Lije Baley era appena arrivato alla sua scrivania quando si accorse che R. Sammy lo fissava, come in attesa.
Le linee severe della sua faccia s’indurirono. «Che cosa vuoi?»
«Il capo ti cerca, Lije. Vuole che tu vada da lui immediatamente.»
«D’accordo.»
R. Sammy se ne rimase lì senza battere ciglio.
«Ho detto d’accordo!» scattò Baley. «Vattene, adesso!»
R. Sammy girò sui tacchi e tornò al solito lavoro. Baley si chiese, irritato, perché lo stesso lavoro non potesse farlo un uomo.
Esaminò il contenuto della borsa del tabacco e fece qualche calcolo mentale: a due pipate al giorno, poteva tirare fino alla prossima distribuzione.
Uscì lentamente dall’angolo riservato (si era conquistato un angolo riservato due anni prima) e attraversò la sala comune.
Simpson alzò gli occhi dai congegni dello schedario mercurico e disse: «Il capo ti cerca, Lije».
«Lo so, R. Sammy me l’ha detto.»
Dall’interno dello schedario uscì un nastro in codice, mentre il piccolo strumento frugava nella sua memoria e analizzava il risultato per fornire le informazioni archiviate nella scintillante superficie di mercurio.
«Gli darei un calcio nel sedere, a quel R. Sammy» disse Simpson. «Ma non ci tengo a rompermi una gamba. Sai, l’altro giorno ho visto Vince Barrett.»
«Ah.»
«Cercava di farsi ridare il suo lavoro, o qualunque lavoro qui al Dipartimento. Il ragazzo è disperato, ma che potevo dirgli? Il suo lavoro lo fa R. Sammy, adesso. E così gli tocca fare il garzone per una fabbrica di lieviti; era un ragazzo in gamba, piaceva a tutti.»
Baley si strinse nelle spalle e disse, con più asciuttezza di quanta intendesse: «È una cosa che dobbiamo sopportare tutti».
Il capo aveva diritto a un ufficio personale. Sulla porta di vetro smerigliato c’era scritto JULIUS ENDERBY, a belle lettere impresse nel cristallo. Più sotto, QUESTORE DELLA CITTÀ DI NEW YORK.
Baley entrò e chiese: «Voleva vedermi, questore?»
Enderby alzò gli occhi: portava gli occhiali perché aveva i bulbi sensibili e non poteva permettersi le normali lenti a contatto. Solo dopo essersi abituati alla vista di quegli aggeggi si riusciva a prestare attenzione alla faccia, che, del resto, non aveva nulla di notevole. Baley sospettava che il questore portasse gli occhiali per l’aria d’importanza che gli davano, non perché avesse gli occhi sensibili.
Il questore lo guardò con evidente nervosismo. Si lisciò i ciuffi, si appoggiò allo schienale e disse, fin troppo cordialmente: «Siediti, Lije, siediti».
Baley si mise a sedere rigido e aspettò.
Enderby chiese: «Come sta Jessie? E il ragazzo?».
«Bene» rispose Baley, piatto. «Molto bene. E la sua famiglia?»
«Bene» ripeté Enderby.
Era stata una falsa partenza.
Baley pensò: "C’è qualcosa che non va, nella sua faccia".
A voce alta, disse: «Questore, vorrei che non mi mandasse a cercare da R. Sammy».
«Sai come la penso su queste cose, Lije. Ma l’hanno messo qui e dobbiamo pur fargli fare qualcosa.»
«Mi mette a disagio, signore. Dice che lei vuole vedermi e poi rimane lì impalato. Sa cosa intendo. Devo dirgli materialmente di andarsene, o resterebbe lì in eterno.»
«Questa è colpa mia. Gli ho dato il messaggio e ho dimenticato di specificare che una volta eseguito l’ordine poteva tornare al lavoro.»
Baley sospirò. Le pieghe agli angoli degli occhi intensamente scuri si accentuarono. «Comunque, lei voleva vedermi.»
«Sì, Lije» disse il questore. «Ma non per una cosa facile.»
Si alzò, girò la schiena e s’incamminò verso la parete alle spalle della scrivania. Toccò un bottone invisibile e una sezione del muro divenne trasparente.
Baley batté gli occhi perché non s’aspettava l’improvvisa inondazione di luce grigia.
Il questore sorrise. «Mi sono fatto installare questo trucchetto l’anno scorso, Lije. Non credo di avertelo mai mostrato. Vieni, dai un’occhiata. Ai vecchi tempi tutte le stanze avevano un affare così. Si chiamavano finestre, lo sapevi?»
Baley lo sapeva perfettamente, perché aveva visto parecchi romanzi storici.
«Ne ho sentito parlare» disse.
«Vieni qui.»
Baley si sentì rabbrividire un poco, ma fece come gli era stato chiesto. C’era qualcosa di indecente nell’esposizione di una camera privata alla luce del mondo esterno. A volte il questore spingeva le sue manie medievali fino all’estremo.
Come per gli occhiali, Baley pensò.
Ecco cos’era! Ecco cosa lo faceva sembrare "strano"!
Baley chiese: «Scusi, questore, porta occhiali nuovi?».
L’altro lo guardò con una certa sorpresa, si tolse gli occhiali e li rimirò. Poi guardò Baley. Senza, la sua faccia sembrava più rotonda e il mento più pronunciato. Aveva un’aria imbambolata, perché i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco le cose.
Rispose: «Sì».
Si rimise gli occhiali sul naso e aggiunse, con autentica rabbia: «Ho rotto i vecchi tre giorni fa. Fra una cosa e l’altra non sono riuscito a sostituirli prima di stamattina. Lije, ho passato tre giorni d’inferno».
«Per via degli occhiali?»
«E di altre cose. Ci arrivo.»
Si voltò verso la finestra e Baley lo imitò. Con un brivido Baley si accorse che fuori pioveva. Rimase perso per un minuto nello spettacolo dell’acqua che cadeva dal cielo, mentre il questore trasudava orgoglio, neanche fosse opera sua.
«È la terza volta, questo mese, che guardo la pioggia. Bello spettacolo, non ti pare?»
Controvoglia Baley dovette ammettere che era impressionante. In quarantadue anni di vita aveva visto raramente la pioggia o altri fenomeni della natura.
Commentò: «Mi sembra uno spreco che tanta acqua si versi sulla città. Dovrebbe cadere solo nei bacini».
«Lije» disse il questore «sei un inguaribile uomo moderno. Questo è il tuo guaio. Nel medioevo la gente viveva all’aperto, e non intendo solo nelle fattorie, ma nelle città. Perfino a New York si viveva all’aperto. Quando pioveva, la gente non pensava che fosse uno spreco. Era contenta. Viveva a contatto con la natura. È più sano, è meglio. La vita moderna ha divorziato dalla natura, da qui vengono i guai. Qualche volta, leggi come andavano le cose nel Secolo del Carbone.»
Baley l’aveva fatto. Aveva sentito troppa gente lamentarsi dell’invenzione della pila atomica, e lui stesso brontolava quando le cose andavano male o quando semplicemente era stufo. Lamentarsi è una caratteristica innata della specie umana. Nel Secolo del Carbone la gente imprecava contro la macchina a vapore; in una commedia di Shakespeare un personaggio lamenta l’invenzione della polvere da sparo. Mille anni dopo ci si lamentava per la fabbricazione del cervello positronico.
All’inferno.
Baley disse, cupo: «Mi stia a sentire, Julius». (Non era sua abitudine prendersi certe confidenze con il questore nelle ore di lavoro, anche se l’altro gli dava sbrigativamente del tu; ma stavolta gli sembrava il caso di fare un’eccezione.) «Mi stia a sentire, lei sta parlando di tutto meno della ragione per cui mi ha fatto chiamare. E questo mi preoccupa. Di che si tratta?»
Il questore rispose: «Ci arrivo, Lije, ma fammi fare a modo mio. Sono… guai».
«Sicuro, su questo pianeta non c’è altro. Guai con R.?»
«In un certo senso, sì. Mi chiedo quante altre rogne il vecchio mondo potrà sopportare. Quando ho fatto installare la finestra non è stato solo per guardare il cielo. Volevo tenere d’occhio la città, e adesso mi chiedo che cosa ne sarà fra un altro secolo.»
Il sentimentalismo del superiore ripugnava a Baley, ma non poté fare a meno di contemplare il mondo esterno con una punta di fascino. Anche incupita dal cattivo tempo la Città offriva una vista spettacolare. Il Dipartimento di Polizia si trovava ai piani superiori del Municipio, e il Municipio svettava molto in alto. Dalla finestra del questore si vedeva la cima delle altre torri, più basse. Sembravano altrettante dita puntate al cielo. Le pareti erano lisce e senza aperture. Erano i gusci esterni dell’alveare umano.
«Quasi mi dispiace che stia piovendo» disse il questore. «Non riusciamo a vedere Spacetown.»
Baley guardò a ovest, ma era come aveva detto il questore: l’orizzonte era offuscato dal maltempo. Le torri di New York sbiadivano sempre più nella nebbia e sparivano in un indistinto sfondo biancastro.
«So com’è Spacetown» disse Baley.
«Mi piace come appare da qui» fece il questore. «Si distingue appena nell’intervallo fra i due settori di Brunswick. Cupole basse sparse dappertutto. È questa la differenza fra noi e gli Spaziali: noi viviamo affollati in poco spazio e dobbiamo costruire le torri per starci dentro tutti, loro si permettono una cupola per famiglia. Ogni famiglia ha la sua casa. E fra le cupole c’è spazio… hai mai parlato con uno Spaziale, Lije?»
«Qualche volta. Circa un mese fa ho parlato con uno di loro dal suo intercom» disse Baley, paziente.
«Sì, ricordo. Ma sto andando nel filosofico: noi e loro. Due modi di vita diversi.»
Lo stomaco di Baley cominciava a contrarsi un po’. Più, tortuoso era il modo in cui il questore affrontava l’argomento, più micidiale doveva essere la conclusione.
Disse: «Va bene, ma cosa c’è di tanto sorprendente? Non si può pretendere che otto miliardi di persone, quant’è la popolazione della Terra, possano permettersi una cupola per famiglia. Quelli hanno tutto lo spazio che vogliono, sugli altri pianeti. Che vivano a modo loro.»
Il questore tornò alla sua poltrona e sedette. Gli occhi fissavano Baley senza battere ciglio, lievemente rimpiccioliti dalle lenti concave. Disse: «Non tutti sono così tolleranti sulle differenze culturali. Sia fra noi che fra gli Spaziali».
«Va bene. E quindi?»
«Quindi tre giorni fa uno Spaziale è morto.»
Ci siamo. Gli angoli della bocca sottile di Baley si sollevarono un po’, ma l’effetto sulla faccia lunga e triste fu irrilevante. Disse: «Che peccato. Una malattia contagiosa? Un virus, un raffreddore forse…».
Il questore parve stupito. «Ma di che stai parlando?»
Baley non si preoccupò di spiegare. La precisione con cui gli Spaziali avevano eliminato le malattie dalla loro società era ben nota. La cura con cui evitavano gl’infetti terrestri, per quanto possibile, era ancora più nota. Peccato che il questore non avesse senso dell’umorismo.
Baley disse: «Facevo tanto per parlare. Di che è morto?». Si voltò verso la finestra.
Il questore rispose: «Di asportazione del petto. Qualcuno ha usato un fulminatore contro di lui».
Baley sentì la schiena irrigidirsi. Senza voltarsi, disse: «Cosa?».
«Omicidio» rispose dolcemente il questore. «Tu sei un uomo di mondo. Sai che cos’è l’omicidio.»
Finalmente Baley si girò. «Ma uno Spaziale! Tre giorni fa!»
«Sì.»
«Chi è stato? Come?»
«Gli Spaziali sostengono che è stato un terrestre.»
«Non è possibile.»
«Perché no? Tu non li ami, io nemmeno. Chi li vuole, su questo dannato mondo? Qualcuno ha spinto il suo disamore un po’ più in là, questo è tutto.»
«Sicuro, ma…»
«C’è stato l’incendio alle fabbriche di Los Angeles. C’è stata la sommossa anti-R. a Berlino e i disordini di Shangai.»
«Va bene.»
«Tutto parla di scontento crescente. Forse c’è una specie di organizzazione.»
«Questore, io non capisco. Mi sta mettendo alla prova per qualche motivo?»
«Cosa?» Il questore sembrava onestamente stupito.
Baley lo tenne d’occhio. «Tre giorni fa uno Spaziale viene ammazzato e gli Spaziali pensano che ci sia sotto un terrestre. Finora» tamburellò sul piano della scrivania «non è emerso niente. Ho ragione? Questore, è semplicemente incredibile. Per la valle di Giosafatte, se una cosa del genere accadesse sul serio la Città di New York salterebbe in aria, tutta quanta.»
Il questore scosse la testa. «Non è così facile. Guarda, Lije, sono stato fuori tre giorni e ho parlato con il sindaco. Sono stato a Spacetown e a Washington, al Terrestrial Bureau of Investigation.»
«Ah sì? E che le hanno detto i ragazzi del TBI?»
«Che la rognetta è nostra e ce la teniamo. Spacetown è sotto la giurisdizione di New York.»
«Ma con diritti extraterritoriali!»
«Lo so, ci sto arrivando.» Gli occhi del questore non ressero oltre lo sguardo penetrante di Baley. D’un colpo sembrava che i ruoli si fossero invertiti, e che il superiore fosse Baley; quest’ultimo accettava il fatto.
«Gli Spaziali possono cavarsela da soli, la loro patata bollente.»
«Aspetta un minuto, Lije» pregò il questore. «Non farmi fretta. Sto cercando di parlarti in tutta onestà, da uomo a uomo. Voglio che tu conosca la mia posizione. Io ero là quando si è sparsa la notizia. Avevo un appuntamento con lui… con Roj Nemennuh Sarton.»
«La vittima?»
«La vittima.» Il questore gemette. «Altri cinque minuti e avrei scoperto il cadavere io stesso. Sarebbe stato un bello shock. Ti assicuro che è stata una cosa brutale, veramente brutale. Mi sono venuti incontro e mi hanno informato, e da allora ho passato tre giorni d’incubo. E a peggiorare tutto, la mancanza degli occhiali. Per fortuna questo non succederà più: ne ho ordinati tre paia.»
Baley cercò di figurarsi la scena. Gli pareva di vedere le figure allampanate degli Spaziali che si avvicinavano al questore e gli davano la notizia nel loro modo scarno, privo di emozioni. Julius si toglieva gli occhiali e cercava di pulirli, ma sotto la pressione degli eventi li faceva cadere e guardava i frammenti con un fremito delle labbra piene e morbide. Baley era certo che per buoni cinque minuti il questore si era preoccupato molto più degli occhiali che dell’omicidio in sé.
«Mi trovo in una maledetta posizione» disse il capo. «Come hai detto, gli Spaziali hanno diritto all’extraterritorialità. Possono svolgere indagini in proprio e riferire ai rispettivi governi quello che vogliono. I Mondi Esterni si serviranno dell’incidente per fare un’esorbitante richiesta d’indennizzo. E tu sai che conseguenze questo avrebbe, agli occhi dell’opinione pubblica terrestre.»
«Per la Casa Bianca accettare il pagamento equivarrebbe a un suicidio politico.»
«Non pagare sarebbe un’altra forma dello stesso suicidio.»
«Non ha bisogno di disegnare il quadro a me» disse Baley. Era solo un ragazzo quando gli argentei incrociatori venuti dallo spazio avevano fatto sbarcare i contingenti armati a Washington, New York e Mosca per ottenere i pagamenti di loro "spettanza".
«Dunque lo vedi: pagare o non pagare, è un guaio lo stesso. L’unico modo per venirne fuori è trovare l’assassino per conto nostro e consegnarlo agli Spaziali. Tocca a noi.»
«Perché non al TBI? Anche se la giurisdizione è nostra, c’è la questione dei rapporti interstellari…»
«Il TBI non vuole sporcarsi le mani. La patata scotta ed è finita proprio fra le nostre dita.» Per un attimo alzò la testa e guardò il subordinato in modo penetrante. «E questo non va bene, Lije. Tutti noi rischiamo di perdere il lavoro.»
Baley disse: «Sostituirci in massa? Balle. Non esistono tanti uomini addestrati che possano mandare avanti il Dipartimento».
«Però» disse il questore «esistono gli R.»
«Cosa?»
«R. Sammy è solo l’inizio. Fa il fattorino. Altri fanno i vigili. Maledizione, Lije, conosco gli Spaziali meglio di te e so che cosa stanno combinando. Ci sono R. che possono fare il tuo lavoro e il mio. Verremo declassati, non credere. E alla nostra età l’ufficio di collocamento non dà molte speranze.»
Contrariato, Baley disse: «D’accordo».
Il questore temette di aver esagerato: «Mi spiace, Lije».
Baley annuì e tentò di non pensare a suo padre.
Il questore conosceva la storia, ovviamente. Baley disse: «Quando è cominciata questa storia delle sostituzioni?».
«Non fare l’ingenuo, Lije. È stata una cosa graduale, e va avanti da venticinque anni. Da quando sono arrivati gli Spaziali. Sta solo cominciando a colpire più in alto, questo è tutto. Se sbagliamo questo caso, è un bel passo verso la fine dei sogni rosei di pensionamento. D’altra parte, Lije, se lo risolviamo possiamo allontanare quel pericolo di molto. Possiamo farlo scomparire nel futuro. E per te sarebbe un successo personale.»
«Per me?» chiese Baley.
«Sarai l’investigatore in carica, Lije.»
«Non ho una qualifica così alta, questore. Sono solo un C-5.»
«E vorresti la C-6, vero?»
La voleva? Baley conosceva i privilegi che comportava la qualifica superiore: un sedile sulla strada celere nell’ora di punta e non solo dalle dieci alle quattro; più ampia possibilità di scelta sul menù della sezione; forse la speranza di un appartamento migliore e un biglietto per il solarium. A Jessie avrebbe fatto comodo.
«La voglio» disse. «Sicuro. Perché non dovrei? Ma che mi succederà se non riuscirò a risolvere il caso?»
«Perché non dovresti risolverlo, Lije?» stornò il questore. «Sei un buon agente. Uno dei migliori che abbiamo.»
«Ci sono almeno sei uomini con la qualifica più alta, nella mia divisione. Perché dovrei essere preferito?»
Baley non lo disse forte, ma le sue parole alludevano al fatto che il questore abbandonava il protocollo solo nei casi di estrema emergenza.
Il questore incrociò le braccia. «Per due ragioni. Prima di tutto tu non sei soltanto un agente, per me, ma anche un amico. Non ho dimenticato che siamo andati a scuola insieme. A volte può sembrare che me ne sia scordato, ma è tutta colpa della qualifica. Io sono questore e tu sai ciò che significa. Ma sono pur sempre tuo amico e questa è una grande occasione per la persona giusta. Voglio che l’abbia tu.»
«E va bene, questa è la numero uno» disse Baley senza calore.
«La seconda è che ho bisogno di un favore. Penso che anche tu ti consideri mio amico…»
«Che specie di favore?»
«Voglio che lavori insieme a uno Spaziale, in questo caso. È una condizione posta dagli Spaziali stessi. Hanno acconsentito a non denunciare l’assassinio; hanno acconsentito a che ci occupassimo noi delle indagini. Ma in cambio vogliono che un loro agente partecipi alle ricerche. Fin dal principio.»
«A quanto pare non si fidano di noi.»
«Devi capire il loro punto di vista. Se la faccen da non viene trattata con il massimo scrupolo, un certo numero di loro si troverà nei guai con i rispettivi governi. Concediamo loro il beneficio del dubbio, Lije. Voglio credere che si comporteranno bene.»
«Sono sicuro che lo faranno, questore. È questo il loro guaio.»
Il questore non colse, ma continuò: «Sei disposto ad accettare la collaborazione di uno Spaziale, Lije?».
«Me lo chiede come un favore?»
«Sì, ti chiedo di accettare l’incarico con tutte le clausole che gli Spaziali hanno preteso.»
«Allora accetterò il collaboratore.»
«Grazie, Lije. Dovrà abitare da te.»
«Oh, adesso non esagera?»
«Mi rendo conto, mi rendo conto, Lije, ma tu hai un appartamento grande. Tre stanze e un solo bambino. Puoi sistemarlo, e poi non ti darà nessun fastidio. Credimi, è necessario.»
«A Jessie non piacerà.»
«Dirai a Jessie» fece il questore, così ansioso che gli occhi sembrarono scavare due fori negli occhiali «che se fai questo per me io tenterò di farti saltare una qualifica, quando tutto sarà finito. Ti promuoverò C-7, Lije, C-7!»
«D’accordo, è un affare.»
Baley fece per alzarsi, vide l’espressione di Enderby e sedette di nuovo.
«C’è dell’altro?»
Lentamente il questore annuì. «Un’altra cosa.»
«E sarebbe?»
«Il nome del tuo collaboratore.»
«Che importanza ha?»
«Gli Spaziali» disse il superiore «hanno sistemi particolari. Il collaboratore che hanno scelto non è… non è…»
Gli occhi di Baley si spalancarono. «Aspetti un minuto!»
«Devi farlo, Lije. Devi farlo. Non c’è altro sistema.»
«E dovrei tenermi in casa un affare come quello?»
«Te lo chiedo come amico.»
«No. No!»
«Lije, per questa faccenda non mi fido di nessun altro. Devo cantartelo? Dobbiamo cooperare con gli Spaziali. Dobbiamo riuscire, se vogliamo tenere le navi-gabella lontane dalla Terra. Ma non possiamo riuscire con i vecchi metodi, quindi il tuo collaboratore sarà uno dei loro R. Se il caso riesce a risolverlo lui, se si sparge la voce che siamo inefficienti, per noi tutti è la rovina. E intendo noi come Dipartimento, capisci? Quindi ti trovi per le mani un lavoro doppiamente spinoso. Devi lavorare con lui ma accertarti che sia tu a risolvere il caso. Hai capito?»
«Vuol dire che devo collaborare al cento per cento con quell’affare e poi devo tagliargli la gola? Dargli una pacca con una mano e stringere il pugnale con l’altra?»
«Che altro possiamo fare? Non c’è alternativa.»
Lije Baley stette un attimo indeciso. «Non so che cosa dirà Jessie.»
«Le parlerò io, se vuoi.»
«No, questore.» Tirò un profondo respiro. «E ora mi dica il nome del mio collaboratore.»
«R. Daneel Olivaw.»
Baley disse, tristemente: «Non è il momento degli eufemismi; accetto il lavoro, quindi diciamolo per esteso: Robot Daneel Olivaw».