IV Presentazione di una famiglia

Era stato il suo nome ad accendere la fantasia di Elijah Baley, quando l’aveva conosciuta alla festa di Natale dello ’02. Si trovavano ai due lati opposti di una coppa di punch; lui aveva appena finito le scuole e aveva ottenuto il primo lavoro per conto della Città. Si era trasferito da poco nel settore e viveva in un angolo da scapolo nella Stanza Comune 122 A. Non male, come angolo da scapolo.

Lei era quella che distribuiva il punch. «Mi chiamo Jessie» si presentò. «Jessie Navodny. Non ti conosco.»

«Baley» rispose lui. «Lije Baley. Mi sono appena trasferito nel settore.»

Prese il bicchiere di punch e sorrise macchinalmente. Lei sembrava una persona allegra e amichevole, così le rimase vicino. Lije era nuovo, ed è deprimente partecipare a una festa dove tutti si raccolgono in capannelli e chiacchierano fra loro ma nessuno ti bada. Più tardi, quando avesse bevuto abbastanza, le cose sarebbero andate meglio.

Nel frattempo rimase vicino alla coppa del punch, osservando la gente che andava e veniva bevendo.

«Ho dato una mano a preparare il punch» disse all’improvviso la ragazza. «Posso garantire. Ne vuoi un altro po’?»

Baley si accorse che il bicchiere era vuoto. Sorrise e disse: «Sì».

La ragazza aveva una faccia ovale e non proprio perfetta, soprattutto a causa del naso largo. Il vestito che indossava era modesto e i capelli castani erano intrecciati ad anelimi sulla fronte.

Bevve anche lei un altro punch e Lije si sentì meglio.

«Jessie» disse, assaporando il nome con la lingua. «È carino. Ti dispiace se ti chiamo così, senza tante formalità?»

«Certo, se ti fa piacere. Sai di che cos’è il diminutivo?»

«Di Jessica?»

«Non indovineresti mai.»

«Non riesco a pensare ad altro.»

Lei rise e disse, solennemente: «Il mio nome completo è Jezebel».

Fu questo a impressionare Lije. Posò il bicchiere e le chiese: «No, veramente?».

«Lo giuro, non sto scherzando. Jezebel. È il nome che compare su tutti i documenti. Ai miei genitori piaceva il suono.»

Ne era orgogliosa, anche se al mondo non c’era mai stata una Jezebel meno credibile.

Baley disse, serio: «Io mi chiamo Elijah. Il nome per intero, si capisce».

Lei non batté ciglio.

Lui riprese: «Elia era il grande nemico di Jezebel, o Gezabel».

«Sul serio?»

«Certo. Nella Bibbia.»

«Guarda, non lo sapevo. È divertente, non credi? Spero che tu non sarai mio nemico nella vita reale.»

Fin dall’inizio fu chiaro che non sarebbe stato così. Il fortuito assortimento dei nomi la fece apparire agli occhi di Lije come molto più che una ragazza simpatica al banco del punch; e in seguito imparò ad apprezzarne il buonumore, la tenerezza e l’aspetto fisico. La cosa che più gli piaceva in lei era il buonumore: la sua visione cinica della vita richiedeva un antidoto.

Quanto a Jessie, sembrava non far caso ai suoi musi lunghi.

«Bontà del cielo» diceva «ma perché te ne vai in giro con quella faccia da limone spremuto? Non ti rende giustizia, ma del resto se ridessi sempre, come me, non ci sopporteremmo. Forse è meglio che rimani come sei: mi eviterai di sciogliermi in un sorriso.»

Lei, a sua volta, aveva aiutato Lije a non andare a picco. Lije fece richiesta di un piccolo appartamento per Coppie e ottenne un’imprevista assegnazione, a patto che si sposassero. Mostrò il documento a Jessie e le chiese: «Verresti ad abitarci con me? Mi piacerebbe vivere in un posto più decente che un’alcova per Scapoli».

Forse non era la proposta più romantica del mondo, ma a Jessie piacque.

Baley ricordava una sola occasione in cui l’abituale buonumore di Jessie l’aveva abbandonata completamente, e anche in quel caso c’entrava il nome. Fu durante il primo anno di matrimonio, quando il bambino non era ancora nato (per l’esattezza venne concepito in quei giorni; il loro Q.I., l’attestato genetico e la posizione di Lije nel Dipartimento davano loro diritto a due figli, di cui il primo poteva essere concepito nel primo anno di matrimonio). Il bambino, dunque, era in arrivo; in seguito Baley pensò spesso che l’insolita irritabilità di Jessie fosse dovuta alle sue condizioni.

Lei era un po’ scura perché Baley faceva sistematicamente tardi.

Disse: «Non è bello andare in mensa da sola, la sera».

Baley era stanco e depresso. Rispose: «Perché no? Potresti incontrarci qualche simpatico vicino».

Lei si scaldò immediatamente. «E non temi che possa sedurlo, Lije Baley?»

Forse fu solo perché era stanco. Forse perché Julius Enderby, un vecchio compagno di scuola, aveva fatto un altro balzo sulla scala delle qualifiche e lui no. Forse fu perché lo seccava vedere Jessie che tentava di farsi passare per la megera biblica di cui portava il nome, e che mai, mai avrebbe potuto emulare.

In ogni caso, disse pungente: «Credo che tu possa, ma non ci proverai. Perché non dimentichi quél nome e cerchi di essere te stessa?».

«Sarò quella che mi pare e piace.»

«Non ti servirà imitare Jezebel. Se vuoi sapere la verità, il nome non significa quello che pensi tu. La Gezabele biblica fu una moglie fedele e devota, nonostante il suo temperamento. Non ebbe amanti di cui siamo a conoscenza e non si prese svaghi di quel tipo.»

Jessie lo guardò furiosa: «Non è vero! Ho sentito tante volte la frase "dipinta come una Jezebel" so cosa vuol dire.»

«Tu pensi di sì, ma ascoltami. Dopo la morte di re Achab, marito di Gezabele, salì al trono il figlio di lei, Jehoram. Un capitano dell’esercito, Jehu, gli si ribellò e lo assassinò, poi corse a Gezebel dove viveva la vecchia regina madre. Gezabele fu informata del suo arrivo e capì che il traditore aveva certo intenzione di assassinarla. Con orgoglio e coraggio si dipinse il volto e indossò le vesti migliori, in modo da incontrarlo come si conviene a una regina. Il traditore la fece uccidere buttandola da una finestra del palazzo, ma a quanto mi consta fu una morte onorevole. È a questo che si riferisce la gente quando dice che una donna è dipinta come Jezebel, che se ne renda conto o no.»

La sera seguente Jessie disse a bassa voce: «Ho letto la Bibbia, Lije».

«Cosa?» Per un attimo Baley fu sinceramente sbalordito.

«Le parti che riguardano Gezabele.»

«Oh, Jessie, mi dispiace di aver ferito i tuoi sentimenti. Sono stato infantile.»

«No, no.» Lei si svincolò dal braccio che le cingeva la vita e con un’aria fredda e altera andò a sedersi a una certa distanza. «Fa bene sapere la verità. Non voglio essere presa in giro solo perché non ho letto certe cose, quindi mi sono documentata su Gezabele. Era una donna perversa, Lije.»

«Quei capitoli sono stati scritti dai suoi nemici. Non conosciamo la sua versione.»

«Uccise tutti i profeti del Signore sui cui riuscì a mettere le mani.»

«Così dicono.» Baley cercò una. striscia di chewing gum in tasca. (In seguito perdette l’abitudine perché Jessie diceva che, con la sua faccia lunga e i tristi occhi scuri, quel continuo masticare lo faceva somigliare a un corvo che non riesce a mandar giù un boccone d’erba, e che non si decide a sputarlo.) Disse: «Se vuoi trovarle qualche giustificazione, posso aiutarti io. Gezabele onorava la religione dei suoi antenati, che in quella terra si praticava da molto prima della venuta degli ebrei. Gli ebrei avevano un dio diverso e per giunta esclusivo. Non si accontentavano di adorarlo da soli, volevano convincere tutti gli altri a farlo.

«Gezabele era una conservatrice, una che si attaccava alle vecchie credenze e avversava le nuove. Dopo tutto, se le nuove avevano un più alto contenuto morale le vecchie erano più soddisfacenti dal punto di vista emotivo. E il fatto che facesse assassinare dei sacerdoti la indica solo come una figlia dei suoi tempi: in quel giorni era il metodo abituale per fare proselitismo. Se leggerai il primo libro dei Re vedrai che Elia (il mio santo protettore, stavolta) fece una gara con ottocentocinquanta profeti di Baal per vedere chi poteva far scendere il fuoco dal cielo. Vinse Elia e prontamente ordinò alla folla di massacrare gli ottocentocinquanta baaliti. Così fecero.»

Jessie si morse un labbro. «E che dire della vigna di Naboth, Lije? Naboth se ne stava tranquillo e non dava fastidio a nessuno, ma rifiutava di vendere la vigna al re. Gezabele convinse un certo numero di persone a dichiarare il falso, facendo accusare Naboth di blasfemia o qualcosa del genere.»

«L’accusa fu che "aveva bestemmiato Dio e il re"» citò Baley.

«Infatti. Lo giustiziarono e poi gli confiscarono le proprietà.»

«Non fu una bella cosa. Al giorno d’oggi, si capisce, Naboth subirebbe un trattamento diverso: se la Città volesse le sue proprietà gli farebbe avere una ingiunzione del tribunale e lo manderebbe via, con la forza se necessario. Dopo, gli farebbe pagare il risarcimento che ritenesse opportuno. Anche le nazioni del medioevo si regolavano così, più o meno, ma re Achab non disponeva di risorse tanto raffinate. Con questo non voglio giustificare Gezabele: la sola scusa che si può trovarle è che il re era rattristato e umiliato dalla situazione che si era venuta a creare, e l’amore per il marito prese nella regina il sopravvento. Il benessere di Naboth, è ovvio, le importava molto meno. Te l’ho detto, è stato un modello di mo…»

Jessie si allontanò ancora di più, rossa in faccia e furiosa. «Penso che sei un uomo orribile e disgustoso!»

Lije la guardò sbalordito. «Ma che t’ho fatto? Che ti prende?»

Lei uscì di casa senza rispondere e passò la sera e metà della notte ai livelli del video subeterico, viaggiando instancabilmente da spettacolo a spettacolo e consumando due mesi di quota-divertimenti (siccome la quota era comune, ci andò di mezzo anche Lije).

Quando tornò nell’appartamento trovò il marito sveglio, ma non gli disse parola.

Più tardi, molto più tardi, Baley si rese conto di aver distrutto una parte dei sogni di sua moglie. Per lei il suo nome aveva un significato misterioso, sinistro, e compensava il passato ultra-rispettabile che da ragazza aveva avuto. L’avvolgeva in un’aura di peccato, di licenza che lei adorava.

Adesso era tutto finito. Non parlò più del suo nome completo né a Lije né agli amici, e per quanto lui ne sapeva nemmeno a se stessa. Diventò Jessie e cominciò a firmarsi così.

Con il passare dei giorni gli rivolse di nuovo la parola, e dopo qualche tempo la vita riprese al ritmo normale; nessuna delle liti che vennero poi ebbe la stessa intensità.

Solo una volta si tornò a sfiorare l’argomento, ma indirettamente. Fu all’ottavo mese di gravidanza. Jessie aveva lasciato il posto di assistente dietologa nella mensa A-23 e avendo tempo libero si divertiva a fare preparativi per la nascita del bambino.

Una sera disse: «Che ne dici di Bentley?».

«Come, cara?» Baley alzò gli occhi da un fascio di pratiche che si era portato a casa. (Con una bocca in più da sfamare, la paga di Jessie sospesa e la sua promozione ai livelli superiori lontana più che mai, fare dello straordinario era indispensabile.)

«Voglio dire, se il bambino è maschio, Bentley è un bel nome, ti pare?»

Baley piegò gli angoli della bocca. «Bentley Baley? Non ti sembrano troppo simili?»

«Non so. Ha un certo fascino, questo è sicuro. E poi il ragazzo può scegliersi un secondo nome quando crescerà.»

«Per me va bene.»

«Sicuro? Voglio dire… Forse desideravi chiamarlo Elijah.»

«Poi dovremmo aggiungerci Junior… No, non credo che sia una buona idea. Se vuole, quando sarà grande chiamerà Elijah suo figlio.»

Allora Jessie disse: «C’è ancora una cosa» e si fermò.

Dopo un silenzio lui alzò gli occhi. «Che cosa?»

Lei non lo guardò in faccia, ma disse con fermezza: «Bentley non è un nome biblico, vero?».

«No» rispose Baley. «Sono sicuro di no.»

«Allora va bene. Non voglio nomi biblici.»

E questa fu l’unica allusione alla vecchia lite. Il tempo passò, e quando Lije Baley arrivò a casa in compagnia di R. Daneel Olivaw era sposato con Jessie da diciotto anni. Suo figlio Bentley (non aveva ancora scelto un secondo nome) ne aveva poco più di sedici.


Baley si fermò davanti alla grande porta su cui era scritto, in lettere vistose: PERSONALE — UOMINI. Più in piccolo era scritto SOTTOSETTORI 1A — 1E. Un’ultima dicitura, piccolissima, avvertiva: "In caso di perdita delle chiavi, comunicare subito col 27 — 101 — 51." Era apposta proprio sopra la serratura.

Un uomo li sfiorò, inserì una linguetta d’alluminio nella serratura ed entrò. Si chiuse la porta alle spalle senza far accomodare Baley. Se l’avesse fatto, Baley si sarebbe sentito gravemente offeso: per lunga abitudine gli uomini fingevano di non notare la presenza degli altri all’interno dei Personali o davanti alla porta. Baley ricordò una delle prime confidenze fattegli da Jessie quando aveva ammesso che nei Personali per donne la situazione era diversa.

Diceva spesso: «Ho incontrato Josephine Greely al Personale e mi ha raccontato…»

Una delle conseguenze negative del loro avanzamento sociale fu che quando ebbero il permesso di usare un piccolo lavandino in camera da letto le amicizie di Jessie ne soffrirono.

Baley disse, senza mascherare del tutto il suo imbarazzo: «Per favore, Daneel, aspetta fuori».

«Hai intenzione di lavarti?» chiese R. Daneel.

Baley rabbrividì e pensò: "Dannato robot! Gli hanno insegnato tutto quello che succede sotto l’acciaio, ma non le buone maniere. Se si rivolge a qualcun altro in questo modo il responsabile sarò io.".

Rispose: «Mi farò una doccia. Più tardi si affolla, quindi perderei tempo. Se me la sbrigo adesso, poi avremo tutta la sera davanti a noi».

La faccia di R. Daneel aveva sempre la stessa espressione. «Fa parte dei costumi locali che io aspetti fuori?»

L’imbarazzo di Baley aumentò. «Perché dovresti entrare? A fare che…?»

«Ah, capisco. Sì, naturalmente. Tuttavia anch’io mi sporco le mani, Elijah, quindi voglio lavarmele.»

Mostrò le mani, la palma in fuori. Erano rosate e morbide, con tutte le linee del caso. Portavano il marchio di una tecnologia superiore, e a quanto Lije poté giudicare erano pulitissime.

Baley disse: «Abbiamo un lavandino in casa, per quello». Non c’era traccia di vanteria nella sua voce: lo snobismo, con un automa, è inutile.

«Grazie per la gentilezza, tuttavia credo di voler usare questo posto. Se devo vivere fra gli uomini della Terra, sarà meglio che adotti le vostre abitudini e i vostri costumi.»

«Allora vieni.»

La pulizia e quasi l’allegria dell’interno contrastavano con i criteri del resto della Città, rigidamente utilitaristici.

Baley, tuttavia, ci era abituato e non ci fece caso.

Disse a Paneel, parlando piano: «Mi ci vorrà mezz’ora circa. Aspettami». Si avviò e poi tornò sui suoi passi: «E non parlare a nessuno, non guardare nessuno. Capito? È una regola importante».

Si affrettò ad allontanarsi per evitare di essere sorpreso a parlare; non ci teneva a dare scandalo, ma nel vestibolo non c’era nessuno; già, per fortuna erano soli nel vestibolo.

Percorse il corridoio, in fretta, sentendosi materialmente sporco, superò le sale comuni e raggiunse i box privati. Erano cinque anni che ne aveva conquistato uno, largo a sufficienza per contenere doccia, una piccola lavanderia e altre necessità. C’era perfino un proiettore che trasmetteva i film più recenti.

«Una seconda casetta» aveva scherzato quando glielo avevano assegnato. Ma ora si chiedeva se fosse possibile riadattarsi all’esistenza spartana delle sale comuni, se il morale di un uomo potesse sopportare la perdita dei privilegi connessi alla qualifica.

Schiacciò il pulsante di azionamento della lavanderia e il quadrante liscio del contatore si illuminò.

Quando Baley tornò con il corpo rinfrescato, la biancheria lavata, una camicia pulita e, in genere, un senso di benessere e conforto, R. Daneel lo aspettava tranquillamente.

«Nessun problema?» chiese Baley quando furono all’esterno e poterono parlare.

«Nessuno, Elijah» disse R. Daneel.

Jessie era sulla porta e aveva un sorriso nervoso. Baley la baciò.

«Jessie» borbottò «questo è il mio nuovo collaboratore, Daneel Olivaw.»

Jessie tese la mano, che R. Daneel prese e lasciò. Lei si volse al marito, poi guardò timidamente l’ospite.

«Vuole sedersi, signor Olivaw? Dovrei parlare a mio marito di qualche faccenda di famiglia. Mi ci vorrà un minuto, spero che non le dispiaccia.»

Mise la mano sulla manica di Baley, che la seguì nell’altra stanza.

Lei disse, in un sussurro: «Non sei ferito, vero? Mi sono preoccupata moltissimo quando ho sentito il notiziario».

«Che notiziario?»

«L’hanno trasmesso circa un’ora fa. Sui disordini al negozio di scarpe. Dicono che due agenti in borghese hanno messo a posto tutto. Sapevo che stavi venendo a casa con un collega, e siccome è successo nel nostro sottosettore, proprio all’ora in cui arrivi, ho pensato che dovevi essere stato tu, ma che forse avevano indorato la pillola ed eri…»

«Per favore, Jessie. Come vedi sto benissimo.»

Jessie si dominò con uno sforzo. Disse, debolmente: «Il tuo collaboratore non è della tua stessa divisione, giusto?».

«Giusto» rispose Baley miseramente. «È… un perfetto estraneo.»

«Come devo trattarlo?»

«Come chiunque altro. È solo il mio collaboratore, tutto qui.»

Lo disse in modo così poco convincente che Jessie strinse gli occhi: «Cosa c’è che non va?».

«Niente. E adesso torniamo in soggiorno, o cominceremo a sembrare strani.»

Lije Baley si vergognava del suo appartamento. Fino a quel momento niente del genere gli era passato per la testa, anzi ne era sempre stato fiero. C’erano tre ampie stanze, e il soggiorno misurava tre metri e mezzo per cinque. Ogni stanza conteneva un armadietto. Uno dei dotti principali di ventilazione passava lì vicino e questo significava un po’ di rumore ogni tanto, ma d’altra parte assicurava perfetto controllo della temperatura e aria ben condizionata. L’appartamento, inoltre, era vicino a entrambi i Personali, il che non era un vantaggio da poco.

Ma ora che quella creatura di altri mondi sedeva nel soggiorno di casa sua, Lije Baley si sentiva in imbarazzo. L’appartamento gli sembrava squallido e inadeguato.

Con allegria appena forzata Jessie disse: «Tu e il signor Olivaw avete già mangiato, Lije?».

«Per la verità» rispose Baley, rapido «Daneel non mangerà con noi. Io invece ho fame.»

Jessie accettò la situazione senza scomporsi. Con le scorte di cibo così scarse e il razionamento così severo, era elementare buona educazione rifiutare l’ospitalità degli altri.

Lei disse: «Spero che non le dispiaccia se mangiamo, signor Olivaw. Di solito Lije, Bentley e io pranziamo alle mense del settore, sa, è molto più conveniente e c’è più scelta; inoltre, detto fra noi, aiuta socialmente. Tuttavia Lije e io abbiamo il permesso di cenare in casa tre volte la settimana, se vogliamo: Lije se la cava bene, al Dipartimento, e ha una buona qualifica. Così ho pensato che se lei volesse unirsi a noi, una di queste sere, potremmo fare una festicciola in privato; oh, non creda che voglia vantarmi dei nostri piccoli privilegi, so bene che è antisociale».

R. Daneel ascoltò educatamente.

Baley fece schioccare le dita, non troppo rumorosamente, e disse: «Jessie, ho fame».

Intervenne Daneel: «Infrangerei la buona creanza, signora Baley, se la chiamassi con il suo nome?».

«No, certo che no.» Jessie estrasse il tavolo dalla parete e collegò lo scaldavivande alla presa che si trovava nel mezzo. «Faccia pure e mi chiami Jessie… Daneel.» Sembrava euforica.

Baley, invece, era furioso. La situazione diventava sempre più seccante. Jessie pensava che R. Daneel fosse un uomo e avrebbe sparso la notizia nel Personale delle donne: era di bell’aspetto, nel suo modo legnoso, e Jessie era compiaciuta della sua deferenza. Questo era evidente.

Baley si domandò che impressione avesse fatto Jessie all’automa; in diciotto anni non era cambiata molto, non, almeno, agli occhi di Lije. Si era appesantita, certo, e la figura aveva perso gran parte del vigore giovanile; c’era qualche ruga agli angoli della bocca e le guance sembravano più pesanti, mentre i capelli — appena un po’ sbiaditi — erano pettinati in una foggia più tradizionale.

Ma tutto questo era assurdo, pensò Baley. Sui Mondi Esterni le donne erano alte, snelle e fiere come gli uomini. I librofilm le mostravano così, e R. Daneel doveva essere abituato a quello standard.

L’automa non sembrava colpito dalla conversazione di Jessie, dal suo aspetto o dal fatto che lo chiamasse per nome. Disse: «È sicura che facciamo bene? A usare quel nome, voglio dire. Jessie sembra un diminutivo, e forse è riservato ai suoi conoscenti più stretti. Se mi dice il nome completo…».

Jessie, che stava aprendo la copertura isolante in cui erano tenute le razioni, piegò la testa sul tavolo come se fosse totalmente assorbita dall’operazione.

«È proprio Jessie» disse, con la gola stretta. «Tutti mi chiamano così. Non c’è altro.»

«Benissimo, Jessie.»

La porta si aprì ed entrò un ragazzo. I suoi occhi individuarono immediatamente R. Daneel.

«Papà?» chiese il ragazzo, incerto.

«Mio figlio Bentley» disse Baley a bassa voce. «Questo è il signor Olivaw, Ben.»

«È il tuo collega, eh pa’? Come sta, signore?» Gli occhi di Ben si illuminarono tutti. «Di’, pa’, che è successo al negozio di scarpe? Il notiziario ha detto…»

«Non metterti a fare domande, Ben» l’interruppe Baley, brusco.

Bentley prese un’espressione afflitta e cercò gli occhi della madre, che gli fece segno di sedere.

Quando si fu sistemato, lei chiese: «Hai fatto quello che ti ho detto, Bentley?». Gli carezzò i capelli, scuri come quelli del padre. Era alto come Lije, ma per il resto era tutto sua madre. Aveva la faccia ovale di Jessie, gli occhi nocciola e il buonumore tipico di lei.

«Certo, ma’» rispose Bentley, sporgendosi un poco verso il piatto doppio da cui già cominciavano a salire i vapori aromatici. «Che mangiamo, ma’? Non zimovitello di nuovo, eh, ma’?»

«Non c’è niente che non va nello zimovitello» rispose Jessie, stringendo le labbra. «Mangia quello che ti si mette davanti e non fare commenti.»

Era ovvio che il piatto del giorno era di nuovo zimovitello.

Baley si mise a sedere. Anche lui avrebbe preferito qualcos’altro, perché gli enzimi avevano un gusto acre e lasciavano un sapore che non andava via facilmente. Ma Jessie aveva già spiegato il problema.

«Non posso, Lije, non posso» gli aveva detto. «Vivo qui tutto il giorno e non posso farmi dei nemici, o la vita diventerà insopportabile. Sanno che sono stata aiuto dietologa, e se tornassi ogni giorno con pollo o bistecca quando su questo livello non c’è nessuno che abbia il permesso di mangiare a casa sua, nemmeno la domenica, direbbero che ho rubato o che ho le raccomandazioni. Comincerebbero a parlare, parlare, parlare e non potrei nemmeno andare al Personale in pace. In definitiva zimovitello e protoverdure sono alimenti buoni, completi e senza sprechi. Se lo vuoi sapere contengono vitamine, minerali e tutto quello di cui si ha bisogno. Il pollo lo possiamo avere quando mangiamo in comunità, il giovedì.»

Baley aveva ceduto facilmente. Era proprio come diceva Jessie: il problema principale della vita era ridurre al minimo i motivi di attrito con la folla enorme che premeva da ogni parte. Bentley era più duro da convincere.

Quella sera, disse: «Mamma, perché non posso usare il tagliando di papà e andare a mangiare in comunità da solo? Lo farei subito».

Jessie scosse la testa seccata e disse: «Mi meraviglio di te, Bentley. Che penserebbe la gente se ti vedesse mangiare da solo? Che la tua famiglia ti maltratta o che ti ha buttato fuori di casa, non è così?».

«Be’, perdio, non sono fatti loro.»

Baley lo riprese in tono nervoso: «Fai come dice tua madre, Bentley».

Bentley si strinse nelle spalle, infelice.

Dal suo angolo R. Daneel chiese all’improvviso: «Ho il permesso di vedere questi librofilm mentre mangiate?».

«Certo» rispose Bentley, scivolando da tavola con un’espressione di immediato interesse. «Sono miei. La biblioteca me li ha dati con regolare permesso della scuola. Le darò il mio visore, è molto buono. Me lo ha regalato mio padre per il compleanno.»

Lo portò a R. Daneel e disse: «Lei si interessa di robot, signor Olivaw?».

Baley fece cadere il cucchiaio e si chinò per raccoglierlo.

R. Daneel disse: «Sì, Bentley. Mi interessano».

«Allora questi le piaceranno. Spiegano tutto sui robot. Ho scritto un tema su di loro e adesso sto facendo una ricerca.» Aggiunse, con aria d’importanza: «È un argomento complesso, ma per parte mia sono contrario a quei cosi».

«Vieni a sederti, Bentley» disse Baley disperato. «Non seccare il signor Olivaw.»

«Non mi secca affatto, Elijah. Una volta o l’altra mi piacerebbe parlare con te del problema, Bentley. Stasera, purtroppo, tuo padre e io saremo occupati.»

«Grazie, signor Olivaw.» Bentley tornò a sedere, lanciò un’occhiata di disgusto a sua madre e tagliò con la forchetta un boccone di zimovitello, roseo e facile a sbiciolarsi.

Baley pensò: "Saremo occupati?".

Poi, di colpo, ricordò l’incarico che gli avevano assegnato. Pensò allo Spaziale morto a Spacetown e si rese conto che per qualche ora era stato talmente assorbito dalla nuova situazione da dimenticare la fredda realtà del delitto.

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