente fuori norma, ma non fuori dell’ambito delle possibilità.
La porta principale conduceva alla sala di ritrovo del monastero. Rhys vide dalle finestre che era buia, come doveva essere a quest’ora della sera. Spinse la porta per aprirla e stava per entrare quando Atta emise un suono strano: una sorta di gemito spaventato. Rhys abbassò lo sguardo verso di lei, preoccupato. I due lavoravano assieme da cinque anni e lui non l’aveva mai sentita emettere quel rumore. La cagna guardava la stanza oscurata. Rabbrividì e gemette di nuovo.
Lì davanti vi era qualcosa di terribile. Non fuorilegge o predoni o ladri. Non un orso entrato barcollando nell’edificio, com’era accaduto una volta. La cagna avrebbe saputo come reagire in questo caso. Era qualcosa che lei non capiva, ed era terrificante.
Rhys avanzò di un passo, lento e cauto.
Tutto era silenzioso. Nessuna voce si levava e si abbassava con un saggio consiglio. Non si sentivano voci di nessun genere. L’aria era pervasa da un odore fetido, come nella camera di un ammalato.
L’istinto di Rhys era di correre dentro per vedere che cosa fosse successo. La disciplina e l’addestramento frenarono tale impulso. Lui non aveva modo di sapere che cosa vi fosse lì davanti. Fece un gesto ad Atta per dirle «avvicinati» e la cagna rallentò il passo, si accovacciò e avanzò lentamente al suo fianco. Rhys afferrò l’emmide ed entrò furtivamente nella sala di ritrovo, senza fare alcun rumore con i piedi nudi.
La sala di ritrovo si apriva sulla sala da pranzo. All’interno ardevano luci e Rhys, sebbene non vedesse nulla tranne l’estremità di una panca, udì un rumore debole, un rumore strano, una sorta di mormorio. Non riuscì a distinguere parole, se vi erano parole.
Avanzò con cautela, ascoltando e tenendo d’occhio la sala davanti a sé. Poteva confidare in Atta perché l’avvertisse se qualcuno o qualcosa fosse stato sul punto di balzare contro di lui dal buio. Rhys però non aveva alcuna sensazione della presenza di qualcuno appostato in questa sala. Il pericolo stava nella luce, pareva, non nelle ombre. L’odore nauseabondo si intensificò.
Rhys raggiunse la sala da pranzo. Il fetore lo fece restare senza fiato, e lui si mise la mano sopra il naso e la bocca. La voce mormorante adesso era più forte, ma tanto bassa che lui ancora non riusciva a distinguere ciò che stava dicendo, né riusciva a individuare la persona che parlava. Restando subito dentro la soglia, in modo da poter vedere senza essere visto, Rhys guardò nella sala da pranzo.
Si fermò, inorridito.
Nel monastero vivevano diciotto monaci. Il loro numero era stato maggiore nei tempi passati, oltre quaranta negli anni successivi alla Guerra delle Lance. La popolazione del monastero era diminuita durante la Quinta Era, quando ce n’erano stati soltanto cinque, e soltanto adesso incominciava a riprendersi. I monaci cenavano in fraterna compagnia a un grande tavolo rettangolare costituito da un lungo tavolato di legno disposto su cavalletti di legno. I monaci sedevano su panche di legno, nove su ciascun lato.
In questo giorno vi erano soltanto diciassette monaci, poiché Rhys aveva preferito saltare la cena. Vi erano gli ospiti, però: i genitori e il fratello di Rhys. Si sarebbero seduti a tavola con i monaci, condividendo il loro semplice pasto. Venti persone in tutto.
Di quei venti, diciannove giacevano a terra, morti.
Rhys guardò sconvolto quella scena terribile, la sua disciplina fatta a pezzi, la sua ragione dispersa come le foglie nella tempesta. Si guardò attorno stupefatto, incapace di rendersi conto di quell’orrore, incapace di comprendere ciò che era successo.
Anche se una sola occhiata gli bastò per capire che tutti erano morti, corse verso il Maestro e si inginocchiò accanto a lui, posando la mano sul collo dell’uomo nella remota speranza che potesse ancora rimanere un debole palpito di vita.
Gli bastò guardare il corpo contorto del monaco anziano, la spaventosa torsione dei muscoli facciali, la lingua gonfia e il contenuto dello stomaco svuotato per capire che il Maestro era morto e che era morto tra le sofferenze.
Tutti i monaci avevano sofferto la stessa morte orribile. Alcuni, a quanto pareva, si erano alzati nel momento in cui avevano avvertito i primi sintomi e avevano cercato di raggiungere la porta. Altri giacevano accanto alla panca su cui erano seduti. I corpi di tutti i monaci erano orribilmente contorti. Il pavimento era fetido e vischioso per il vomito. Questo e le lingue gonfie rivelavano la causa della loro morte: erano stati avvelenati.
Anche i genitori di Rhys erano morti. La madre era distesa sulla schiena. L’espressione congelata sul volto morto era quella di chi avesse capito all’improvviso una verità orrenda. Il padre era riverso bocconi, con un braccio spinto in fuori, come se nei suoi ultimi istanti avesse cercato di afferrare qualcuno.
Suo figlio. Il figlio minore.
Lleu era vivo e secondo tutte le apparenze in perfetta salute. Era sua la voce che Rhys aveva udito mormorare.
«Lleu!» gracidò Rhys, con la bocca secca, la gola tanto strozzata che lui non riconobbe il suono della propria voce.
Sentendo il proprio nome, Lleu smise di mormorare. Si girò verso il fratello.
«Non sei venuto a cena», disse.
Si scostò dalla panca, si alzò in piedi. La sua voce era calma. Si sarebbe potuto trovare nella propria cucina, a chiacchierare con un amico. Non nel mezzo di una catastrofe.
È pazzo, pensò Rhys. L’orrore lo ha fatto impazzire.
Eppure, nonostante tutto, Lleu non aveva l’aria di un pazzo.
«Non avevo voglia di mangiare», disse Rhys. Doveva restare calmo, cercare di scoprire che cosa stesse succedendo.
Lleu sollevò una scodella di minestra e la porse al fratello. «Devi essere affamato. Faresti meglio a cenare.»
A Rhys si strinse il cuore. Capì in quel momento che cosa fosse successo, proprio come suo padre e sua madre l’avevano capito prima di morire. Ma il perché di tutto questo era ben oltre la portata di Rhys quanto la faccia scura di Nuitari. Alle sue spalle udì il ringhio di Atta, e tese la mano in un gesto protettivo, ordinandole di restare dov’era.
Rhys tenne lo sguardo fisso sul fratello. Lleu aveva le vesti in disordine, aveva graffi sul viso e sul petto. Forse suo padre era riuscito a mettere le mani sul figlio assassino prima di essere colto dalla morte.
Lleu aveva il petto nudo, su cui vi era uno strano segno: l’impronta delle labbra di una donna, marchiata a fuoco nella carne. Rhys notò la stranezza di quel marchio, nient’altro. L’orrore glielo tolse dalla mente, e lui se ne dimenticò.
«Sei stato tu», lo accusò Rhys, con la voce rotta. Indicò i morti.
Lleu diede un’occhiata attorno ai cadaveri e ricondusse lo sguardo verso il fratello. Alzò le spalle, come per dire: «Sì. E allora?».
«E adesso vuoi avvelenare me.» Rhys con la mano stringeva il bastone tanto forte che incominciò ad avere crampi alle dita. Si costrinse ad allentare la presa.
Lleu valutò la questione. «Non è che "voglio", ma "devo", fratello.»
«Devi avvelenarmi.» Rhys si sforzò di mantenere freddo e uniforme il tono della voce. Adesso capiva che il fratello non era pazzo, che dietro le uccisioni vi era qualche terribile spiegazione razionale. «Perché? Perché l’hai fatto?»
«Lui mi avrebbe ostacolato», spiegò Lleu. Rivolse lo sguardo al corpo del Maestro. «Quel vecchio lì. Lui sapeva la verità. Gliel’ho letto negli occhi.»
Lleu tornò a guardare Rhys. «L’ho letto anche nei tuoi occhi. Tutti voi avreste cercato di ostacolarmi.»
«Ostacolarti in che cosa, Lleu?» domandò Rhys.
«Nel portare discepoli al mio dio», rispose Lleu.
«Kiri-Jolith?» domandò Rhys incredulo e sbigottito.
«Non quel guastafeste chiacchierone», schernì Lleu. Un’espressione di soggezione gli addolcì il volto. Con voce riverente disse: «Il mio signore Chemosh».
«Sei un seguace del Signore della Morte.»
«Sì, fratello», ammise Lleu. Gettò di nuovo sul tavolo la ciotola di minestra e si alzò dalla panca. «Puoi essere anche tu un suo seguace.»
Lleu allargò le braccia. «Abbracciami, fratello. Abbraccia me e la vita eterna, la giovinezza eterna, il piacere eterno.»
«Sei stato ingannato, Lleu.»
Rhys spostò i piedi, afferrò l’asta con entrambe le mani e si mise in posizione marziale. Lleu non portava la spada: i monaci gli avrebbero impedito di portare una spada nel monastero. Era in preda a un’estasi religiosa, però, e questo lo rendeva pericoloso.
«Chemosh non vuole farti avere niente di tutto questo. Cerca solo il tuo annientamento.»
«Al contrario, io ho già tutto quanto mi è stato promesso», disse allegramente Lleu. «Niente può farmi del male.»
Voltandosi di nuovo verso il tavolo, sollevò una scodella di minestra e la fece vedere a Rhys. «Questa è la mia. Vuota. Io ho mangiato la cicuta acquatica come tutti questi poveri sciocchi. Dovevo mangiarla, è ovvio, altrimenti si sarebbero insospettiti. Loro sono morti. Io no.»
Poteva essere una menzogna, una spacconata, ma Rhys dedusse dal tono e dall’espressione del fratello che non lo era. Lleu aveva detto la verità. Aveva ingerito il veleno ed era illeso. Rhys pensò all’improvviso al morso della cagna, all’assenza di sangue.
Lleu gettò nuovamente con noncuranza la scodella sul tavolo. «La mia vita è fatta di agi e di piaceri. Non conosco né fame né sete. Chemosh mi fornisce tutto. Non ho bisogno di niente. Tu puoi conoscere la stessa vita, fratello.»
«Io non voglio quella vita», disse Rhys. «Se è "vita" quella che dici tu.»
«Allora immagino che faresti meglio a morire», ribatté Lleu con tono indifferente. «In un modo o nell’altro, Chemosh ti avrà. Gli spiriti di tutti coloro che muoiono di morte violenta vanno a lui.»
«Io non ho paura della morte. La mia anima andrà al mio dio», rispose Rhys.
«Majere?» Lleu ridacchiò. «A lui non interessa. Sarà da qualche parte a guardare un bruco arrampicarsi su un filo d’erba.» Il tono di Lleu mutò, si fece minaccioso. «Majere non ha né la volontà né la forza per fermare Chemosh. Così come a questo vecchio mancava la forza per fermare me.»
Rhys guardò i morti, guardò il viso orribilmente contorto del Maestro, e provò un improvviso moto di collera. Lleu aveva ragione. Majere avrebbe potuto fare qualcosa. Avrebbe dovuto fare qualcosa per impedire tutto questo. I suoi monaci avevano dedicato a lui la loro vita. Avevano lavorato e avevano fatto sacrifici. Nel momento del bisogno, il dio li aveva abbandonati. Loro lo avevano invocato nell’agonia, e lui era stato sordo alle invocazioni.
Ai monaci di Majere veniva ordinato di non schierarsi in nessun conflitto. Forse il dio stesso si rifiutava di schierarsi in questo. Forse le anime dell’amato Maestro e dei confratelli dovevano combattere da sole contro il Signore della Morte.
La collera si torceva dentro Rhys, ribollente e serrata e dal sapore amaro. Collera verso il dio, collera verso se stesso.
«Sarei dovuto essere qui. Avrei potuto impedire tutto questo.»
Rhys aveva addotto a giustificazione la scusa di essere stato col proprio dio, ma in verità la sua egoistica brama di pace e tranquillità gli aveva impedito di essere dove c’era bisogno di lui. Poiché sia lui sia Majere avevano tradito coloro che avevano riposto fede in loro, diciannove persone erano morte.
Lottò con se stesso, rimproverandosi, e allo stesso tempo combatté contro la furia che gli faceva prudere le mani per la voglia di afferrare il fratello assassino e strangolarlo. Rhys era tanto impegnato nella sua lotta interiore che distolse gli occhi da Lleu.
Il fratello fu lesto a trarne vantaggio. Afferrando la pesante ciotola di terracotta, la scagliò con tutta la sua potenza.
La ciotola colpì Rhys in mezzo agli occhi. Il dolore gli esplose nel cranio, un dolore incandescente con un fuoco dalle sfumature gialle, al punto che lui non riusciva più a pensare. Il sangue gli colò sul viso, negli occhi, accecandolo. Rhys barcollò, si aggrappò al tavolo per rimanere in piedi. Ebbe l’impressione nebulosa che Lleu si scagliasse su di lui e un’altra impressione di un corpo bianco e nero che gli sfrecciasse accanto. Rhys sentì in bocca il sapore del sangue. Stava cadendo e allungò la mano per arrestare la caduta, allungò la mano verso il Maestro...
Un monaco in veste arancione era in piedi davanti a Rhys. Il volto del monaco gli era familiare, anche se non l’aveva mai visto prima. Il monaco aveva una rassomiglianza col Maestro e allo stesso tempo con tutti gli altri confratelli del monastero. Il monaco aveva occhi calmi e tranquilli, un’aria dolce.
Rhys lo conosceva.
«Majere...» sussurrò Rhys, sgomento.
Il dio lo guardò fisso, senza rispondere.
«Majere!» Rhys esitò. «Ho bisogno del vostro consiglio. Ditemi che cosa devo fare.»
«Lo sai che cosa devi fare, Rhys», disse calmo il dio. «Prima devi seppellire i morti e poi devi purificare questa stanza dalla morte, cosicché tutto sia pulito alla mia vista. Al mattino ti alzerai col sole e reciterai le tue preghiere a me, come al solito. Poi dovrai abbeverare il bestiame e portare fuori le vacche e i cavalli al pascolo e condurre le pecore nei campi. Quindi estirpare le erbacce nell’orto...»
«Pregare voi, Maestro? Pregare per che cosa? Tutti loro sono morti e voi non avete fatto niente!»
«Pregare per tutto ciò per cui preghi sempre, Rhys», proseguì il dio. «Perfezione di corpo e mente. Pace e tranquillità e serenità...»
«Mentre seppellisco i corpi morti dei miei confratelli e dei miei genitori», ribatté rabbiosamente Rhys, «prego voi per la perfezione!».
«E per accettare con pazienza e comprensione le vie del tuo dio.»
«Io non l’accetto!» rispose Rhys, con la collera e l’angoscia attorcigliate dentro di lui. «Io non l’accetto. Chemosh ha fatto questo. Va fermato!»
«Altri si occuperanno di Chemosh», ribatté imperturbabile Majere. «Il Signore della Morte non è affar tuo. Guarda dentro di te, Rhys, e cerca l’oscurità dentro la tua anima. Portala alla luce prima di cercare di lottare con l’oscurità degli altri.»
«E Lleu? Deve essere consegnato alla giustizia...»
«Lleu dice la verità quando afferma che Chemosh lo ha reso invincibile. Tu non puoi fare nulla per fermarlo, Rhys. Lascialo andare.»
«E così voi vorreste farmi rimanere qui nascosto, al sicuro dentro queste mura, a badare alle pecore e a pulire le stalle, mentre Lleu se ne va in giro a commettere altri omicidi in nome del Signore della Morte? No, Maestro», obiettò arcigno Rhys. «Io non mi tirerò indietro e non lascerò che altri si assumano quella che è la mia responsabilità.»
«Sei con me da quindici anni, Rhys», disse Majere. «Ogni giorno, in questo mondo sono stati commessi omicidi e anche peggio. Hai forse cercato di impedirne qualcuno? Hai forse cercato giustizia per queste altre vittime?»
«No», riprese Rhys. «Forse avrei dovuto.»
«Guarda dentro il tuo cuore, Rhys», rispose. «Ciò che cerchi è giustizia o vendetta?»
«Cerco risposte da parte vostra!» gridò Rhys. «Perché non avete protetto i vostri eletti contro mio fratello? Perché li avete abbandonati? Perché io sono vivo e loro no?»
«Ho le mie ragioni, Rhys, e non sono tenuto a comunicarti queste ragioni. La fede in me significa che tu accetti ciò che è.»
«Non posso», ribadì Rhys, con uno sguardo furioso.
«Allora non posso aiutarti», disse il dio.
Rhys rimase in silenzio, dentro di lui la battaglia infuriava. «Così sia», concluse bruscamente e si voltò.
Rhys si svegliò da un sogno profondamente inquietante, in cui rinnegava il suo dio, percependo un dolore pulsante e una luce tremula e una lingua ruvida e umida che gli leccava la fronte. Aprì gli occhi. Atta era sopra di lui, uggiolava e gli leccava la ferita. Rhys spinse delicatamente via la cagna e cercò di mettersi a sedere. Lo stomaco gli si rivoltò, e lui vomitò. Tornò a distendersi con un gemito. La rigorosa seduta di allenamento dei monaci spesso aveva come conseguenza qualche ferita. Imparare a curare simili ferite e a sopportare il dolore era considerato una parte importante del loro addestramento. Rhys riconobbe i sintomi di una frattura al cranio. Il dolore era acuto e lui bramava arrendersi a questo, sprofondare nuovamente nell’oscurità, dove avrebbe trovato sollievo. Le vittime che facevano così, però, spesso non si risvegliavano più. Rhys non si sarebbe forse risvegliato, se non fosse stato per Atta.
Le accarezzò gli orecchi, mormorò qualcosa di inintelligibile, e vomitò di nuovo. La testa gli si snebbiò un po’ e lui fu inondato da un ricordo amaro, assieme alla consapevolezza del pericolo in cui si trovava.
Si mise rapidamente a sedere, digrignando i denti per il dolore acuto, e cercò il fratello.
La sala era buia, troppo buia per vedere. Quasi tutte le grosse candele di cera d’api si erano spente. Ne rimanevano accese soltanto due e le loro fiamme ondeggiavano nella cera fusa.
«Sono rimasto in stato di incoscienza per ore», mormorò stordito. «E dov’è Lleu?»
Sbattendo gli occhi per il dolore, cercando di mettere a fuoco lo sguardo, diede una rapida occhiata attorno alla sala ma non vide traccia del fratello.
Atta uggiolò, e Rhys la coccolò. Cercò di ricordare ciò che era successo, ma l’ultima cosa che rammentasse era l’accusa di suo fratello a Majere: non ha né la volontà né la forza per fermare Chemosh.
Una delle candele scoppiettò e si spense con uno sfrigolio. Rimaneva accesa soltanto una fiamma minuscola. Rhys accarezzò gli orecchi serici della cagna e non ebbe bisogno di domandarsi perché Lleu non l’avesse assassinato mentre lui era in stato di incoscienza.
Rhys non doveva cercare lontano il suo salvatore. Atta stava distesa con la testa in grembo a Rhys e lo guardava ansiosamente con i suoi occhi marrone scuro.
Rhys aveva visto Atta fare la guardia alle pecore durante un attacco al gregge da parte di un coguaro, mettendo il proprio corpo fra le pecore e il coguaro, affrontandolo intrepida, e i suoi occhi marroni avevano incrociato e sostenuto lo sguardo del felino dagli occhi gialli, finché questo si era voltato e se ne era andato furtivamente.
Rhys chiuse gli occhi assonnato, coccolando Atta e immaginandola sopra il suo padrone in stato di incoscienza, a fissare minacciosamente Lleu, col labbro arricciato per fargli vedere i denti aguzzi che presto sarebbero potuti sprofondare nella sua carne.
Lleu sarà stato invincibile, come affermava lui, ma poteva comunque provare dolore. L’urlo che aveva lanciato quando Atta l’aveva morso era stato piuttosto reale. E poteva immaginarsi vividamente che cosa significava sentirsi affondare quei denti aguzzi nella gola.
Lleu aveva desistito ed era fuggito. Scappare... scappare a casa...
Atta abbaiò e balzò in piedi, svegliando Rhys con uno scrollone.
«Che succede?» chiese lui, mettendosi a sedere, teso e impaurito.
Atta abbaiò di nuovo e Rhys udì un altro abbaiare, lontano, proveniente dall’ovile. Quell’abbaiare era inquieto, ma non era un avvertimento. Gli altri cani percepivano che qualcosa non andava. Atta continuò ad abbaiare e Rhys si domandò che cosa cercasse di dire loro, come avrebbe descritto questo orrore perpetrato dall’uomo sull’uomo.
Si svegliò di nuovo scoprendo che Atta abbaiava verso di lui.
«Hai ragione, ragazza. Non posso», mormorò. «Non posso dormire. Devo restare sveglio.»
Si costrinse ad alzarsi, usando la panca per tirarsi su. Trovò l’emmide a terra accanto a lui, subito prima che la fiamma dell’ultima candela annegasse nella propria cera e si spegnesse, lasciandolo nell’oscurità rischiarata dalla luna, circondato da morti.
Il dolore pulsante alla testa gli rendeva difficile pensare. Si concentrò sul dolore e prese a modellarlo e conformarlo e comprimerlo, pressandolo per ridurlo a una palla che diventava sempre più piccola quanto più lui ci lavorava sopra. Quindi prese la pallina di dolore e la collocò dentro un armadio nella sua mente e chiuse lo sportello. Chiamata Pallina di Creta, era una delle molte tecniche elaborate dai monaci per affrontare il dolore.
«Majere», iniziò la cantilena rituale senza pensare. «Invio i miei pensieri in alto fra le nubi...»
Si interruppe. Le parole non significavano nulla. Erano vuote, non racchiudevano alcun senso. Rhys guardò nel proprio cuore dove il dio era sempre stato e non lo trovò. Ciò che vi era lì era brutto e orrendo. Rhys guardò a lungo dentro di sé. La bruttura rimaneva, una macchia sulla perfezione.
«Così sia», disse tristemente.
Appoggiandosi al bastone, avanzò barcollando verso la porta. Atta lo seguì a passi felpati.
Prima di tutto Rhys doveva accertarsi di che cosa ne fosse stato di Lleu. Riteneva possibile che il fratello fosse appostato da qualche parte nel monastero, a tendergli un’imboscata per offrire l’ultima vittima a Chemosh. La logica imponeva che Rhys perlustrasse le stalle, per vedere se mancassero un cavallo o un carro. Rimase in allerta mentre procedeva, scrutando attentamente in ogni ombra, fermandosi ad ascoltare se vi fosse rumore di passi. Guardava spesso Atta. La cagna era tesa perché percepiva la tensione del padrone ed era guardinga perché lui era guardingo. Non dava però segni che vi fosse qualcosa di strano.
Rhys andò prima alla stalla, dove i monaci tenevano qualche vacca e i cavalli aratori. Il carro guidato dai suoi genitori era ancora lì, parcheggiato all’esterno. Rhys entrò con cautela nella stalla, col bastone alzato, quasi aspettandosi che Lleu l’aggredisse dall’oscurità.
Non vide niente, non udì niente. Atta seppellì il naso nella paglia sparsa sul pavimento, ma questo probabilmente perché di solito non le era consentito di entrare nella stalla ed era affascinata dagli odori. I cavalli da tiro di suo padre erano nei box. Il cavallo su cui era arrivato Lleu no.
Lleu se n’era andato, allora. Tornato a casa. Andato in qualche altra città o villaggio o fattoria isolata. Andato a convertire qualcun altro a Chemosh.
Rhys rimase fermo nella stalla, ad ascoltare il respiro pesante degli animali che sonnecchiavano, il fruscio dei pipistrelli sulle travi, il grido di un gufo. Udiva i rumori della notte e udiva, molto più forti, i rumori che non avrebbe udito mai più: l’urto dell’emmide sul bastone di un confratello, le discussioni animate nella sala del riscaldamento in inverno, il quieto mormorio di voci in preghiera, il suono della campana che aveva scandito la sua giornata e contrassegnato la sua vita con lunghi e netti solchi che solo poche ore prima si estendevano nel futuro finché Majere non avesse condotto la sua anima verso la successiva fase del viaggio.
I solchi adesso erano frastagliati e intersecati, l’uno sull’altro in confusione, e non conducevano da nessuna parte.
Aveva perso tutto. Non gli restava più nulla tranne un dovere. Un dovere verso se stesso e i suoi genitori assassinati e i suoi confratelli. Un dovere verso il mondo che per quindici anni lui aveva evitato e che adesso era arrivato su di lui per vendicarsi.
«Vendicarsi», ripeté a bassa voce, vedendo di nuovo la bruttura dentro di sé.
Trovare Lleu.
Rhys uscì dalla stalla e si diresse verso il monastero. La testa gli martellava. Soffriva di capogiri e di voltastomaco e aveva difficoltà a mettere a fuoco lo sguardo. Non osava distendersi, come bramava. Doveva restare sveglio. Per tenersi sveglio si sarebbe dato da fare, e vi era un lavoro da eseguire.
Un lavoro macabro. Seppellire i morti.
«Ti serve aiuto, fratello», disse una voce alle sue spalle.
Atta balzò subito contro quel suono. Contorcendo il corpo a mezz’aria, atterrò sulle zampe, con il pelo attorno al collo sollevato, i denti scoperti in un ringhio.
Rhys sollevò l’emmide e sferzò l’aria attorno per vedere chi avesse parlato.
Dietro di lui vi era una donna. Per l’aspetto e per l’abito era straordinaria. Aveva i capelli chiari come la spuma del mare e in moto continuo, così come la veste verde che le si increspava sul corpo e le scendeva morbida ai piedi. Era bellissima, calma e serena come il torrente del monastero in piena estate, eppure nei suoi occhi grigio-verdi vi era qualcosa che parlava di inondazioni impetuose e ghiaccio nero.
Era completamente al buio, eppure lui la vedeva chiaramente per via della sua radiosità interiore che sembrava dire: «Io non ho bisogno della luce della luna o delle stelle. Io sono la mia luce, la mia tenebra, a mia scelta».
Rhys si trovava in presenza di una dea e, dai filamenti di conchiglie che lei portava fra i capelli spettinati, sapeva quale.
«Non mi serve aiuto, vi ringrazio, Signora del Mare», disse Rhys, pensando che fosse strano per lui conversare con calma con una dea come se parlasse con una lattaia del villaggio.
Abbassando lo sguardo sui rottami del suo mondo che aveva fra le mani, pensò all’improvviso che non era poi tanto strano.
«Posso seppellire da solo i miei morti.»
«Non parlo di questo», disse irritata Zeboim. «Parlo di Chemosh.»
Rhys allora capì perché lei fosse venuta. Però non sapeva come rispondere.
«Chemosh tiene prigioniero tuo fratello», proseguì la dea. «Una somma sacerdotessa del Dio della Morte, una donna di nome Mina, ha assoggettato tuo fratello a un potente incantesimo.»
«Che genere di incantesimo?» domandò Rhys.
«Io...» Zeboim si interruppe, sembrando trovare difficoltà a proseguire. L’ammissione venne fuori con grande dolore. «Io non lo so», bofonchiò. «Non riesco a scoprirlo. Qualunque cosa stia facendo Chemosh, sta prestando molta attenzione a celarlo agli altri dèi. Tu potresti scoprirlo, monaco, essendo tu mortale.»
«E come potrei io scoprire i segreti di Chemosh meglio degli dèi?» domandò Rhys. Si portò la mano alla testa. Il dolore filtrava fuori dall’armadio.
«Perché tu sei un acaro, una pulce, una zanzara. Uno fra milioni. Tu puoi confonderti tra la folla. Andare di qui, andare di là, fare domande. Il dio non ti noterà mai.»
«Sembra che siate voi ad avere bisogno di me, mia signora», replicò stancamente Rhys. «Non viceversa. Atta, vieni.» Si girò, riprese a camminare.
La dea era lì davanti a lui. «Se vuoi saperlo, monaco, io l’ho persa. Voglio che tu mi aiuti a trovarla.»
Rhys la fissò, perplesso. La testa gli doleva al punto che lui a malapena riusciva a pensare. «Trovarla? Chi?»
«Mina, naturalmente», rispose Zeboim, esasperata. «La sacerdotessa che ha reso schiavo il tuo disgraziato fratello. Te ne ho parlato. Prestami attenzione. Se trovi lei trovi le risposte.»
«Grazie per le informazioni, mia signora», disse Rhys. «E adesso devo seppellire i miei morti.»
Zeboim piegò all’indietro la testa, lo guardò da sotto le lunghe ciglia. Un sorriso le increspò le labbra. «Tu non sai nemmeno chi sia questa Mina, vero, monaco?»
Rhys non rispose. Girando sui talloni, si allontanò da lei.
«E che cosa sai dei morti viventi?» Zeboim lo inseguì, parlando incessantemente. «Di Chemosh? Lui è forte e potente e pericoloso. E tu non hai alcun dio che ti guidi, che ti protegga. Sei da solo. Se tu accettassi di lavorare per me, io so essere molto generosa...»
Rhys si fermò. Atta, accucciandosi, gli strisciò dietro le gambe.
«Che cosa volete, mia signora?»
«La tua fede, il tuo amore, il tuo servizio», disse Zeboim, con voce bassa e dolce. «E sbarazzati del cane», soggiunse aspramente. «A me non piacciono i cani.»
Rhys ebbe un’improvvisa visione di Majere in piedi davanti a lui, che lo guardava con un’espressione addolorata e allo stesso tempo comprensiva. Majere non disse una parola a Rhys. Il cammino doveva percorrerlo lui. La scelta doveva compierla lui.
Rhys si abbassò per toccare la testa ad Atta. «Mi tengo il cane.»
Gli occhi grigi della dea balenarono pericolosamente. «Chi sei tu per contrattare con me, verme di un monaco?»
«A quanto pare voi conoscete la risposta, mia signora», ribatté stancamente Rhys. «Siete stata voi a venire da me. Io vi servirò», soggiunse, vedendola gonfiarsi d’ira, come le nubi nere ribollenti di un temporale estivo, «fintanto che i vostri interessi coincideranno con i miei».
«Coincideranno, te lo assicuro.»
Gli mise le mani sul viso e lo baciò, un bacio lungo e persistente, sulle labbra.
Rhys non si scompose, anche se le labbra gli pizzicavano come acqua salata in una ferita recente. Non rispose al bacio.
Zeboim lo spinse via.
«Tieniti il bastardino, allora», sbottò irritata. «Ora, la prima cosa che devi fare è trovare Mina. Voglio... Dove stai andando, monaco? La strada è da quella parte.»
Rhys aveva ripreso il cammino verso il monastero. «Ve l’ho detto. Devo prima seppellire i miei morti.»
«No!» Zeboim si infiammò. «Non c’è tempo per simili sciocchezze. Devi partire subito per la tua missione!»
Rhys continuò a camminare.
Un fulmine piombò giù dal cielo senza nubi, accecando Rhys, colpendo tanto vicino a lui da sfrigolargli nel sangue e fargli rizzare i capelli e i peli delle braccia. Accanto a lui scoppiò un tuono immane, che lo assordò. Il terreno tremò e Rhys cadde in ginocchio. Pezzi di macerie piovvero attorno a loro. Atta guaiva e gemeva.
Zeboim indicò un enorme cratere.
«Ecco una fossa, monaco. Seppellisci i tuoi morti.»
Gli voltò le spalle con un fruscio di vento e un turbine di pioggia se ne andò.
«Che cosa ho fatto, Atta?» gemette Rhys, tirandosi su da terra.
Stando allo sguardo confuso nei suoi occhi, la cagna sembrava porgli la stessa domanda.
Rhys seppellì i morti nella tomba procurata dalla dea. Lavorò tutta la notte, ricomponendo i corpi con qualche parvenza di pace; trasportandoli, uno per uno, dalla sala da pranzo alla tomba; deponendoli nella terra tenera e umida. Quando tutti furono messi a riposo, Rhys prese il badile e incominciò a riempire di terra la tomba. Il dolore alla testa gli si era alleviato col bacio della dea, una grazia che Rhys non aveva nemmeno notato di avere ricevuto fino a quando lei se n’era andata.
Però era stanco nel corpo e nello spirito. Nessuna grazia avrebbe potuto alleviare tutto questo. Forse la stanchezza spiegava l’impressione che il suo corpo fosse uno di quelli nella tomba. Le zolle cadevano sopra di lui. Veniva sepolto sotto di loro.
La notte era quasi finita quando Rhys gettò nella fossa comune l’ultima badilata di terra. Non recitò preghiere. Aveva rinunciato a Majere e dubitava che Zeboim fosse interessata al riguardo.
Aveva bisogno di dormire.
Rhys si girò e, chiamando Atta, andò nella sua cella, si gettò sul materasso, e dormì.
Si svegliò all’improvviso, non al rintocco della campana, ma alla sua dolorosa assenza.
Una volta messi a riposo i morti, Rhys doveva pensare ai vivi. Non poteva iniziare il suo viaggio abbandonando il bestiame, lasciandolo morire di fame o cadere preda di animali selvatici. La cura degli animali adesso era sua responsabilità. Lui e Atta e gli altri cani pastori condussero le pecore e le vacche per cinquanta chilometri fino al villaggio più vicino, percorrendo l’intera distanza sotto un acquazzone torrenziale che faceva delle strade una zuppa di fango. Zeboim evidentemente non era compiaciuta di quel ritardo.
L’ultima volta che Rhys aveva percorso quella strada era stata quindici anni prima, quando si era diretto al monastero. Da allora non c’era più ritornato. In quindici anni non aveva mai lasciato il monastero. Guardò il mondo a cui ritornava e lo trovò bagnato, inzuppato, grigio e non molto cambiato. Gli alberi erano più alti. Le siepi erano più spesse. La strada sembrava più trafficata di prima, a indicare che il villaggio prosperava. Rhys incrociò alcune persone lungo la strada, ma erano piene delle loro preoccupazioni e non risposero al suo saluto, anche se diversi imprecarono contro di lui e il suo gregge perché ostruivano la strada e li bloccavano. Rhys si rammentava perché avesse abbandonato il mondo ed era dispiaciuto di ritornarvi. Dispiaciuto ma deciso.
Gli abitanti del villaggio accettarono con gratitudine il dono del monaco, anche se furono piuttosto allarmati quando Rhys disse loro che lo faceva perché gli altri monaci erano morti di malattia, lasciandolo unico sopravvissuto. Lui assicurò alla popolazione che non vi era pericolo di contagio. Questo e l’aspetto sano e ben nutrito delle vacche da latte e delle pecore fecero molto per persuadere gli abitanti ad accettare tranquillamente questa ricchezza inaspettata.
Rhys indugiò alla periferia del villaggio per osservare gli abitanti condurre le pecore al pascolo nei prati. Aveva dato loro anche i cani pastori. I fratelli e le sorelle di Atta girovagavano dietro il gregge, tenendolo unito e guidandolo su per la collina.
Atta sedeva al fianco di Rhys e guardava con occhi addolorati il branco di cani in cui era nata andarsene e lasciarla lì. Continuava a guardare con aria interrogativa Rhys, aspettando che lui le desse il comando di correre via e unirsi a loro. Rhys le accarezzò gli orecchi e le ordinò tranquillamente: «Stai qui».
Non aveva mai pensato di rinunciare a lei, nemmeno per ordine della dea. Atta lo aveva difeso quando lui non poteva difendersi. Aveva rischiato la propria vita per proteggere la sua. Fra loro vi era un legame che lui non poteva sopportare di spezzare. Aveva bisogno di almeno un compagno in cui riporre la propria fiducia. Fidarsi di Zeboim era fuori discussione.
Rhys ritornò al monastero. Ripulì la sala da pranzo di tutte le tracce orribili dell’assassinio. Fatto questo, ripulì la cucina. Non era sicuro che il veleno venisse lavato via e decise di non correre rischi. Ruppe tutte le stoviglie. Trasportò al torrente tutte le pentole e i bollitori, li appesantì con pietre e li affondò nella parte più profonda del corso d’acqua. Non lasciò alcuna traccia.
Eseguito quest’ultimo terribile compito, si aggirò per l’ultima volta negli edifici che erano orribilmente, dolorosamente silenziosi. I beni più preziosi dei monaci erano i loro libri, e questi Rhys li rinchiuse in un luogo sicuro finché non si fosse trovato un rappresentante del Profeta di Majere che venisse a prenderli. Rhys si sarebbe fermato al primo tempio di Majere per inviare un messaggio al Profeta. Nel frattempo confidava che il dio avrebbe fatto la guardia alle sue cose.
Rhys non aveva beni personali, a parte l’emmide che era un dono del Maestro di sette anni prima. L’emmide era un oggetto sacro, costruito col legno di un albero di agrifoglio considerato sacro a Majere. Poiché Rhys aveva voltato le spalle al dio, non riteneva giusto conservare il dono del dio. Lasciò l’emmide nella biblioteca con i libri, appoggiandolo alla parete. Allontanandosi, gli sembrava di avere lasciato lì un proprio braccio.
Andò a letto, ma il sonno non gli giungeva, nonostante fosse stanchissimo. Non lo ossessionavano i fantasmi dei confratelli assassinati. Erano però tutti nel suo cuore. Vedeva davanti a sé i loro volti, udiva le loro voci. Udiva anche la dea impaziente che picchiava con la mano sul tetto. La pioggia cadde continua tutta la notte.
Rhys aveva programmato di partire prima dell’alba, ma poiché non riusciva a dormire poteva anche mettersi in cammino. In una bisaccia di cuoio infilò pane e carne essiccata e mele per sé e per Atta, si gettò la bisaccia sulle spalle e fischiò per chiamare Atta.
Poiché non arrivava, andò a cercarla, pensando di sapere dove trovarla.
La trovò distesa accanto all’ovile vuoto, con gli occhi tristi, a interrogarsi.
«Lo so come ti senti, ragazza», disse Rhys.
Fischiò di nuovo e Atta si alzò e lo seguì obbediente.
Rhys non si voltò a guardare.
La pioggia cessò nel momento in cui furono sulla strada. Una nebbia bassa sul terreno ricopriva la vallata. Il sole nascente era una misteriosa macchia rossa sfocata, la sua luce filtrava nella caligine grigia come attraverso un buratto. L’umidità gocciolava dalle foglie degli alberi e cadeva con un tonfo sordo sul terreno bagnato. Ogni altro rumore era attenuato e ovattato.
Rhys aveva molto a cui pensare durante il cammino. Lasciò ad Atta libertà di vagare, un regalo insolito per quella cagna abituata a lavorare sodo. Poteva schizzare nel sottobosco alla ricerca di conigli, abbaiare agli scoiattoli, sfrecciare lungo la strada davanti a Rhys, tornare di corsa con la lingua penzoloni e gli occhi lucidi. Quest’oggi non fece nulla di tutto questo ma trotterellò dietro di lui, con la testa china e la coda abbassata. Rhys sperava che lei si rianimasse una volta lontano dall’ambiente conosciuto, lontano dal persistente odore delle pecore e degli altri cani.
Quando aveva condotto il bestiame al villaggio, Rhys aveva interrogato gli abitanti, chiedendo loro se avessero visto passare di recente un chierico di Kiri-Jolith. Nessuno l’aveva visto. Rhys non lo trovò sorprendente. Il villaggio era situato a nord e a est del monastero, mentre la città di Staughton (dove risiedeva Lleu) era ubicata a sud. Non vi era motivo per cui Lleu non dovesse ritornare a Staughton. Poteva sempre escogitare qualche storia plausibile per spiegare la scomparsa dei genitori. Viaggiare di questi tempi era pericoloso, in particolare nell’Abanasinia, dove per la campagna vagavano banditi. A Lleu bastava inventarsi il racconto di un attacco da parte di rapinatori, in cui i suoi genitori sarebbero stati uccisi e lui stesso ferito, e gli avrebbero creduto.
Rhys camminava tanto immerso nei suoi pensieri che non avvertì la mancanza di Atta finché un topo di fogna non gli tagliò la strada senza essere inseguito dalla cagna. Rhys si fermò, chiamò e fischiò, ma Atta non comparve. Gli venne in mente che potesse essere ritornata assieme agli altri cani. Sarebbe stato naturale. Aveva compiuto la sua scelta, come lui aveva compiuto la propria. Doveva però andare a vedere di persona, doveva accertarsi che Atta fosse al sicuro. Tornando indietro, col cuore triste, quasi incespicò sulla dea, che con caratteristica impetuosità comparve senza preavviso davanti a lui, bloccandogli il cammino.
«Dove stai andando?» gli domandò.
«Vado prima di tutto a cercare il cane, mia signora», rispose Rhys, «e poi a Staughton alla ricerca di mio fratello».
«Lascia perdere il cane. E lascia perdere tuo fratello», ordinò imperiosamente Zeboim. «Voglio che tu vada a scovare Mina.»
«Mia signora...»
«Maestà, per te, monaco», precisò Zeboim con tono altezzoso.
«Non sono più un monaco, maestà.»
«Invece sì. Sarai il mio monaco. Majere può avere monaci. Perché io no? Naturalmente dovrai indossare vesti di colore diverso. I miei monaci porteranno il verde mare. Ora, monaco di Zeboim, che cosa stavi per dire?»
Rhys osservò le proprie vesti passare dall’arancione sacro di Majere a un verde che lui suppose rammentasse il mare. Lui non aveva mai visto il mare, per cui non poteva giudicare se fosse così o no. Si consigliò di portare pazienza, quindi inspirò profondamente prima di parlare.
«Come avete detto ieri, io non so nemmeno chi sia questa Mina. Non so niente di lei. Invece conosco mio fratello...»
«Mina era comandante dei Cavalieri delle Tenebre durante la Guerra delle Anime. Perfino voi monaci di clausura avrete sentito parlare della Guerra delle Anime», spiegò Zeboim, vedendo l’espressione assente di Rhys.
Rhys scrollò il capo. I monaci avevano udito i viandanti raccontare di una Guerra delle Anime, ma vi avevano prestato scarsa attenzione. Le guerre fra i vivi a loro non interessavano. E nemmeno le guerre fra i vivi e i morti.
Zeboim alzò gli occhi al cielo per l’ignoranza di lui. «Quando la mia onorata madre, Takhisis, si impadronì del mondo, raccolse un’orfana di nome Mina e ne fece una sua discepola. Mina andò in giro a diffondere la notizia di questo Unico Dio, operando miracoli spettacolari, uccidendo draghi e guidando un esercito di fantasmi. Così riuscì a convincere dei mortali sciocchi che lei sapeva di che cosa stesse parlando.»
«Allora Mina è una discepola di Takhisis», disse Rhys.
«Era.» Zeboim corresse il tempo del verbo. «Quando la mamma andò incontro alla giusta ricompensa per il suo tradimento, Mina pianse la sua dea e ne portò via il corpo. Era, secondo tutti i resoconti, pronta a porre fine alla sua miserabile vita, ma Chemosh ha deciso che avrebbe potuto sfruttarla. L’ha sedotta e lei adesso ha trasferito a lui la propria devozione. Mina è quella che ha trasformato quel povero imbelle di tuo fratello in un assassino. È lei che devi trovare. È una mortale e pertanto è l’anello debole nella catena di comando di Chemosh. Se fermi lei fermi lui. Lo ammetto, non sarà facile», riconobbe Zeboim, soggiungendo di malavoglia: «Quella ragazzetta ha un certo che di affascinante».
«E dove trovo questa Mina?» domandò Rhys.
«Se lo sapessi», Zeboim si infiammò, «pensi che mi preoccuperei di te? La sistemerei io. Chemosh la avvolge in una tenebra in cui nemmeno i miei occhi possono penetrare».
«E altri occhi? Gli altri dèi? Vostro padre, Sargonnas...»
«Quella vacca dal cranio intontito! È troppo immerso nelle sue preoccupazioni, così come tutti gli altri. Nessuno degli dèi ha la perspicacia di capire che Chemosh è diventato pericolosamente ambizioso. Intende impadronirsi della corona di mia madre. Progetta di sconvolgere l’equilibrio e fare sprofondare Krynn di nuovo in una guerra. Io sono l’unica che se ne renda conto», proruppe altezzosamente Zeboim. «L’unica che abbia il coraggio di sfidarlo.»
Rhys inarcò un sopracciglio. L’idea della crudele e calcolatrice Zeboim quale paladina degli innocenti era singolare. Rhys con inquietudine immaginò che vi fosse sotto dell’altro. Tutto questo aveva il sapore di una vendetta personale fra Zeboim e Chemosh. Lui sarebbe rimasto intrappolato nel mezzo, fra l’incudine dell’una e il martello dell’altro. E trovava difficile accettare il fatto che gli dèi della luce fossero ciechi di fronte a questo male. Ne avrebbe saputo di più, però, quando fosse stato nel mondo. Rimase in silenzio, pensieroso.
«Bene, fratello Rhys, che cosa aspetti? Ti ho detto tutto ciò che ti serve sapere. Muoviti!»
«Io non so dove sia Mina...» incominciò a dire Rhys.
«Andrai a cercarla», sbottò la dea.
«... ma so dov’è mio fratello», proseguì Rhys. «O per lo meno dove è probabile che sia.»
«Ti ho detto di lasciar perdere tuo fratello...»
«Quando troverò mio fratello», proseguì con pazienza Rhys, «gli chiederò di Mina. Auspicabilmente mi condurrà da lei o per lo meno mi dirà dove posso trovarla».
Zeboim aprì la bocca, la richiuse. «C’è una certa logica in questo», ammise di malavoglia. «Puoi continuare a cercare tuo fratello.»
Rhys si inchinò per ringraziarla.
«Ma non devi perdere tempo a cercare il tuo bastardino», soggiunse la dea. «E voglio che tu compia una leggera deviazione. Poiché hai a che fare con Chemosh, ti serve qualcuno che sia esperto di morti viventi. Tu non hai una tale conoscenza, mi pare.»
Rhys dovette ammettere di no. I monaci di Majere si interessavano alla vita, non alla morte.
«C’è una città a una trentina di chilometri da qui. In quella città vi è un cimitero. Troverai lì la persona che cerchi. Arriva ogni notte verso mezzanotte. È il mio dono per te», disse Zeboim, altamente compiaciuta di sé e della propria magnanimità. «Ti accompagnerà. Ti servirà il suo aiuto per affrontare tuo fratello, nonché gli eventuali altri seguaci di Chemosh che potresti incontrare.»
A Rhys non piaceva l’idea di un accompagnatore che non soltanto era un tirapiedi di Zeboim ma, a quanto pareva, trascorreva anche le sue notti nei cimiteri. Tuttavia non voleva discutere su questo argomento. Avrebbe almeno dato un’occhiata a questa persona e forse le avrebbe rivolto qualche domanda. Chiunque avesse conoscenza di morti viventi probabilmente avrebbe avuto conoscenza anche di Chemosh.
«Vi ringrazio, maestà.»
«Prego. Forse d’ora in poi avrai di me un’opinione più gentile.»
Mentre la dea incominciava a scomparire, dissolvendosi nelle nebbie mattutine, gli gridò: «Vedo il tuo bastardino che torna indietro lungo la strada. Sembra che tu abbia dimenticato qualcosa. Hai il mio permesso di aspettarlo».
Le nebbie si dissolsero, scaldate dal sole. Atta percorreva la strada verso di lui. Portava in bocca qualcosa. Rhys guardò stupefatto.
Atta aveva il suo bastone.
La cagna gli depose ai piedi l’emmide e alzò lo sguardo verso Rhys, dimenando l’intera parte posteriore del corpo, con la lingua penzoloni per quello che per lei era un sorriso.
Rhys si inginocchiò sulla strada, arruffando ad Atta gli orecchi e la folta pelliccia bianca del collo e del petto.
«Grazie, Atta», disse e soggiunse a bassa voce: «Grazie, Majere».
L’emmide gli dava una bella sensazione in mano, la sensazione di una cosa giusta e opportuna. Majere gliel’aveva restituito: un chiaro messaggio per dire che, anche se non avrebbe ricevuto ulteriori grazie dal Dio Mantide, per lo meno Rhys poteva contare sul perdono e sulla comprensione di Majere.
Rhys si alzò in piedi, con l’emmide in mano e la cagna al fianco. Una giornata di cammino li avrebbe condotti a quella città.
La notte li avrebbe presentati al dono di Zeboim.
Il cimitero era antico, risalente alla fondazione della città. Separato dal centro abitato, in un boschetto, il cimitero era ben curato, le lapidi erano in buone condizioni, le erbacce tagliate. Su alcune tombe erano stati piantati dei fiori che erano in boccio, e la loro fragranza profumava l’oscurità. Alcune tombe erano decorate con oggetti cari ai defunti. Su una tomba piccola era distesa una bambola di stracci.
Rhys si trovava nel boschetto, tenendosi in ombra, in attesa di osservare questo misterioso personaggio prima di parlargli. Atta sonnecchiava ai suoi piedi, rimanendo però vigile.
La notte si fece più profonda, approssimandosi al suo punto centrale, il passaggio da un giorno al successivo. I pipistrelli sfrecciavano in aria, banchettando con gli insetti. Rhys rivolse loro un sentito ringraziamento, poiché gli insetti stavano mangiando lui. Gridò un gufo, per far sapere che questo era territorio suo. In lontananza ne rispose un altro. Il cimitero era silenzioso, vuoto, a parte i morti immersi nel sonno.
Atta si alzò all’improvviso, con gli orecchi tesi, il corpo tremante, tesa e vigile. Rhys la toccò leggermente sulla testa e Atta rimase in silenzio al suo fianco.
Una persona entrò nel cimitero, vagando fra le lapidi, talvolta toccandole con mano, dando loro una pacca amichevole.
Rhys rimase sconcertato. Non sapeva che cosa aspettarsi: un chierico di Zeboim; forse un negromante o perfino un mago dalle Vesti Nere, seguace del dio nero Nuitari. Nelle sue fantasie più sfrenate Rhys non aveva previsto questo.
Un kender.
Il primo pensiero di Rhys fu che questo fosse il concetto di scherzo per Zeboim, ma la dea non gli aveva dato l’impressione di una incline a burle spensierate, visto soprattutto che era tanto impegnata nella ricerca di questa Mina. Rhys si domandò se il kender fosse davvero la persona che lui doveva incontrare o se il suo arrivo fosse una coincidenza. Rhys non diede credito a quest’ultima ipotesi dopo un attimo di riflessione. La gente di solito non va nei cimiteri in piena notte. Il kender era arrivato all’ora stabilita, e da come camminava e parlava doveva essere un visitatore frequente.
«Ciao, Simon Plowman», disse il kender, accovacciandosi comodamente accanto a una tomba. «Come stai oggi? Bene? Ti farà piacere sapere che il frumento è alto ormai quindici centimetri. Invece quel melo di cui ti preoccupavi non ha un bell’aspetto.»
Il kender si interruppe, come attendendo una risposta.
Rhys osservava, perplesso.
Il kender emise un sospiro malinconico e si alzò in piedi. Passò alla tomba successiva, quella con la bambola di stracci, e vi si sedette accanto.
«Ciao, Blossom. Vuoi giocare a pulce? Meglio una partita a khas? Ho con me il tabellone e tutti i pezzi. Be’, quasi tutti. Mi sembra di avere smarrito una torre.»
Il kender diede un colpetto a una sacca che portava su una spalla e guardò con attesa speranzosa la tomba.
«Blossom?» chiamò di nuovo. «Sei qui?»
Sospirò addolorato e scrollò il capo.
«Non serve», disse, parlando fra sé. «Nessuno parla con me. Se ne sono andati tutti.»
Quel piccoletto sembrava davvero tanto triste e affranto che Rhys fu spinto a commiserarlo. Se era pazzia, certamente aveva assunto una strana forma. Il kender però non sembrava pazzo. Appariva razionale e, pur sembrando piuttosto magro e smunto, come se non avesse abbastanza da mangiare, pareva discretamente in salute.
Portava i capelli annodati in alto, nella tipica acconciatura dei kender. La coda gli scendeva disordinatamente sulla schiena. Potava abiti di colori più smorzati del consueto per un kender, avendo addosso una maglia scura e pantaloni alla zuava scuri. (In questo Rhys si sbagliava. Nel buio gli parvero neri. In seguito avrebbe scoperto, alla luce del giorno, che erano di una sfumatura scura ma accesa di viola.)
Rhys adesso era curioso. Avanzò verso il cimitero, calpestando apposta ramoscelli e strascicando i piedi tra le foglie affinché il kender lo udisse arrivare.
Arricciando il naso per l’insolito odore di kender, Atta girava attorno a Rhys.
«Salve...» cominciò Rhys.
Con suo stupore, il kender balzò in piedi e si ritirò dietro una lapide.
«Vattene via», disse il kender. «Noi non vogliamo qui quelli della tua specie.»
«Della mia specie?» ripeté Rhys, fermandosi. «Che vuoi dire, della mia specie?» Si domandò se il kender avesse qualcosa contro i monaci.
«I vivi», ribatté il kender. Agitò la mano come se stesse scacciando via dei polli. «Qui siamo tutti morti. I vivi non devono stare qui. Vattene via.»
«Ma tu sei vivo», disse dolcemente Rhys.
«Io sono diverso», rispose il kender. «E poi, no, non sono afflitto», soggiunse, offeso, «per cui togliti dalla faccia quell’aria di commiserazione».
Rhys si rammentò di avere sentito dire qualcosa sui kender afflitti, ma non ricordava che cosa e lasciò perdere.
«Non ti sto commiserando. Sono curioso», confessò, facendosi strada fra le lapidi. «Non intendo mancare di rispetto agli onorati defunti, e nemmeno intendo far loro del male. Ti ho sentito parlare con loro...»
«Non sono neanche pazzo», affermò il kender da dietro la lapide, «se è questo che pensi».
«Niente affatto», rispose amabilmente Rhys.
Si sedette comodo accanto alla lapide di Simon Plowman. Aprendo la bisaccia, Rhys ne estrasse una fettina di carne essiccata. Ne strappò una parte per Atta e prese a masticarne un pezzo anche lui. La carne era fortemente speziata e l’odore pungente pervase la notte. Il kender arricciò il naso e mise in movimento le labbra.
«Strano posto per un picnic», osservò il kender.
«Ne vuoi un po’?» domandò Rhys porgendo una lunga fetta di carne.
Il kender esitò. Scrutò con circospezione Rhys. «Non hai paura a lasciarmi avvicinare? Potrei rubarti qualcosa.»
«Non ho niente da rubare», rispose Rhys con un sorriso. Continuò a porgere la carne.
«E il cane?» domandò il kender. «Morde?»
«Atta è una femmina», rispose Rhys. «E fa del male solo a chi fa del male a lei o ai suoi protetti.»
Porse ancora la carne.
Lentamente, con cautela, tenendo lo sguardo diffidente sul cane, il kender uscì furtivo da dietro la lapide. Guizzò verso la carne, la strappò di mano a Rhys e la divorò famelico.
«Grazie», mormorò, con la bocca piena.
«Ne vuoi ancora?» domandò Rhys.
«Io... sì.» Il kender sedette con un tonfo accanto a Rhys e accattò un altro pezzo di carne e un tozzo di pane.
«Non mangiare tanto velocemente», lo avvertì Rhys. «Ti verrà mal di pancia.»
«Ho mal di pancia da due giorni», lo informò il kender. «Questa roba è proprio buona.»
«Da quanto tempo non mangi come si deve?»
Il kender alzò le spalle. «Difficile dirlo.» Tese la mano e diede ad Atta una pacca guardinga sulla testa, a cui Atta si sottopose con buona grazia. «Hai un bel cane.»
«Mi perdonerai se ti dico questo», esordì Rhys. «Non intendo offenderti, ma di solito la tua gente non ha difficoltà a procurarsi da mangiare e tutto ciò di cui ha bisogno.»
«Vuoi dire che noi prendiamo la roba a prestito», disse il kender, facendosi più allegro. Si sistemò comodamente accanto ad Atta, continuando a coccolarla. «La verità è che io non sono molto bravo. Sono goffo e imbranato, come mi diceva mio padre. Immagino che sia perché passo tutto il tempo con loro.» Con un cenno del capo indicò le tombe. «È molto più facile andarci d’accordo. Nessuno di loro mi ha mai accusato di avergli preso qualcosa.»
«Che intendi con "loro"?» domandò Rhys. «Le persone qui sepolte?»
Il kender agitò la mano unta. «Le persone sepolte ovunque. I vivi sono meschini. I morti sono molto più simpatici. Più gentili. Più comprensivi.»
Rhys osservò attentamente il kender. Poiché hai a che fare con Chemosh, ti serve qualcuno che sia esperto di morti viventi.
«Stai dicendo che sai comunicare con i morti?»
«Io sono quello che chiamano un "nightstalker".» Il kender tese la mano. «Mi chiamo Nightshade. Nightshade Pricklypear.»
«Io mi chiamo Rhys Mason», si presentò Rhys, prendendogli la manina e stringendogliela, «e questa è Atta».
«Ciao, Rhys, ciao, Atta», disse il kender. «Mi piaci. Mi piaci anche tu, Rhys. Non sei irritabile, come quasi tutti gli esseri umani che ho conosciuto. Non credo ti avanzi dell’altra carne», soggiunse con un’occhiata bramosa alla bisaccia di cuoio.
Rhys gli porse la bisaccia. Al mattino avrebbe reintegrato le provviste. Qualcuno in città avrebbe avuto bisogno di tagliare la legna o di eseguire qualche altro lavoretto. Nightshade finì tutta la carne e quasi tutto il pane, lasciando qualche boccone ad Atta.
«Che cos’è un nightstalker?» domandò Rhys.
«Ehi! Pensavo che tutti sapessero di noi.» Nightshade osservò Rhys con stupore. «Dov’eri nascosto? Sotto una pietra?»
«Si potrebbe dire di sì.» Rhys sorrise. «Mi interessa. Racconta.»
«Sai della Guerra delle Anime?»
«Ne ho sentito parlare.»
«Be’, quello che è successo è che quando Takhisis si impadronì del mondo ne bloccò tutte le vie d’uscita, per così dire, per cui chi moriva restava intrappolato nel mondo. Le anime non potevano proseguire. Certe persone – mistici, per lo più, di solito negromanti – scoprirono di poter comunicare con queste anime morte. I miei genitori erano tutti e due mistici. Non negromanti», si affrettò a soggiungere Nightshade. «I negromanti non sono persone simpatiche. Vogliono comandare i morti. I miei genitori volevano semplicemente parlare con loro e aiutarli. I morti erano molto infelici e sperduti, poiché non sapevano dove andare.»
Rhys osservò attentamente il kender. Nightshade parlava di tutto questo con un tono tanto realistico che Rhys trovava difficile pensare che il kender stesse mentendo, eppure l’idea che dei vivi tenessero conversazioni con i morti era difficile da comprendere.
«Io accompagnavo sempre i miei genitori quando si recavano in un cimitero o in un mausoleo», stava dicendo Nightshade. «Giocavo con loro mentre i miei genitori lavoravano.»
«Giocavi con i morti?» lo interruppe Rhys.
Nightshade annuì. «Ci divertivamo molto. Giocavamo a girotondo, a rimbalzello, a fazzoletto, a "re della cripta". Un cavaliere di Solamnia morto mi insegnò a giocare a khas. Un ladro morto mi mostrò come nascondere un fagiolo sotto tre gusci di noce e scambiarli di posto velocissimamente e poi fare indovinare agli altri dove è nascosto. Vuoi vederlo?» domandò con entusiasmo.
«Eventualmente più tardi», disse educatamente Rhys.
Nightshade rovistò nella bisaccia e, non trovando altro da mangiare, la riconsegnò. Si appoggiò comodamente alla lapide. Atta, vedendo che non sarebbe arrivata altra carne, appoggiò la testa sulle zampe e si mise a dormire.
«Allora adesso, Nightshade, tu prosegui l’opera dei tuoi genitori?»
«Magari!» Il kender emise un forte sospiro.
«Che è successo?»
«È cambiato tutto. Takhisis è morta. Gli dèi sono tornati. Le anime sono di nuovo libere di proseguire il loro viaggio. E a me non resta più nessuno con cui giocare.»
«I morti se ne vanno tutti da Krynn.»
«Be’, non tutti», corresse Nightshade. «Ci sono ancora spiriti, poltergeist, doppelgänger, zombie, revenant, fantasmi, scheletri guerrieri, spettri e così via. Ma di questi tempi è più difficile incontrarli. In genere i negromanti e i chierici di Chemosh se li portano via prima che io riesca a raggiungerli.»
«Chemosh», disse Rhys. «Che cosa sai di Chemosh? Sei un suo seguace?»
«Accidenti, no!» affermò Nightshade, rabbrividendo. «Chemosh non è proprio un dio simpatico. Fa del male agli spiriti, li trasforma in suoi schiavi. Io non adoro nessun dio. Senza offesa.»
«Perché dovrei offendermi?»
«Perché sei un monaco. Lo vedo dalla tua veste, anche se è piuttosto strana. Non ho mai visto quello strano colore verde. Chi è il tuo dio?»
Il nome di Majere giunse prontamente e facilmente alle labbra di Rhys. Si interruppe, se lo rimangiò.
«Zeboim», rispose.
«La dea del mare? Tu sei un marinaio? Ho sempre pensato che mi piacerebbe andare al mare. In fondo alle acque devono esserci tantissimi cadaveri, tutti quelli che sono morti nei naufragi o sono stati portati via dalle tempeste.»
«Non sono un marinaio», rispose Rhys e cambiò argomento. «Allora che cosa fai da quando è finita la Guerra delle Anime?»
«Viaggio di città in città, cercando una persona morta con cui parlare», spiegò il kender. «Ma per lo più vengo sbattuto in galera. Non è poi tanto male. Almeno ti danno da mangiare.»
Era così magro e fragile, e anche se parlava allegramente sembrava tanto infelice che Rhys si decise. Ancora non riusciva a capire se il kender fosse pazzo o sano di mente, menzognero oppure sincero (per quanto possa esserlo un kender). Immaginava però che valesse la pena scoprirlo. E preferiva non offendere la sua irascibile dea, che gli aveva offerto questo strano dono.
«La verità è, Nightshade», incominciò Rhys, «che io sono stato mandato qui a cercarti».
Il kender balzò su, scuotendo Atta dal suo sonnecchiare. «Lo sapevo! Tu sei lo sceriffo travestito!»
«No, no», si affrettò a dire Rhys. «Sono davvero un monaco. È stata Zeboim a mandarmi qui.»
«Un dio che mi cerca?» disse Nightshade, allarmato. «È peggio dello sceriffo.»
«Nightshade...» incominciò a dire Rhys.
Troppo tardi. Procedendo a balzi, il kender si allontanò dalla lapide e se la diede a gambe. Avendo passato la vita a sfuggire agli inseguitori, il kender era lesto e agile. La mangiata gli aveva dato forza. Conosceva bene il territorio circostante. Rhys non l’avrebbe mai raggiunto. Aveva però con sé qualcuno che ci sarebbe riuscito.
«Atta», disse Rhys, «via!»
Atta era in piedi. Udendo quel comando ben noto, fece per obbedire, quindi si fermò e si voltò a guardare perplessa Rhys.
«Faccio come dici, padrone, ma dove sono le pecore?» sembrò domandare.
«Via», disse Rhys con fermezza e indicò il kender in fuga.
Atta lo osservò ancora per un istante, giusto per accertarsi di avere capito bene, quindi sfrecciò via, procedendo a balzi per il cimitero all’inseguimento del kender.
La cagna utilizzò con Nightshade la stessa tattica che avrebbe usato con le pecore, arrivandogli sul fianco sinistro, descrivendo un ampio cerchio, senza guardarlo per non spaventarlo, deviando davanti a lui per farlo voltare e costringerlo a tornare verso Rhys.
Vedendo con la coda dell’occhio quella macchia bianca e nera, Nightshade deviò dalla sua rotta, puntando in un’altra direzione. Atta era lì davanti a lui, e il kender fu costretto a deviare ancora. Lei era di nuovo lì e ancora una volta lui dovette deviare.
Atta non lo aggredì. Quando lui rallentava, rallentava anche lei. Quando lui si fermava, lei si stendeva sul ventre, fissandolo tanto attentamente con gli occhi marroni che lui trovava difficile distogliere lo sguardo. Nel momento in cui lui si muoveva, lei era di nuovo in piedi. Nightshade provò in tutti i modi a scansarsi e a guizzare via, ma lei era sempre davanti a lui, piegando continuamente il proprio corpo flessuoso per tagliargli la strada. Il kender poteva muoversi liberamente solo in una direzione, quella da cui era arrivato.
Alla fine, ansimando, Nightshade si arrampicò su una lapide e rimase lì, tremante.
«Mandala via da me!» ululò.
«Basta così, Atta», ordinò Rhys, e la cagna si rilassò e andò da lui per farsi accarezzare la testa.
Rhys si avvicinò al kender appollaiato.
«Non sei nei guai, Nightshade. Tutt’altro. Io vado in missione e ho bisogno del tuo aiuto.»
Nightshade spalancò gli occhi. «Missione? Mio aiuto? Sei sicuro?»
«Sì, è per questo che la mia dea mi ha mandato a cercarti.»
Rhys raccontò al kender tutto quanto era successo, dall’arrivo di suo fratello al monastero fino al terribile delitto da lui commesso. Nightshade ascoltò, affascinato, anche se della missione gli piacque il lato sbagliato. Balzò giù dalla lapide e prese la mano di Rhys.
«Dobbiamo tornare lì subito!» esclamò, cercando di trascinare via Rhys. «Torniamo dove hai sepolto i tuoi amici!»
«No», disse Rhys, restando fermo. «Dobbiamo cercare mio fratello.»
«Ma tutti quegli spiriti inquieti hanno bisogno di me», disse Nightshade, supplichevole.
«Adesso sono col loro dio», gli spiegò Rhys.
«Ne sei certo?»
«Sì», rispose Rhys, e ne era certo. «Dobbiamo trovare mio fratello e bloccarlo prima che faccia del male a qualcun altro. Dobbiamo scoprire che cosa gli ha fatto Chemosh per trasformarlo da chierico di Kiri-Jolith a seguace del Signore della Morte. Tu sai comunicare con i morti, il che potrebbe rivelarsi utile, e puoi farlo senza destare sospetti. Io non posso pagarti», soggiunse, «poiché a noi monaci è proibito accettare ricompense tranne quanto ci serve per sopravvivere».
«Dell’altra carne come quella che abbiamo appena mangiato per me andrebbe bene. E sarà bello avere un amico», disse emozionato Nightshade. «Un vero amico vivo.»
Guardò con trepidazione Atta. «Immagino che tu debba portarti dietro il cane.»
«Atta è una brava guardiana oltre che una buona compagna. Non preoccuparti.» Rhys posò la mano sulla spalla del kender per rassicurarlo. «Ti si è affezionata. È per questo che ti ha rincorso. Non voleva che te ne andassi.»
«Davvero?» Nightshade parve compiaciuto. «Pensavo mi stesse inseguendo come fossi stato una pecora o qualcosa del genere. Se le piaccio, è diverso. Anche lei mi piace.»
Rhys lasciò che il buio gli nascondesse il sorriso. «Io sono alloggiato da un contadino che abita qui nei pressi. Passeremo la notte lì e partiremo presto domattina.»
«I contadini di solito non mi lasciano entrare in casa», fece notare Nightshade, mettendosi in cammino accanto a Rhys, e facendo due passi con le sue gambette a ogni passo di lui.
«Questo qui credo di sì», previde Rhys. «Quando gli spiegherò quanto ti sia affezionata Atta.»
Atta era tanto affezionata al kender che gli rimase distesa sulle gambe tutta la notte, senza perderlo mai di vista.
Rhys non ebbe difficoltà a scovare tracce del fratello. La gente ricordava piuttosto distintamente un chierico di Kiri-Jolith che passava le notti a fare baldoria nella taverna e i giorni ad amoreggiare con le loro figlie. Rhys, angosciato, si aspettava di sentire che suo fratello aveva commesso altri omicidi, perciò rimase sorpreso e sollevato nell’apprendere che aveva semplicemente abbandonato la città senza pagare il conto della taverna.
Quando Rhys chiedeva se suo fratello avesse parlato di Chemosh, tutti parevano divertiti e scrollavano il capo. Lui non aveva parlato di nessun dio, e specialmente non di un dio tanto tenebroso come Chemosh. Lleu era un giovanotto bello e piacevole che cercava divertimento, e se era un po’ sconsiderato e sbadato non c’era niente di male in questo. Quasi tutti lo ritenevano un buon uomo e gli auguravano ogni bene.
Rhys trovava tutto questo molto strano. Non riusciva a far coincidere il quadro che questa gente gli tracciava di un birbante spensierato con l’assassino a sangue freddo che tanto spietatamente aveva ucciso diciannove persone. Rhys avrebbe potuto dubitare di essere davvero sulle tracce del fratello, ma tutti riconoscevano Lleu dalla descrizione fisica e dal fatto che indossava le vesti di Kiri-Jolith. I chierici di quel dio non erano numerosi in Abanasinia, dove il suo culto incominciava appena a diffondersi.
Rhys trovò un solo uomo che avesse qualcosa di brutto da dire riguardo a Lleu Mason, ed era un mugnaio che aveva offerto a Lleu vitto e alloggio in cambio di qualche giorno di lavoro al mulino.
«Da allora mia figlia non è più la stessa», raccontò il mugnaio. «Io maledico il giorno in cui è arrivato e maledico me stesso per averci avuto a che fare. Era una ragazza ubbidiente, la mia Besty, prima che lui la notasse. Lavorava sodo. Doveva sposarsi il mese prossimo col figlio di uno dei bottegai più prosperi della città. Era un bel matrimonio, ma adesso è saltato tutto, a causa di vostro fratello.»
Scrollò arcigno il capo.
«Dov’è vostra figlia?» domandò Rhys, guardandosi attorno. «Se potessi parlarle...»
«Andata», disse concisamente il mugnaio. «L’ho sorpresa che rincasava di nascosto a tarda ora dopo un appuntamento con lui. Le ho dato le nerbate che si meritava e l’ho chiusa nella sua stanza.» Alzò le spalle. «Dopo alcuni giorni è riuscita in qualche modo a venirne fuori e da allora non ne ho più visto neanche l’ombra. Una liberazione, direi, da un sudiciume.»
«È scappata con Lleu?» chiese Rhys.
Il mugnaio non lo sapeva. Pensava di no, poiché Lleu era partito prima della fuga della figlia. Era possibile, ammise, che fosse scappata per stare con lui, anche se in verità non sembrava tanto innamorata di lui. Il mugnaio non lo sapeva ed evidentemente non gli importava granché se non di avere perduto una brava lavoratrice e un’occasione di matrimonio da cui si aspettava un profitto.
Rhys ammise la possibilità che suo fratello avesse sedotto la ragazza e l’avesse persuasa a scappare con lui, ma in tal caso perché non erano fuggiti insieme? Riteneva più probabile che la ragazza fosse semplicemente fuggita da una casa priva di affetto e dalla prospettiva di un matrimonio senza amore. Niente di sinistro in questo.
Comunque la questione lo turbava. Si fece dare una descrizione della ragazza e lungo la strada chiese notizie di lei, oltre che di Lleu. Alcuni avevano visto lei, altri lui, ma nessuno li aveva visti insieme. L’ultima notizia che ebbe della figlia del mugnaio diceva che si era unita a una carovana diretta verso il mare. Suo fratello, a quanto pareva, aveva parlato vagamente di dirigersi verso Haven.
Mentre Rhys parlava con i vivi, Nightshade comunicava con i morti. Mentre Rhys visitava locande e taverne, Nightshade visitava cripte e cimiteri. Nightshade proibì a Rhys di accompagnarlo, poiché, affermò il kender, i morti hanno la tendenza a essere timidi in presenza dei vivi.
«Quasi tutti i morti, vale a dire», soggiunse il kender. «Ce ne sono alcuni a cui piace andare in giro a fare crepitare le ossa e sferragliare le catene e scagliare sedie fuori dalle finestre. Ne ho conosciuti alcuni che si divertono ad allungare una mano fuori dalla tomba afferrando la gente per le caviglie. Costituiscono l’eccezione, però.»
«Grazie agli dèi», disse sarcastico Rhys.
«Immagino di sì.» Nightshade non era convinto. «I morti di quel genere sono quelli interessanti. Tendono a restarsene in giro, non scappano verso qualche piano di esistenza più elevato lasciando la gente senza nessuno con cui parlare.»
Il «piano di esistenza più elevato» sembrava essere una destinazione molto richiesta, poiché Nightshade aveva difficoltà a comunicare con i morti, o per lo meno così affermava lui. Quelli che riusciva a trovare non sapevano dirgli niente di Chemosh. Rhys era stato scettico fin da principio riguardo alle affermazioni del kender, e il suo scetticismo aumentava. Decise di seguire il kender una notte e vedere di persona che cosa accadesse.
Nightshade era emozionato quella sera, poiché aveva sentito parlare di un campo di battaglia nelle vicinanze. I campi di battaglia erano promettenti, spiegò, perché i morti talvolta venivano abbandonati sul campo, i loro corpi restavano insepolti e imputridivano al sole o venivano lacerati dagli avvoltoi.
«Alcuni spiriti la prendono con filosofia, lasciano perdere e se ne vanno», spiegò Nightshade. «Ma altri ne fanno una questione personale. Rimangono lì, in attesa di sfogare la loro collera sui vivi. Dovrei trovare qualcuno impaziente di parlare.»
«Non sarà pericoloso?» domandò Rhys.
«Be’, sì», ammise il kender. «Alcuni morti assumono un atteggiamento davvero malvagio e si scagliano sulla prima persona che incontrano. In qualche occasione io me la sono cavata per un pelo.»
«Che cosa fai se sei attaccato? Come ti difendi? Tu non porti armi.»
«Agli spiriti non piace la vista dell’acciaio», rispose Nightshade. «O forse è l’odore del ferro. Non l’ho mai capito bene. Comunque, se vengo attaccato, me la do a gambe. Sono più veloce di qualunque vecchio scheletro crepitante.»
Quando si fece buio, Nightshade partì per il campo di battaglia. Rhys lasciò al kender un lungo margine di vantaggio, quindi con Atta si incamminò sulle sue tracce.
La notte era serena. Solinari era calante e Lunitari piena e splendente, conferendo alle ombre una sfumatura rossastra. L’aria serale era calma e profumava di rose selvatiche. Le creature dei boschi erano impegnate nelle loro attività, e i loro fruscii e stridii e ululati provocavano in Atta una serie continua di preoccupazioni.
In quello che Rhys ormai considerava il suo passato, gli sarebbe piaciuto passeggiare nella notte profumata. In quella vita il suo spirito sarebbe stato tranquillo, la sua anima serena. Non riteneva di essere cieco verso i mali del mondo, verso le brutture della vita. Capiva che una cosa era necessaria per equilibrare l’altra. O piuttosto pensava di capirlo. Adesso era come se la mano di suo fratello avesse scostato una tenda per mostrargli un male la cui esistenza lui non si era mai immaginato. In un certo senso, ammise Rhys, lui era stato cieco perché aveva visto solo ciò che voleva vedere. Non avrebbe mai consentito che accadesse di nuovo.
Aveva molto a cui pensare durante il cammino. Riteneva di essere molto vicino a raggiungere il fratello. Lleu era stato in quel villaggio fino a due giorni prima. Aveva preso la strada per Haven, una strada che a causa di briganti e goblin adesso non era sicura da percorrere. Coloro che osavano avventurarvisi viaggiavano in gruppi numerosi per proteggersi.
Rhys aveva ben poco da temere dai banditi. «Povero come un monaco» era un’espressione ben nota. Bastava un’occhiata alla veste di un monaco (perfino di colore strano) e i ladri si allontanavano disgustati.
Un cupo brontolio da parte di Atta indusse Rhys ad abbandonare i propri pensieri e a rivolgere l’attenzione al compito che l’attendeva. Avevano raggiunto il campo di battaglia e lui vedeva chiaramente Nightshade, con la luna rossa che gli sorrideva vivida, come se Lunitari avesse trovato il tutto piuttosto buffo.
Rhys si scelse un punto nell’ombra sotto un albero che, stando ai rami scheggiati, era rimasto coinvolto nel combattimento. Si sentì rimordere la coscienza poiché spiava il kender, ma la questione era troppo importante, troppo urgente per essere lasciata al caso.
«Per lo meno ho concesso a Nightshade il beneficio del dubbio», disse Rhys ad Atta, mentre osservava il kender girovagare speranzoso per il campo di battaglia. «Chiunque altro, all’udire una simile storia, l’avrebbe portato subito alle celle dei matti.»
Il campo di battaglia era un ampio tratto di campo aperto, lungo e largo, di qualche ettaro. La battaglia era stata combattuta appena qualche anno prima e, anche se il campo adesso era ricoperto di erba ed erbacce, si vedevano ancora tracce del combattimento.
Le eventuali armi o armature intatte erano state saccheggiate dai vincitori o dagli abitanti del villaggio. Rimanevano lance spezzate, pezzi arrugginiti di armatura, uno stivale logoro, un guanto di ferro lacerato, frecce scheggiate. Rhys non aveva idea di chi avesse combattuto contro chi in quella battaglia. E nemmeno gli importava.
Nightshade girovagò qua e là. A un certo punto si fermò per raccogliere qualcosa da terra. Dopo averlo esaminato attentamente, se lo lasciò cadere nella sacca.
Si guardò attorno, sospirò malinconicamente, quindi urlò, con tono amichevole: «Ehi! C’è qualcuno in casa?».
Non rispose nessuno. Nightshade continuò a vagare. La notte era calma, pacifica, e Rhys incominciò a sentirsi vincere dal sonno. Scrollò il capo per togliersi l’annebbiamento, si strofinò gli occhi e bevve un po’ d’acqua dalla borraccia. Atta si tese. Rhys sentì il corpo della cagna irrigidirsi. Gli orecchi le si rizzarono.
«Che cosa...» cominciò a dire, poi la voce gli si smorzò in gola.
Nightshade si era chinato per raccogliere un elmo ammaccato e malconcio. Compiaciuto di questa scoperta, il kender si mise l’elmo in testa. L’elmo era fin troppo grande, ma ciò non infastidiva Nightshade. Si diede un colpo col pugno sulla sommità dell’elmo e riuscì a tirare su la visiera, che aveva da qualche parte attorno al mento.
Stava armeggiando con la visiera ormai arrugginita, e non vide l’apparizione spettrale che saliva dal terreno quasi direttamente davanti a lui. Rhys la vide chiaramente e anche così avrebbe potuto dubitare dei propri sensi, ma dallo sguardo fisso di Atta e dai suoi muscoli rigidi, tesi sotto la mano di lui, capiva che anche la cagna la vedeva.
Lo spettro aveva all’incirca l’altezza e la corporatura di un uomo. Indossava un’armatura; niente di sofisticato come quella di un cavaliere: soltanto alcuni pezzi recuperati e rabberciati alla meglio. Non portava elmo e sulla testa aveva una ferita orribile, un taglio che gli aveva squarciato il cranio. Aveva i lineamenti contorti in una smorfia. Il fantasma allungò una mano spettrale verso il kender, che era ancora allegramente nascosto nell’elmo, senza la più pallida idea dell’orrore che si trovava davanti a lui.
Rhys cercò di gridare per avvertirlo. Aveva la gola e la bocca tanto asciutte che non riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe potuto mandare avanti Atta, ma la cagna tremava, terrorizzata.
«Oh, ragazzi, si è fatto freddo tutto a un tratto», osservò Nightshade, con la voce che riecheggiava dentro l’elmo.
Nel frattempo riuscì a liberare la visiera, che si aprì di scatto. «Oh, salve!» disse allo spettro, la cui mano era a pochi centimetri dal viso del kender. «Mi dispiace. Non sapevo che tu fossi qui. Come va?»
Al suono della voce del kender lo spettro lasciò cadere la mano. Rimase a librarsi incerto davanti a Nightshade, come cercando di decidersi a fare qualcosa.
Sgomento, Rhys ascoltava e osservava e cercava di trarre un senso da ciò che stava accadendo. Niente del suo addestramento, delle sue preghiere o della sua meditazione l’avevano preparato a questo spettacolo. Accarezzò Atta, calmandola e allo stesso tempo rassicurando se stesso. Era bello toccare qualcosa di caldo e di vivo.
Nightshade si tirò via l’elmo e lo lasciò cadere a terra. «Mi dispiace. Era tuo?» Vide che allo spettro mancava circa metà del cranio. «Oh, immagino di no. Probabilmente ti avrebbe fatto comodo. Allora le cose non sono andate tanto bene per te. Ti andrebbe di raccontarmelo?»
Sembrava che lo spettro stesse parlando, ma Rhys non udiva la voce. Vedeva le mani spettrali compiere gesti collerici. La testa del fantasma si girava per guardare in lontananza.
Nightshade ascoltava con calma e attenzione e aveva un’espressione di commiserazione e interesse.
«Non c’è niente per te qui, ormai», disse finalmente Nightshade. «Tua moglie ha ormai sposato qualcun altro. Ha dovuto, anche se era addolorata per te e sentiva la tua mancanza. C’erano i bambini da crescere e lei non poteva gestire da sola la fattoria. I tuoi compagni hanno brindato in tuo onore e hanno detto cose come: "Ti ricordi quella volta che il vecchio Charley ha fatto così e così?" Ma anche loro sono andati avanti con la loro vita. E tu devi andare avanti con la tua. No, non sto facendo lo spiritoso. La morte è una parte della vita. Una parte oscura e tranquilla, ma certamente una parte. Non ci guadagni niente a restare qui, a crucciarti perché è stato tutto così ingiusto.»
Nightshade ascoltò di nuovo lo spettro, poi disse: «Puoi vederla così oppure puoi ritenere che l’ignoto sia pieno di possibilità nuove ed emozionanti. Qualunque cosa è meglio di questa, no? Gironzolare qui sperduto e solitario. Per lo meno rifletti su quello che ti ho detto. Non è che per caso sai giocare a khas? Vorresti fare una partita prima di andartene?».
Lo spettro a quanto pareva non era interessato. Quella forma orribile prese a dissiparsi come la nebbia sotto la luce lunare.
«Oh, quasi mi dimenticavo!» gridò Nightshade. «Hai visto o sentito qualcosa di Chemosh ultimamente? Chemosh, Dio dei Morti. Mai sentito? Be’, grazie lo stesso. Buona fortuna a te! Fai buon viaggio.»
Rhys cercò di rimettere insieme i pezzi di ciò che pensava di sapere riguardo alla vita e alla morte e riordinarli. Alla fine scoprì di non riuscirci e li gettò via tutti. Era ora di ricominciare. Si diresse verso il punto in cui si trovava Nightshade. Il kender stava guardando l’elmo e la propria sacca, come se stesse cercando di stabilire se ci entrasse.
Udendo un movimento, Nightshade girò la testa. Il viso gli si illuminò. Lasciando cadere l’elmo, li raggiunse di scatto. «Rhys! Hai visto? Uno spettro! Era uno spettro piuttosto malinconico. Quasi tutti sono più vivaci, per così dire. Oh, e non sa niente di Chemosh. Immagino che quell’uomo sia morto prima che tornassero gli dèi. Spero che si senta meglio adesso che è nella parte successiva del suo viaggio. Che succede ad Atta? Non sta male, vero?»
«Nightshade», disse Rhys contrito, «voglio scusarmi».
Il viso del kender si accartocciò con una smorfia stupefatta. «Se vuoi, Rhys, fai pure. Non mi importa. Con chi vuoi scusarti?»
«Con te, Nightshade», rispose Rhys, sorridendo. «Ho dubitato di te e ti ho spiato, e mi dispiace.»
«Hai dubitato...» Il kender si interruppe. Guardò Rhys, guardò il cane, guardò attorno a sé il campo di battaglia. «Capisco. Mi sei venuto dietro per accertarti che io non mentissi quando dicevo di saper parlare con i morti.»
«Sì. Mi dispiace. Mi sarei dovuto fidare di te.»
«Non fa niente», minimizzò Nightshade, anche se lo disse con un lieve sospiro. «Sono abituato a non ricevere fiducia. È usanza del territorio.»
«Mi perdonerai?» domandò Rhys.
«Hai portato qualcosa da mangiare?»
Rhys mise una mano nella bisaccia, tirò fuori un pezzo di formaggio e lo porse al kender.
«Ti perdono», disse Nightshade, prendendone un grosso boccone con aria soddisfatta. Ammiccò verso Rhys. «È molto strano.»
«È normale formaggio di capra...»
«Non il formaggio. È ottimo. No, voglio dire, è strano che lo spettro non conoscesse Chemosh. Nessuno degli spettri o fantasmi o spiriti che ho incontrato ha ricevuto una visita da lui o dai suoi chierici. È vero, Chemosh non era qui quando quel particolare spettro era vivo, ma mi sembra che se io fossi il Signore della Morte la prima cosa che avrei fatto al mio ritorno sarebbe stata inviare i miei chierici a ripulire tutti i campi di battaglia e le segrete e le tane di drago, per rendere schiavi tutti gli spiriti erranti reperibili.»
«Forse ai chierici è solo sfuggito questo qui», ipotizzò Rhys.
«Non credo», disse Nightshade. Masticò il formaggio con un’espressione pensierosa.
«Che cosa pensi stia succedendo, allora?» lo pungolò Rhys, veramente interessato a sentire ciò che aveva da dire il kender. Nell’ultima ora era diventato molto rispettoso nei suoi confronti.
Il kender scrutò il campo buio e deserto. «Penso che Chemosh non abbia bisogno di schiavi morti.»
«E perché?»
«Perché sta trovando schiavi fra i vivi.»
«Come mio fratello», aggiunse Rhys con un’improvvisa sensazione di freddo alla bocca dello stomaco. A parte la prima conversazione nel cimitero, quando Rhys aveva raccontato a Nightshade di Lleu e dell’assassinio, i due non ne avevano parlato molto. Non era un argomento su cui Rhys amasse soffermarsi. A quanto pareva, però, Nightshade aveva riflettuto sulla questione.
Nightshade annuì. Restituì l’avanzo di formaggio e Rhys lo ripose nella bisaccia, con grande disappunto di Atta.
«Come ritieni che stia agendo Chemosh?» domandò Rhys.
«Non lo so», rispose Nightshade, «ma se ho ragione io, è piuttosto spaventoso».
Rhys dovette dirsi d’accordo. Era molto spaventoso.
Haven era una grande città, la più grande che Rhys avesse visitato finora. Lui e Nightshade trascorsero giorni a vagabondare di luogo in luogo, fornendo pazientemente una descrizione del fratello di Rhys, cercando qualcuno che avesse visto Lleu. Quando finalmente trovarono un taverniere che lo rammentava, Rhys apprese che il fratello non era rimasto a lungo a Haven ed era ripartito quasi subito. L’ipotesi migliore era che fosse andato a Solace, ragionamento per cui tutti coloro che attraversavano l’Abanasinia finivano a Solace. Rhys, Nightshade e Atta proseguirono il viaggio.
Rhys era stato a Solace con suo padre da bambino e ricordava chiaramente la città, famosa nelle leggende e nelle tradizioni popolari per il fatto che le sue case e botteghe erano costruite fra i rami di enormi alberi di vallen. Il nome stesso evocava immagini di un luogo in cui i feriti nel cuore, nella mente e nel corpo potessero andare a cercare conforto.
I ricordi d’infanzia di Rhys riguardo a Solace erano di una città di bellezza straordinaria e di gente amichevole. Trovò Solace molto cambiata. La città era cresciuta diventando una metropoli piena di rumore e andirivieni, confusione e trambusto, rimbombante di una voce forte e rauca. Rhys poteva dire sinceramente che se non fosse stato per la leggendaria Taverna dell’Ultima Dimora non avrebbe riconosciuto quel luogo. E perfino la taverna era cambiata, essendosi ampliata e ingrandita al punto che adesso si estendeva sui rami di diversi alberi di vallen.
Poiché le abitazioni originarie erano state costruite sulla sommità degli alberi, i cittadini di Solace non avevano avuto bisogno di erigere mura a protezione delle case e delle botteghe. La cosa aveva funzionato bene nell’epoca in cui Solace era una cittadina. Adesso però i viandanti entravano e uscivano dalla città senza controlli, senza guardie a porre domande. Riempivano le strade esseri di ogni sorta: elfi, nani, kender a decine. Rhys vide più razze diverse a Solace in trenta secondi di quante ne avesse viste in tutti i suoi trent’anni.
Rimase sbalordito oltre misura nel vedere due draconici, un maschio e una femmina, passeggiare lungo la strada principale con tanta sicurezza di sé come se fossero stati proprietari del luogo. La gente cambiava direzione per evitare gli «uomini lucertola», ma nessuno sembrava allarmato dalla loro presenza, tranne Atta, che ringhiò e abbaiò verso di loro. Sentì dire da qualcuno che provenivano dalla città draconica di Teyr e che erano qui per incontrare dei nani delle colline per discutere di commerci.
I nani di fosso lottavano e raspavano tra i rifiuti, e un viso di goblin sbirciò Rhys dalle ombre di un vicolo. Il goblin scomparve quando un manipolo di guardie, armate di picche e protette da una cotta di maglia, arrivarono a passo di marcia lungo la strada, accompagnate da una parata di bambini e bambine ridacchianti che portavano pentole in testa e bastoni in mano.
Gli esseri umani erano la razza predominante. Uomini di pelle nera dell’Ergoth si mescolavano a barbari rozzamente vestiti delle Pianure e a uomini riccamente abbigliati di Palanthas, e tutti si spintonavano e si davano gomitate e si scambiavano insulti.
A Solace era rappresentato anche ogni genere di occupazione. Tre maghi, due dalle vesti rosse e uno in nero, andarono a sbattere contro Rhys. Erano tanto immersi nella loro discussione che non lo notarono nemmeno, né gli chiesero scusa. Un gruppo di attori, che si definivano Troupe Itinerante di Gilean, arrivarono danzando per la strada, percuotendo un tamburo e suonando tamburelli, accrescendo così il livello di rumore. Tutti avevano qualcosa da vendere o cercavano qualcosa da acquistare, e tutti lo annunciavano gridando a pieni polmoni.
Mentre tutto questo avveniva nelle strade sottostanti, Rhys alzò lo sguardo e vide altra gente che percorreva i ponti oscillanti di assi e corde che andavano da un albero di vallen all’altro, come i filamenti di seta di una gigantesca ragnatela. L’accesso agli alberi era limitato, a quanto pareva, poiché Rhys notò delle guardie dislocate in vari punti, che interrogavano e fermavano tutti quelli che, secondo loro, avevano un’aria sospetta.
Mentre procedeva a fatica nel fango rimescolato da un flusso infinito di traffico, Rhys si meravigliava dei cambiamenti avvenuti in Ansalon mentre lui era nascosto nel mondo immutabile del monastero. Da ciò che vedeva, non si era perso molto. Il rumore, gli spettacoli, gli odori, che andavano dalla spazzatura in putrefazione ai nani di fosso non lavati, dal pesce del giorno prima all’odore della carne arrostita su braci ardenti e al pane fresco proveniente dalla bottega del fornaio, suscitavano in Rhys il rimpianto della solitudine e della tranquillità delle colline, della semplicità della sua vita precedente.
Atta, stando al suo comportamento, era d’accordo. Spesso alzava lo sguardo verso di lui, con gli occhi marroni umidi per la confusione, ma si fidava di lui perché li guidasse in quel caos. Rhys la coccolava, la rassicurava, se non riusciva a rassicurare se stesso. Forse era scoraggiato dalle dimensioni di Solace, dal numero di persone, ma ciò non modificava la sua determinazione a proseguire la ricerca del fratello. Per lo meno adesso sapeva dove cercare. Lleu raramente perdeva l’occasione di fermarsi in una locanda o una taverna lungo la via.
Rhys aveva un’altra possibilità, almeno così sperava. L’idea gli venne quando vide un gruppetto di chierici dalle vesti nere camminare apertamente per la strada. Una città delle dimensioni e della disposizione di Solace avrà ben avuto un tempio dedicato a Chemosh.
Rhys diresse i propri passi verso la famosa Taverna dell’Ultima Dimora, pensando di incominciare lì a chiedere informazioni. Dovette fermarsi lungo la strada per districare Nightshade da un gruppo di kender, che avevano fatto lega con lui come fosse stato un cugino non più visto da tempo (e in effetti due di loro affermavano di essere suoi cugini).
La famosa taverna dove, secondo la leggenda, erano abituati a incontrarsi gli Eroi delle Lance, era gremita. La gente faceva la coda per entrare. A mano a mano che alcuni clienti se ne andavano, ne veniva ammesso un certo numero. La coda incominciava ai piedi della lunga rampa di scale e si estendeva lungo la strada. Rhys e Nightshade presero posto in fondo, attendendo con pazienza. Rhys continuava a tenere d’occhio tutti quelli che salivano e scendevano le scale, sperando che uno di loro fosse Lleu.
«Guarda quanta gente!» esclamò Nightshade con entusiasmo. «Sono sicuro di farmi qualche spicciolo qui. Quella carne di capra arrosto ha un profumo meraviglioso, vero, Atta?»
La cagna sedeva a fianco di Rhys, alternando lo sguardo fra il padrone e Nightshade. Il kender pensava con contentezza che Atta si fosse veramente affezionata a lui, poiché non lo perdeva mai di vista. Rhys non voleva togliere al compagno questa illusione. Atta era diventata brava come «guardiana di kender» quanto prima lo era stata con le pecore.
Mentre guardava quelli che uscivano dalla taverna, Rhys ascoltava le chiacchiere attorno a sé, cogliendo vari pettegolezzi locali, nella speranza di udire qualcosa che lo conducesse a Lleu. Nightshade era impegnato a pubblicizzare i suoi servizi, dicendo a quelli davanti a lui nella coda che avrebbe potuto metterli in contatto con i parenti che avessero abbandonato le spoglie mortali, in cambio del prezzo da affarone di una sola moneta d’acciaio, pagabile alla consegna del detto parente. La cagna vigile, nel frattempo, impediva al kender di «prendere a prestito» accidentalmente sacche, portamonete, coltelli, anelli o fazzoletti, infilando il proprio corpo fra quello di Nightshade e ogni potenziale «cliente».
La folla era generalmente di buonumore, nonostante dovesse rimanere in attesa. Quel buonumore all’improvviso si deteriorò.
«Forse non mi avete sentito la prima volta, signori», affermò un tizio, alzando la voce. «Non avete diritto di passarmi davanti.»
Rhys si guardò dietro le spalle, come fecero tutti attorno a lui.
«Hai sentito qualcosa, Gregor?» domandò uno degli uomini a cui era stata rivolta quell’affermazione.
«No, Tak», ribatté l’amico, «ma di sicuro sento un odore». Sottolineò con forza quella parola. «Deve essere di passaggio in città un branco di maiali, oggi.»
«Ah, ti sbagli, Gregor», replicò l’amico in tono semiserio. «Non sono i maiali che hanno portato in città quest’oggi. I maiali sono bestie profumate, pulite e sane in confronto a questi qui. Devono aver lasciato entrare un elfo!»
Entrambi gli uomini risero sguaiatamente. A giudicare dai grembiuli di cuoio, dalle braccia e dalle spalle muscolose e dalle mani e dai volti anneriti dalla fuliggine, erano fabbri ferrai o forgiatori di metalli. La persona che era vittima dei loro scherzi portava l’abbigliamento verde di un abitante della foresta. Aveva il cappuccio tirato sopra la testa in modo che nessuno lo vedesse in faccia, ma erano inconfondibili il corpo flessuoso e i movimenti aggraziati e il tono dolce e melodico della voce.
L’elfo non disse nulla in risposta. Uscendo dalla coda, girò attorno ai due uomini e si rimise in fila davanti a loro.
«Maledetto mangiaerba, togliti dai piedi!» L’uomo chiamato Gregor afferrò l’elfo per le spalle e lo rigirò.
Balenò l’acciaio, e Gregor balzò all’indietro.
L’elfo aveva un coltello in mano.
I due uomini si guardarono; poi, serrando gli enormi pugni, si lanciarono in avanti.
L’elfo era pronto a portare un affondo quando all’improvviso si trovò la strada bloccata, poiché Rhys si era messo in mezzo ai contendenti. Rhys non sollevò il bastone, né alzò la voce.
«Potete avere il mio posto nella coda, signori», disse.
Tutti e tre lo fissarono a bocca aperta.
«Io sto quasi davanti, ai piedi delle scale», proseguì amabilmente Rhys. «Là, dove aspettano il kender e il cane. Siamo i prossimi a salire. Prendete il mio posto e siate i benvenuti, tutti e tre.»
Alle spalle di Rhys l’elfo disse con veemenza: «Non mi serve il tuo aiuto, monaco. Posso sistemare da solo questi due».
«Versando il loro sangue?» domandò Rhys, guardandosi attorno. «Che cosa risolveresti?»
«Monaco?» ripeté uno dei due uomini, guardando incerto Rhys.
«A giudicare dall’arma, è un monaco della Mantide», osservò l’elfo. «Ossia Majere, come lo conoscete voi umani. Anche se non ne ho mai visto uno con la veste verde», soggiunse con disdegno.
«Prendete il mio posto, signori», ripeté Rhys, indicando le scale. «Un boccale di birra fresca per sbollire gli spiriti, eh?»
I due uomini si guardarono. Scrutarono Rhys e il suo bastone. Non vi era una via d’uscita favorevole. Se avessero avuto il sostegno della folla, avrebbero potuto proseguire il combattimento. Per come stavano le cose, l’offerta di Rhys aveva chiaramente colpito la fantasia della folla. Forse questi due erano bulli ben noti, poiché la gente sorrideva del loro insuccesso.
I due uomini abbassarono i pugni.
«Andiamo, Tak, io non ho più fame», disse un tale severamente, girando sui talloni. «La puzza mi ha fatto passare l’appetito.»
«Già, puoi bere tu con quella gentaglia se vuoi, monaco», sogghignò l’altro. «Io preferirei ingurgitare acqua di palude.»
L’elfo guardò Rhys con occhio torvo. «Questa era la mia battaglia. Tu non avevi diritto di intrometterti.»
Anche lui se ne andò, puntando nella direzione opposta.
Rhys riprese il suo posto in coda. Diversi nella folla applaudirono e una donna anziana allungò una mano per toccargli la veste consunta e macchiata dal viaggio, «per buona fortuna». Rhys si domandò che cosa avrebbe pensato la donna se avesse saputo che lui non era un monaco di Majere ma un seguace giurato di Zeboim. Si rese conto, con un sospiro interiore, che probabilmente non avrebbe fatto alcuna differenza. Lui le era piaciuto, era piaciuto alla folla, come sarebbe piaciuto uno spettacolo di burattini.
Rhys prese il suo posto in coda, accanto a Nightshade, che non stava in sé dall’ammirazione e dall’agitazione. Le domande impazienti del kender furono interrotte dall’uomo che regolava il flusso di traffico verso la locanda.
«Vai su, monaco», gridò con un ampio gesto, «prima di fare scappare il resto dei miei clienti».
Tutti risero e la folla acclamò mentre Rhys, Nightshade e Atta salirono le scale, con Nightshade che gesticolava e si sporgeva precariamente dalla ringhiera per gridare: «Qualcuno di voi vuole entrare in contatto con una persona cara defunta? Io so parlare con i morti...».
Rhys afferrò il kender per le spalle e lo guidò delicatamente attraverso la porta aperta.
La Taverna dell’Ultima Dimora aveva raggiunto una fama imperitura durante la Guerra delle Lance, poiché fu qui che i leggendari Eroi delle Lance iniziarono una missione che si sarebbe conclusa con la sconfitta di Takhisis, Regina delle Tenebre. La taverna era di proprietà dei discendenti di due di quegli eroi, Caramon e Tika Majere. Ascoltando i pettegolezzi mentre faceva la coda, Rhys aveva appreso un bel po’ di cose sulla locanda, sui suoi proprietari e su Solace in generale.
Una figlia, Laura Majere, gestiva la locanda. Suo fratello Palin era stato un tempo un celebre stregone, ma adesso era il sindaco di Solace. C’era stato un qualche scandalo che aveva coinvolto sua moglie, ma a quanto pare era stato risolto. Laura e Palin avevano una sorella, Dezra. La gente alzava gli occhi al cielo quando la sentiva menzionare. Lo sceriffo di Solace era un amico di Palin, un ex cavaliere di Solamnia di nome Gerard. Era uno sceriffo apprezzato, a quanto pareva, con la reputazione di essere severo ma giusto. Aveva un compito ingrato, a sentire la maggior parte dei pettegoli, poiché Solace era cresciuta fin troppo in fretta per il suo bene. Inoltre era ubicata presso il confine di quello che un tempo era stato il regno degli elfi Qualinesti. Il drago Beryl aveva scacciato gli elfi dalle loro case e Qualinesti era adesso una terra di nessuno selvaggia, senza legge e senza civiltà, rifugio di bande vaganti di fuorilegge e di goblin.
La Taverna dell’Ultima Dimora aveva subito numerosi cambiamenti nel corso degli anni. Coloro che la rammentavano dall’epoca della Guerra delle Lance non l’avrebbero riconosciuta adesso. La taverna era stata distrutta almeno due volte dai draghi (forse di più, sull’argomento vi erano discussioni) e oltre a essere ricostruita era andata incontro a una serie di ampliamenti e ristrutturazioni. Il famoso bancone, costruito con l’albero di vallen, era ancora lì. Il caminetto presso cui un tempo sedeva il famigerato mago Raistlin Majere era stato spostato in un punto diverso per lasciare spazio ad altri tavoli. Era stata costruita un’ala supplementare per ospitare le crescenti folle di viandanti. La cucina non era più dove si trovava un tempo bensì in un punto completamente diverso. Il cibo era ancora altrettanto buono (migliore, secondo alcuni) e della birra parlavano in termini quasi riverenti gli intenditori di tutto Ansalon.
Entrando, Rhys rimase impressionato dall’atmosfera della locanda, che era allegra senza essere chiassosa o turbolenta. Le cameriere indaffarate trovavano il tempo di ridere e scambiarsi frecciate amichevoli con i clienti fissi. Un nano di fosso armato di scopa teneva immacolato il pavimento. I lunghi tavoli in assi di legno dove sedevano i clienti erano puliti e ordinati.
Nightshade prese subito a fare l’imbonitore. Il kender parlava velocissimo, sapendo per esperienza che raramente andava avanti per molto prima di essere zittito sommariamente. «Io so parlare ai morti», annunciò a voce alta, ben udibile sopra le risate e le urla e il cozzare di vasellame e stoviglie. «Qualcuno qui ha persone care morte di recente? In tal caso io posso parlare con loro a nome vostro. Sono contenti di essere morti? Io ve lo so dire. State ancora cercando il testamento di zio Wat? Io posso venire a sapere dallo spirito dove l’ha lasciato. Avete dimenticato di dire al defunto marito quanto l’amavate? Io posso trasmettergli i vostri saluti...»
Alcuni avventori lo ignoravano completamente. Altri osservavano il kender con espressioni che andavano da un sorriso divertito a un’aria sconvolta e indignata. Alcuni incominciavano ad apparire seriamente offesi.
«Atta, via», ordinò con calma Rhys, e la cagna con un balzo si mise in azione.
Trotterellando raggiunse il kender e gli premette il proprio corpo sulle gambe, cosicché Nightshade non ebbe altra scelta che indietreggiare o ruzzolare sopra Atta.
«Atta, cagna simpatica», la blandì Nightshade, accarezzandole distrattamente la testa. «Giocherò con te in un altro momento. Devo lavorare adesso, vedi...»
Cercò di girare attorno alla cagna, cercò di scavalcarla. Atta si scansò e si mosse a zigzag, e per tutto il tempo continuò a sospingere all’indietro il kender fino a incunearlo in un angolo, con un tavolo e delle sedie a stringerlo su due lati e la cagna paziente davanti.
Atta si stese sul ventre. Se Nightshade muoveva un muscolo, lei era di nuovo in piedi. Non ringhiava, non era minacciosa. Si accertava soltanto che il kender restasse fermo.
Mentre i clienti della locanda osservavano con soggezione tutto questo, si avvicinò in fretta una cameriera, offrendosi di guidare Rhys a un tavolo.
«No, grazie», disse lui. «Sono venuto a chiedere informazioni, tutto qui. Sto cercando qualcuno...»
La cameriera lo interruppe. «So che i monaci di Majere fanno voto di povertà. Va bene. Siete ospite della taverna quest’oggi. Avrete da mangiare e da bere e nella sala di ritrovo ci saranno delle stuoie per voi e il vostro amico».
Diede un’occhiata in direzione di Atta e Nightshade, ma non era chiaro se per «amico» intendesse il cane o il kender.
«Grazie, signora, ma non posso accettare la vostra offerta, che è gentile, ma non si fa al caso mio. Io non sono un monaco di Majere. Come ho detto, sto cercando qualcuno e ho pensato che potesse essere qui. Si chiama Lleu...»
«C’è qualche problema, Marta?»
Un omone, con una massa di capelli color paglia e un viso che si sarebbe detto brutto se non fosse stato per la forza di carattere e il sorriso gioviale, arrivò nel punto in cui stavano parlando Rhys e la cameriera. L’uomo indossava un panciotto di cuoio, portava una spada al fianco e una catena d’oro al collo, tutto di ottima qualità.
«Il monaco qui ha rifiutato la nostra ospitalità, sceriffo», rispose la cameriera.
«Non posso accettare la sua carità, mio signore», ripeté Rhys. «Sarebbe offerta sotto false pretese. Io non sono un monaco di Majere».
L’uomo tese la mano.
«Gerard, sceriffo di Solace», disse sorridendo. Diede un’occhiata di ammirazione al cane e al kender intrappolato. «Non credo che stiate cercando lavoro, fratello, ma in caso affermativo sarei lieto di assumervi. Ho visto come vi siete comportato qui fuori in coda poco fa, e quel cane che raduna i kender vale il suo peso in acciaio.»
«Mi chiamo Rhys Mason. Grazie per l’offerta, ma devo rifiutare.» Rhys fece una pausa, poi disse dolcemente: «Se stavate guardando ciò che avveniva tra quegli uomini e l’elfo, mio signore sceriffo, perché non siete intervenuto?».
Gerard sorrise mestamente. «Se accorressi qua e là per cercare di impedire ogni lotta a coltello che ha luogo a Solace, fratello, non farei mai altro. Io passo il mio tempo su questioni più importanti, come cercare di impedire che la città venga saccheggiata, razziata o rasa al suolo da un incendio. Gregor e Tak sono i bulli del quartiere. Se le cose fossero degenerate, sarei sceso a sistemare quei ragazzi. Voi avevate la situazione sotto controllo, o almeno così pareva da dove mi trovavo io. Pertanto, fratello, voi, il cane e il kender sarete miei ospiti per pranzo. È il minimo che io possa fare per voi, vedendo come avete svolto il lavoro per me oggi.»
Rhys ritenne di poter accettare questa offerta e così fece. «Basta così, Atta», gridò, e la cagna balzò su e ritornò al suo fianco.
Nightshade stava raggiungendo Rhys quando venne accostato da una donna grassoccia di mezza età, che portava uno scialle nero sul capo e che disse di volergli parlare. I due si sedettero e furono presto immersi in conversazione; il kender aveva un’aria di estrema commiserazione, la donna si asciugava gli occhi con l’orlo dello scialle.
«È rimasta vedova di recente», osservò Gerard, guardando accigliato il kender. «Non voglio che nessuno si approfitti del suo dolore, fratello.»
«Il kender è un cosiddetto "nightstalker", mio signore», spiegò Rhys. «Sa fare davvero ciò che dice di saper fare: parlare con i morti.»
Gerard era scettico. «Veramente? Ho già sentito parlare di questa gente. Non sapevo che esistesse davvero. Immaginavo che fosse una delle tante storie che raccontano le canaglie per scocciare gli altri.»
«Io posso garantire per Nightshade, mio signore sceriffo», la rassicurò Rhys sorridendo. «Non è un tipico kender manolesta. È capace di comunicare con i morti. Gliel’ho visto fare. A meno che, naturalmente, gli spiriti non se ne siano andati, nel qual caso lui può fornire questa informazione. Forse può essere di conforto alla vedova.»
Gerard scrutò il kender. «Una volta ho conosciuto un kender», ricordò tranquillamente, parlando più a se stesso che a Rhys. «Neanche lui era un tipico kender. Darò una possibilità a questo qui, fratello, specialmente se voi garantite per lui.»
Un attimo dopo, Nightshade arrivò in tutta fretta. «Io e la vedova andiamo al cimitero a parlare con suo marito. A lei manca terribilmente e vuole accertarsi che se la stia cavando bene senza di lei. Probabilmente starò fuori quasi tutto il pomeriggio. Dove ti trovo?»
«Puoi trovare il tuo amico qui», rispose Gerard, interrompendo Rhys. «Avrete un posto nella sala di ritrovo per dormire stanotte.»
«Basta dormire nelle scuderie! Meraviglioso. Mi sto stancando di sentire l’odore dei cavalli», si lamentò Nightshade, e prima che Rhys potesse contraddire lo sceriffo, il kender era già schizzato via.
Gerard scrutò Rhys. «Vi affido la responsabilità di svuotargli le tasche quando ritorna.»
«Non dovete preoccuparvi di questo, mio signore. Nightshade non è molto bravo a "prendere a prestito". Se ci prova, è così inetto che viene quasi sempre colto sui fatto. È molto più interessato a parlare con i morti.»
Gerard sbuffò e scrollò il capo. Sedendo dall’altra parte del tavolo rispetto a Rhys, lo sceriffo guardò con curiosità il monaco, più interessato a lui che al kender, perché di questi, gli dèi lo sapevano, Solace ne aveva in abbondanza.
La cameriera portò scodelle piene di uno stufato saporito, così denso di carne e verdure che Rhys a malapena riusciva ad affondarci il cucchiaio. La cameriera depose una ciotola d’acqua e un osso carnoso per Atta, che accettò la leccornia dopo un’occhiata a Rhys e dopo avere lasciato che la cameriera le accarezzasse la testa. Atta trascinò l’osso sotto il tavolo, si accasciò sopra i piedi di Rhys e prese a sgranocchiare soddisfatta.
«Avete detto che state cercando qualcuno?» domandò Gerard, appoggiandosi all’indietro sulla sedia e guardando Rhys con due occhi che avevano una stupefacente sfumatura di azzurro. «Io non ci penso neanche a provare a controllare tutti quelli che arrivano a Solace, ma vado parecchio in giro. Chi state cercando?»
Rhys spiegò che stava cercando suo fratello. Descrisse Lleu come uno che indossava la veste di chierico di Kiri-Jolith e passava il tempo in taverne e birrerie.
«Da dove venite?»
«Staughton», rispose Rhys.
Lo sceriffo inarcò le sopracciglia. «Avete viaggiato a lungo alla ricerca di questo giovanotto, fratello; vi siete preso un grosso fastidio. Mi sembra che debba esserci qualcosa di più che una famiglia in ansia per un giovane vagabondo.»
Rhys aveva deciso di tenere per sé la verità riguardo a Lleu, sapendo che se avesse detto a qualcuno che suo fratello era colpevole di omicidio, Lleu sarebbe stato inseguito e massacrato come una bestia feroce. Rhys scoprì che quell’uomo, Gerard, gli piaceva, il suo comportamento tranquillo si accordava bene con quello dello stesso Rhys. Se Rhys avesse trovato Lleu, sarebbe stato obbligato a consegnarlo alle autorità locali in attesa di essere assicurato alla giustizia da parte del Profeta di Majere. Sarebbe stato il Profeta a stabilire il destino di Lleu, poiché il suo delitto era stato commesso in un monastero. Rhys decise di raccontare allo sceriffo almeno una parte della sua storia.
«Mi rincresce dire che mio fratello ultimamente è diventato un seguace di Chemosh, Dio dei Morti», spiegò a Gerard. «Temo che sia vittima di qualche maleficio operato da un discepolo di Chemosh. Io devo trovare Lleu per fare spezzare l’incantesimo, se è possibile.»
«Prima Takhisis, adesso Chemosh», ringhiò Gerard, passandosi la mano fra i capelli e facendoseli stare dritti. «Talvolta mi domando se il ritorno degli dèi sia stata una benedizione. Ce la cavavamo benissimo da soli, se non teniamo conto dei draghi dominatori, naturalmente. Adesso abbiamo già abbastanza guai, vuoi con gli elfi profughi, voci di un concentramento di truppe di goblin nel Qualinesti meridionale, e il nostro signorotto che depreda i viandanti, il capitano Samuval. Non ci servono dèi come Chemosh che vengano a complicare le cose. Ma d’altronde immagino che voi ve ne siate accorto da solo, Rhys, dato che non siete più un monaco di Majere, eh? Portate però un abbigliamento da monaco, per cui dovete essere un monaco di qualche genere.»
«Capisco perché siate stato assunto come sceriffo, mio signore», osservò Rhys, incrociando e sostenendo lo sguardo di quegli occhi azzurri. «Avete la capacità di interrogare un uomo senza dargli l’impressione di essere interrogato.»
Gerard alzò le spalle. «Nessuna offesa, fratello. Io sono un bravo sceriffo perché mi piace la gente, perfino i furfanti. Questo lavoro non è mai noioso, posso dirvi questo.»
Appoggiò i gomiti sul tavolo e studiò attentamente Rhys. «Eccovi qui, un monaco che conduce una vita da monaco di Majere e segue le abitudini di un monaco di Majere, eppure afferma di non essere un monaco di Majere. Non lo trovereste interessante?»
«Io trovo interessante tutto ciò che riguarda l’umanità, mio signore sceriffo», rispose Rhys.
Gerard fu sul punto di rispondere, quando la loro conversazione fu interrotta. Uno dei suoi uomini entrò nella taverna e lo raggiunse in fretta. I due conferirono tra loro a bassa voce, e Gerard si alzò in piedi.
«Il dovere mi chiama, purtroppo. Io non ho visto questo vostro fratello, ma darò un’occhiata in giro. Vi posso trovare qui, immagino.»
«Solo se posso svolgere qualche lavoretto per guadagnarmi il soggiorno», disse fermamente Rhys.
«Vedete? Che vi ho detto! Monaco una volta, monaco per sempre.» Gerard sorrise, strinse la mano di nuovo a Rhys e se ne andò. Aveva fatto appena qualche passo che si voltò: «Quasi mi dimenticavo. C’è un tempio abbandonato a qualche isolato dalla piazza del municipio, in quella che noi del posto chiamiamo "Via degli Dèi". Sembra che questo tempio una volta fosse dedicato a Chemosh. È vuoto da sempre, per quanto se ne sappia qui, ma chissà? Forse è ritornato. Oh, c’è una taverna fuori dalle strade più battute, si chiama Mangiatoia. È frequentata dai giovani buoni a nulla. Potreste cercare lì vostro fratello.»
«Grazie, mio signore sceriffo. Farò indagini in tutti e due i posti», rispose Rhys, grato per i suggerimenti.
«Buona caccia», gridò Gerard con un gesto della mano nell’uscire.
Rhys si mangiò lo stufato e riportò la scodella in cucina, dove finalmente riuscì a persuadere la riluttante Laura Majere a consentirgli di guadagnarsi vitto e alloggio. Ordinando ad Atta di restare in un angolo, dove non sarebbe stata fra i piedi, Rhys lavò i piatti, trasportò acqua e legna su per le scale della cucina e tagliò a pezzetti le patate destinate a essere usate per una delle prelibatezze più note della taverna.
Era tardo pomeriggio quando Rhys ebbe finito i suoi lavoretti. Nightshade non era ancora ritornato. Rhys chiese alla cuoca indicazioni per la Mangiatoia. Ricevette un’occhiata stupefatta. La cuoca era certa che Rhys dovesse sbagliarsi. Rhys insistette e alla fine la cuoca glielo disse, arrivando perfino ad andare in cima alle scale per indicargli la strada da prendere.
Prima di partire, Rhys portò Atta nelle stalle e le diede l’ordine di aspettarlo. La cagna si stese sul ventre in mezzo alla paglia, si mise la testa fra le zampe e alzò lo sguardo verso di lui. Non era contenta, ma era pronta a obbedire.
Rhys aveva riflettuto se portarla con sé. Atta era un cane obbediente, uno dei migliori che Rhys avesse mai addestrato, ma fin dall’inizio si era adombrata nei confronti di Lleu e, dopo il violento attacco di questi al padrone di Atta, Rhys temeva che se i due fossero venuti di nuovo a contatto Atta non avrebbe atteso il comando del padrone ma si sarebbe avventata alla gola di Lleu.
Rhys le diede una carezza e qualche avanzo di carne come per scusarsi e per assicurarle che non veniva punita, quindi se ne andò, diretto verso la Mangiatoia, che dal nome si sarebbe detto proprio il genere di luogo frequentato da suo fratello.
Rhys non andò subito alla Mangiatoia come aveva previsto. Scoprendo che la Via degli Dèi non era lontana dalla piazza principale, decise di far visita al tempio in rovina prima di uscire dalla città, sperando di ottenere informazioni che potessero rivelarsi utili nell’affrontare suo fratello, nel caso fosse riuscito a trovarlo.
La fine della Guerra delle Anime aveva portato al ritorno degli dèi, e al ritorno dei loro chierici, che operavano miracoli in nome delle proprie divinità e conquistavano seguaci. Costruirono nuovi templi dedicati ai vari dèi, e qui a Solace, come in altre città, i templi tendevano a raggrupparsi nella stessa zona della città, più o meno come i mercanti di spade erano ubicati nella Via delle Spade, i mercanti di tessuti nella Via delle Stoffe e le botteghe di magia nel Vicolo dei Maghi. Secondo alcuni avvenne così affinché gli dèi, che già una volta erano stati ingannati da uno di loro, potessero tenersi d’occhio reciprocamente.
La Via degli Dèi era ubicata accanto alla Tomba degli Ultimi Eroi. Rhys si fermò a dare un’occhiata al monumento, il quale, s’avvide con gratitudine, rimaneva fedele ai suoi ricordi d’infanzia. Alcuni cavalieri di Solamnia erano dislocati come guardia d’onore davanti alla Tomba. Alcuni kender facevano un picnic sul prato e festeggiavano il loro eroe, il famoso Tasslehoff Burrfoot. La tomba era addobbata con un riguardo e una solennità che Rhys trovò riposanti. Dopo avere dedicato un momento di muto rispetto ai defunti che riposavano all’interno, proseguì verso la strada in cui vivevano gli dèi.
La Via degli Dèi vedeva un’ attività frenetica, con diversi nuovi templi in costruzione. Il tempio di Mishakal era il più grande e il più sontuoso, poiché fu a Solace che la sua discepola Goldmoon di Que-Shu era arrivata recando il miracoloso bastone di cristallo azzurro. Per questo motivo la popolazione di Solace affermava sempre che la dea nutrisse un interesse personale per gli abitanti. Il tempio di Kiri-Jolith era quasi altrettanto grande e si trovava a fianco a fianco con quello di Mishakal. Rhys vide uscire da questo tempio diversi uomini muniti di cotta d’arme che li contrassegnava come cavalieri di Solamnia.
Accanto a questi due, Rhys rimase confuso nel vedere un tempio dedicato a Majere. Non si era aspettato di trovare un simile tempio, ma ripensandoci immaginò che si sarebbe dovuto preparare a questo. Solace era un importante crocevia della regione. Collocare qui un tempio offriva ai chierici di Majere facile accesso a una vasta parte dell’occidente di Ansalon.
Rhys attraversò la strada per procedere sulla parte opposta rispetto al tempio, tenendosi nell’ombra. Se i comuni profani lo scambiavano per monaco di Majere, i chierici di Majere avrebbero fatto lo stesso e avrebbero subito scoperto la verità, poiché a Rhys non sarebbe mai venuto in mente di dire bugie. Poteva ben essere intercettato e interrogato e condotto davanti all’abate del tempio per un «colloquio». Forse avevano perfino sentito il Profeta di Majere parlare degli assassinii e avrebbero voluto discuterne. I chierici sarebbero stati ben intenzionati, naturalmente, ma Rhys non voleva perdere tempo a rispondere alle loro domande, né riteneva di essere all’altezza della situazione.
Diversi chierici con le loro vesti color rame e arancione erano al lavoro nel giardino del tempio. Interruppero le loro attività per osservare con curiosità Rhys. Lui proseguì per la sua strada, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
Una raffica di vento, l’odore del mare e la sensazione di un braccio intrecciato al suo annunciò la presenza della sua dea.
«Tieniti vicino a me, monaco», ordinò perentoriamente Zeboim. «I ficcanasi di Majere in questo modo non ti noteranno.»
«Non ho bisogno della vostra protezione, maestà», disse Rhys, cercando invano di sottrarsi al suo abbraccio. «E non ve l’ho chiesta.»
«Tu non mi chiedi mai niente», ribatté Zeboim, «e io sarei così felice di accontentarti».
Si strinse a lui, in modo da fargli sentire la sua morbidezza e il suo calore.
«Che corpo sodo e muscoloso hai», proseguì Zeboim con tono ammirato. «Tutte queste tue camminate, presumo. Se fai una scenata», soggiunse, con la voce dolce come una brezza estiva in cui vi era appena un accenno di tuono, «passerai il resto della serata a discutere del bene della tua anima, invece di parlare con tuo fratello».
Rhys le rivolse un’occhiata penetrante. «Voi sapete dove sia Lleu?»
«Sì, e lo sai anche tu», rispose la dea con un’occhiata eloquente.
«La Mangiatoia?»
«Adesso è lì, a ingurgitare un bicchiere dopo l’altro di liquore dei nani. Sta bevendo tanto da far pensare che i produttori stiano per estinguersi. E si estinguerebbero, se fosse per me. Piccoli bastardi pelosi, i nani.»
«Grazie per l’informazione, maestà», disse Rhys, cercando nuovamente di divincolarsi. «Devo andare da Lleu...»
«Certamente, devi andare. Ci andrai. Ma non prima di avere fatto visita al mio tempio», suggerì Zeboim. «È qui in fondo alla strada. È lì che eri diretto, immagino.»
«In verità, maestà...»
«Non dire mai la verità a una donna, monaco», ammonì Zeboim.
Rhys sorrise. «Allora, sì, è lì che ero diretto.»
«E hai qualche piccolo dono per me?» domandò maliziosamente la dea.
«I miei averi consistono nella bisaccia e nell’emmide», rispose Rhys, sorridendo. «Quale preferite, maestà?»
Zeboim guardò con disdegno gli oggetti profferti. «Una sacca di cuoio puzzolente o un bastone. Non voglio nessuno dei due, grazie.»
Superarono il tempio di Majere. Vedendo Rhys camminare con una donna, i chierici capirono che non era uno dei loro e tornarono alle loro attività. Più avanti vi era il tempio di Zeboim, una struttura modesta costruita con legname galleggiante trasportato qui dalle coste del Mare Nuovo, decorata con conchiglie. Prima che raggiungessero l’ingresso, Zeboim si fermò e si girò verso Rhys.
«Il tuo dono alla dea sarà un bacio.»
Rhys le prese la mano e rispettosamente se la portò alle labbra.
Zeboim gli diede uno schiaffo sulla guancia. Il colpo fu duro, gli lasciò la pelle ardente e la mascella dolorante.
«Come osi burlarti di me?» tuonò la dea, fremente.
«Non mi burlo di voi, maestà», ribatté tranquillamente Rhys. «Vi dimostro il mio rispetto, così come spero voi abbiate rispetto per me e per i voti che ho preso: voti di povertà e di castità.»
«Voti verso un altro dio!» esclamò con disprezzo Zeboim.
«Voti verso me stesso, maestà», precisò Rhys.
«Che m’importa dei tuoi stupidi voti? E non voglio nemmeno il tuo rispetto!» Zeboim era furiosa. «Io devo essere temuta, adorata!»
Rhys non si scompose davanti a lei, né si toccò la guancia che gli pizzicava. Zeboim si fece improvvisamente calma, pericolosamente calma, come i mari che si acquietano prima della tempesta.
«Sei un uomo insolente e ostinato. Ti sopporto per una sola ragione, monaco. Guai a te se mi deludi!»
La dea se ne andò, lasciando Rhys prosciugato come fosse appena tornato dal campo di battaglia. Zeboim non voleva un seguace. Voleva catturarlo, farlo prigioniero, costringerlo a lavorare per lei come uno schiavo incatenato in una galea. Rhys aveva una sola arma per tenerla a distanza ed era la disciplina: disciplina del corpo, disciplina della mente. Zeboim non la capiva e non sapeva come combatterla. Lui la faceva infuriare, eppure la affascinava. Rhys sapeva però che sarebbe giunto il momento in cui quella dea volubile avrebbe smesso di essere affascinata e avrebbe dato sfogo alla propria furia.
All’estremità opposta della strada Rhys vedeva il tempio fatiscente di Chemosh, le cui rovine erano sparpagliate in una distesa di erbacce. Rhys non aveva bisogno di andare lì, poiché adesso sapeva dove trovare Lleu, ma decise ugualmente di far visita al tempio. Aveva tutta la serata per trovare Lleu, che non se ne sarebbe andato tanto presto dalla taverna. Rhys diresse i suoi passi verso il tempio del Dio della Morte.
Forse era l’influsso del dio, o forse era soltanto la fantasia di Rhys, ma gli parve che le ombre della sera incipiente si raggruppassero attorno al tempio più fitte che in altri punti della strada. Gli sarebbe servita una luce per indagare e con sé non aveva lanterna. Ritornò al tempio di Zeboim. Non vide traccia di sacerdoti o sacerdotesse. Nessuno rispose ai suoi ripetuti richiami. Sull’altare ardevano diverse candele, sistemate in supporti realizzati in modo da assomigliare a barche di legno: doni a Zeboim offerti nella speranza che lei proteggesse quanti viaggiavano per mare o percorrevano i canali navigabili dell’interno.
«Avete detto che io non vi chiedo mai niente, maestà», disse Rhys alla dea. «Adesso vi chiedo qualcosa. Concedetemi il dono della luce.»
Rhys tolse dall’altare una delle candele e la portò all’esterno. Una folata di vento fece vacillare e quasi spegnere la fiamma, ma la dea cedette e Rhys, con la candela in mano, andò a perlustrare il tempio di Chemosh.
Blocchi di pietra erano caduti sulle scale sgretolate. Rhys dovette arrampicarvisi sopra per raggiungere l’ingresso, ma scoprì che era ostruito da un pilastro. Si infilò dentro a fatica attraverso una fenditura della parete. Il pavimento del tempio era disseminato di macerie e di polvere. Erba ed erbacce spuntavano dalle crepe. L’altare era incrinato e ricoperto da convolvoli. Gli eventuali oggetti sacri al dio erano stati portati via dai sacerdoti o dai saccheggiatori. Le orme dei piedi nudi di Rhys erano le uniche impronte nella polvere. Rhys tenne alta la fiamma, guardò meticolosamente tutto attorno al tempio. Nessuno veniva lì da tantissimo tempo.
Riportando la candela al tempio di Zeboim, Rhys la collocò nella sua barchetta di legno e rese grazie alla dea. Rivolse i propri passi verso il cammino che l’avrebbe condotto alla Mangiatoia.
«Qualunque cosa Chemosh stia facendo nel mondo, non gli interessa costruire monumenti», osservò fra sé Rhys passando accanto al tempio bellissimo, tutto realizzato in marmo bianco, di Mishakal.
Trovò inquietante quella riflessione, più inquietante che se si fosse imbattuto in un gruppo di sacerdoti dalle vesti nere intenti ad aggirarsi furtivi entro le mura del tempio e a fare risuscitare cadaveri a decine. Il Signore della Morte non si nascondeva più fra le ombre. Era fuori alla luce del sole, camminava fra i vivi, reclutava seguaci come quel disgraziato di Lleu.
Ma a quale fine? A quale scopo?
Rhys non ne aveva idea. Sperava, quando avesse trovato il fratello, di ottenere qualche risposta.
«Ehilà, Rhys!» Nightshade spuntò fuori dal crepuscolo e raggiunse di corsa l’amico. «Alla taverna mi hanno detto dove andavi e così ho pensato di venire con te. Dov’è Atta?»
«L’ho lasciata alla taverna», rispose Rhys.
«Lì la gente è simpatica», commentò Nightshade. «In molti posti non mi lascerebbero entrare, ma la signora che gestisce la taverna, sai, quella donna carina e grassoccia coi capelli rossi, insomma, mi ha detto che ha un debole per i kender. Uno dei migliori amici di suo padre era un kender.»
«Sei riuscito ad aiutare la vedova a mettersi in contatto con suo marito?» domandò Rhys.
«Ci ho provato.» Nightshade scrollò il capo. «La sua anima aveva già proseguito verso la parte successiva del suo viaggio. Non ci crederai, ma la vedova si è messa a fare salti di rabbia. Ha detto di immaginarsi che lei se ne sia andato con qualche donnaccia. Ho cercato di spiegarle che non funziona così, che l’anima andava ad ampliare i suoi orizzonti. Mi ha risposto che lui voleva sempre ampliarli con altre donne. Lei sposerà il fornaio e gli renderà la pariglia. Non mi ha dato soldi, ma mi ha portato a conoscere il fornaio, che mi ha regalato un pasticcio di carne.»
I due avanzarono per le strade, lasciandosi alle spalle la parte chiassosa e indaffarata di Solace ed entrando in una zona buia e deprimente. Non vi erano botteghe, solo una manciata di case cadenti in cui erano accese luci fioche. Pochi si aggiravano di sera in questa zona della città. Di quando in quando incontrarono qualche sbandato che si affrettava per la strada deserta, tenendo la testa bassa senza guardare né a destra né a sinistra, come timoroso di quello che avrebbe potuto vedere. Rhys incominciava a pensare di avere sbagliato strada, poiché sembrava che avessero raggiunto la fine del mondo civile, quando sentì l’odore di fumo di legna e scorse dentro una finestra la luce tremolante di un caminetto. Voci alte intonavano una canzone oscena.
«Credo che l’abbiamo trovato», disse Nightshade.
La Mangiatoia originaria non esisteva più da tempo. Era stata rasa al suolo da un incendio, al pari di diverse incarnazioni successive. La prima volta aveva preso fuoco la cucina. Poi era toccato al camino. Una volta dei draconici ubriachi avevano dato fuoco alla taverna dopo essersi visti presentare un conto da loro considerato irragionevole, e un’altra volta aveva appiccato il fuoco il proprietario stesso per motivi che non furono mai chiariti. Ogni volta la taverna era stata ricostruita, grazie a denaro che si diceva essere stato fornito dai nani delle colline, poiché questo era uno dei pochi luoghi rimasti nell’Abanasinia dove si potesse acquistare il potente alcolico chiamato liquore dei nani.
La taverna era acquattata nelle fitte ombre di un boschetto accanto al margine della strada e aveva poche caratteristiche che la distinguessero. Anche quando Rhys ne fu vicino, non riuscì ad avere un’impressione chiara dell’edificio, se non che era lungo e basso, traballante e instabile. Vantava un’unica finestra sul lato anteriore. Il vetro della finestra doveva essere costato più dell’intero edificio e Rhys si domandò perché il proprietario se ne fosse preso la briga. In realtà la finestra non era lì per motivi estetici, ma perché quelli dentro potessero tenere d’occhio quelli fuori e se necessario scappare rapidamente attraverso la porta sul retro.
Rhys mise la mano sulla maniglia della porta di ferro, notando che era viscida al tatto, e si chinò per dire a bassa voce al kender: «Non credo che tu possa trovare molto lavoro qui. Sarebbe meglio che tu non cercassi di offrire i tuoi servizi per entrare in contatto con i morti».
«Stavo pensando la stessa cosa», ribatté Nightshade.
«E non credo nemmeno che sia il momento buono per prendere a prestito qualcosa da qualcuno.»
«Sembra che non sia mai il momento buono», ribatté allegramente Nightshade. «Non preoccuparti. Terrò le mani in tasca.»
«E poi», soggiunse Rhys, «se mio fratello è qui, lascia che parli io».
«Io mi farò vedere ma non sentire», disse Nightshade. Sembrava un po’ scoraggiato. «Sento la mancanza di Atta.»
«Anch’io», e così dicendo aprì la porta.
Il fuoco che ardeva pigramente nel caminetto in fondo alla taverna era l’unica fonte di luce, e faceva tanto fumo che non serviva a molto. Rhys scrutò l’interno fosco della taverna. Il canto si zittì a mezza nota quando entrarono lui e il kender, a parte un ubriaco che comunque non cantava la stessa canzone e che continuò monotono senza interrompersi.
Rhys vide subito Lleu. Il fratello sedeva a un tavolo da solo nel mezzo della taverna. Era nell’atto di bere una sorsata da un boccale di terracotta quando Rhys entrò. Pulendosi la bocca, Lleu ripose sul tavolo il boccale. Guardò il nuovo entrato, poi distolse lo sguardo, senza interesse.
Rhys attraversò la stanza fino al tavolo a cui era seduto il fratello. Temeva che il fratello cercasse di scappare, quando lo avesse riconosciuto, per cui gli parlò per primo.
«Lleu», disse con calma Rhys, «non allarmarti. Sono venuto a parlare con te. Nient’altro».
Lleu alzò lo sguardo. «Per me va bene, amico», disse con un sorriso che voleva essere gioviale ma aveva un che di forzato. «Siediti e parla.»
Rhys rimase sconcertato. Non era questa la reazione che si aspettava. Rhys fissò Lleu, che rispose al suo sguardo, e Rhys si rese conto che il fratello non l’aveva riconosciuto. Data l’atmosfera fosca e fumosa della taverna e considerando che lui non portava più una veste arancione, era forse comprensibile. Rhys si sedette al tavolo di suo fratello. Nightshade si lasciò cadere di peso accanto a lui. Il kender osservò Lleu con gli occhi spalancati, poi guardò Rhys e sembrò sul punto di dire qualcosa. Rhys scrollò il capo e Nightshade si rammentò che doveva stare zitto.
«Lleu, sono io, Rhys, tuo fratello»
Lleu gli rivolse un’occhiata annoiata e tornò al suo boccale. «Se lo dici tu.»
«Non mi riconosci, Lleu?» insistette Rhys. «Eppure dovresti riconoscermi. Hai cercato di uccidermi.»
«Evidentemente non ci sono riuscito», grugnì Lleu. Sollevò il boccale, bevve una lunga sorsata di liquore e lo rimise giù. «Allora non hai niente di che lamentarti, a quanto vedo. Bevi qualcosa?»
Lleu porse il boccale al fratello. Al rifiuto di Rhys, Lleu lo offrì al kender. «E tu, piccolino?»
«Sì, grazie... oh, no, meglio di no», rispose Nightshade, cogliendo lo sguardo di Rhys.
«Fa lo stesso», proseguì Lleu, spostando via il boccale con disgusto. «Questo maledetto liquore deve essere per più di metà acqua. Questo è il mio secondo boccale e ancora ne vedo solo uno di te, monaco, e solo uno di questo tuo amichetto qui. Di solito dopo tre sorsi ne vedo sei di tutti e per giunta vedo dei goblin rosa.»
Girò la testa e dietro le spalle urlò: «Ehi, dov’è la mia cena?».
«Hai già mangiato», disse una voce dalla prossimità del bancone, che si perdeva nell’oscurità della caligine fumosa.
«Non mi ricordo di avere mangiato», grugnì Lleu.
«Be’, hai mangiato», ripeté aspramente la voce. «Hai il piatto vuoto davanti.»
Lleu guardò accigliato il tavolo e vide un piatto di peltro ammaccato e un coltello storto.
«Allora ho di nuovo fame. Portami ancora un po’ di questa brodaglia.»
«Prima però mi paghi quello che hai già mangiato. E quei due boccali di liquore.»
«Ho di che pagare», ringhiò Lleu. «Sono un chierico di Kiri-Jolith, per l’amor del cielo.»
In mezzo al fumo si udì una sbuffata.
«Io ho un pezzo di pasticcio di carne che non sono riuscito a finire», intervenne Nightshade e tirò fuori il pasticcio avvolto in un fazzoletto con macchie d’unto.
Lleu ghermì il pasticcio e lo divorò famelico, come se non mangiasse da giorni. «Ce n’è ancora?»
«Mi dispiace», disse il kender.
«Non so perché», mormorò Lleu. «Mangio e mangio e non mi sazio mai. Deve essere il maledetto cibo di queste parti. Ha sempre lo stesso gusto. Insipido, come questo liquore dei nani. Non c’è sapore.»
Rhys prese il braccio del fratello, lo strinse forte.
«Lleu, smetti di parlare di cibo e liquore dei nani. Non hai alcun rimorso per quello che hai fatto? Per il crimine tremendo che hai commesso?»
«No, non ne ha», s’intromise il kender.
«Ti ho detto di stare zitto», ordinò con impazienza Rhys.
Nightshade si chinò verso Rhys e gli mise la mano sul braccio. «Tu ti rendi conto che è morto, vero?»
«Nightshade, non ho tempo...»
Le parole si congelarono sulla lingua di Rhys. Guardò il fratello. Lentamente mollò la presa, allentò la stretta al braccio del fratello.
Senza scomporsi, Lleu si appoggiò all’indietro sulla sedia. Sollevò il boccale, bevve un’altra sorsata, quindi lo depose con un tonfo.
«Dov’è la mia roba da mangiare?» gridò.
«Chiedimela di nuovo e l’avrai subito: te la infilo direttamente nel culo.»
«Nightshade, di che parli?» sussurrò Rhys. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal fratello. «Che vuoi dire con "è morto"?»
«Quello che ho detto», rispose il kender. «È morto come un chiodo di bara. Ancora non lo sa. Vuoi che glielo dica? Potrebbe restare sconvolto...»
«Nightshade, se è qualche genere di scherzo...»
«Oh, no», protestò Nightshade, inorridito da quella semplice ipotesi. «Io posso scherzare su tante cose, ma non sul mio lavoro. Io lo prendo molto sul serio. Tutti quei poveri spiriti che attendono di essere liberati...» Il kender si interruppe, ammiccò a Rhys. «Davvero non vedi che è morto?»
Lleu aveva dimenticato che loro fossero lì. Guardava il fumo, bevendo ogni tanto una sorsata dal boccale, più per la forza dell’abitudine, apparentemente, che per il piacere che ne traeva.
«Si comporta in maniera molto strana», ammise Rhys. «Ma respira. Ha la carne calda al tatto. Mangia e beve, sta seduto e parla con me...»
«Già, questo è il lato strano», commentò Nightshade, accartocciando il viso con un’espressione perplessa. «Nella mia vita ho visto un sacco di cadaveri, ma erano tutti tranquilli e pacifici. È la prima volta che ne vedo uno seduto in una taverna a bere liquore dei nani e a trangugiare pasticci di carne.»
«Non è divertente, Nightshade», disse severamente Rhys.
«Be’, è difficile da spiegare!» Il kender era sulla difensiva. «È come cercare di dire a un cieco che aspetto ha il cielo. Io vedo che è morto perché... perché dentro di lui non c’è luce.»
«Non c’è luce...» ripeté a bassa voce Rhys. Rammentò le parole del Maestro: Lleu è la propria ombra.
«Se io guardo te o quei due uomini che giocano a dadi laggiù nell’angolo, vedo una sorta di luce che si sprigiona. Oh, non è granché. Non è luminosa quanto il fuoco e nemmeno quanto la fiamma di una candela. Non potresti leggere un libro con quella luce, né trovare la strada nel buio o cose del genere. È soltanto un bagliore tremolante, vacillante. Come gli ultimi bagliori di una fiamma prima di finire in fumo. Una luce così. Quando lo tenevi, sentivi il polso? Potresti controllare.»
Rhys allungò la mano e afferrò il polso del fratello.
«Che stai facendo?» domandò Lleu, guardando accigliato Rhys.
«Ho paura che tu non stia bene», rispose Rhys.
«È un eufemismo», mormorò il kender.
«Sto benissimo, ti assicuro. Non mi sono mai sentito meglio. Chemosh si prende cura di me.»
«Ebbene?» domandò ansiosamente il kender a Rhys.
Rhys percepì qualcosa che poteva essere il polso ma non esattamente uguale. Non sembrava il fluire della vita sotto la pelle. Piuttosto come acqua gonfia in moto pigro sotto uno spesso strato di ghiaccio.
«E gli occhi?» Nightshade si chinò in avanti sulla sedia, cercando di vedere Lleu attraverso il fumo.
Rhys aveva una visuale migliore. Guardò negli occhi il fratello e balzò all’indietro.
Aveva visto in precedenza simili occhi che lo guardavano da una tomba. Occhi che erano vuoti. Occhi che non avevano dietro nessun’anima.
Gli occhi di Lleu erano gli occhi dei morti.
Non poteva accettarlo come prova, però, poiché incominciava a dubitare dei propri sensi. Suo fratello sembrava vivo, parlava da vivo, la sua carne pareva viva al tatto. Eppure vi erano l’avvertimento del Maestro, la valutazione del kender e, adesso che Rhys ci pensava, la reazione di Atta. La cagna si era messa contro di lui fin da principio, l’aveva affrontato a denti scoperti e col pelo del collo rizzato. Non aveva voluto che si avvicinasse alle pecore. L’aveva morso quando lui aveva cercato di metterle le mani addosso.
Rhys poteva ipotizzare che il Maestro avesse parlato metaforicamente. Poteva non badare al kender perché diceva sciocchezze. Ma Rhys si fidava della cagna. Atta si era resa conto, dal momento in cui aveva visto e annusato Lleu, che in lui qualcosa non andava.
«Hai ragione», ammise a bassa voce Rhys. «Ha gli occhi di un cadavere.»
Lleu spinse all’indietro la sedia, si alzò. «Devo andare. Ho un appuntamento. Con una donzella.» Strizzò l’occhio e fece uno sguardo lascivo.
«Non sarà Mina, vero?» domandò Rhys.
La reazione di Lleu fu sbalorditiva. Allungando le mani al di là del tavolo, afferrò il colletto della veste di Rhys e quasi lo trascinò via dalla sedia.
«Dov’è lei?» domandò ansimando Lleu terribilmente impaziente. «È qui in giro da qualche parte? Dimmi come trovarla! Dimmelo!»
Rhys abbassò lo sguardo sulle mani del fratello, che gli stringevano la stoffa tessuta in casa. Aveva le nocche bianche per la tensione. Le dita gli tremavano.
«Non ho idea di dove sia», rispose Rhys. «Speravo me lo dicessi tu.»
Lleu lo guardò con occhio furioso e sospettoso. Poi lo lasciò andare.
«Scusa», mormorò Lleu. «Devo trovarla, ecco tutto. Va bene. Continuerò a cercarla.»
Lleu aprì la porta e uscì, sbattendo l’uscio alle proprie spalle. L’oste ruggì che voleva il suo denaro, ma ormai Lleu se n’era andato.
Rhys si alzò in piedi. Nightshade balzò su per tutta risposta.
«Dove andiamo?»
«Dietro a lui.»
«Perché?»
«Per vedere che fa, dove va.»
«Ehi!» urlò l’oste. «Pagate voi per il vostro amico?»
«Io non ho soldi...» incominciò a dire Rhys, ma fu interrotto dal suono di monete d’acciaio che tintinnavano sul bancone.
«Grazie», disse l’oste, raccogliendo le monete.
Rhys guardò Nightshade con fare accusatorio.
«Non sono stato io», si affrettò a dire il kender.
«Me ne devi due, monaco», disse la voce ardente di Zeboim dalle ombre fumose. «Adesso inseguilo!»
Rhys e Nightshade uscirono dalla taverna, correndo in silenzio dietro a Lleu, che si dirigeva verso Solace.
Presero precauzioni per evitare che lui notasse di essere seguito, anche se si rivelarono non necessarie, poiché lui nemmeno una volta si guardò alle spalle. Camminava spensieratamente per la strada, con la testa gettata all’indietro, cantando il ritornello della canzone oscena.
«Nightshade, ho sentito dire che ci sono morti viventi chiamati zombie.» Si sentiva strano a fare questa domanda, irreale, come in un sogno orribile. «È possibile...»
«... che lui sia uno zombie?» Nightshade scrollò violentemente il capo. «Tu non hai mai visto uno zombie, vero? Gli zombie sono cadaveri risuscitati dopo la morte. Il loro fetore basta a farti venire il voltastomaco. Hanno la carne in putrefazione, gli occhi fuori dalle orbite. Quando camminano procedono a passi strascicati perché non sanno muovere né le gambe né i piedi. Sono più simili a orribili marionette che a qualunque altra cosa. Non cantano, te lo assicuro, e non sono giovani e belli.»
«Dirò una cosa a favore di tuo fratello, Rhys», concluse solennemente Nightshade. «È il morto di più bell’aspetto che io abbia mai visto in vita mia.»
Rhys e Nightshade seguirono Lleu in una delle zone più nuove di Solace. Per alloggiare le numerose persone che si trasferivano in città, venivano costruite in tutta fretta delle case sotto gli alberi di vallen, anziché sui rami. Coloro che vivevano in queste case nuove erano in genere profughi sfuggiti alla distruzione causata da Beryl. Al loro arrivo a Solace vivevano in tende, ma ormai alcuni di loro si erano sistemati bene e volevano un’abitazione permanente.
Attorno al tronco di uno di questi alberi giganteschi si potevano costruire moltissime case. Per risparmiare denaro e legno, il progettista seguì l’idea degli elfi di usare l’albero stesso come una delle pareti della casa, per cui le case assomigliavano a funghi spuntati fuori dal fango alla base dell’albero. L’ora era tarda. Quasi tutte le case erano buie, i loro occupanti erano andati a dormire, ma qua e là brillava una luce a una finestra, riversando il suo bagliore sulla strada.
Lleu rallentò il passo, quando raggiunse questa zona della città, e smise di cantare. Si avvicinò a una delle case oscurate e sbirciò in una finestra. Quindi gironzolò su e giù per la strada, dando di quando in quando un’occhiata alla casa. Rhys e Nightshade rimasero nell’ombra a osservare e ad aspettare.
Qualcuno socchiuse la porta della casa. Una giovane donna avvolta in un mantello scivolò fuori e con fare silenzioso e furtivo si chiuse la porta alle spalle. Aveva difficoltà a vedere nel buio e si guardava attorno timorosa.
«Lleu?» chiamò con tono tremulo.
«Lucy, colombina mia.» Lui la prese fra le braccia e la baciò.
«No, no, non qui!» protestò lei senza fiato, respingendolo. «Immagina se mio marito dovesse svegliarsi e vederci!»
«Dove andiamo, allora?» disse Lleu, stringendola alla vita e strofinandole il viso sul collo. «Non riesco a staccare le mani da te.»
«Conosco un posto», disse lei. «Vieni con me.»
Tenendosi stretti, ridendo e scherzando, i due si affrettarono lungo la strada. Rhys e Nightshade li seguirono. Rhys era turbato, incerto sul da farsi. A quanto pareva era soltanto un appuntamento di mezzanotte con una giovane donna, perfettamente normale per un giovanotto come Lleu, a parte il fatto che Lleu era tutt’altro che normale e che la giovane donna era sposata.
Rhys avrebbe probabilmente dovuto interrompere tutto questo, prendere la donna e trascinarla a casa sua. Ci sarebbe stata una scenata col marito: lacrime e piagnistei, collera, una baruffa. I vicini si sarebbero svegliati. Qualcuno avrebbe chiamato le autorità.
No, si risolse Rhys. Da un tumulto non sarebbe venuto nulla di buono. Preferiva attendere il momento opportuno, aspettare fino a trovarsi in qualche luogo tranquillo, poi avrebbe cercato di parlare con Lleu.
La coppia raggiunse una zona isolata e deserta in mezzo a una pineta. Dall’aspetto dell’erba calpestata, questo doveva essere il luogo d’incontro degli innamorati. Non avevano neanche smesso di camminare che Lleu aveva già messo le mani dappertutto addosso alla donna. Le baciò il collo, le passò le mani sul seno, le sollevò la gonna.
«Per essere morto è piuttosto vivace», osservò Nightshade.
Rhys era a disagio nel guardare tutto questo. Sentiva di dover intervenire, anche se aveva dubbi su che cosa dire. La donna sarebbe stata imbarazzata e sconvolta. Lleu sarebbe stato furioso. Di nuovo, vi sarebbero state lacrime, recriminazioni.
La donna sospirò, ansimò e si aggrappò a Lleu, premendosi la testa di lui sul seno, passandogli le dita fra i capelli. Lleu le tolse il mantello e lo distese sugli aghi di pino. I due sprofondarono nel terreno.
«Dovremmo andarcene», osservò Rhys, e stava per voltarsi e andare quando le parole del fratello lo fermarono.
«Hai ripensato a quello di cui abbiamo parlato, tesoro?» domandò Lleu. «Riguardo a Chemosh?»
«Chemosh?» ripeté vagamente Lucy. «Non parliamo di religione adesso. Baciami!»
«Ma io voglio parlare di Chemosh», insistette Lleu, accarezzandole il seno con la mano.
«Quel vecchio dio ammuffito?» sospirò Lucy, arricciando le labbra. «Non capisco perché tu voglia parlare di dèi in un momento come questo.»
«Perché è importante per me», disse Lleu. La sua voce assunse un tono dolce. La baciò sulla guancia. «Per noi.» La baciò di nuovo. «Non posso fuggire con te se tu non giuri di adorare Chemosh, come me.»
«Non vedo che differenza faccia», commentò Lucy, fra un bacio e l’altro.
Lleu le sfiorò le labbra con le proprie. «Perché, dolcezza mia, io vivrò per sempre, così come sono adesso: giovane, vibrante, bello...»
Lei ridacchiò. «Sei così vanitoso!»
«Tu invece invecchierai. I capelli ti diventeranno grigi. La pelle ti si raggrinzirà e ti cadranno i denti.»
«Allora non mi amerai più», disse Lucy, esitante.
«Tu morirai, Lucy», mormorò Lleu, accarezzandole la guancia con la mano. «E io sarò vivo e in salute e avrò bisogno di qualcuno con cui dividere il letto...»
«E se io adoro Chemosh, lui mi manterrà giovane e bella?» domandò Lucy. «Per sempre?»
«Per sempre», disse Lleu. «E per tutto questo tempo io ti amerò.»
«Be’, allora», ridacchiò Lucy, «io offro la mia anima a Chemosh!»
«Non te ne pentirai, amore mio», disse Lleu.
Le tirò giù il corpetto, scoprendole il seno bianco sotto la luce lunare. Lucy sospirò e rabbrividì e gli pose la mano sulla testa, attirandolo a baciarle la carne morbida. Lui premette le labbra contro il seno sinistro, tenendola stretta fra le braccia.
«Lleu», disse Lucy, cambiando tono. «Lleu, mi fai male... ah!» Il grido si intensificò diventando un urlo di dolore. Il corpo di Lucy si contorceva e si agitava. Rhys balzò in piedi e corse verso la coppia, con Nightshade a sfrecciargli dietro.
«Sta morendo!» gridò il kender. «La sta uccidendo! La luce del suo spirito svanisce.»
La giovane donna rabbrividì, il corpo le si irrigidì, quindi si afflosciò.
Rhys afferrò Lleu, lo strappò via da lei e lo scagliò di lato. Inginocchiandosi a terra, prese fra le braccia il corpo della donna, sperando di percepire ancora qualche scintilla di vita.
«Troppo tardi», sentenziò freddamente Lleu. Si alzò in piedi, guardò la donna morta con aria spassionata, come osservando un lavoro ben fatto. «Adesso appartiene a Chemosh.»
La donna non respirava più. Aveva gli occhi vuoti e privi di conoscenza. Rhys le tastò il collo alla ricerca della pulsazione vitale, non la trovò. Sul seno, marchiata a fuoco nella carne, vi era l’impronta delle labbra di suo fratello.
«Majere», pregò Rhys. «Lei non sapeva che cosa stesse dicendo. Abbiate pietà di lei. Restituitele la vita!»
Rhys cambiò leggermente posizione. La testa della donna penzolò da un lato. Il braccio flaccido scivolò via dal ginocchio di lui e cadde floscio a terra. Rhys rimase in ascolto della voce del dio.
«Non punite questa donna innocente per causa mia, signore!» supplicò Rhys. «La sua morte è colpa mia! Io avrei potuto salvarla, come avrei potuto salvare i miei confratelli.»
Non giunse alcuna risposta. L’unico suono fu la risata di scherno di Lleu.
«Zeboim», gridò Rhys, con la voce aspra. «Concedete a questa povera donna la vita.»
Un’eco della risata di scherno di suo fratello gli giunse dalle ombre degli alberi.
Rhys depose delicatamente a terra il corpo della donna.
«Il suo spirito se n’è andato», disse Nightshade. «Mi dispiace, Rhys. Non si può fare niente. Temo che tuo fratello abbia ragione. Chemosh se l’è portata via.»
Alzandosi in piedi, Rhys si rivolse al fratello. «Non volevo farlo, Lleu, ma non mi lasci altra scelta. Sei mio prigioniero. Ti porto dalle autorità. Sarai accusato di omicidio. Voglio che tu venga con me senza opporre resistenza. Non voglio farti del male, ma te lo farò se sarà necessario.»
Lleu alzò le spalle. «Verrò con te spontaneamente, fratello. Ma credo che tu troverai difficile far valere quell’accusa di omicidio.»
«Perché?» domandò arcignamente Rhys.
«Perché non c’è stato nessun omicidio», disse una voce alle sue spalle, con una risatina.
Lucy balzò in piedi e corse a mettersi accanto a Lleu. Lo strinse fra le braccia, gli si premette contro. Aveva i capelli scarmigliati, il corpetto slacciato. Rhys vedeva ancora il segno rosso e infuocato delle labbra di Lleu sul petto, che si alzava e si abbassava con l’alito di vita. Lucy guardò Rhys con una risata di scherno negli occhi.
«Io sono viva, monaco. Più viva che mai.»
«Tu eri morta», disse Rhys, con la gola che gli si strozzava. «Sei morta fra le mie braccia.»
«Forse», rispose maliziosamente Lucy, «ma chi ti crederà? Nessuno. Nessuno in tutto il mondo.»
«Vuoi che venga con te dallo sceriffo, fratello?» domandò Lleu. «Posso presentargli un paio di altre donzelle che ho conosciuto durante la mia permanenza a Solace. Donne che adesso capiscono e abbracciano la via di Chemosh.»
Rhys incominciava a capire, anche se ciò che capiva era tanto orrendo che lui trovava difficile accettarlo.
«Tu sei morto», disse.
«No, fratello, io sono uno dei Prediletti di Chemosh», lo corresse Lleu.
Lui e Lucy risero.
«Ho cercato di spiegarti tutto una volta, Rhys, ma non volevi ascoltarmi. Adesso lo vedi di persona. Guarda Lucy. È bellissima, splendente, radiosa. Ti sembra morta? Fagli vedere, Lucy.»
La giovane donna avanzò verso Rhys, con i fianchi ondeggianti, gli occhi socchiusi, le labbra dischiuse in maniera provocante. «Tuo fratello è invidioso, Lleu. Mi vuole per sé.»
«È tutto tuo, colombina mia», disse Lleu. «Divertiti...»
Lucy continuò ad avanzare, con la testa gettata all’indietro, le ciglia socchiuse, le labbra dischiuse.
«Uccidila!» urlò all’improvviso Nightshade.
Rhys indietreggiò di un passo. Non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, da quella donna che gli era morta fra le braccia e che adesso lo blandiva con un sorriso civettuolo.
«Uccidila e uccidi anche lui», ripeté Nightshade con insistenza.
«Secondo Lleu, loro non possono essere uccisi», disse Rhys. «Inoltre, ci sono già stati troppi morti.»
Lucy prese il colletto della veste di Rhys, infilò le mani al di sotto.
«Non sei mai stato con una donna, vero, monaco? Non vorresti scoprire che cosa ti sei perso in tutti questi anni?»
Rhys gettò di lato le mani di lei che lo stringevano, la spinse via.
«Devi cercare di ucciderli», continuò Nightshade implacabile, «altrimenti commetteranno molti altri omicidi.»
«Un monaco di Majere non uccide...» mormorò Rhys.
«Tu non sei un monaco», ribatté brutalmente Nightshade, «e anche se lo fossi, non ha importanza. Loro sono già morti!»
«Io non posso esserne certo.» Rhys scrollò il capo.
«Invece sì! Guardala negli occhi, Rhys! Guardala negli occhi!»
Rhys guardò negli occhi la ragazza. Non vide un vuoto, come aveva visto negli occhi di suo fratello, ma qualcosa di più terribile. Aveva già visto in precedenza uno sguardo simile e cercò di rammentare dove. Poi gli venne in mente: gli occhi di un lupo che stava morendo di fame. Spinto dalla fame, cercando disperatamente di che nutrirsi, l’animale, in preda a quella necessità, aveva vinto ogni altro istinto, compresa la paura. Rhys si era armato con due fiaccole accese. Atta con i denti aveva lacerato il fianco del lupo. Il lupo si era scagliato direttamente alla gola di Rhys...
Vide negli occhi di Lucy che le parole del kender erano vere. Lei avrebbe ucciso ancora per soddisfare quella necessità disperata. Ripetutamente...
Rhys sollevò l’emmide e lo spinse dritto in fronte alla ragazza. La testa di lei scattò all’indietro e Rhys udì chiaramente spezzarsi l’osso del collo. La donna si accasciò a terra, con la testa contorta a un’angolazione strana. Rhys girò su se stesso per affrontare suo fratello.
Lleu era adagiato contro un albero, con le braccia ripiegate sul petto, e osservava con un sorriso gli eventi.
Rhys afferrò il bastone e prese ad avanzare contro il fratello.
«Attento! Dietro di te!» si levò stridula la voce di Nightshade.
Rhys si girò, guardò, inorridì.
Lucy avanzava verso di lui, con i fianchi ondeggianti, le labbra dischiuse, le mani tese.
«Chemosh avrà la tua anima», gli disse, ridendo, con cadenza ritmata. La testa aveva un’angolazione strana nel punto in cui lui le aveva spezzato il collo. Con una torsione e uno strattone Lucy se la raddrizzò e continuò ad avanzare. «Che tu lo voglia o no.»
Rhys udì alle sue spalle il raschio della spada di Lleu che scivolava fuori dal fodero. Rhys affrontò Lucy, tenendola a bada con l’emmide; con gli occhi guardava lei mentre con gli orecchi seguiva i movimenti di Lleu. Nightshade borbottava qualcosa e agitava le mani, come se stesse creando qualche sorta di incantesimo. Rhys sperava che il kender stesse zitto. Udì un fruscio nell’erba, un crepitio di aghi di pino secchi e l’improvviso respiro trattenuto di Lleu.
Rhys balzò di lato, contorcendo il corpo. La spada sferzò l’aria dove fino a un attimo prima stava lui.
Il violento affondo trasportò Lleu fino a metà della radura. Rhys colpì Lucy in faccia con l’emmide. Il colpo le schiacciò il naso, allargandoglielo sul viso. Dalla ferita scese un rivolo di sangue, ma non quel torrente impetuoso che sarebbe dovuto scorrere da una simile lesione. Lucy gridò, più per la collera che per il dolore, e barcollò all’indietro.
Rhys si spostò per affrontare Lleu, in tempo per vedere il fratello correre di nuovo verso di lui, con la spada in una mano e il coltello nell’altra.
Rhys colpì la spada col bastone spezzandola in due. Roteando rapidamente il bastone e facendolo sembrare un mulino in un forte vento, lo abbassò con forza sul polso di Lleu e udì l’osso spezzarsi. Lleu lasciò cadere il coltello. Rhys rammentava chiaramente che l’ultima volta in cui aveva colpito Lleu lui aveva gridato per il dolore. Adesso Lleu non gridò, non sembrò nemmeno notare il fatto che la sua mano non funzionasse più.
Senza armi, Lleu si scagliò contro suo fratello, cercando di afferrarlo per la gola con la mano buona e percuotendolo con la mano fratturata, usandola come un bastone.
Con l’anima nauseata dall’orrore, Rhys si scansò facendo un passo di lato. Lleu lo superò con lo slancio e al suo passaggio Rhys gli diede un calcio sul piede d’appoggio. Lleu cadde sul ventre.
In piedi sopra il fratello caduto, Rhys spinse con tutte le sue forze l’estremità grossa del bastone nella colonna vertebrale di Lleu, separando le vertebre e arrivando al midollo spinale, spezzandolo.
Rhys indietreggiò, sulla difensiva, osservando il fratello.
«Il mio incantesimo mistico non ha funzionato!» ansimò Nightshade, correndo verso di lui. «Ho creato questo incantesimo miriadi di volte e ha sempre bloccato i morti viventi. Di solito li fa cadere come birilli. Tuo fratello non si è neanche scomposto.»
Lleu fece una smorfia, come fosse inciampato, poi lentamente, come rimettendosi a posto, prese a rimettersi in piedi. Si strofinò la schiena, inarcandola.
«Se vuoi il mio parere, Rhys», soggiunse il kender, ansante, «non puoi fare niente per ucciderli. Adesso sarebbe il momento giusto per scappare!»
Rhys non rispose. Stava osservando Lleu.
«Subito!» insistette Nightshade, tirando per la manica Rhys.
«Te l’ho già detto, Rhys», disse Lleu. Pose l’altra mano su quella menomata, afferrò il polso e con uno scatto se lo rimise a posto. «Io sono uno dei Prediletti di Chemosh. Io ho questo dono. La vita eterna...»
«Anch’io sono una Prediletta di Chemosh», disse Lucy. Sembrava ignara di avere il naso maciullato e sanguinante. «Io ho questo dono. La vita eterna. Puoi averla anche tu, Rhys. Offriti a Chemosh.»
I due cadaveri avanzarono contro di lui, con gli occhi illuminati non dalla vita ma dal bisogno disperato di togliere la vita.
A Rhys si riempì di bile la bocca. Lo stomaco gli si strinse. Rhys si girò e fuggì, correndo nel bosco, schiantandosi contro i rami degli alberi, tuffandosi a capofitto in tratti di erbacce. Si fermò per vomitare, poi fuggì di nuovo, fuggì dalle risate di scherno che danzavano fra gli alberi, fuggì dal corpo della ragazza fra le sue braccia, fuggì dai cadaveri nella fossa comune del monastero. Corse alla cieca, sventatamente, corse finché non ebbe più forze e cadde a terra, ansimante e singhiozzante. Vomitò ancora e ancora, anche quando non vi era più niente da vomitare, e poi rigettò sangue. Alla fine, esausto, si rigirò sulla schiena e rimase lì disteso, stringendosi il corpo tremante.
Lì lo trovò Nightshade.
Anche se gli aveva consigliato di scappare, il kender non era preparato a vedere Rhys mettere in pratica il suo suggerimento in maniera tanto improvvisa. Preso alla sprovvista, Nightshade aveva avuto una partenza lenta. Gli occhi famelici dei due Prediletti di Chemosh rivolti nella sua direzione gli misero le ali ai piedi. Non vedeva Rhys, ma lo udiva avanzare nel bosco spezzando rami. I kender hanno un’ottima vista anche di notte, molto migliore degli esseri umani, e Nightshade ben presto trovò Rhys disteso a terra nel bosco, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso.
«Adesso non metterti a morirmi qui», ordinò il kender, accovacciandosi accanto all’amico.
Gli mise la mano sulla fronte e la sentì calda. Rhys aveva il respiro aspro e raschiante per via della gola infiammata, ma respirava intensamente. Nightshade recitò una breve cantilena che aveva appreso dai suoi genitori e accarezzò i capelli del monaco per calmarlo, più o meno come il kender coccolava Atta.
Rhys sospirò profondamente. Il corpo gli si rilassò. Aprì gli occhi e, vedendo Nightshade chino su di lui, gli rivolse un lieve sorriso.
«Come ti senti?» domandò ansiosamente Nightshade.
«Molto meglio», rispose Rhys. Lo stomaco aveva smesso di rivoltarglisi, la gola irritata gli pareva calda e lenita, come se lui avesse bevuto latte caldo e miele. «Hai dei talenti nascosti, a quanto pare.»
«Solo un piccolo incantesimo di guarigione che ho imparato dai miei genitori», spiegò con modestia Nightshade. «Torna utile ogni tanto, per riaggiustare le ossa rotte e fermare le emorragie e far andare via la febbre. Io non so fare niente di importante, niente di simile al riportare in vita i morti...» Deglutì, si morse il labbro. «Oh, scusa. Non intendevo parlarne.»
Rhys si alzò rapidamente in piedi. «Quanto tempo sono rimasto svenuto?»
«Non molto. Avresti potuto aspettarmi, sai?»
«Non ci ho pensato», mormorò Rhys. «Non riuscivo a pensare a niente tranne a quanto fosse orribile...» Scrollò il capo. «Ci inseguono?»
Nightshade si guardò alle spalle. «Non so. Immagino di no. Io non li sento, e tu?»
Rhys scrollò il capo. «Magari li sentissi.»
«Tu vuoi che ci inseguano? Vogliono ucciderci! Offrirci a Chemosh!»
«Sì, lo so. Ma se ci inseguissero, vorrebbe dire che ci temono. Per come stanno le cose...» Alzò le spalle. «Non gli interessa sapere che ne è di noi. È inquietante.»
«Capisco», disse solennemente Nightshade. «Sanno che non possiamo fare niente per fermarli. E hanno ragione. La mia magia non ha avuto effetto su di loro. E non mi era mai capitato prima. Be’, non più da quando ero un piccolo kender e facevo i primi passi. Forse se avessimo un’arma magica...»
«L’emmide è un’arma magica benedetta dal dio. Me l’ha donato Majere, un dono di addio.» Rhys strinse più forte il bastone. Rivide Atta salterellare col bastone in bocca e percepì un momentaneo calore nel mezzo di quella fredda oscurità. «Anche se chi maneggia il bastone non è benedetto da Majere, l’arma lo è. E come hai visto non è servita a uccidere mio fratello e nemmeno a rallentarlo granché. Come ha detto Lleu, lui non ha paura che noi raccontiamo a qualcuno che lui è un assassino. Chi ci crederebbe?»
«Immagino che tu abbia ragione», convenne Nightshade. «Non l’avevo vista in questo modo. Allora che facciamo?»
«Non lo so. Non riesco più a pensare razionalmente.» Rhys si guardò attorno. «Non ho idea di dove siamo né di come tornare alla taverna. E tu?»
«Non molto», rispose allegramente Nightshade. «Ma vedo delle luci laggiù in quella direzione. E tu?»
«No, ma d’altronde io non ho gli occhi di un kender.» Rhys mise una mano sulla spalla di Nightshade. «Fai strada tu. Grazie per l’aiuto, amico mio.»
«Non c’è di che», disse Nightshade. Dal tono sembrava abbattuto, però, non della solita allegria. Si incamminò, ma non guardava dove stesse andando e quasi subito mise il piede in una buca.
«Ahi», si lamentò, e si strofinò la caviglia.
«Stai bene?»
«Credo di sì.»
«Che succede?»
«Devo dirti una cosa, Rhys.»
«Sì, che c’è?»
«Non ti piacerà», lo avvertì Nightshade.
Rhys sospirò. «Puoi aspettare fino a domattina?»
«Immagino di sì. Però... be’, potrebbe essere importante.»
«Vai avanti allora.»
«Ho visto altre persone come tuo fratello e Lucy. Voglio dire, come quegli esseri che una volta erano tuo fratello e Lucy. Le ho viste oggi, a Solace.»
Il viso del kender era un bagliore bianco alla luce di Solinari.
«Quante?» domandò Rhys, disperandosi.
«Due. Tutte e due giovani donne. E anche carine. Ma morte. Morte come più morte non si può.» Nightshade scrollò tristemente il capo. «Te l’avrei detto prima, ma non sapevo che cosa avevo visto. Finché non ho visto tuo fratello nella taverna. Allora ho capito. Quelle donne erano proprio come lui: non brillava in loro nessuna luce spirituale, eppure gironzolavano qua e là contente come non mai, parlavano, ridevano...»
Rhys ripensò alla figlia del mugnaio, che si era messa con Lleu, poi era scappata di casa. Quante altre ragazze Lleu aveva sedotto e assassinato, offrendo la loro anima a Chemosh? Rhys rivide la fame terribile negli occhi di Lucy. Quanti giovanotti avrebbero sedotto a loro volta queste donne? Sedotti e assassinati. I Prediletti di Chemosh.
«Nessuno sa che cosa intendano fare, perché nessuno sa che sono morti», rifletté, colpito dalla terribile perfezione del progetto del dio.
Rhys sapeva che le cose stavano davvero così ma, come aveva detto al kender, chi gli avrebbe creduto? Come avrebbe potuto convincere qualcuno? Nightshade poteva sempre dire ciò che vedeva, ma i kender non erano noti per la loro sincerità. Rhys poteva catturare Lucy, legarla e trascinarla davanti ai magistrati, chiedendo loro che la guardassero negli occhi. Rhys poteva immaginarsi la loro reazione. Sarebbe stato arrestato lui, e incarcerato in quanto pazzo furioso.
La morte aveva un volto nuovo e quel volto era giovane e bello; il corpo della Morte integro e forte.
Rhys poteva gridarlo al mondo.
E nessuno gli avrebbe creduto.