I minuti passavano e il ronzìo nelle orecchie diventava sempre più forte. Anche la risata svanì. La cupola e tutto ciò che vi era contenuto ondeggiava; i sensi di Baley vacillarono.
Finalmente si ritrovò seduto nella solita poltrona, ma con la sensazione di aver perso molto, moltissimo tempo. Il questore era scomparso, ma il ricevitore tridimensionale era opaco e lattescente; R. Daneel gli sedeva accanto e pizzicava delicatamente l’avambraccio di Baley messo a nudo. Baley poteva vedere, sotto la pelle, il piccolo punto scuro di una scheggia ipodermica. Mentre guardava sparì e s’immerse nel fluido intercellulare, da cui si sarebbe diffusa nel fluido sanguigno e nelle cellule vicine, per poi raggiungere tutti gli angoli del suo corpo.
La sua presa sulla realtà aumentò.
«Ti senti meglio, collega Elijah?» chiese R. Daneel.
Baley si sentiva molto meglio. Tirò il braccio verso di sé e il robot lasciò fare. Mentre tirava giù la manica della camicia, Baley vide che il dottor Fastolfe sedeva al solito posto e un lieve sorriso ne addolciva i lineamenti familiari.
Baley chiese: «Sono svenuto?».
«In un certo senso, sì» rispose il dottor Fastolfe. «Temo che abbia avuto un forte shock.»
Baley ricordava tutto, adesso. Afferrò il braccio di R. Daneel, gli tirò su il polsino e tastò il polso: era morbido, ma sotto si sentiva la durezza di qualcosa che non era osso.
R. Daneel si lasciò esaminare dall’agente. Baley continuò a guardarlo, pizzicando la pelle sulla linea mediana. C’era una piccola cucitura?
Era logico che ci fosse. Un robot, coperto di pelle sintetica e fatto in modo da sembrare un uomo, non poteva essere riparato nel modo tradizionale. Non poteva avere uno sportello sul petto che il meccanico toglieva quando era necessario, o una testa che si svitava. Le varie parti del corpo meccanico, quindi, erano tenute insieme da una linea di campi micromagnetici. Un braccio, la testa, il corpo dovevano aprirsi in due al comando appropriato e rimettersi insieme facendo il movimento opposto.
Baley borbottò, rosso di vergogna: «Dov’è il questore?».
«Preso da affari urgenti» rispose il dottor Fastolfe. «L’ho incoraggiato io a chiudere il collegamento, assicurandogli che ci saremmo presi cura di lei.»
«Vi siete già presi cura abbastanza» disse Baley, pupo. «Vi ringrazio, ma credo che per il momento qui ho finito.»
Si mise in piedi e sentì dolori in tutte le giunture. Si sentiva improvvisamente vecchio, troppo vecchio per ricominciare da zero. E non ci voleva la chiaroveggenza per capire che il suo futuro era quello di un declassato.
Il questore doveva essere per metà spaventato e per metà furioso. Avrebbe affrontato Baley con la faccia bianca, tirata, e si sarebbe tolti gli occhiali ogni quindici secondi. Con voce serena (Julius Enderby non urlava quasi mai) gli avrebbe spiegato che gli Spaziali erano mortalmente offesi.
"Non puoi parlare in quel modo a uno Spaziale, Lije. Non lo sopportano." (Baley aveva l’impressione di sentire la voce di Enderby (vicina e realistica fin nella minima intonazione). "Ti avevo avvertito. Non serve dire che hai combinato un terribile pasticcio. Non che non veda il tuo punto, capiscimi, mi rendo conto di ciò che hai tentato di fare. Se fossero terrestri, tutto s’aggiusterebbe. Ti direi: dacci sotto, prova coi tuoi metodi. Fumateli. Ma gli Spaziali! Avresti dovuto avvertirmi, Lije. Consultarti con me. Io li conosco, so capirli dentro e fuori."
Lui, che avrebbe potuto rispondere? Che Enderby era proprio il tipo a cui non avrebbe mai raccontato un piano del genere; che la missione implicava un rischio tremendo, mentre Enderby era la cautela in persona. Che Enderby stesso gli aveva indicato i danni che derivano dal fallimento o dal tipo sbagliato di successo. E, infine, che l’unico modo di sfuggire al declassamento consisteva nel mostrare che il colpevole apparteneva alla stessa Spacetown…
Enderby avrebbe detto: "Ci sarà un rapporto su quanto è successo, Lije. Ci sarà ogni genere di ripercussioni. Conosco gli Spaziali: chiederanno che tu sia sollevato dall’incarico e noi dovremo fare come dicono. Tu lo capisci, vero, Lije? Cercherò di renderti le cose meno dure possibile. Puoi contarci. Ti proteggerò fin dove potrò."
Baley sapeva che avrebbe mantenuto la parola. Il questore l’avrebbe difeso, ma solo fin dove poteva, e non a costo di alienarsi il sindaco già furente.
Gli parve di sentire la voce del sindaco, adesso: "Maledizione, Enderby, che storia è questa? Perché non mi ha consultato? Chi comanda in questa Città? Perché avete permesso che un robot non autorizzato entrasse fra noi, e, soprattutto, che diavolo ha fatto questo Baley…?"
Se si fosse arrivati al punto di scegliere fra il destino di Baley e quello del questore, che risultato poteva aspettarsi Baley? Non poteva biasimare il superiore.
Il minimo che potesse capitargli era di essere destituito, e non era una bella prospettiva. Il fatto di vivere in una Città moderna assicurava a tutti un minimo per sopravvivere, anche ai declassati; quanto piccolo fosse quel minimo, tuttavia, Lije Baley lo sapeva fin troppo bene.
Ciò che rendeva la vita sopportabile erano i piccoli privilegi connessi alla qualifica: un sedile più comodo, un taglio di carne migliore, un’attesa più breve nella fila degli uffici e così via. A una mente filosofica queste potranno sembrare inezie, cose per cui è inutile lottare.
Ma nessuno, per filosofo che sia, può rinunciare ai piccoli privilegi già acquisiti senza dolore. È questo il punto.
Che infima comodità era il lavandino installato in casa, quando per trent’anni Baley ne aveva fatto a meno ed era andato a lavarsi al Personale; era inutile perfino come status-symbol, visto che ostentare la propria condizione è un fatto di pessimo gusto. Eppure, se glielo avessero tolto, quanto sarebbe stato più umiliante, più insopportabile ogni viaggio per andare al Personale! Come gli sarebbe parso fantastico il ricordo delle rasature in camera da letto! Che lusso, che, bene perduto!
Era di moda, fra i moderni scrittori politici, considerare con disprezzo e disapprovazione il "fiscalismo" del medioevo, quando l’ecùnomia era basata sul denaro. La lotta per l’esistenza, dicevano, era una competizione brutale. In quelle condizioni non si poteva costruire una società veramente complessa, perché la "corsa alla lira" generava nell’uomo una terribile ansia. (Gli studiosi avevano varie teorie sull’origine della parola "lira", ma il senso della frase, nel complesso, non sfuggiva).
Per contrasto, il moderno "civismo" veniva esaltato come molto più efficiente e illuminato.
Forse era così. Esistevano romanzi storici di gusto sensazionale e romantico, e in quelli che riflettevano il punto di vista dei medievalisti si sosteneva che il "fiscalismo" era il progenitore di virtù quali l’individualismo e l’iniziativa.
Baley non ci teneva a prender parte, ma si chiedeva se gli uomini del passato avessero mai lottato per la "lira" (qualunque cosa fosse) come quelli del presente lottavano per non perdere il diritto alla tavoletta di pollo domenicale. (Pollo autentico, carne appartenuta a un volatile che una volta era stato vivo).
E poi pensò: non è di me che m’importa. È di Jessie e Ben.
La voce del dottor Fastolfe interruppe quei pensieri: «Signor Baley, mi sente?».
Baley aprì e chiuse gli occhi. «Sì.» Per quanto tempo era rimasto assente come un idiota?
«Perché non si siede, signore? Ora che ci siamo occupati della sua salute, sarà interessato a vedere i filmati che abbiamo girato sulla scena del delitto e di quello che è avvenuto poi.»
«No, grazie. Ho da fare in Città.»
«Ma il caso del dottor Sarton ha la precedenza…»
«Non per me. Immagino che mi abbiano già sollevato dall’incarico.» E improvvisamente si sentì fremere: «Maledizione, se potevate provare che R. Daneel era un robot, perché non lo avete fatto subito? Perché mi avete permesso di andare avanti nella farsa?».
«Mio caro signor Baley, ero molto interessato alle sue deduzioni. Quanto a una sua sospensione dall’incarico, ho i miei dubbi. Prima che il questore chiudesse il collegamento gli ho chiesto con insistenza che lei venisse lasciato al suo posto. Credo che mi ascolterà.»
Baley sedette, non del tutto volontariamente. Poi chiese: «Perché?».
Il dottor Fastolfe incrociò le gambe e sospirò. «Signor Baley, nella mia esperienza ho incontrato due tipi di cittadini: i dimostranti e i politici. Il suo questore ci è utile, ma è un politico. Ci dice quello che vogliamo sentire. Ci manovra, se afferra quel che voglio dire. Ora arriva lei e ci accusa sfrontatamente di tremendi crimini, cercando di dimostrare il suo punto di vista. È una cosa che mi piace. Uno sviluppo promettente.»
«Quanto promettente?» chiese Baley, ironico.
«Abbastanza. Lei è una persona con cui posso parlare apertamente. Questa notte, signor Baley, R. Daneel mi ha fatto rapporto con una trasmittente subeterica schermata. Le cose che mi ha detto di lei mi hanno interessato profondamente. Per esempio, mi ha parlato dei librofilm che si trovano nel suo appartamento.»
«E allora?»
«Molti trattano di argomenti storici e archeologici. A quanto pare lei si interessa di problemi sociali e conosce l’evoluzione della civiltà umana.»
«Anche un poliziotto può passare il tempo libero guardando i librofilm.»
«Appunto. Mi congratulo per i suoi gusti, mi aiuterà in quello che sto cercando di fare. Innanzi tutto voglio parlarle, o tentare di parlarle, della riservatezza di noi abitanti dei Mondi Esterni. Viviamo a Spacetown, non entriamo nella Città, non ci mescoliamo a voi cittadini e accettiamo di incontrarvi solo su basi molto rigide e limitate. Respiriamo l’aria aperta, ma con i filtri nel naso. In questo momento anch’io li porto, e porto i guanti, e sono fermamente deciso a non avvicinarmi a lei più del necessario. Perché tutto questo?»
Baley rispose: «Non ha senso tirare a indovinare». Che parli lui, adesso.
«Eppure molti dei suoi concittadini non fanno altro che indovinare, fantasticare. Immaginano che il nostro comportamento derivi dal fatto che non vogliamo abbassarci a trattare con voi, che temiamo di avvilire il nostro rango permettendo alla vostra ombra di sfiorarci. Non è così, e la vera risposta è abbastanza ovvia. La breve visita medica cui è stato sottoposto, la doccia e così via non fanno parte di un rituale. Sono dettate dalla necessità.»
«Difendervi dalle malattie?»
«Dalle malattie, giusto. Caro signor Baley, i terrestri che colonizzarono i Mondi Esterni si trovarono in presenza di ambienti dove i virus e batteri della Terra non esistevano. Gli esploratori vi portarono i loro, si capisce, ma portarono anche i più moderni ritrovati in campo medico e microbiologico. In altre parole dovettero affrontare una comunità molto piccola di microorganismi, per di più in assenza di ospiti intermedi. Non c’erano zanzare che diffondessero la malaria, non c’erano lumache che permettessero l’attecchire della schistosomiasi. Gli agenti patogeni vennero eliminati e i batteri simbiotici poterono svilupparsi tranquillamente. Poco a poco i Mondi Esterni si liberarono dalle malattie. Naturalmente, con il passare del tempo le restrizioni poste all’immigrazione terrestre si fecero sempre più severe, perché i Mondi non erano in grado di affrontare un’eventuale reintroduzione delle malattie.»
«Lei non è mai stato malato, dottor Fastolfe?»
«Non ho mai avuto un malanno derivante dall’attività di parassiti. Naturalmente, signor Baley, anche noi siamo esposti ai mali da degenerazione, come l’arteriosclerosi, ma io, per esempio, non ho mai preso un raffreddore. Se lo prendessi ora, probabilmente morirei. Nel mio corpo non esistono difese. Questo è il problema di noi che viviamo a Spacetown; corriamo un rischio ben preciso e lo sappiamo. La terra pullula di malattie contro cui non abbiamo difese naturali. Lei stesso porta con sé i germi di quasi ogni malattia conosciuta. Non se ne rende conto, ovviamente, perché li tiene sotto controllo grazie agli anticorpi che il suo organismo ha sviluppato negli anni; ma io non ho anticorpi. Si meraviglia che non mi avvicini di più? Mi creda, signor Baley, la mia apparente schizzinosità è autodifesa.»
Baley replicò: «Se le cose stanno così, perché non lo fate sapere a tutta la Terra? Voglio dire, se non è altezzosità da parte vostra ma solo difesa contro un pericolo fisico».
Lo Spaziale scosse la testa. «Siamo pochi, signor Baley, e siamo impopolari. Siamo stranieri. Riusciamo a mantenere la nostra sicurezza grazie all’alone di prestigio che ci circonda, come se fossimo esseri superiori, ma è un prestigio traballante. Non possiamo perdere la faccia ammettendo che abbiamo paura di avvicinare i terrestri; solo quando ci sarà maggior comprensione tra noi e voi potremo dire la verità.»
«Visto come stanno le cose, credo che per il momento i rapporti fra la Terra e Spacetown non miglioreranno. È la vostra "superiorità" quella che odiamo… O meglio, odiano.»
«È un dilemma. Non creda che non ce ne rendiamo conto.»
«Il questore lo sa?»
«Non gliel’abbiamo spiegato a chiare lettere, come ora ho fatto con lei, ma ha gli elementi per farsi un quadro. È un uomo piuttosto intelligente.»
«Se si fosse fatto un quadro, come dice lei, mi avrebbe informato» disse Baley, pensoso.
Il dottor Fastolfe alzò le sopracciglia. «E se l’avesse informata lei non avrebbe pensato che R. Daneel fosse un uomo, giusto?»
Baley si strinse nelle spalle, mettendo da parte la questione.
Il dottor Fastolfe continuò: «Ha ragione, amico mio. A parte le difficoltà psicologiche — il terribile effetto del rumore e della folla — resta il fatto che entrare nella Città, per noi, equivale a una condanna a morte. Ecco perché il dottor Sarton aveva cominciato a costruire robot umanoidi. Dovevano sostituire gli uomini, entrare nella Città al posto nostro.»
«Sì, R. Daneel me l’ha spiegato.»
«E lei disapprova?»
«Senta» disse Baley «dato che stiamo parlando in libertà, mi permetta di farle una semplice domanda. Perché voi Spaziali venite sulla Terra? Perché non ci lasciate soli?»
Il dottor Fastolfe era sorpreso. «Siete soddisfatti della vita sulla Terra?»
«Tiriamo avanti.»
«Sì, ma per quanto? La popolazione aumenta continuamente; le calorie a disposizione soddisfano le esigenze della vostra gente grazie a sforzi sempre più strenui. La Terra è in un vicolo cieco, amico.»
«Tiriamo avanti» ripeté Baley, cocciuto.
«A malapena. Una Città come New York è costretta a fare sforzi colossali per assicurare la fornitura d’acqua e l’eliminazione dei rifiuti. Le centrali atomiche, che forniscono l’energia, funzionano con scorie di uranio che è sempre più difficile ottenere anche dagli altri pianeti del sistema, mentre la domanda sale costantemente. La vita delle Città dipende dall’arrivo della polpa di legno che alimenta le vasche dei lieviti, e dei minerali che servono agli impianti idroponici. L’aria dev’essere cambiata costantemente. È un equilibrio che presto non sarà più tale, e ogni anno si aggiunge qualche nuova complicazione. Che ne sarebbe di New York se lo spaventoso flusso di materiali in accesso o in uscita fosse interrotto anche per una sola ora?»
«Non è mai successo.»
«Questo non significa che non succederà. Nelle età antiche i centri abitati erano autosufficienti e vivevano dei prodotti della campagna circostante. Solo un disastro immediato, come un’inondazione, una pestilenza o un raccolto insufficiente potevano danneggiarli. Quando i centri crebbero e la tecnologia migliorò, si cominciò a far fronte ai disastri locali importando le materie dai centri lontani, ma al prezzo di rendere strettamente interdipendenti zone sempre più vaste. Nell’età che noi chiamiamo medievale le città dell’uomo, che sorgevano all’aria aperta, erano in grado di resistere anche a gravi calamità per almeno una settimana, perché il cibo e le materie prime erano disponibili in grandi quantità e quindi venivano immagazzinati; inoltre, esistevano risorse locali di vario tipo. Quando New York si trasformò in una Città moderna, tuttavia, questo rapporto cambiò: il massimo che sarebbe riuscita a sopravvivere, basandosi solo sulle proprie forze, era un giorno. Adesso, forse, è un’ora. Un disastro che diecimila anni fa avrebbe potuto creare qualche disagio, e che mille anni fa avrebbe sfiorato il punto critico, oggi riuscirebbe senz’altro fatale».
Baley si mosse a disagio. «Ho già sentito tutto questo. I medievalisti vogliono la fine delle Città. Vogliono che torniamo alla terra e all’agricoltura naturale. Sono pazzi, non possiamo. Siamo in troppi, e poi non ha senso andare indietro, perché nella storia si può solo procedere in avanti. Naturalmente, se l’emigrazione sui Mondi Esterni non fosse limitata…»
«Sa che deve esserlo.»
«Allora che ci resta da fare? Vi siete allacciati a una linea scarica.»
«E se colonizzaste nuovi mondi? Nella galassia ci sono cento miliardi di stelle. Si calcola che i pianeti abitabili o che possono essere abitabili siano cento milioni.»
«Ridicolo.»
«Perché?» chiese il dottor Fastolfe, infervorandosi. «Perché giudica ridicolo il mio suggerimento? Nel passato i terrestri hanno colonizzato i pianeti. Più di trenta dei cinquanta Mondi Esterni, compreso il mio nativo Aurora, sono stati colonizzati direttamente da terrestri. Oggi l’impresa non è più possibile?»
«Be’…»
«Non ha la risposta. Mi lasci dire che se non è più possibile è a causa del mostruoso sviluppo delle Città. Prima delle Città la vita umana non era specializzata al punto da rendere impensabile il suo trasferimento in un altro ambiente. È stato fatto trenta volte. Ma ora i terrestri si sono rintanati e imbozzolati nei loro abissi d’acciaio, e ne dipendono a tal punto che è come se si fossero messi volontariamente in prigione. Lei, signor Baley, non crede possibile che un cittadino possa attraversare la campagna per venire a Spacetown. Avventurarsi nello spazio per raggiungere un mondo nuovo deve sembrarle doppiamente impossibile. La cultura delle Città vi sta rovinando.»
Baley si arrabbiò: «E con questo? Non vedo in che modo vi riguardi. È un problema nostro e lo risolveremo, e se non ne saremo capaci andremo all’inferno».
«Meglio andare all’inferno a modo vostro che in paradiso accettando i consigli di un altro, eh? So come deve sentirsi. Non è piacevole ascoltare la predica di uno straniero. Eppure vorrei che il suo popolo fosse in grado di predicare a noi, perché anche noi abbiamo un problema. Analogo al vostro.»
Baley fece un sorriso cattivo: «Sovrappopolazione?».
«Ho detto analogo, non identico. Il nostro limite è la sottopopolazione. Quanti anni mi dà?»
Il terrestre rifletté un momento e poi deliberatamente gli aumentò gli anni: «Una sessantina, direi».
«La risposta è centosessanta.»
«Cosa?»
«Centosessantatré, per essere esatti, ma devo ancora compierli. Non c’è trucco, mi riferisco all’anno standard terrestre. Se sono fortunato, se mi prendo cura di me, e soprattutto, se non contraggo nessuna malattia sulla Terra, posso arrivare al doppio di quest’età. Su Aurora si sa di uomini che hanno vissuto trecentocinquant’anni. E la durata media della vita è in aumento.»
Baley dette un’occhiata a R. Daneel (che per tutta la conversazione era rimasto ad ascoltare stolidamente) e sembrò cercare in lui una conferma.
Poi disse: «Com’è possibile».
«In una società sottopopolata è conveniente concentrare gli studi sulla gerontologia e i processi di invecchiamento. In un mondo come il vostro una durata della vita più alta sarebbe disastrosa, perché non potreste permettervi il conseguente aumento demografico. Su Aurora abbiamo posto per i tricentenari, quindi l’aumento della vita diventa doppiamente prezioso.
«Se lei morisse ora perderebbe una quarantina d’anni di vita, forse meno. Se morissi io perderei centocinquant’anni, probabilmente di più. In una cultura come la nostra, dunque, la vita individuale è di estrema importanza. La natalità è bassa e l’incremento demografico rigidamente controllato. Ci preoccupiamo di mantenere un preciso equilibrio fra uomini e robot per garantire a tutti il più alto confort individuale.
I bambini vengono scrupolosamente esaminati per scoprire disfunzioni fisiche e mentali prima che sia loro permesso di crescere.»
Baley lo interruppe: «Vuol dire che li uccidete, se non…».
«Se non sono adatti, sì. Posso assicurarle che avviene in modo indolore. La cosa le sembra mostruosa, ma non più di quanto sembri mostruosa a noi la mancanza di controllo demografico sulla Terra.»
«Il controllo c’è, dottor Fastolfe. Ogni famiglia può avere un dato numero di bambini.»
Fastolfe sorrise, tollerante «Un dato numero di bambini qualsiasi, non bambini sani. E anche così ci sono le infrazioni e la vostra popolazione cresce.»
«Chi ha il diritto di giudicare se un bambino deve vivere?»
«È una questione complicata e non posso risponderle in quattro parole. Un giorno ne discuteremo in dettaglio.»
«Be’, ma allora dov’è il problema? Lei sembra soddisfatto della vostra società.»
«È stabile, questo è il guaio. È troppo stabile.»
Baley disse: «Non vi va bene niente. La nostra civiltà sarebbe sull’orlo del caos, la vostra sull’orlo della stagnazione».
«È una realtà, mi creda. Nessuno dei Mondi Esterni ha colonizzato un nuovo pianeta negli ultimi due secoli e mezzo, e non ci sono prospettive che lo faccia nel futuro. La nostra vita, lassù, è troppo lunga per essere messa a repentaglio e troppo comoda per essere scombussolata da progetti avventurosi.»
«Non so se questo sia vero, dottor Fastolfe. Prenda lei: è venuto sulla Terra, ha corso e corre dei rischi.»
«Sì, è così. Alcuni di noi, signor Baley, pensano che il futuro della razza umana valga la perdita di qualche singola vita. Anche di una vita molto lunga. Purtroppo siamo in pochissimi, e mi dispiace dirlo.»
«Va bene, vedo che ci avviciniamo al punto. In che modo Spacetown vi aiuta a risolvere il problema?»
«Noi cerchiamo di introdurre i robot sulla Terra perché vogliamo sbilanciare l’equilibrio economico delle Città.»
«E questo sarebbe il modo in cui volete darci una mano?» Le labbra di Baley fremevano. «Mi sta dicendo che cercherete di creare di proposito disoccupazione e declassamento?»
«Non per crudeltà o cinismo, mi creda. Un gruppo di diseredati, o declassati come lei li chiama, è quello che ci serve per formare un nuovo nucleo di coloni. La vostra antica America fu scoperta da navi piene di galeotti. Non vede che il sistema delle Città non può fare nulla per i diseredati? Essi non hanno niente da perdere, ma mondi da guadagnare se lasceranno la Terra.»
«Però il vostro piano non funziona.»
«No, non funziona.» Il dottor Fastolfe si era intristito. «C’è qualcosa che non va. Il risentimento dei terrestri nei confronti dei robot ci blocca. Eppure quegli stessi robot potrebbero accompagnare i coloni, semplificare i problemi d’adattamento ai nuovi mondi, rendere fattibile il processo di espansione.»
«E poi che succederebbe? Qualche Mondo Esterno in più.»
«No. I Mondi Esterni si sono formati prima che il cosiddetto Civismo si diffondesse sulla Terra; prima delle Città, insomma. Le nuove colonie sarebbero formate da individui con alle spalle l’esperienza delle Città, più la prospettiva di una cultura C/Fe. Sarebbe una sintesi, un amalgama. Così com’è ora. la Terra collasserà in un futuro molto prossimo, i Mondi Esterni degenereranno in un futuro appena più lontano, ma le nuove colonie saranno il ceppo nuovo e sano, perché combineranno il meglio dei due sistemi. E il loro atteggiamento verso i mondi più antichi, Terra inclusa, darà a tutti una scossa vitale.»
«Non lo so. È tutto confuso, dottor Fastolfe.»
«È un sogno, sì. Ma ci pensi.» Improvvisamente lo Spaziale si mise in piedi. «Ho parlato con lei più di quanto pensassi. Anzi, più tempo di quanto ci consigliano le circolari sanitarie. Vuole scusarmi?»
Baley e R. Daneel uscirono dalla cupola. Il sole si trovava in una posizione diversa ed era più giallo; la luce li inondò ancora una volta. Baley si domandò, fantasticamente, se su un altro mondo la luce del sole sarebbe parsa la stessa. Meno violenta, meno dorata, forse. E più sopportabile.
Un altro mondo? Il brutto Spaziale con le orecchie a sventola gli aveva riempito la testa di strane idee. Forse, in un giorno lontano, i medici di Aurora si erano chinati sul bimbo Fastolfe e si erano chiesti se convenisse farlo crescere… Non era troppo brutto? O forse i loro criteri non riguardavano l’estetica? Quand’è che la bruttezza diventa deformità, quali deformità…
Ma quando la luce sparì e superarono la porta che conduceva al Personale, l’influsso delle parole di Fastolfe cominciò ad attenuarsi.
Baley scosse la testa, esasperato. Era ridicolo. Costringere i terrestri ad emigrare, a fondare una nuova società! Era pura follia. Che cosa volevano realmente gli Spaziali?
Ci pensò, ma senza giungere ad alcuna conclusione.
Lentamente l’auto di pattuglia si immise sull’antica autostrada. Baley tornava nella realtà. Il fulminatore era un caldo e piacevole peso contro la coscia. I rumori e la vita pulsante della Città erano altrettanto caldi, altrettanto piacevoli.
Per un attimo, mentre la Città si chiudeva su di loro, il suo naso captò un odore leggero, fuggevole.
E Baley pensò: "La Città: puzza".
Pensò ai venti milioni di esseri umani ammassati fra le pareti d’acciaio del grande abisso e per la prima volta in vita sua ne avvertì l’odore con la sensibilità di chi ha respirato l’aria aperta.
Pensò: "Sarebbe diverso, su un altro mondo? Meno gente e più aria pulita?".
Ma il rombo pomeridiano della Città era tutto intorno a loro, l’odore recedette sullo sfondo e sparì, e Baley provò una vaga vergogna di se stesso.
Abbassò la leva di guida e captò una quantità maggiore di energia irradiata. L’autopattuglia accelerò improvvisamente e s’immise sulle deserte corsie dell’autostrada per veicoli a motore.
«Daneel» disse Baley.
«Sì, Elijah.»
«Perché il dottor Fastolfe mi ha detto tutte quelle cose?»
«Credo, Elijah, che volesse farti capire quanto è importante il caso a cui stiamo lavorando. Non si tratta soltanto di smascherare un assassino, ma di salvare Spacetown e con essa il futuro della razza umana.»
Baley disse, asciutto: «Credo che avrebbe fatto meglio a mostrarmi la scena del delitto e a farmi parlare con gli uomini che hanno trovato il corpo».
«Dubito che avresti potuto scoprire qualcosa, Elijah. Siamo stati piuttosto scrupolosi.»
«Davvero? Non avete niente, nemmeno un indizio. Nemmeno un sospetto.»
«No, hai ragione. La risposta deve essere nella Città. Per essere esatti, comunque, un indiziato lo avevamo.»
«Cosa? Non me ne hai mai parlato.»
«Non mi era sembrato necessario. Certo ti rendi conto anche tu che l’unica persona sospettabile automaticamente era…»
«Chi, nel nome del cielo?»
«L’unico terrestre presente sulla scena. Il questore Julius Enderby.»