«Io sì» disse Philos. «Una cosa molto interessante è che, quando dormi, tu sogni. In realtà, hai allucinazioni. Dormendo regolarmente come fai tu, ti procuri queste allucinazioni mentre dormi, sebbene il sonno sia in questo caso come in molti altri soltanto un particolare di comodo; persino tu potresti farlo senza dormire.»

«Be', c'è quello che noi chiamiamo fantasticheria…»

«Comunque lo chiami, è un fenomeno universale della mente umana, e forse dovrei limitarlo all'umanità. Comunque, resta il fatto che se alla mente è inibito, o proibito, di realizzare le allucinazioni, per esempio se un soggetto venisse svegliato ogni volta che scivola in quello stato, alla fine la sua mente crollerebbe.»

«La mente crolla?»

«È esatto.»

«Vuoi dire che se avessi svegliato quel ledom, sarebbe impazzito?» Brutalmente, chiese: «Avete tutti un equilibrio così delicato?».

Philos rise di quel tono brutale; era una reazione spontanea a qualcosa di ridicolo. «No! Oh, no, certo! Stavo parlando di una situazione di laboratorio, una interruzione costante. Posso assicurarti che ci ha visti; era cosciente. Ma la sua mente ha fatto una scelta, e ha scelto di continuare a seguire la sua visione interiore. Se io avessi insistito, o se qualcosa di insolito come il suono della tua voce…» sottolineò quella parola, lievemente ma nettamente; e Charlie si rese conto che la sua voce stava a quelle dei ledom come un corno baritono ai flauti «l'avesse strappato a quella condizione, ci avrebbe parlato, ci avrebbe perdonato l'intrusione e ci avrebbe salutati.»

«Ma perché? Perché lo fa?»

«E tu perché lo fai? Sembra che vi sia un meccanismo per mezzo del quale la mente si distacca dalla realtà per confrontare e paragonare i dati che non possono venire associati nella realtà. La vostra letteratura è piena di immagini allucinative di questo genere… i maiali alati, la libertà umana, i draghi che sbuffano fuoco, la saggezza dell'autorità, il basilisco, il golem, e l'eguaglianza tra i sessi.»

«Ma, ascolta…» gridò irritato Charlie, e poi si frenò. I simili di Philos non potevano venire raggiunti dall'ira; lo capì e disse, seccamente: «Stai prendendoti gioco di me, quindi è un gioco e basta. Ma tu ne conosci le regole e io no».

Philos interruppe la discussione, con fare disarmante; i suoi occhi acuti si addolcirono e si scusò, con assoluta sincerità. «Ho corso troppo» disse. «Il mio turno verrà dopo che tu avrai visto il resto di Ledom.»

«Il tuo turno?»

«Sì… la storia. Ciò che tu pensi di Ledom è una cosa; ciò che tu penserai di Ledom più la sua storia è un'altra cosa; ciò che… ma lasciamo perdere.»

«Continua.»

«Stavo per dirti, ciò che penserai di Ledom più la sua storia più la tua storia è una cosa completamente diversa. Ma non lo dirò» dichiarò Philos, accattivante «perché se lo facessi sarei costretto a scusarmi di nuovo.»

Quasi controvoglia, Charlie rise con lui e proseguirono.

A poche centinaia di metri dalla casetta, Philos lo fece svoltare a sinistra, gli fece salire un pendio piuttosto ripido, fino in vetta, e seguì la cresta della collina fino a che giunsero a una specie di poggio. Philos, che faceva da guida, si fermò e accennò a Charlie di raggiungerlo. «Guardiamoli da qui, per un po'.»

Charlie guardò la casetta. Ora poteva vedere che era sull'orlo di un'ampia valle, in parte coperta di boschi (o forse erano orti? Qui non facevano nulla in linea retta!) e in parte di campi coltivati. Tra i campi e i boschi, la campagna era tenuta come un parco, proprio come accanto ai grandi edifici. Sparse un po' dovunque c'erano altre casette, lontane l'una dall'altra, anche di mezzo chilometro; ognuna di esse era unica… legno, pietra viva, una specie di stucco bianco, intonaco, persino qualcosa che sembrava torba. Poteva vedere più di venticinque casette, dal poggio, e probabilmente ve ne erano altre. Come petali di fiori sparpagliati e dai colori diversi, gli indumenti vivaci delle persone apparivano qua e là tra i boschi e i campi, sulle fasce verdi e sulle rive di due ruscelli che scorrevano irregolarmente nella valle. Il cielo argenteo era una cupola che scendeva sulle colline circostanti; sembrava che fosse una mesa a forma di piatto, più alta di tutto ciò che la circondava; perché non poté vedere nulla oltre i dolci declivi della valle.

«Il Centro dei Bambini» disse Philos.

Charlie guardò oltre la vegetazione che avvolgeva la casetta sottostante, verso il giardino e lo stagno. Cominciò a udire il canto, e vide i bambini.


Il signor Herbert Railes e signora stanno acquistando indumenti per bambini nell'ala ABBIGLIAMENTO di un enorme supermarket sull'autostrada. I bambini sono fuori, in macchina. Fuori fa molto caldo, così hanno fretta. Herb spinge un carrello. Jeannette fruga tra i mucchi di indumenti sui banchi.

«Oh, guarda! Queste magliette! Proprio come quelle per grandi!» Ne prende tre per Davy, misura cinque, e tre per Karen, misura tre, e le butta nel carrello. «E adesso, i pantaloni.»

Procede oltre, a passo vivace, con Herb e il carrello nella sua scia; Herb segue senza pensare alle regole internazionali del traffico: un veicolo che proviene da destra ha il diritto di precedenza; un veicolo che in verte la marcia perde il diritto di precedenza. Si attiene due volte a questi princìpi e deve correre, per reggere l'andatura della moglie.

Una ruota cigola. Quando lui corre, la ruota cigola. Jeannette procede decisa, tre corsie diritto a destra, due a sinistra, poi si ferma di colpo. Herb, un po' ansimante, e il cigolio, ritornano nelle sue immediate vicinanze.

«Dove sono i calzoni?» domanda lei.

Lui glielo indica. «Là, dove dice CALZONI.» Hanno già superato quella corsia. Jeannette emette un piccolo suono per deprecare la propria fretta e torna indietro. Herb gira e cigola dietro di lei.

«Il velluto a coste tiene troppo caldo. Tutti i bambini Graham non la portano più. Sai che Louie non ha avuto la promozione» mormora Jeannette come se pregasse, e passa in rassegna i calzoni. «Cachi. Ci siamo. Misura cinque.» Ne prende due paia. «Misura tre.» Ne prende due paia e li butta nel carrello, poi procede. Herb cigola, si ferma, stride e cigola dietro di lei. Lei gira due volte a sinistra, percorre tre corsie e si ferma. «Dove sono i sandali per i bambini?»

«Là, dove dice SANDALI PER BAMBINI» ansima Herb, indicandoglielo. Jeannette emette ancora quel piccolo suono di deprecazione e si lancia verso i sandali. Prima che lui l'abbia raggiunta le ha già scelto due paia di sandali rossi con le suole di gomma biancogialla, e li butta nel carrello.»

«Ferma!» gorgoglia Herb, quasi ridendo.

«Cosa c'è?» dice lei, fermandosi a metà di un passo.

«Cosa vuoi adesso?»

«Costumi da bagno.»

«Be' allora guarda là, dove dice COSTUMI DA BAGNO».

«Non prendermi in giro, caro» dice lei, e procede.

Herb riesce a manovrare in un passaggio libero, e le si avvicina abbastanza per farsi sentire nonostante il cigolio, e dice: «La differenza tra uomini e donne è…».

«Un dollaro e novantasette» dice lei, passando davanti a un banco.

«… che gli uomini leggono le istruzioni, e le donne no. Credo che si tratti di orgoglio sessuale. Prendi il genio dei confezionisti, sogna una scatola che si apra strappando lungo la linea punteggiata, e poi ti dà un filo per aprire l'involucro interno.»

«Calzoni aderenti» dice lei.

«Nove ingegneri si rompono la testa sui macchinari per confezionarle. Sedici addetti agli acquisti impazziscono per trovare abbastanza materiale adatto. Ventitré addetti al traffico rispondono alle telefonate, alle due del mattino, per trasferire settantamila tonnellate di materiale. E poi, quando hai la confezione in cucina, tu l'apri con un'affettatrice.»

«Costumi da bagno» dice lei. «Cosa dicevi, caro?»

«Niente, cara.»

Lei tira fuori rapidamente il contenuto di una scatola con l'etichetta Misura 5. «Ecco qua.» Solleva un paio di calzoncini blu scuro con bordatura rossa.

«Sembra un pannolino per neonati.»

«È elastico» dice lei. Forse questo è un sequitur, ma lui non indaga. Fruga nella Misura 3 e ne tira fuori un paio di calzoncini eguali, ma grandi all'incirca quanto la sua mano. «Ecco qui. Andiamocene prima che quei bambini vadano arrosto, là fuori!»

«Oh, Herb, sciocco; è un costume da bagno per un maschietto!»

«Credo che a Karen starebbe benissimo.»

«Ma Herb! Non ha niente, sopra!» grida lei, continuando a frugare.

Lui solleva i calzoncini e li guarda meditabondo. «E perché Karen ha bisogno di qualche cosa, sopra? Ha tre anni!»

«Ecco qua. Oh, guarda, è lo stesso che ha Dolly Graham.»

«C'è qualcuno, nel nostro vicinato, che possa eccitarsi se vede i capezzoli d'una bambina di tre anni?»

«Herb, non dire sciocchezze.»

«Non mi piace l'allusione.»

«Ecco!» Lei mostra quello che ha trovato, e ridacchia. «Oh, che carino, che carino!» Lo butta nel carrello, che va cigolando rapidamente verso la cassa, con le sei magliette, i quattro calzoncini cachi, due paia di sandali rossi con le suole di gomma biancogialla, un paio di mutandine da bagno blu cupo, misura cinque e un perfetto bikini in miniatura, misura tre.


I bambini, più di una decina, erano nello stagno e attorno allo stagno, cantavano mentre giocavano.

Charlie non aveva mai sentito un canto come quello. Aveva sentito molti canti peggiori e anche qualcuno migliore; ma non aveva mai sentito cantare così. Era qualcosa di simile al suono sommesso prodotto da una di quelle trottole che emettono un accordo d'organo, e poi, rallentando, scivolano su di un altro accordo collegato al primo. Qualche volta quei giocattoli son fatti in modo da emettere una sola nota costante, che suona come due o tre accordi, mentre vibra. Quei bambini (alcuni nell'adolescenza, altri marmocchietti) cantavano in quel modo; e la cosa più straordinaria era che, delle quindici o più voci che si impegnavano a turno, non erano mai più di quattro, eccezionalmente cinque, a cantare insieme.

L'accordo musicale vibrava sopra il gruppo, qualche volta si raccoglieva sopra un grappolo di piccoli corpi bruni, poi si spostava gradualmente attraverso lo stagno, fino all'altra riva, quindi si spandeva così che le note di contralto venivano da sinistra, quelle di soprano da destra. Si poteva quasi vedere l'accordo mentre si condensava, si rarefaceva, si librava, si diffondeva, balzava, cambiando le sfumature in sequenze vibranti, per poi tenere la nota-chiave, rafforzata di due voci all'unisono, mentre il sottofondo veniva modulato così da renderla dominante, una voce cadeva e poi, invece di ricadere, un'altra voce si appiattiva di mezzo tono e l'accordo, divenuto un po' più malinconico, scivolava armoniosamente. Infine una quinta, una sesta, una nona, dolcissima dissonanza che si risolveva come accordo tonale in un'altra chiave… e tutto era così facile, così spontaneo, così dolce e così delicato.

Quasi tutti i bambini erano nudi; avevano la figura eretta, gli occhi limpidi, i muscoli saldi. All'occhio ancora poco abituato di Charlie sembravano bambine. Pareva che non si concentrassero sulla loro musica; giocavano, sguazzavano, correvano, facevano costruzioni con il fango e i legnetti e i mattoni colorati; tre di loro giocavano a palla. Si parlavano nel loro linguaggio da colombe, si chiamavano, squittivano mentre correvano ed erano quasi raggiunti, strillavano, e uno piangeva come… ecco, come un bambino quando cade (e subito gli altri tre lo sollevarono, lo confortarono, lo baciarono, gli offrirono un giocattolo, lo costrinsero a ridere) ma soprattutto c'era quell'accordo mutevole a tre voci, a quattro voci, qualche volta a cinque voci, costruito dall'uno e dall'altro in una pausa, tra i respiri, a mezz'aria mentre si tuffavano nell'acqua, tra una domanda e una risposta.

Charlie aveva già udito qualcosa di simile, nel cortile centrale del Centro Medico, ma non era stato così vivace e così spontaneo; e avrebbe udito quella musica di accordi dovunque andasse, a Ledom, dovunque trovasse i ledom raccolti in gruppi numerosi; aleggiava attorno a Ledom come il vapore del loro calore corporeo aleggia attorno alle mandrie di renne nelle gelide pianure lapponi.

«Perché cantano così?»

«Fanno tutto insieme» disse Philos, con gli occhi che gli lucevano. «E quando sono insieme, e fanno cose diverse, cantano in questo modo. Riescono ad essere insieme, a sentirsi insieme, quando cantano così, e non importa ciò che stanno facendo d'altro. Lo sentono, come la luce del sole sulle loro spalle, senza pensarci, così… amandolo. Cambiano quel canto per il proprio piacere, per il modo in cui uno esce dall'acqua fresca sulle pietre tiepide. Lo tengono nell'aria, lo prendono dall aria attorno a loro e lo rendono. Ecco, lascia che ti mostri qualcosa.» Sottovoce, ma chiaramente, cantò rapidamente tre note: do, sol, mi…

E come se quelle tre note fossero palle colorate, lanciate a ciascuno di loro, tre bambini le raccolsero… un bambino per ogni nota, così che le note fluivano in un arpeggio e poi erano tenute come accordi; poi erano ripetute, di nuovo come arpeggi e poi come accordi; e poi un bambino (Charlie vide qual era; era immerso fino alla cintola nello stagno) cambiò una nota, così che l'arpeggio fu do, fa, mi… e subito dopo re, fa, mi e poi all'improvviso fa, do, la… e continuò così in progressione, modulando, invertendosi; aumentò, altre modulazioni vennero aggiunte, capricciosamente, elegantemente. Alla fine, l'arpeggio si perdette, e la musica s'adagiò in un accordo mutevole.

«È… è bellissimo» mormorò Charlie, augurandosi di poterlo dire con intensità pari alla bellezza di ciò che udiva, e disprezzandosi per la propria incapacità.

Philos disse, gioiosamente: «Ecco Grocid!»

Grocid, con una cappa scarlatta adorna di nastri avvolta attorno alla gola e svolazzante nell'aria, era appena uscito dalla casetta. Si volse e alzò lo sguardo, agitò una mano, cantò le tre note che Philos aveva cantato (e di nuovo quelle note furono colte, ricamate, rielaborate, passate tra i bambini) e rise.

Philos disse a Charlie: «Dice che ha saputo chi ero nell'istante in cui ha udito queste note». E chiamò: «Grocid! Possiamo venire?»

Grocid accennò loro di entrare, gaiamente, e loro scesero in fretta il ripido pendio. Grocid sollevò tra le braccia un bambino e venne loro incontro. Il bambino gli stava a cavalluccio sulle spalle, e gridava di gioia e giocava con gli ornamenti della cappa.

«Ah, Philos. Hai portato Charlie Johns. Venite, venite! Sono contento di vederti.»

Con grande sbalordimento di Charlie, Grocid e Philos si baciarono. Quando Grocid gli si avvicinò, Charlie tese rigidamente la mano: con immediata comprensione, Grocid la prese, la strinse e la lasciò.

«Questo è Anaw» disse Grocid, sfiorando con i capelli la guancia del bambino. Il piccino rise, nascose la faccia in quella massa folta, ne fece emergere un occhio sorridente, e sbirciò Charlie. Anche Charlie rise.

Entrarono insieme nella casa. Pareti dilatabili? Illuminazione nascosta? Vassoi antigravità? Viveri autocongelanti? Pavimenti automatici?

No.

La stanza era quasi rettangolare, quel tanto che bastava per soddisfare un paio d'occhi ormai affamati di linee rette, come d'un tratto si rese conto Charlie. Il soffitto era basso, sorretto da travi, e la stanza era fresca; non il bacio antisettico e privo di emozioni dell'aria condizionata, ma la freschezza delle finestre incorniciate di rampicanti, dei soffitti bassi e delle mura spesse; era la freschezza naturale degli strati sottocutanei della terra. E c'erano sedie… una di legno lucidato a mano, tre di disegno rustico, con curve di liana rigida e piani e spalliere di tronchi d'albero interi o tagliati.

Il pavimento era di pietra, livellato e pareggiato e tenuto insieme da un cemento purpureo, e coperto da vivaci tappeti tessuti a mano. Su un basso tavolino c'era una gigantesca ciotola di legno, ricavata da un solo pezzo di legno duro, e un servizio per bevande, grazioso ma molto rozzo; una caraffa e sette od otto bicchieri di terracotta. Nella ciotola c'era un'insalata di frutta, noci e verdure elegantemente disposte a forma di stella.

Alle pareti erano appesi quadri, quasi tutti in colori naturali… i verdi, i bruni, gli arancioni e i rossi sfumati di giallo e gli azzurri sfumati di rosso dei fiori e dei frutti maturi. Quasi tutti erano piacevolmente figurativi; alcuni erano astratti, qualcuno impressionista. Uno in particolare attirò la sua attenzione, una scena con due ledom, visti da un angolo stranamente elevato e obliquo, così che avevi l'impressione di guardare oltre la spalla della figura eretta verso l'altra, che era più in basso ed aveva un atteggiamento umile. Sembrava una figura spezzata, ammalata, sofferente; l'intera composizione era stranamente confusa, e dava l'impressione di essere osservata attraverso lacrime brucianti.

«Sono molto contento che tu sia potuto venire.» Era l'altro capo del Centro dei Bambini, Nasive, che era accanto a lui e sorrideva. Charlie si staccò dalla contemplazione del quadro e vide il ledom, che indossava una cappa esattamente uguale a quella di Grocid e che gli tendeva la mano. Charlie gliela strinse e la lasciò andare; poi disse: «Anch'io sono contento. Mi piace, qui».

«L'avevamo immaginato» disse Nasive. «Scommetto che non è troppo diverso da quello a cui eri abituato.»

Charlie avrebbe potuto annuire e lasciar perdere, ma in quel luogo, con quella gente, voleva essere onesto. «È diverso da quasi tutto ciò cui sono abituato» disse. «Avevamo qualcosa di simile, qua e là. Ma non abbastanza.»

«Siediti. Mangeremo qualcosa, adesso… tanto per tirare avanti. Ma non rimpinzarti troppo; fra poco ci sarà un vero festino.»

Grocid riempì i piatti di terracotta, privi d'orlo, e li fece passare in giro, mentre Nasive versava un liquido dorato nei boccali. Era, scoprì Charlie, una bevanda forte dal gusto di miele, probabilmente una specie di idromele, fresco ma non freddo, che lasciava in bocca un sapore di spezie e dava una lieve, piacevole sensazione di ebbrezza. L insalata, che mangiarono con una forchetta di legno satinato con due punte corte e sottili e una punta lunga e ampia dotata di uno spigolo affilato, era undici volte deliziosa (una volta per ogni varietà di cibo che conteneva) e costò fatica a Charlie controllarsi per non tragugiarla avidamente e non chiederne ancora.

Parlarono: Charlie non prese granché parte alla conversazione, sebbene si rendesse conto che gli altri facevano cortesemente del loro meglio per interessarlo, o almeno, per non addentrarsi in discussioni che lo escludessero. Fredon aveva trovato delle calandre sulla collina. Hai visto il nuovo procedimento di intarsio di Dregg? Legno nella ceramica; giureresti che sono fusi insieme. Nariah voleva provare un trattamento biostatico per una nuova fibra di asclepiadacea. Il piccino Eriu si è rotto la gamba. E intanto i bambini entravano e uscivano e miracolosamente non interrompevano mai, si accostavano senza far rumore per chiedere un favore, un permesso, o una informazione. «Illew dice che la libellula è una specie di ragno. È vero?» (No; nessun aracnide ha le ali.) Un lampo di nastro purpureo e di tunica gialla, e il bambino se ne era andato, per venir sostituito immediatamente da una creatura molto piccola, graziosissima e nuda che disse chiaramente: «Grocid, hai una faccia buffa». (Anche tu hai una faccia buffa.) Ridendo, il monello se ne andò.

Charlie, che mangiava con forzata lentezza, osservava Nasive, appollaiato su un vicino sgabello, che si toglieva abilmente una scheggia dalla mano. La mano, sebbene aggraziata, era grande e forte, e vedendo la punta della sonda aghiforme che scavava sotto la base del medio, Charlie notò con stupore le callosità. La carne del palmo e dell'interno delle dita era dura come quella di uno stivatore. Charlie faticò un poco a far quadrare tutto questo con i fluenti indumenti scarlatti e con il mobilio artistico, e si rese conto che non spettava a lui, per il momento, fare simili paragoni. Ma disse, battendo sul bracciolo della sua poltrona rustica: «Sono fatte qui?».

«Proprio qui» disse allegro Nasive. «L'ho fatta io stesso. Siamo stati io e Grocid a fare questa casa. Con i bambini, naturalmente. Grocid ha fatto i piatti e i boccali. Ti piacciono?»

«Moltissimo» disse Charlie. Erano marroni, quasi dorati. «C'è una lacca sulla ceramica, oppure il vostro campo-A vi fa da forno?»

«Né l'uno né l'altro» disse Nasive. «Ti piacerebbe vedere come facciamo?» Guardò il piatto vuoto di Charlie. «O vorresti…»

Con un po' di rimpianto. Charlie respinse il piatto.

«Mi piacerebbe vedere.»

Si alzarono, si diressero verso una porta. Un bambino, mezzo nascosto tra le tende in fondo alla stanza, sfrecciò maliziosamente verso Nasive, che senza cambiare andatura l'afferrò, lo rovesciò mentre quello strillava, gli fece battere con estrema delicatezza la testa sul pavimento, poi lo rimise in piedi. Quindi, sogghignando, indicò a Charlie di seguirlo.

«Vuoi molto bene ai bambini» disse Charlie.

«Mio dio» disse Nasive.

E anche qui, quella lingua era tutta sfumature, così che una traduzione non ne rendeva esattamente la sostanza. Charlie sentì che ciò che aveva voluto dire quando aveva detto “Mio Dio” era una diretta risposta alla domanda, non era assolutamente un'esclamazione. Allora il bambino era Dio? Oppure… “Mio Dio” conteneva il concetto di Bambino?

La stanza in cui erano entrati era un po' più alta di quella che avevano appena lasciato, e anche più vasta, ma era completamente diversa da quel soggiorno armonioso, comodo, pacifico. Questa era un'officina… una vera officina. Il pavimento era di mattoni, le pareti erano di tavole piallate ma non rifinite. Su sostegni di legno erano appesi strumenti da lavoro, strumenti fondamentali: mazza da fabbro e cunei, martelli, ascia, raspa, lesina, accetta e scure, squadra e livelle, trapano con una serie di punte, e tutta una serie di pialle.

Contro le pareti e qua e là sul pavimento, c'erano… ecco, chiamiamole macchine utensili, ma erano evidentemente fatte a mano, qualche volta in un pezzo unico, ed erano di legno! Una sega, per esempio, veniva fatta funzionare da un sistema a pedali, da un albero a gomiti che faceva oscillare su e giù la lama dentata. Vi era applicata una struttura smontabile, per guidare l'estremità della sega, ed era caricata con una molla di legno. C'era anche un tornio, con una quantità di pulegge di legno per regolarne la velocità e un immenso volano (che doveva pesare almeno duecento chili) fatto di ceramica.

Ma c'era anche il forno che Nasive doveva fargli vedere. Era in un angolo, una costruzione di mattoni sovrastata da un camino e con un pesante portello metallicot ed era montata su pilastri di mattoni. Sotto c'era un focolare («È anche la nostra forgia» fece osservare Nasive, e, con una spinta poderosa, lo fece rotolare fuori e tornò a spingerlo sotto il forno) e, applicato ad esso, da una parte, c'era un mantice a pedale. Il mantice sfociava in un grande oggetto floscio che sembrava una vescica sgonfia, e lo era veramente. Nasive pompò vigorosamente e l'involucro rugoso sospirò, si sollevò stancamente, si raddrizzò. Poi cominciò a gonfiarsi.

«Ho preso l'idea da una cornamusa che uno dei bambini stava imparando a suonare» disse Nasive, con il viso raggiante. Smise di pompare e tirò leggermente una leva verso di sé; Charlie sentì l'aria salire sibilando dalle griglie. Tirò un poco di più, e l'aria ruggì.

«Così si può controllare perfettamente e non è necessario che sia un adulto ad occuparsene; tutti i bambini, qui, possono venire, e ciascuno fa quello che può, anche i più piccoli. A loro piace.»

«È meraviglioso» disse sinceramente Charlie «ma, senza dubbio, c'è un modo più semplice per farlo.»

«Oh, senza dubbio» disse gentilmente Nasive… e non aggiunse una parola di spiegazione.

Charlie si guardò attorno ammirato, guardò il mucchio di legname da lavoro che era stato indubbiamente preparato in quel luogo, e le robuste macchine lignee… Indicò il volano. «Sembra ceramica. Come riuscite a cuocere un oggetto così grande?»

Nasive indicò il forno. «Lì dentro ci sta. Appena appena. Naturalmente, c'è rimasto parecchio… abbiamo dovuto sgombrare il resto del locale e fare una festa e ballare fino a che è stato finito.»

«Con la gente che ballava sul pedale del mantice» rise Charlie.

«E dovunque. È stata una festa magnifica» rise a sua volta Nasive. «Ma tu volevi sapere perché abbiamo fatto il volano di ceramica. Ecco, è massiccio, ed è stato meno faticoso modellarlo di quanto lo sarebbe stato costruirne uno di pietra.»

«Non ne dubito» disse Charlie, guardando il volano e pensando agli accessori invisibili, alle macchine del tempo, a un meccanismo grande quanto un dito che, gli era stato detto, poteva tagliare a fette una collina e trasportarne un pezzo ovunque si desiderasse. Gli passò per la mente il pensiero che forse quella gente non sapeva che cosa c'era nei due grandi Centri. Poi ricordò che aveva conosciuto Grocid e Nasive al Centro Medico. Così pensò che, pur sapendo ciò che avevano nei grandi Centri, lo rinnegavano e dovevano lavorare nelle casette e nei campi, facendosi venire i calli, mentre Seace e Mielwis ottenevano magicamente una colazione di frutta gelata che usciva dai ripostigli della parete accanto al loro letto. Ah, bene. Erano affari loro. «Comunque, è una ceramica enorme.»

«Oh, non proprio» disse Nasive. «Vieni a vedere.»

Lo guidò verso una porta, uscirono in un giardino. Quattro o cinque bambini stavano ruzzolando sull'erba, e uno era su un albero. Gridarono, tubarono, cantilenarono quando videro Nasive, corsero verso di lui e poi fuggirono via; mentre Nasive parlava ne spettinava affettuosamente uno, faceva ruotare un altro su se stesso, rispondeva a un altro con una rapida strizzatina d'occhio.

Charlie Johns vide la statua.

Potrebbe essere la loro Madonna con il Bambino, pensò.

Poi vide che la figura adulta, avvolta in una stoffa che sembrava uno splendido tessuto di lino drappeggiato, era in ginocchio, e guardava verso l'alto. La figura del bambino era eretta, e a sua volta guardava in alto, con un'espressione trascendente, addirittura estatica sul viso. Il bambino era nudo, ma i toni della carne erano riprodotti perfettamente, come per quella dell'adulto, il cui indumento aveva i colori del fuoco. Le due caratteristiche più straordinarie di quel gruppo erano in primo luogo che la figura dell'adulto era alta un metro, e quella del bambino era alta più di tre metri! In secondo luogo che l'intero gruppo era un solo, mostruoso pezzo di terracotta perfettamente invetriata e meravigliosamente realizzata.

Charlie dovette chiedere a Nasive di ripetere, di dargli qualche spiegazione a proposito dei forni; si sentiva pervaso di stupore davanti alla bellezza di quell'opera d'arte, alla sua perfezione, ma soprattutto alla sua simbologia. Il piccolo adulto inginocchiato in adorazione del bambino gigantesco, con il volto rapito fisso verso l'immensa figura eretta; e il bambino, a sua volta in estasi, distaccato dall'adulto e teso verso l'alto…

«Quel forno non posso mostrartelo» stava dicendo Nasive.

Charlie, ancora affascinato, studiò la grande, splendida opera chiedendosi se era stata cotta in pezzi separati e poi montata. Ma no, lo smalto era impeccabile, senza linee o saldature da cima a fondo. Persino la base, foggiata e colorata come una grande massa di fiori, come una montagna di petali, era invetriata!

Ebbene! Si erano serviti di quel magico campo-A in fin dei conti.

«È stato modellato qui» disse Nasive «ed è stato cotto qui. Grocid ed io abbiamo fatto quasi tutto, eccetto i fiori; i fiori li hanno fatti i bambini. Più di duecento bambini hanno scelto quell'argilla e l'hanno lavorata in modo che non si spezzasse durante la cottura.»

«Oh… e gli avete costruito attorno il forno?»

«Abbiamo costruito tre forni attorno al gruppo… uno per asciugarlo, e poi l'abbiamo smantellato per poterlo dipingere; uno per fissare gli smalti colorati, che abbiamo smantellato per dare i tocchi finali; e un terzo forno per la cottura finale.»

«E poi l'avete smantellato e buttato via.»

«Non l'abbiamo buttato via. Abbiamo usato i mattoni per fare il pavimento nuovo del laboratorio. Ma anche se l'avessimo buttato via… ne sarebbe valsa la pena.»

«Ne valeva la pena» disse Charlie. «Nasive… che cosa è? Che cosa significa?»

«E il Creatore» disse Nasive. (Nella lingua ledom, significava creatore, ma anche fabbricante, colui che realizza, colui che fa.)

L'adulto che adora il bambino. Il bambino in adorazione di qualcosa… qualcosa d'altro. «Il Creatore?»

«Il genitore crea il figlio. Il figlio crea il genitore.»

«Il figlio… che cosa?»

Nasive rise di quella risata piena, facile, così comune a quella gente, una risata che non eia mai ironica.

«Suvvia: chi è mai stato genitore senza un figlio che lo rendesse tale?»

Charlie rise con lui, ma mentre si allontanavano si voltò a guardare la splendente terracotta, e capì che Nasive avrebbe dovuto dirgli di più. E Nasive parve comprenderlo, parve capire i suoi sentimenti, perché sfiorò il gomito di Charlie e disse sottovoce: «Vieni. Penso che capirai meglio più tardi».

Charlie lo seguì, ma ì suoi occhi erano pieni di quella coppia squisita e devota che splendeva nel giardino. Mentre si dirigevano verso il laboratorio Charlie si chiese: Ma perché il figlio più grande del genitore?

…E capì di avere formulato quella domanda a voce alta quando Nasive, entrando nel soggiorno, afferrò al volo lo stesso bambino che prima aveva visto nascondersi tra le tende, e come prima lo rovesciò e gli fece battere dolcemente la testa sul pavimento fino a che quello si mise a singhiozzare per le risate. «Ma… i bambini lo sono, sai.»

Ecco… in quella lingua, come in inglese, “più grandi” poteva significare più grandi anche nel senso di più importanti… oh, ci avrebbe pensato più tardi. Con occhi accesi guardò i visi dei presenti e provò una stilettata di rincrescimento. Non è giusto che uno veda qualcosa di simile e non abbia nessun altro a cui farla conoscere.

Philos comprese e disse: «Ha visto la tua statua, Grocid».

«Charlie Johns, ti ringrazio.»

Charlie si sentì immensamente compiaciuto ma, poiché non poteva vedere quanto erano illuminati i suoi occhi, non seppe mai perché lo avesse ringraziato.


Il Bruto comincia, con fare minaccioso, ad avanzare a gambe larghe e con le spalle ingobbite verso il letto sui cui Lei sta rannicchiata nel suo negligée.

«Non farmi del male!» grida lei con accento italiano, mentre la macchina da presa giocherella con l'espressione avida del Bruto, e diventa il Bruto, e tutti i vermi di carne e di sangue chiusi negli scarafaggi di acciaio cromato allineati davanti allo schermo ciclopico del cinema drive in battono gli occhi e sentono il sangue pulsare nelle vene. L'aria macchiata di neon attorno alle macchine distributrici di pop-corn ne è gonfia; i fari spenti, in fila davanti allo schermo sembrano inghiottirla.

Quando la macchina da presa si è avvicinata abbastanza da renderlo possibile, la grossa mano del Bruto sfreccia sullo schermo, colpisce la guancia eburnea di Lei, e cade in basso, mentre si sente il rumore della seta lacerata. Il viso di Lei, in primo piano, tredici metri di colore dai capelli scompigliati al mento ornato d'una fossetta, sembra allontanarsi dalla macchina da presa e dal Bruto; viene schiacciata contro il guanciale di seta, mentre l'ombra scura della testa del Bruto comincia a coprire il suo viso con l'implacabile precisione con cui il tecnico del suono gira una manopola per aumentare il volume. «Non farmi male! Non farmi male!»

Herb Railes, dietro il volante della sua automobile, si accorge finalmente di una ritmica zuffa che si sta svolgendo accanto a lui. Karen dorme sodo sul sedile posteriore, ma Davy che a quest'ora di solito è morto per il mondo, è completamente sveglio. Jeannette ha fatto una presa da lotta greco-romana, una mezza-nelson, per bloccare il bambino, e con l'altra mano cerca di coprirgli gli occhi. Davy le si aggrappa al polso come a una sbarra orizzontale, e tutti e due, nonostante questo esercizio, lanciano avide occhiate allo schermo, non appena possono.

Herb Railes, lanciando a sua volta avide occhiate allo schermo mentre analizza questa attività, dice, senza girare la testa: «Cosa succede?».

«Non è roba per bambini» sibila Jeannette. È un po' a corto di fiato, per uno stimolo o per l'altro.

«Non farmi male!» urla fragorosamente Lei sullo schermo, poi torce il viso e chiude gli occhi: «Ah-h-h-h…» geme «… mi fai male. Mi fai male. Mi fai male. Mi fai male.»

Davy si strappa dagli occhi la mano che lo acceca: «Voglio vedere

«Fai quello che ti ha detto mamma, altrimenti…» minaccia autoritario Herb, senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Davy azzanna l'avambraccio della madre. Lei lancia un pìccolo strillo e dice: «Mi fai male!».

Su non meno di venti metri di esemplificazione superpolicroma, lo schermo spiega rapidamente e succintamente che, a causa di un precedente equivoco, Lei e il Bruto erano sempre stati sposati in realtà, e quando Lei ha finito, vinta dalla passione e con un inglese zoppicante, di spiegare al Bruto che l'evidente causa dei loro eccessi è la legalità del toro amore, lo schermo ha una dissolvenza in una esplosione di luce e in uno squillare di trombe, lasciando il pubblico stordito a battere le palpebre.

«Non avresti dovuto lasciare che lo vedesse» dice Herb in tono d'accusa.

«Non sono stata io a lasciarlo fare, è stato lui. Mi ha morso.»

C'è un intervallo durante il quale Davy sembra rendersi conto che ha fatto qualcosa di punibile; non c'è bisogno di insegnargli in che modo cavarsela, e se la cava piangendo e facendosi consolare con un ghiacciolo al lampone e un tramezzino di gamberetti. Il ghiacciolo che all'inizio è montato su un bastoncino, presenta un problema in proprio; dopo averlo guardato per un attimo afflosciarsi sulle sue dita informicolite ma apparentemente calde, e sgocciolare precisamente sulla cucitura dei calzoni, Herb risolve il problema mettendoselo in bocca intero, il che gli fa dolere la radice del naso e induce Davy a sostenere che è stato derubato. Questo non provoca una crisi, comunque, perché le luci si abbassano e lo schermo si riaccende per il secondo film.

«Finalmente qualcosa per Davy» dice Herb, dopo il secondo minuto. «Perché non danno prima il western e risparmiano ai nostri bambini di dover vedere roba di quel genere?»

«Siediti sulle mie ginocchia, tesoro» dice Jeannette. «Vedi bene?»

Davy vede bene la zuffa sull'orlo del precipizio, il corpo che cade, il vecchio che giace agonizzante ai piedi del precipizio, il malvagio cow-boy che si piega su di lui, il filo di vivido sangue rosso che sgorga dalla bocca del vecchio. «Sono… Chuck… Fritch… aiutami!» La risata del malvagio cow-boy. «Tu sei Chuck Fritch, dunque; è quello che volevo sapere!» e poi il gesto con il quale estrae la .45, gli spari ruggenti, le contorsioni del corpo del vecchio mentre i proiettili affondano in lui e le sue smorfie d'agonia, il sogghigno sul viso del malvagio cow-boy mentre calpesta la faccia del vecchio, e questa è l'unica inquadratura che non mostrano, ma poi lo puoi vedere mentre sospinge a calci il cadavere lungo il canyon.

Dissolvenza su una strada di terra battuta con i marciapiedi di legno. Herb dice pensieroso: «Già, domani telefonerò, ecco cosa farò, gli chiederò perché non danno prima il western».


Andarono nella casa di Wombrew, il cui cortile era circondato da un forte, intricato intreccio di vimini, essenzialmente una fila di pali conficcati nel terreno e tenuti insieme da viticci intessuti; Wombrew, un giovane adulto dal naso aquilino, mostrò a Charlie che non si trattava semplicemente di una staccionata, ma faceva parte integrale della casa, perché anche le pareti erano costruite in quel modo, ed erano intonacate con un fango argilloso che si trovava nei dintorni (l'eterna costruzione di fango e di canne) e che, quando si era seccato completamente, era stato rivestito di una specie di calce che non era bianca ma viola.

Il tetto era coperto di paglia, e vi era stata piantata l'erba fittissima che si trovava in tutta Ledom. La casa era incantevole, specialmente all'interno, perché il fango e le canne non sono obbligati ai compromessi imposti alle travi di legno, e più le pareti sono curve, più sono stabili, così come un pezzo di carta incurvata riesce a reggersi lungo un orlo. Gorcid e Nasive e i loro figli accompagnarono Charlie e l'aiutarono a scoprire i tesori di Wombrew.

Andarono nella casa di Aborp, che era stata costruita in terra battuta: erano state smontate delle forme di legno riempite di terra bagnata, che era stata poi battuta a mano con l'estremità d'un pesante tronco manovrato da quattro robusti ledom ritti sulla sommità delle forme lignee. Quando la terra si era asciugata, le forme erano state rimosse. Come l'edificio di canne, anche questo aveva una linea molto flessuosa. Grocid e Nasive e i loro figli e Wombrew e i suoi figli li accompagnarono.

Si recarono alla casa di Obtre, che era fatta di pietra tagliata, e costruita in ambienti quadrati. Ogni ambiente aveva il suo tetto a cupola, fatto con grande semplicità. Riempivi le quattro pareti di terra, fino alla sommità, davi alla terra una forma adeguatamente arrotondata, e vi stendevi sopra uno strato di intonaco spesso una trentina di centimetri. Quando l'intonaco era sistemato, toglievi tutta la terra. Dicevano che una casa del genere, con quel tetto, poteva durare mille anni. Obtre e i figli di Obtre si unirono alla comitiva.

Edec aveva una casa di tronchi ornata di muschio. Wiomor ne aveva una all'interno d'una collina, che era in parte costruita e rivestita con legno lucidato a mano, in parte tagliata nella roccia viva. Piante aveva una casa di pietra con un tetto di fango, e tutte le pareti erano coperte di tappezzerie splendide: non erano disposte a tendaggio, ma erano applicate piatte, in modo che si potessero vedere bene i loro disegni meravigliosi; e Charlie vide il telaio fatto a mano su cui quelle tappezzerie erano state tessute e per un po' guardò Piante e il suo compagno che azionavano il telaio, mentre due bambini manovravano la spola. Anche Piante, il suo compagno e i suoi figli si unirono alla compagnia, e così fecero le famiglie di Wiomor e di Edec; e mentre attraversavano i giardini, adulti nei loro indumenti vivaci, bambini che parevano portati dal vento e adolescenti dalle lunghe gambe uscivano dai campi e dagli orti, lasciavano cadere le zappe e i picconi, abbandonavano i coltelli e i falcetti, e si univano a loro.

Via via che cresceva la folla, cresceva la musica. Non divenne mai chiassosa; divenne soltanto più ampia.

Così alla fine, la moltitudine che continuava a crescere intorno a Charlie Johsn, dopo il giro di visite, giunse sul luogo dell'adorazione.


Jeannette si agita, infelice, sul letto bene ordinato. È pomeriggio.

Che cosa mi ha spinto a comportarmi così?

Ha appena scacciato un commesso viaggiatore di articoli per la casa. Il che, in se stesso, non è un male. Nessuno chiede a questi castori impazienti di suonare il tuo campanello e devono accettare di correre certi rischi. Nessuna donna in pieno possesso delle sue facoltà mentali comprerebbe qualcosa che non le serve, e ormai tu devi avere chiaro in testa quello che non vuoi, e ricordartene, altrimenti quelli ti manderanno in rovina, ti dissangueranno.

Non è per questo; è stato il modo in cui lei ha mandato via quell'uomo. Si è già comportata così altre volte e senza dubbio lo farà ancora, ed è questo che le dà la sensazione di essere così perversa.

Era necessario che fosse così brusca?

Era necessario che usasse quello sguardo gelido, quelle parole fredde, la porta non-proprio-sbattuta-ma-quasi? Nessuno di quei gesti erano tipici di lei, di Jeannette. Non avrebbe potuto farlo (sbarazzarsi di quell'uomo, cioè) comportandosi come Jeannette, e non come il personaggio di una parodia della dura vita d'un commesso viaggiatore?

Certo che avrebbe potuto.

Si leva a sedere. Forse è il momento di pensarci bene, così quella sensazione non l'infastidirà più.

Lei si è sbarazzata di venditori importuni, ed è riuscita a togliersi altre volte da situazioni simili comportandosi come Jeannette. Un sorriso, una piccola bugia, qualche parola sul bambino che si sta svegliando o mi sembra di sentir suonare il telefono; facile, senza far male a nessuno. Mio marito ne ha comprato uno proprio l'altro ieri. Oh, vorrei che fosse venuto la settimana scorsa; ne ho appena vinto uno. Chi poteva darle della bugiarda? Quelli se ne vanno e nessuno ci resta male.

Ma poi, ogni tanto, come adesso, lei arriccia le labbra e sputa un ghiacciolo. E, come adesso, resta ferma vicino alla porta non-proprio-sbattuta-ma quasi e si morde le unghie di corallo e poi va a sbirciare, senza farsi vedere, attraverso la tenda di marquisette, e sta attenta a non muoversi e a non toccarla; e capisce, dal modo in cui l'uomo si allontana lungo il viottolo, che c'è rimasto male. Anche lei c'è rimasta male, e chi ci guadagna qualcosa?

Jeannette si sente perversa.

Perché proprio lui? Non si è comportato in modo offensivo. Tutt'altro. Un tipo abbastanza simpatico con un bel sorriso, i denti forti, gli abiti in buon ordine, e non stava affatto per infilare il piede in mezzo alla porta. L'ha trattata come una signora che poteva aver bisogno di ciò che lui aveva da vendere; stava vendendo la sua merce, non se stesso.

Sai, si dice, se fosse stato un mascalzone, uno di quei tipi che ammiccano e schioccano le labbra imitando il rumore di un bacio e guardano fissa l'estremità inferiore della spallina del tuo reggiseno, l'avresti mandato via educatamente… un rifiuto rapido, inoffensivo.

Bene, allora, si dice, spaventata, questa è la soluzione. Ti piaceva; ed è per questo che sei stata gelida.

Si siede sull'orlo del letto e considera quel pensiero e poi chiude gli occhi e lascia che la sua immaginazione si scateni, stupidamente; l'immagina mentre entra, la tocca; l'immagina qui con lei.

E questo non fa squillare alcun campanello. No, veramente. Ciò che le piaceva in quell'uomo non era niente di simile.

«E come può piacerti un uomo se non lo desideri?» si chiede, a voce alta.

Non c'è risposta. Per lei è un artìcolo di fede. Se un uomo ti piace, è perché lo desideri. Chi altri ha mai sentito dire qualcosa di diverso?

La gente non va in giro a piacere all'altra gente a meno che. E se lei sente che non lo desidera, è uno di quei comesichiamano del subcosciente; è solo che lei non si permette di rendersene conto.

Lei non vuole desiderare altri uomini oltre Herb, ma lo deve. E quindi è guasta, corrotta.

Ricade sul letto e si dice che meriterebbe di venire appesa per i pollici. È completamente corrotta.


La festa si svolgeva su una montagna… per lo meno, era la collina più alta che Charlie avesse visto, lì. Quasi cento ledom erano in attesa quando Philos e Charlie e tutta la folla arrivarono. In un boschetto di alberi dalle foglie scure, sul prato impeccabile, era già preparato il cibo, posato al modo hawaiano su piatti di foglie fresche e di erbe ampie. Nessun giapponese esperto nell'arte di disporre fiori aveva mai fatto un lavoro più minuzioso di quello che quel popolo meravigliosamente dotato aveva fatto con il cibo. Ogni piatto e ogni cestello era una costruzione di colore e di forma, di contrasto e di armonia; i profumi erano sinfonici.

«Accomodati» sorrise Philos.

Charlie si guardò intorno, stordito. I ledom venivano da ogni direzione, filtrando tra gli alberi, si salutavano l'un l'altro con grida di gioia. C'erano baci e abbracci frequenti.

«Dove posso mettermi?»

«Dove vuoi. È a disposizione di tutti.»

Passarono in mezzo alla folla mulinante e sedettero sotto un albero. Davanti a loro c'erano incantevoli mucchietti di cibo, disposti in porzioni minute, e così elegantemente sistemati che Charlie non ebbe il coraggio di cominciare prima che Philos ne rompesse la simmetria.

Venne un grazioso bimbetto con un vassoio in bilico sul capo e cinque o sei bicchieri disegnati evidentemente per quello scopo; avevano la forma di coni tronchi, con basi molto ampie. Philos tese una mano e il bambino scivolò verso di loro; Philos prese due boccali e baciò il bambino, che rise e si allontanò danzando. Charlie prese il bicchiere e sorseggiò; aveva il sapore di un fresco succo di mela, con una sfumatura di pesca. Cominciò a mangiare con entusiasmo. Il cibo era buono quanto era bello a vedersi… una affermazione estrema.

Quando riuscì a calmarsi abbastanza per guardarsi ancora intorno, notò che nel boschetto c'era una piacevole tensione; forse era la nuvola di musica che aleggiava sopra quella gente, in un ampio sussurro di accordi, che si intensificava in una pulsazione che pareva diventare più regolare ogni momento. Charlie fu colpito dal fatto che molti imboccavano gli altri, invece di mangiare loro stessi. E chiese una spiegazione.

«Stanno dividendo il cibo. Se tu assaggi qualcosa che è particolarmente buono, non senti la necessità di dividerlo con qualcuno?»

Charlie ricordò la bizzarra sensazione di frustrazione quando si era accorto di non avere nessuno cui mostrare la grande statua di terracotta, e disse: «Credo… credo di sì». Guardò improvvisamente il suo compagno. «Senti… non voglio impedirti di unirti ai tuoi amici, se lo desideri.»

Una strana espressione passò sul viso di Philos. «Sei molto gentile» disse con calore. «Ma io… non lo farei in nessun caso. Non adesso.» Vi fu un lieve rossore sul suo collo e sulle sue guance? E che cos'era? Collera? Charlie non aveva voglia di indagare.

«C'è molta gente» commentò dopo un poco.

«Sono tutti qui.»

«Per quale ragione?»

«Se non ti dispiace preferirei che tu mi dicessi cosa ne pensi, quando la festa sarà finita.»

«Benissimo…» disse Charlie, perplesso.

Tacquero e ascoltarono. La gigantesca musica multiforme della gente divenne più sommessa, in una serie di accordi strettamente collegati tra loro. Poi divenne uno strano staccato, e guardandosi attorno, Charlie vide che alcuni ledom stavano battendo dolcemente sulla propria gola o su quella del loro compagno. Questo dava alle voci una strana vibrazione, che alla fine assunse un ritmo ben definito, rapido ma distinto. Sembrava un tema di otto note, con una leggera enfasi sulla prima e sulla quarta. E a questa si sovrapponeva una bassa melodia a quattro note, che formava un ciclo completo e continuo… tutti sembravano tendersi un po' in avanti, quasi a prendere lo slancio.

All'improvviso si levò lo squillo d'una potente voce di soprano, una cascata di note, che esplose verso l'alto come un fuoco d'artificio levandosi dal sottofondo di toni bassi, e poi si quietò. Poi questo fu ripetuto o più lontano o da una voce di bambino lì accanto; era impossibile capirlo. Due tenori ripeterono l'esplosione delle note, in armonia, e quando quell'esplosione si smorzò, un'altra voce robusta, un ledom dalla cappa azzurra seduto vicino a Charlie, la riprese e la lanciò di nuovo verso il cielo, questa volta spogliandola di tutte le variazioni e le leziosità e i glissandi e dandole la sua forma più pura, sei note limpide.

Vi fu un fruscio eccitato di apprezzamento, intorno, ed alcune voci sparse ripresero il tema di sei note all'unisono, poi tornarono a ripeterlo. Sulla seconda di quelle sei note, qualcuno fu ispirato a cominciare un nuovo tema; questo tema divenne una fuga, e vi si unì una voce dopo l'altra; si levò e si abbassò, si levò e si abbassò, intessuto e complesso e trillante. E nel frattempo il sussurro in chiave di basso con il ritmo irregolare provocato dalla percussione sulle gole, continuò a costituire il sottofondo, gonfiandosi e sospirando, gonfiandosi di più e poi ritraendosi.

Poi, con un movimento esplosivo come il primo assolo di soprano, una figura nuda venne roteando verso di loro, sfrecciando tra i tronchi degli alberi e tra la gente; e roteava così rapida che i contorni del corpo erano confusi, sebbene il danzatore riuscisse ad evitare ogni ostacolo con piedi sicuri. Il ledom che danzava spiccò un balzo a destra di Philos e piombò a terra inginocchiandosi, con il viso e le braccia distesi sul morbido tappeto erboso. Poi se ne fece avanti un altro, piroettando, poi un altro; ben presto il bosco scuro fu vivo di movimento, del vortice delle cappe e delle acconciature che qualcuno portava, con il lampo dei corpi e degli arti in moto rapido e confuso.

Charlie vide Philos balzare in piedi; con suo stupore si accorse di essersi alzato a sua volta, di essersi chinato un poco, investito da quella corrente di suono e di movimento. Era faticoso non lanciarvisi come in un mare. Finalmente si ritrasse e si aggrappò al tronco di un albero, boccheggiando; perché aveva avuto una paura immensa che i suoi piedi inesperti non lo reggessero in quel vortice, che fossero incapaci di muoversi e di camminare come le sue orecchie erano incapaci di contenere tutto ciò che avveniva nell'aria intorno a lui, come i suoi occhi sbalorditi erano incapaci di assorbire l'impeto degli atteggiamenti di quei corpi.

Per lui tutto divenne una serie spezzata di immagini parziali ma nitidamente messe a fuoco; la rapida torsione di un corpo; l'alzarsi estatico e teso di una testa accecata dalla febbre, con i capelli di seta che ricadevano scostandosi dal volto, con il corpo che tremava; il grido acuto di un bimbetto che si lanciava correndo in mezzo alla danza, con le braccia protese e gli occhi chiusi, mentre i danzatori frenetici, in apparenza senza pensare, lo schivavano letteralmente per un capello, fino a che uno di loro si girava e afferrava il piccino, lo lanciava, e un altro l'afferrava al volo e lo faceva roteare e lo lanciava a un altro ancora, fino a che il bimbo veniva deposto, dolcemente, all'orlo di quel vortice di danza.

A un certo momento che gli sfuggì, il basso ronzio era diventato un ruggito, e il ritmo, invece di risultare dalla sottile percussione sulla faringe, era diventato un battito selvaggio, pugni furiosi sul torace e sull'addome snervato.

Charlie stava urlando…

Philos era scomparso…

Un'ondata di qualche cosa veniva generata nel boschetto, e veniva liberata; la sentiva investirlo e poi dissiparsi; era tangibile come la radiazione proveniente dalla porta di un forno, ma non era calore. Era diverso da tutto ciò che aveva mai sentito, immaginato o provato prima di allora… tranne forse quando era solo… oh, no, mai da solo con Laura. Non era sesso; era qualcosa di cui il sesso è un'espressione. E, al suo vertice, il tumulto armonioso cambiava specie; sebbene non mutasse qualità; la carne dei ledom che danzavano diventò una cornice che circondava tutti i bambini — tanti bambini — i quali si erano già riuniti in un gruppo compatto; se ne stavano orgogliosi, persino i più piccini, orgogliosi e consapevoli e profondamente felici, mentre, attorno a loro, i ledom li adoravano e cantavano. Non cantavano dei bambini. Non cantavano ai bambini. Si può descrivere soltanto in questo modo: cantavano i bambini.


Smitty è venuto a fare quattro chiacchiere con Herb accanto alla staccionata, che in realtà è un basso muro di pietra. Si dà il caso che Smitty sia furibondo con Tillie per qualcosa che non ha affatto importanza. Herb se ne stava seduto su una sedia da giardino sotto un ombrellone bianco e rosso, con il giornale del pomeriggio, ed è furioso a sua volta, ma per una ragione meno personale. Il Congresso non solo ha approvato una legge particolarmente stupida, ma ha aggravato questa stupidità aggirando un veto presidenziale. Quando vede Smitty, butta via il giornale e si dirige a grandi passi verso il muretto.

«Come mai» dice, intendendolo come una pura e semplice osservazione preliminare «il mondo è così pieno di luridi figli di vacca?»

«È semplice» è la risposta acida e immediata. «Sono nati tutti dalla parte più lurida di una donna.»


Sebbene a Ledom non scendesse mai l'oscurità, sembrò che si facesse buio quando quasi tutti se ne furono andati. Charlie rimase seduto sul fresco muschio verde, con i polsi sulle ginocchia e il dorso appoggiato contro un albero d'olivo, e chinò la testa per poggiare le guance contro il dorso delle mani. Si sentiva le guance ruvide, perché vi si erano asciugate innumerevoli lacrime. Alla fine si rialzò e guardò Philos, che attendeva paziente accanto a lui.

Philos, sebbene badasse a non proferire una parola per non guastare il raccoglimento del suo ospite, gli rivolse un sorriso smorzato e aggrottò lievemente le sopracciglia.

«È finito?» chiese Charlie.

Philos si appoggiò contro l'albero, e con un moto del capo indicò un gruppo di ledom, tre adulti e cinque o sei piccini, che stavano rimettendo in ordine il boschetto. Su di loro, come uno sciame invisibile di api magiche, aleggiava una nube di musica che fluttuava, svaniva, riprendeva forza. «Non è mai finito» disse Philos.

Charlie pensò a questo, e alla statua chiamata Il Creatore e a quello che era avvenuto nel boschetto, e al suono che aleggiava attorno a quella gente, ovunque si raccogliesse.

Philos chiese, quietamente: «Vuoi chiedermi ancora che luogo è questo?».

Charlie scosse il capo e si alzò in piedi. «Credo di saperlo» disse.

Si diressero verso i campi, e passarono tra i campi dirigendosi verso le casette, e poi si diressero verso i Centri, e intanto parlarono.

«Perché adorate i bambini?»

Philos rise. Era soprattutto una risata di gioia. «In primo luogo, credo che questo avvenga perché la religione (e, per chiudere ogni discussione, definirò come religione il sopra-razionale o l'esperienza mistica) sembra essere una necessità della specie… ma sembra anche che questa esperienza non sia possibile senza un oggetto. Non c'è nulla di più tragico di un'altra persona o di una cultura che provi la necessità di adorare e non abbia un oggetto per la sua adorazione.

«Per non discutere, come dici tu, l'accetterò» disse Charlie, e si rese conto che le sue parole suonavano bizzarre, nella lingua ledom. La parola per “accettare” era “interpenetrare”, una derivazione di “scambio”, ma sorprendentemente il suo significato emergeva sebbene Charlie fosse intimidito da quelle sfumature. «Ma perché i bambini?»

«Noi adoriamo l'avvenire, non il passato. Noi adoriamo quello che sarà, non quello che è stato. Noi aspiriamo alle conseguenze dei nostri atti. Teniamo davanti a noi l'immagine di ciò che cresce ed è malleabile… di ciò che abbiamo il potere di migliorare. Noi adoriamo questa capacità in noi stessi e il senso di responsabilità che vi si unisce. Un bambino è tutto questo… E poi…» Si interruppe.

«Continua.»

«È qualcosa che non puoi comprendere senza una buona dose di adattamento, Charlie. Non credo che tu possa riuscirvi.»

«Prova.»

Philos alzò le spalle. «L'hai chiesto tu: noi adoriamo i bambini perché è inconcepibile che noi possiamo mai obbedire a uno di loro.»

Proseguirono a lungo in silenzio.

«Che c'è che non va nell'obbedire al Dio che adori?»

«In teoria, nulla, immagino, specialmente se insieme all'obbedienza c'è la fede in un Dio vivente e cioè, attuale e conoscibile.» Philos si interruppe per scegliere le parole. «Ma in pratica, molto spesso, la mano di Dio negli affari degli uomini non rappresenta un intervento diretto. I suoi dettami sono adagiati nelle interpretazioni degli Anziani di un tipo o dell'altro… persone compenetrate del passato, dal ricordo affievolito, dagli occhi spenti, e dall'amore inaridito.» Guardò Charlie, e i suoi bizzarri occhi scuri erano pieni di compassione. «Non sei riuscito a capire ancora che l'essenza stessa di ledom è… il passaggio?»

«Il passaggio?»

«Movimento, crescita, cambiamento, catabolismo. La musica potrebbe esistere senza passaggio, senza progressione? E la poesia? Potresti dire una parola e definirla una rima senza pronunciare altre parole? Potrebbe esistere la vita… ecco, passaggio è quasi la definizione della vita! Una cosa viva cambia in ogni momento e in ogni porzione d'una parte di un momento, anche quando si ammala, anche quando decade, cambia, e quando smette di cambiare, è… oh, può essere molte cose: legname, come un albero morto; cibo, come un frutto ucciso; ma non è più vita… L'architettura di una civiltà deve esprimere la sua mentalità, se non la sua fede; che cosa ti dicono le forme del Centro Medico e del Centro Scientifico?»

Charlie ridacchiò; era una risata di disagio, di imbarazzo. «Casca!» gridò in inglese. Poi spiegò: «È quello che gridavano i boscaioli quando avevano tagliato un tronco d'albero che stava per cadere: state lontani!»

Philos rise, senza rancore. «Hai mai visto l'immagine di un uomo che corre? O che cammina? È sbilanciato, o lo sarebbe se rimanesse immobile come lo è quell'immagine. Ma non potrebbe correre o camminare, se non fosse sbilanciato. È in questo modo che tu vai da un luogo all'altro… cominciando sempre a cadere.»

«E poi si scopre che si è sorretti da grucce invisibili.»

Philos sfavillò di gioia. «Tutti i simboli sono grucce invisibili, Charlie.»

Charlie si sentì spinto di nuovo a ridere. «Di Philos ce n'è soltanto uno.» Lo disse con una inconscia imitazione. E vide che Philos arrossiva di nuovo, cupamente. Collera… in quanto a questo, persino una blanda irritazione, è così rara, lì, da sembrare più sconvolgente d'una bestemmia. «Che c'è? Forse…»

«Chi lo ha detto? Mielwis, non è vero?» Philos gli lanciò un'occhiata acuta, e lesse la risposta sulla faccia di Charlie. A quanto pareva, vi lesse anche la necessità di abbandonare la collera, perché con uno sforzo evidente la depose e mormorò: «Non credere di aver detto qualcosa di sbagliato, Charlie. Non è colpa tua. Mielwis…». Aspirò una boccata d'aria e l'espirò. «Melwis, di tanto in tanto, si concede qualche battuta.»

Bruscamente, e con evidente decisione, cambiò argomento e domandò: «Ma per quanto riguarda l'architettura… quelle non contrastano con il concetto dello squilibrio dinamico?» E indicò con un ampio gesto della mano le casette… fango e canne, terra battuta, tronchi e intonaco e pietre e tavole di legno.

«Non c'è niente di traballante, lì» ammise Charlie, indicando la casetta davanti alla quale stava passando… quella di stile italiano ad ambienti quadrati, con la cupola d'intonaco su ogni quadrato.

«Non sono simboli. Almeno, non nel senso in cui lo sono i grandi Centri. Sono i risultati concreti della nostra profonda convinzione che i ledom non si separeranno mai dalla terra… e intendo dir questo nel più ampio significato possibile. Le civiltà hanno un modo pernicioso di allevare intere classi e intere generazioni di persone che si guadagnano da vivere lontani… una volta, due volte, dieci volte, cinquanta volte lontani dalla tecnica manuale. Degli uomini possono nascere, vivere e morire senza aver mai alzato una badilata di terra, senza aver abbattuto un tronco, senza aver mai tessuto un pezzo di stoffa, o addirittura senza aver visto un badile, un'accetta o un telaio. Non è così, Charlie? Non è così, per te?»

Charlie annuì pensieroso. Anche lui aveva avuto lo stesso pensiero, l'aveva avuto un giorno quando, pur essendo cresciuto in città, era andato a raccogliere fagioli, perché aveva bisogno di denaro, e aveva visto un'offerta di lavoro sul giornale. Aveva detestato vivere nelle baracche insieme a un'orda sudicia di spostati, e lavorare tutto il giorno, pieno di crampi, chinato, sotto il sole feroce, in una fatica cui non era allenato e in cui non era esperto, anche se si trattava soltanto di raccogliere fagioli. Però in quel periodo, ogni volta che metteva in bocca un fagiolo gli veniva in mente che era stato proprio lui a togliere dal grembo della terra ciò che la terra aveva generato, e che gli serviva da sostentamento. Quando posava le mani sulla terra, fra lui e la terra non c'era un complesso di scambi, di posizioni sociali, un complicato sistema a molti strati tra le merci e i servizi.

E gli era venuto in mente ancora molte altre volte quando l'intimo problema terreno di riempirsi la pancia veniva da lui risolto scarabocchiando segni sulla carta, pulendo i piatti e raschiando le pentole dei ristoranti, tirando le leve di un bulldozer o premendo i tasti di una calcolatrice.

«Quegli uomini hanno un valore di sopravvivenza estremamente limitato» stava dicendo Philos. «Si sono adattati al loro ambiente, come si conviene a brave creature decise a sopravvivere… ma quell'ambiente è una macchina immensa e complessa; in esso c'è ben poco di fondamentale quanto il semplice atto di cogliere un frutto o di trovare e cuocere l'erba adatta. Se la macchina si guastasse, o se una sua minima parte smettesse di funzionare, tutti coloro che ne fanno parte perderebbero ogni speranza di sopravvivere esattamente nel tempo necessario perché lo stomaco si vuoti.

Tutti i ledom… (tutti, veramente, sebbene ognuno di noi abbia un paio di vere specializzazioni) sanno coltivare la terra, costruire, tessere, cucinare e sbarazzarsi dei rifiuti, e sanno accendere il fuoco e trovare l'acqua. Esperto o no, e nessuno è esperto in ogni cosa, una persona così preparata è in grado di sopravvivere più di un uomo capace di controllare un laminatoio meglio di chiunque altro al mondo, ma incapace di connettere una trave o di serbare il seme del grano o di scavare una latrina.»

«Oh-h-h» disse Charlie, in tono di rivelazione.

«Che c'è?»

«Comincio a vedere qualcosa, qui… non riuscivo a far collimare quell'esistenza da premipulsanti nel Centro Medico con tutti questi manufatti. Pensavo che si trattasse di un privilegio.»

«Coloro che lavorano nei Centri mangiano qui per privilegio!» (in realtà, la parola “privilegio” non è esatta, qui: andrebbe tradotta con “favore” o “concessione”). «I Centri vengono primi tra tutti i luoghi di lavoro, e sono gli unici posti dove è opportuno risparmiare tempo. Non dormiamo, noi, e non importa con quanta cura coltiviamo e costruiamo… ma un lavoro richiede tempo per essere compiuto.»

«E quanto tempo impiegano a scuola i bambini?»

«Scuola… oh. Oh, capisco, che cosa intendi dire. No, non abbiamo scuole.»

«Non avete scuole? Ma… oh, questo va abbastanza bene per la gente che desidera soltanto coltivare la terra e costruire da sé le proprie case… è questo che vuoi dire? Ma… e i vostri tecnologi? Voi non vivete in eterno, non è vero? Che succede, quando si rende necessario sostituire qualcuno? E i vostri libri… e i manoscritti della musica… e… oh, tutte le cose per cui la gente impara a leggere e a scrivere? Matematica… i volumi di istruzioni…»

«Non ne abbiamo bisogno. Abbiamo il cerebrostilo.»

«Me ne ha parlato Seace. Non posso dire di averlo capito.»

«Neppure io» disse Philos. «Ma posso garantirti che funziona.»

«E ve ne servite per l'insegnamento, invece di frequentare le scuole.»

«No. Sì.»

Charlie rise.

Anche Philos rise e aggiunse: «Non ero confuso come sembrava. Il “no” era per la tua dichiarazione, secondo la quale noi ci serviamo del cerebostilo per insegnare. Non insegniamo ai nostri bambini le lezioni libresche, noi le impiantiamo nella loro mente con il cerebrostilo. È rapido… si tratta soltanto di scegliere l'esatto complesso di informazioni e di girare un interruttore. Le (e qui usò un termine tecnico per indicare “le cellule-memoria non usate e disponibili”) e gli schemi sinaptici vengono localizzati e l'informazione viene “stampata” nella mente in pochi secondi… in un secondo e mezzo, mi pare. Poi il complesso è a disposizione di un'altra persona.

“Ma in quanto a insegnare, ecco, se trapiantando queste informazioni si crea un insegnamento, è il soggetto che lo crea, o riflettendo consciamente sull'informazione assorbita (e questo è molto più rapido che per mezzo della lettura) mentre lavora nei campi o durante una “pausa”… ricordi il ledom che abbiamo visto prima di arrivare alla casa di Grocid? Ma anche questo processo non può essere definito insegnamento.

“L'insegnamento è un'arte che può essere imparata; imparare da un insegnante è un'arte che può essere imparata; chiunque ci si provi — e ci proviamo tutti — può acquistare una certa esperienza nell'insegnamento: ma un vero insegnante… ha un talento speciale. Ha un dono simile a quello di un artista, di un musicista o di uno scultore. Oh, noi abbiamo un concetto altissimo degli insegnanti e dell'insegnamento. L'insegnamento è parte integrante dell'amore, sai» aggiunse.

Charlie pensò alla fredda, repellente, agonizzante signorina Moran e, comprese, in un grande lampo caldo.

Pensò a Laura.

«Ci serviamo del cerebrostilo» disse Philos «come ci serviamo del campo-A: non ne dipendiamo. E perciò, non ne abbiamo bisogno. Noi impariamo a leggere e a scrivere, e abbiamo molti libri; qualsiasi leclom che lo desidera può leggerli, anche se di solito noi lo colleghiamo all'apparecchio del cerebrostilo, quando legge, per ottenere un nuovo complesso di informazioni.»

«Questi complessi… possono contenere un libro intero?»

Philos accostò le unghie dei due pollici, fianco a fianco.

«In uno spazio così grande, all'incirca… E noi sappiamo fabbricare la carta e confezionare i libri, e se dovessimo farli, sapremmo farli. Devi capire questo, di noi; non saremo mai, mai schiavi delle nostre comodità.»

«Questo è un bene» disse Charlie, pensando alle molte cose sbagliate del passato; pensando alle industrie bloccate quando i manovratori degli ascensori entravano in sciopero in un palazzo di uffici, in centro, pensando ai disagi di chi vive in un appartamento in città durante un'interruzione di corrente, senz'acqua, senza frigo, senza luce, senza radio, senza televisione: incapace di cucinare, di lavarsi, di divertirsi. Ma… «Anche così» rifletté a voce alta «c'è qualcosa che non mi piace. Se potete far questo, potete anche selezionare un complesso e impiantare un'intera serie di convinzioni e di lealtà; potreste organizzare un sistema schiavistico che farebbe sembrare i nostri sistemi schiavistici un balzo di prova in una corsa nei sacchi.»

«No, non possiamo!» disse con forza Philos. «Per non dire poi che non lo vogliamo. Attraverso la coercizione e il comando, attraverso il tradimento e le menzogne, tu non ami e non acquisti amore.»

«Davvero?» chiese Charlie.

«Le parti della mente sono ormai chiaramente definite. Il cerebrostilo è uno strumento per trasferire informazioni. L'unico modo in cui potremmo impiantare false dottrine sarebbe quello di escludere contemporaneamente la memoria e tutti i sensi; perché ti assicuro che tutto ciò che ti dà il cerebrostilo viene assoggettato a un controllo rispetto a tutto ciò che già sai e a tutto ciò che provi. Non potremmo insegnare cose inconsistenti, neppure se lo tentassimo.»

«E non nascondete mai qualche informazione?»

Philos ridacchiò. «Vai alla ricerca dei difetti, vero?»

«Allora» disse Charlie «non nascondete mai qualche informazione?»

La risata si spense. Philos disse, sobriamente: «Certo. Non diremmo mai a un bambino come preparare l'acido nitrico fumante. Non diremmo a un ledom come ha gridato il suo compagno sepolto sotto una frana…».

«Oh.» Camminarono in silenzio, per un poco… un ledom e il suo compagno… «Allora vi sposate?»

«Oh, sì. Essere amanti è una felicità. Ma essere sposati… è una felicità a livello completamente diverso. È una cosa molto solenne, per noi, e la prendiamo molto sul serio. Tu conosci Grocid e Nasive.»

Una luce si accese nella mente di Charlie. «Vestono nello stesso modo.»

«Fanno tutto nello stesso modo, o almeno insieme. Sì, sono sposati.»

«Ma voi… ma la gente… ehm…»

Philos gli batté una mano sulla spalla. «Capisco il tuo imbarazzo per quanto riguarda il sesso» disse. «Avanti… interrogami pure. Sei tra amici.»

«Non ne sono affatto imbarazzato.»

Proseguirono, Charlie imbronciato, Philos che canterellava sommesso, all'improvviso, in armonia con una melodia lontana che scendeva verso di loro, levandosi dai bambini dispersi nei campi. Nell'udire quella melodia, il broncio di Charlie si spezzò improvvisamente. Si rese conto che era tutto relativo; i ledom erano meno imbarazzati di lui dai problemi sessuali, almeno quanto lui era meno imbarazzato di una massaia vittoriana che dovesse nominare le “gambe” di un piano, e che non avrebbe messo un libro d'un autore maschio accanto a quello di una scrittrice, a meno che i due autori non fossero marito e moglie.

Ed era disposto ad accettare la dichiarazione di Philos, secondo la quale si trovava fra amici.

Nel tono più discorsivo possibile, chiese: «E i bambini?».

«E i bambini che cosa?»

«Immaginiamo che nasca un bambino e che… ecco, che il genitore non sia sposato?»

«Molti nascono in questo modo.»

«E non c'è differenza?»

«Per il bambino no. E neppure per il genitore, per quanto riguarda tutti gli altri.»

«E allora a che scopo vi sposate?»

«Il fatto è, Charlie, che il totale è maggiore della somma delle due parti.»

«Oh.»

«La massima occasione dell'espressione sessuale è il mutuo orgasmo, non ti pare?»

«Sì» disse Charlie, nel tono più clinico possibile.

«E la procreazione è un'altra espressione d'amore?»

«Oh, sì.»

«Allora se un ledom e il suo compagno concepiscono mutuamente, e se ciascuno di loro partorisce due gemelli, non ti sembra un'esperienza abbastanza trascendente?»

«S-sicuro» disse Charlie con voce debole; era sopraffatto. Ricacciò la trascendenza in fondo alla sua mente, premendola fino a che smise di rappresentare un intoppo tanto grande. Quando vi riuscì, chiese: «E l'altro aspetto del sesso?».

«Altro aspetto?» Philos corrugò la fronte, e sembrò consultare uno schedario mentale. «Oh, alludi al sesso espressivo ordinario.»

«Credo di sì.»

«Ecco, sono cose che capitano, ecco tutto. Qui può accadere tutto quello che è espressione d'amore: il sesso, o l'aiuto dato per costruire un tetto, o il canto.» Guardò il viso di Charlie, e poi annuì al suo invisibile schedario e proseguì: «Credo di sapere cosa ti rende perplesso. Tu vieni da un luogo dove certi atti e certe espressioni vengono considerati sotto cattiva luce… riprovati, addirittura puniti. E così?».

«Mi pare.»

«E allora evidentemente è questo che volevi sapere: qui non c'è niente che sia considerato obbrobrioso. Non vi sono regole. Può accadere soltanto quanto è espressione di un amore reciproco, e se non c'è un amore reciproco, non accade.»

«E i giovani?»

«E i giovani, cosa

«Voglio dire… i ragazzini, sai bene. Le esperienze e tutto il resto.»

Philos rise, la sua risata tranquilla. «Domanda: quando sono abbastanza grandi per farlo? Risposta: quando sono abbastanza grandi per farlo. In quanto alle esperienze, perché sperimentare qualcosa che si vede fare comunemente quanto lo scambio del bacio di saluto?»

Charlie deglutì. In ogni caso, era un boccone troppo grosso. Disse, in tono quasi lamentoso: «Ma… e i figli non desiderati?».

Philos si fermò di colpo, si voltò e lo guardò, e il suo viso bruno mostrò un cambiamento di espressioni quasi comico: scandalo, sbalordimento, incredulità, incertezza. (Stai scherzando? Volevi dire sul serio?) e alla fine, soprattutto, un'espressione di scusa. «Mi dispiace, Charlie. Non credevo che tu riuscissi a scandalizzarmi, ma ci sei riuscito. Credevo, dopo tutte le mie ricerche, di essere tetragono a tutto, ma credo di non aver mai immaginato di potermi trovare qui, in mezzo a Ledom, e di cercare di impegnare la mia mente sul concetto di un figlio indesiderato.»

«Scusami, Philos. Non intendevo scandalizzare nessuno.»

«Sono io che ti chiedo scusa. Sono sorpreso di essermi scandalizzato, e mi dispiace di avertelo fatto capire.»

Poi, da un orto, Grocid li salutò, e Philos chiese: «Hai sete?». E deviarono verso la casetta bianca. Fu bello, per un po', distogliere l'uno l'attenzione dall'altro. Era bello andare a guardare di nuovo quella terracotta.


Herb è ritto nell'oscurità spruzzata dalla luce della luna e guarda sua figlia. È scivolato fuori dal letto ed è andato lì perché, altre volte, si è accorto che gli fa bene quando è confuso, ferito, perplesso. Non è facile esprimere sentimenti di violenza e di inquietudine mentre, senza respirare, ci si china, per esaminare, alla luce della luna, le palpebre abbassate d'un bimbo addormentato.

Il suo disagio è cominciato tre giorni fa, quando il suo vicino Smith, con distratta amarezza, gli ha lanciato un'osservazione al di là del muretto. In se stessa l'osservazione era sembrata disperdersi come un cattivo odore; aveva parlato d'una questione politica e la conversazione si era dispersa in un vortice di sciocchezze. Eppure, da allora aveva scoperto di aver portato via dentro di sé quell'osservazione; era come se Smitty, contagiato da una malattia, fosse riuscito a contaminare anche Herb.

Quel pensiero è con lui e non riesce a scacciarlo.

Gli uomini sono nati dalla parte più lurida di una donna.

Herb dissocia quell'osservazione da Smith, un uomo che ha i suoi guai e il suo speciale background, di cui non è del tutto responsabile. Ciò che turba Herb Railes è qualcosa di molto più grande; si sta chiedendo qual è il significato dell'umanità, da quando è scesa dagli alberi, di tutte le cose diverse che ha fatto e che è stata, se un uomo può dire una cosa tanto sudicia.

Oppure è qualcosa di più d'una battuta oscena… è vero, o almeno quasi vero?

È questo che significa la macchia inevitabile del Peccato Originale? È il disgusto degli uomini verso le donne che spinge tanti di loro a trattare le donne con tanto disprezzo? È questo che rende così facile sostenere che i Don Giovanni, con tutta la loro fame di donne, in realtà cercano soltanto di punirne il più possibile? È questa certezza che spinge un uomo, dopo aver passato da bambino, come Freud insegna, un periodo di fissazione per la madre, a fare dietro-front e a odiarla?

Quando gli uomini hanno cominciato a trovare spregevole la femminilità… quando ne hanno cominciato a dichiarare impuri i flussi mensili, e a praticare quel rito noto come la vecchia purificazione post-natale?

Perché io non penso così, si dice, in silenzio, devotamente. Io amo Jannette perché è una donna, e l'amo completamente.

Karen sospira contenta nel sonno. L'ira e il terrore e l'offesa dei pensieri di Herb svaniscono, e lui sorride sopra Karen.

Nessuno, pensa, ha mai scritto per esaltare l'amore paterno. L'amore materno dovrebbe essere un'espressione magica del volere di Dio o qualcosa di simile, o forse l'attività di certe ghiandole. Dipende da chi ne parla. Ma l'amore paterno… è una cosa maledettamente buffa, l'amore paterno. Lui ha visto un uomo, per il resto mite e civile, infuriarsi pazzamente perché “qualcuno ha fatto qualcosa a mio figlio”. Sa, per esperienza che, dopo un poco, questo amore paterno comincia a estendersi: comincia a provarlo, in misura ridotta, verso tutti i bambini. Ma da cosa deriva? I bambini non stanno mai nel grembo del padre, non si nutrono dal suo corpo; l'amore materno ha un senso, è logico; un bambino cresce dalla carne della madre, quasi come un naso. Ma il padre? Oh, occorrono circostanze molto speciali perché un padre ricordi quei particolari due o tre secondi di spasimi che hanno dato la vita al figlio.

Come mai a nessuno è mai venuto in mente di dire che l'umanità era piena di figli di vacca perché è uscita dalla parte più lurida di un uomo? Non è mai venuto in mente a nessuno, mai.

Perché, dicono, l'uomo è superiore. L'uomo… l'umanità (e, oh, sì, le donne hanno imparato il trucco!) L'umanità ha un bisogno disperato di sentirsi superiore. Questo non deve infastidire la ridottissima minoranza che è veramente superiore, ma certamente turba la maggioranza che non lo è affatto.

Se sei un buono a nulla, allora l'unico modo per dimostrare che tu sei superiore, è rendere inferiore qualcun altro. È stato questo silenzio assillante dell'umanità che, fino alla preistoria, ha spinto un uomo a mettere i piedi sul collo al suo vicino, una nazione a sottometterne un'altra, una razza a calpestare un'altra razza. Ma è quello che gli uomini hanno sempre fatto con le donne, anche.

Le hanno trovate veramente inferiori, tanto per cominciare, e hanno imparato da questo a cercare di sentirsi superiori al resto… alle altre razze, alle altre religioni, alle altre nazionalità, alle altre occupazioni?

O è stato vero il contrario, gli uomini hanno reso inferiori le donne per la stessa ragione per cui hanno tentato di dominare gli altri? Quale è la causa, quale è l'effetto?

E… non si tratta soltanto di autoconservazione? Le donne non dominerebbero gli uomini, se ne avessero la possibilità? Non è quello che stanno cercando di fare adesso? Non l'hanno già fatto, qui a Begonia Drive?

Guarda la mano di Karen, nella luce della luna. L'aveva vista per la prima volta quando Karen aveva un'ora, ed era rimasto stordito dalla perfezione delle unghiette minuscole, di tutto… così piccola! così piccola! Così perfetta. Ed è questa manina che prenderà le redini, Karen, e tirerà i fili, Karen? Sei venuta in un mondo che nel suo intimo ti disprezza, Karen?

L'amore paterno lo invade, e, pur senza muoversi, per un attimo di trasporto si vede ritto come un guerriero tra quei figli di vacca nati nel fango e la sua piccina.


«Nasive…»

Il ledom, raggiante di gioia, si fermò accanto a Charlie davanti al gruppo di terracotta, sorrise e rispose: «Sì?».

«Posso farti una domanda?»

«Qualsiasi domanda.»

«Una domanda confidenziale, Nasive. Faccio male a rivolgertela?»

«Non credo.»

«Se eccedessi, non te la prenderesti a male? Io sono forestiero, qui.»

«Chiedi.»

«È una domanda che riguarda Philos.»

«Oh.»

«Perché tutti sono così duri con Philos? Permetti di ritirare questa domanda» si corresse prontamente. «Era un po' troppo forte. È che tutti sembrano… disapprovare. Non tanto lui, ma qualcosa che lo riguarda.»

«Oh» disse Nasive. «Non credo che abbia molto importanza.»

«Allora non hai nessuna intenzione di dirmelo.» Vi fu un silenzio impacciato. Poi Charlie disse: «Io dovrei imparare tutto quello che posso su Ledom. Credi o no che potrei imparare meglio se sapessi qualcosa di ciò che non va, a Ledom? Oppure dovrei giudicare soltanto sulla base di…» e indicò la statua «di ciò che voi preferite, in voi stessi?»

Come già gli era capitato con Philos, Charlie si trovò di fronte a un ledom immediatamente, completamente disarmato. L'impatto della varietà su quella gente era in apparenza enorme.

«Non potresti avere più ragione, Charlie Johns, e io non avrei dovuto esitare. Ma… per riguardo a Philos, devo a mia volta chiederti la tua fiducia. È una faccenda che riguarda Philos, in fin dei conti, e non te e me.»

«Non gli farò capire che io so.»

«Benissimo, allora. Philos si tiene un po' appartato da tutti noi. In primo luogo, c'è attorno a lui un alone di segretezza… che in un certo senso è utile; ha accesso a molte cose da cui gli altri sono esclusi. Ma si ha l'impressione che lui… preferisca così, mentre per un ledom normale questo sarebbe un dovere, ma un dovere molto pesante.»

«Non mi pare una buona ragione per…»

«Oh, non è questo che mette a disagio! In quanto al resto… e forse è parte della stessa realtà… Philos non vuole sposarsi.»

«Ma non è necessario che uno si sposi, non è vero?»

«Oh, no, certo!» Nasive si inumidì le labbra tumide e corrugò la fonte. «Ma Philos si comporta come se fosse ancora sposato.»

«Ancora sposato?»

«Era sposato con Froure. Stavano per avere dei bambini. Un giorno andarono a passeggiare fino all'orlo del cielo…» (Charlie comprese la strana frase) «…e vi fu un incidente. Una frana. Rimasero sepolti diversi giorni. Froure rimase ucciso. Philos perdette i figli che avrebbero dovuto mettere al mondo.»

Charlie ricordò che Philos aveva parlato di qualcuno che “gridava sotto una frana”.

«Philos soffrì… ecco, questo possiamo comprenderlo tutti. Noi amiamo molto, amiamo in molto modi; amiamo profondamente i nostri compagni, e così comprendiamo il suo dolore. Ma per noi è fondamentale quanto l'amore stesso la necessità di amare i vivi, non i morti. Ci mette… a disagio… avere accanto qualcuno che si proibisce di amare liberamente per essere fedele a qualcuno che non c'è più. È… patologico.»

«Forse lo supererà.»

«È accaduto molti anni or sono» disse Nasive, scuotendo il capo.

«Se si tratta di un caso patologico, perché non cercate di curarlo?»

«Potremmo farlo, con il suo consenso. E poiché questa sua tendenza rappresenta soltanto un lieve imbarazzo per pochi di noi, è libero di rimanere com'è, se è questo che preferisce.»

«Adesso capisco la battuta di Mielwis.»

«Quale?»

«Ha detto “Di Philos ce n'è uno solo!” ma lo ha detto come una battuta spiritosa.»

«Questo non è del tutto degno di Mielwis» fece severamente Nasive.

«In ogni caso, te l'ho detto in confidenza.»

«Naturalmente… E adesso pensi di conoscerci meglio?»

«No» disse Charlie. «Ma sento che questo avverrà.»

Si scambiarono un sorriso e ritornarono alla casa, per raggiungere gli altri. Philos stava conversando con Grocid, e Charlie era certo che stessero parlando di lui. Grocid lo confermò dicendo: «Philos mi dice che sei quasi pronto a pronunciare un giudizio su di noi».

«Non è esatto» rise Philos. «Ma ti ho dato quasi tutto quello che io so. Spetta a te stabilire quanto tempo ti occorrerà per arrivare a una conclusione.»

«Spero che occorra molto tempo» disse Grocid. «Tu sei il benvenuto qua, sai. Tu piaci molto a Nasive.»

Era il genere di osservazioni che ai tempi di Charlie poteva essere fatta solo in assenza del soggetto. Charlie lanciò un'occhiata a Nasive, e lo vide annuire. «Sì, è vero» disse Nasive, con calore.

«Grazie» disse Charlie. «Anche a me piace stare qui.»


«Smith è un porco.»

Herb Railes, preoccupato, sente queste parole di Jeannette mentre lei rientra dalla porta della cucina dopo aver fatto visita a Tillie, e sussulta violentemente. Non ha confidato né a lei né ad altri i suoi recenti pensieri sul conto di Smith, anche se sente un grande bisogno di sfogarsi. Ha pensato di poter diminuire la propria pressione parlando con qualcuno… magari con una delle ragazze che gironzolano dopo le riunione della Lega delle Donne Elettrici, o qualcuno che frequenta gli incontri dei Grandi Libri o l'Associazione dei genitori e degli insegnanti, sebbene, come padre d'un figlio di cinque anni, non abbia ancora a che vedere con l'associazione, come pure con quella locale della Direzione Scolastica. Ma ha paura. Porco o no, il consiglio di Smith era solido. Un nuovo interesse… una cosa seria. E tutto il resto, al diavolo.

Non riesce a mandare al diavolo questa storia: è troppo grossa, per lui, e non si è ancora cristallizzata. Sebbene sia sorpreso della confluenza dell'osservazione di Jeannette con i suoi pensieri, non è sicuro di considerare Smith un porco. Un porco in mezzo alla gente è un porco, ma un porco in mezzo ai porci fa parte della gente.

«Cos'ha fatto?»

«Vai da lui, ecco tutto. Lui te lo mostrerà. Tillie è furibonda.»

«Vorrei sapere di che cosa stai parlando, tesoro.»

«Scusami, tesoro. È un cartello, una specie di targa che ha piazzato in tinello.»

«Qualcosa come quelle etichette di tipo urinario per le bottiglie dei liquori?»

«Molto peggio, Vedrai.»


«E poi che cosa viene, Philos?»

«Un buon esame di te stesso» disse Philos, e poi si voltò, e smussò la durezza delle parole con un caldo sorriso. «Un te stesso come categoria, voglio dire. Non vorrai certo valutare Ledom nel vuoto assoluto. È meglio paragonarla, per contrasto, all'altra civiltà.»

«Credo di essere già in grado di farlo. In primo luogo…» Ma Philos lo stava interrompendo.

«Sei già in grado di farlo?» disse, con un tono che indusse Charlie a tacere.

Stavano percorrendo l'ultimo miglio tra il Centro dei Bambini e il Centro della Scienza. Con voce un po' petulante, Charlie disse: «Conosco abbastanza la mia gente, credo, per…».

Di nuovo Philos lo interruppe sardonicamente e disse: «Davvero?»

«Be', se tu non lo credi» disse Charlie, accalorandosi un poco «fai pure!»

«Che cosa devo fare?»

«Indirizzami tu.»

«È quello che sto facendo» disse Philos, senza offendersi. «Lo faremo con il cerebrostilo. È più facile, più rapido, molto più particolareggiato e» sogghignò «incontestabile e non interrompibile.»

«Non interromperei e non discuterei!»

«Lo faresti; saresti obbligato a farlo. Non esiste letteralmente un soggetto nella storia dell'umanità che sia meno adatto ad uno studio obiettivo di quanto lo sia il sesso. Sono stati scritti innumerevoli volumi sulla storia e sulle motivazioni della storia, senza un solo accenno al sesso. Intere generazioni di studiosi, anzi, li hanno studiati e li hanno accettati come la verità più completa, e alcuni hanno continuato a insegnare le stesse cose nello stesso modo… anche quando è stata rivelata l'importanza dei movimenti sessuali per l'individuo, anche quando l'individuo, nella sua vita quotidiana, ha cominciato a interpretare il mondo intero su quella base, riempiendo i propri pensieri e il proprio linguaggio di riferimenti sessuali.

«Comunque, la storia rimase per una grande maggioranza di persone una serie di aneddoti relativi a certi estranei che compivano atti e realizzavano desideri stranamente separati dal comportamento sessuale dei loro tempi… comportamento che era insieme il risultato e la causa dei loro atti. Comportamento che produceva tanto la storia quanto gli storici ciechi… e credo, anche la loro cecità. Ma dovrei dire tutto questo dopo che avrai finito il corso, non prima.»

«Credo» disse Charlie, un po' impettito «che faremmo meglio a muoverci.»

Girarono attorno al Centro Scientifico e presero la sotterranea per il Centro Medico, e Philos guidò Charlie attraverso le catacombe orizzontali, ormai familiari, e attraverso le vertiginose salite dell'edificio immenso. Una volta passarono in una sala molto grande, simile alla sala d'aspetto d'una stazione; era piena del canterellare dei ledom, del tubare sommesso delle loro voci; Charlie fu particolarmente colpito dallo spettacolo di due ledom vestiti nello stesso modo, ognuno dei quali aveva sulle ginocchia un bimbo addormentato e ne allattava un altro.

«Che cosa aspettano?»

«Mi pare di averlo detto… tutti vengono qui, ogni ventotto giorni, per un controllo.»

«Perché?»

«E perché no? Ledom è piccola, lo sai… non siamo ancora ottocento, e nessuno vive più lontano di due ore di cammino. Abbiamo tutte le comodità, quindi…»

«E quanto è accurato, questo controllo?»

«Molto.»

Quando furono quasi in vetta all'edificio, Philos si fermò davanti a una porta. «Tocca lì… così.»

Charlie eseguì, e non accade nulla. Poi Philos toccò e la porta si aprì. «Il mio sistema privato» disse Philos. «È la cosa più vicina a una serratura che tu possa trovare a Ledom.»

«E perché chiudere a chiave qualcosa?» Charlie aveva notato l'assenza di serrature, specialmente al Centro dei Bambini.

Philos accennò a Charlie di entrare, e la porta si chiuse di scatto.

«Abbiamo ben pochi tabù, qui a Ledom» disse. «Ma uno di questi vieta di lasciare facile accesso al materiale molto contagioso.» Stava scherzando, e Charlie lo sapeva; eppure c'era una forte sfumatura di serietà in ciò che diceva.

«In realtà» spiegò Philos «pochi ledom si scomoderebbero per questo.» Indicò con una mano cinque o sei scaffali, alti fino al soffitto, e una rastrelliera di piccoli cubi trasparenti ammonticchiati uno sull'altro. «A noi interessa infinitamente di più l'avvenire, e tutto questo non ha più grande importanza. Eppure… “uomo conosci te stesso”… potrebbe rendere infelice molta gente il conoscerci troppo bene.»

Si avvicinò ai cubi, consultò un indice, e ne prese uno. Portava una piccola fila di numeri purpurei; lo controllò con un indice e poi si diresse verso un basso divano; da una nicchia magicamente aperta, tolse un apparecchio. Era un elmo semisferico sorretto da un braccio snodato.

«Il cerebrostilo» disse. Lo sollevò, in modo che Charlie potesse vederne l'interno. Non c'era altro che una dozzina di sporgenze di gomma, disposte a corona. «Niente elettrodi, niente sonde. Niente fa male.»

Prese il piccolo cubo numerato, aprì uno scompartimento quasi alla sommità dell'elmo, vi lasciò cadere il cubo, chiuse il coperchio di nuovo. Poi si distese sul divano, abbassò l'elmo e se lo premette contro il capo. Lo strumento sembrò oscillare un poco, orientandosi.

Poi si fermò, e Philos si rilassò. Sorrise a Charlie e disse: «Adesso scusami per un paio di secondi». Chiuse gli occhi, tese la mano e premette un pulsante sull'orlo dell'elmo. Il pulsante rimase abbassato; la sua mano ricadde inerte.

Vi fu un profondo silenzio.

Il pulsante scattò, e immediatamente Philos aprì gli occhi. Scostò l'elmo e si levò a sedere. Non mostrava segno di fatica e di sforzo.

«Non ha richiesto molto tempo, vero?»

«Che cosa hai fatto?»

Philos additò il piccolo sportello in cui aveva inserito il cubo.

«È una piccola dissertazione che avevo preparato su certi aspetti dell'homo sapiens» disse. «Aveva bisogno di qualche piccola… revisione. Vi sono certi fatti che tu hai detto di non voler conoscere e, inoltre, volevo che tu lo sapessi da me, come in una lettera, piuttosto che impersonalmente, come da un libro di testo.»

«Vuoi dire che potete alterare queste registrazioni?»

«Ci vuole un po' di pratica, e molta concentrazione, ma… sì. Bene, tocca a te.» Quando Charlie guardò l'elmo ed esitò, Philos rise. «Su. Non ti farà male, e ti porterà molto più vicino a casa.»

Coraggiosamente Charlie Johns si sdraiò. Philos abbassò l'elmo e l'aiutò a metterlo sul capo. Charlie sentì le piccole dita ottuse toccargli lo scalpo, stringere. L'elmo si mosse, poi si fermò: Philos gli prese la mano e gliela guidò verso il pulsante. «Premilo tu stesso, quando sarai pronto. Non accadrà nulla, fino a che non lo farai.» Fece un passo indietro. «Rilassati.»

Charlie lo guardò. Non c'è disprezzo né malizia negli strani occhi scuri; solo un caloroso incoraggiamento.

Premette il pulsante.


Herb attraversa il cortile, chiedendosi in che modo dovrà interrogare Smitty a proposito della targa, o quello che è, che ha fatto bollire Jeannette, senza dirgli chiaro che Jeannette è infuriata.

Smitty sta lavorando attorno a una bordura di calendula, e quando vede Herb si alza, si spolvera le ginocchia e risolve il problema.

«Ehi, vieni; voglio mostrarti qualcosa. Credo che ti divertirai.»

Herb scavalca il muretto ed entra in casa con Smith, scende i gradini; Smith ha un bel tinello. Il calorifero sembra un hi-fi e l'hi-fi sembra un calorifero. La lavatrice sembra un televisore, il televisore sembra un tavolino, il bar sembra un bar, ed è tutto in pannelli di abete.

Sul bar, al centro, bene incorniciato e sottovetro, in grandi lettere gotiche, in modo che devi leggerlo attentamente ed è ancora più divertente, c'è una citazione che dichiara di essere (in una nota in caratteri più piccoli, in fondo) l'opera di un “Filosofo Medioevale”.


UNA BUONA FEMMINA (COME OSSERVÒ UN ANTICO FILOSOFO) È COME UN'ANGUILLA MESSA IN UNA BISACCIA FRA 500 SERPI, E SE HAVVI UN UOMO FORTUNATO COSÌ DA AFFERRARE QUELL'UNA ANGUILLA FRA TUTTE LE SERPI, TROVASI PUR SEMPRE SOLTANTO CON UN'ANGUILLA BAGNATA PRESA PER LA CODA.


Herb è pronto ad associarsi all'indignazione di Jeannette ma quella scritta lo coglie deliziosamente di sorpresa, e scoppia a ridere, mentre Smitty ridacchia in sottofondo. Poi Herb chiede se a Tillie piace.

«Le donne» pontifica Smitty «hanno la testa dura.»


Philos aveva detto bene; era come una lettura. Ma “leggerla” era diverso da tutto ciò che aveva sperimentato consciamente fino a quel momento. Aveva premuto il pulsante, che aveva emesso uno scatto sommesso, e poi c'era stato un periodo di tempo incommensurabile, durante il quale l'orologio mentale capace di dire a un uomo se una campana è suonata da cinque secondi, da cinque minuti o da cinque ore, era rimasto momentaneamente fermo. Tuttavia non poteva trattarsi di un periodo di tempo molto lungo, e non vi fu, in alcun senso ordinario, una perdita di conoscenza, perché quando il pulsante tornò a scattare Philos era ritto accanto a lui e sorrideva. Ma adesso lui si sentiva esattamente come se, in quel preciso momento, avesse deposto una lunga, interessante lettera di un amico, dopo una lettura assorta.

Disse alquanto sbalordito, in inglese: «Bene, per l'amor di Dio!».

Charlie Johns (cominciava la lettera), tu non puoi essere obiettivo in questa discussione. Ma tenta. Ti prego, tenta di esserlo.

Tu non puoi essere obiettivo perché sei stato indottrinato, sermonizzato, imbevuto, imboccato e istruito su questo argomento fin da quando portavi le scarpette celesti. Tu vieni da un tempo e da un luogo in cui la maschilità del maschio e la femminilità della femmina e l'importanza della differenza tra i sessi erano argomenti di preoccupazione quasi totale.

E allora comincia con questo… e cerca di considerarla soprattutto come un'ipotesi di lavoro. In realtà è una verità, e se alla fine supererà la prova della tua comprensione, vedrai che è una verità. Se non l'accetterai, la colpa non sarà tua, ma del tuo orientamento:

Le somiglianze fondamentali tra uomini e donne sono più numerose delle differenze.

Leggi un manuale di anatomia. Un polmone è un polmone, un rene e un rene nell'uomo o nella donna. Può darsi che, statisticamente, la struttura ossea delle donne sia più leggera, la testa più piccola, e così via; eppure non è impossibile che l'umanità, per molte migliaia di anni, abbia selezionato le sue femmine a questo scopo. Ma a parte queste congetture, le variazioni ammissibili rispetto a quella che è chiamata struttura “normale” forniscono molti esempi di donne più alte, più forti, dotate di ossa più solide di molti uomini, e uomini che sono più piccoli, più leggeri, più sottili della maggioranza delle donne. Molti uomini hanno aperture pelviche più larghe di quelle di molte donne.

Per quanto riguarda le caratteristiche sessuali secondarie, solo statisticamente possiamo notare anche differenze significative; perché molte donne sono più pelose della media degli uomini; molti uomini hanno voci più acute della media delle donne… Mi appello ancora alla tua obiettività: dimentica per un momento la tua convinzione che la maggioranza statistica è la norma, ed esamina i casi, numerosissimi, esistenti al di fuori di quella finzione che è la forma. E continua.

Persino per quanto riguarda gli organi sessuali vi sono state variazioni nello sviluppo (e qui, lo ammetto, ci avviciniamo al patologico) che hanno presentato innumerevoli casi di falli atrofici, di clitoridi ipertrofici, e così via… tutte, viste obiettivamente, variazioni ragionevolmente sottili dalla norma, e capaci di produrre, su un corpo inizialmente maschile o femminile, triangoli urogenitali virtualmente identici. Non è mia intenzione affermare che questa situazione è o dovrebbe essere normale… per lo meno, non dopo il quarto mese di gestazione, anche se fino ad allora è non solo normale ma universale; ma voglio soltanto farti notare che questi casi rientrano facilmente nei limiti di ciò che è stato, fin dalla preistoria, possibile per natura.

L'endocrinologia dimostra un certo numero di fatti interessanti. Tanto il maschio quanto la femmina possono produrre ormoni maschili e femminili, e li producono, e in realtà la preponderanza degli uni sugli altri è una questione piuttosto sottile. Se sbilanci questo delicato equilibrio, i mutamenti che si possono provocare sono drastici. In pochi mesi potresti produrre una donna con la barba e priva di seni, e un uomo i cui capezzoli, non più vestigia atrofizzate, possono dare latte.

Questi sono esempi estremi e clamorosi, a puro scopo illustrativo. Vi sono state molte atlete che potevano battere in forza, velocità e bravura la grande maggioranza degli uomini, ma che tuttavia erano ciò che potremmo chiamare “vere” donne, e molti uomini che sapevano, per esempio, disegnare abiti d'alta moda (un lavoro tradizionalmente femminile) molto meglio della maggioranza delle donne, e che pure erano ciò che chiameresti “veri” uomini. Perché quando ci addentriamo in quelle che potrei definire le differenze culturali tra i sessi, la sottigliezza della distinzione sessuale si fa più evidente. Che cosa dicono i libri?

Le donne hanno i capelli lunghi. Li hanno anche i Sikh, definiti da molti i soldati più duri e più valorosi che siano mai esistiti. Li avevano anche i cavalieri del diciottesimo secolo, che portavano anche giacche di broccato e merletti alla gola e ai polsi. Le donne portano le sottane. Le porta anche uno scozzese, un euzones greco, un cinese, un polinesiano, e nessuno di loro può certo essere definito “effeminato”.

Un esame obiettivo della storia umana fornisce esempi di questo genere in numero astronomico. Da un luogo all'altro, o nello stesso luogo ma in tempi diversi, i così detti “campi di attività” maschili e femminili cambiano e si mescolano e si dividono e riaffluiscono, come la salinità alla foce d'un fiume durante la marea. Prima della vostra Guerra Mondiale, le sigarette e gli orologi da polso erano considerati indiscutibilmente attributi femminili; vent'anni dopo erano stati completamente adottati dagli uomini. Gli europei, specialmente i centroeuropei, furono stupiti e divertiti nel vedere gli agricoltori americani che mungevano le mucche e davano da mangiare ai polli, perché in tutta la loro vita l'avevano visto fare soltanto alle donne.

Così si comprende facilmente che le attribuzioni sessuali non rappresentano nulla, in se stesse, perché in tempi e in luoghi diversi ogni caratteristica può essere propria di entrambi i sessi, di uno solo e di nessuno dei due. In altre parole, una sottana non fa l'entità sociale “donna”. Occorre una sottana più un atteggiamento sociale.

Ma, in tutta la storia, virtualmente in tutte le civiltà e in tutti i paesi c'è stato un “campo maschile” e un “campo femminile” e in molti casi le differenze sono state sfruttate fino a conseguenze fantastiche, talvolta nauseanti.

Perché?

In primo luogo, è facile affermare, ed è facile confutare, le teoria che in una società primitiva dedita primariamente alla caccia e alla pesca, un sesso più debole e più lento, spesso appesantito dalle gravidanze e costretto frequentemente a fermarsi per allevare i piccini, non è adatto a cacciare e a pescare come un maschio dai muscoli saldi, veloce e privo d'impacci. Tuttavia, può darsi che la donna primitiva non fosse tanto più piccola, più lenta e più debole del maschio.

Forse la teoria confonde causa ed effetto e forse, se qualche altra forza non avesse insistito su questa evoluzione, non l'avesse accertata, non l'avesse fomentata, le femmine più forti avrebbero potuto andare a caccia insieme agli uomini migliori, mentre gli uomini lenti, più piccoli, più deboli, sarebbero rimasti a casa con le donne incinte e con le puerpere. E questo è infatti avvenuto… non nella maggioranza dei casi, ma molte volte.

La differenza esisteva: concesso. Ma è stata coltivata. È una differenza che ha continuato ad esistere molto tempo dopo la scomparsa della necessità di cacciare e persino di allattare. L'umanità vi ha insistito; ne ha fatto un articolo di fede. E ancora: Perché?

Sembra che vi sia una forza che ingigantisce e sfrutta questa differenza; e, isolata, è una pressione deplorevole, addirittura spaventosa.

Perché c'è nell'umanità una profonda necessità di sentirsi superiore. In ogni gruppo vi sono coloro che sono veramente superiori… ma è facile capire che nell'interno dei parametri di qualsiasi gruppo (sia una civiltà, un club, una nazione, una professione) soltanto pochi sono veramente superiori; le masse, evidentemente non lo sono.

Ma è la volontà delle masse che detta i costumi, anche se i cambiamenti possono venire iniziati da individui singoli o da minoranze; gli individui o le minoranze, molto spesso, sono isolati. E se un'unità delle masse vuole sentirsi superiore, troverà il modo di sentirsi tale.

Questo terribile impulso ha trovato espressioni in molti modi, nella storia… nello schiavismo e nel genocidio, nella xenofobia e nello snobismo, nei pregiudizi razziali e nella differenziazione dei sessi. Dato un uomo che, tra i suoi simili, non ha una vera superiorità, ti trovi di fronte a un pazzo esasperato che, se gli viene negata la superiorità e non sa guadagnarsene una, si butterà su qualcosa di più debole di lui per farne un inferiore. Il soggetto, ovvio, logico, a portata di mano per queste imperdonabile indegnità è la sua donna.

Non potrebbe fare questo a qualcuno che amasse.

Se, poiché amava, non avesse potuto insultare quest'altra metà di lui stesso, così vicina a lui e così poco diversa, non avrebbe mai potuto farlo a un altro uomo. Senza questa forza dentro di lui, non avrebbe mai potuto guerreggiare, perseguitare, mentire per acquisire una superiorità, ingannare, assassinare o rubare. Può darsi che la necessità di sentirsi superiore sia l'origine del suo progresso e può darsi che le guerre e le uccisioni lo abbiano portato a posizioni di comando; eppure non è inconcepibile che senza questa necessità si sarebbe dedicato a conquistare il proprio ambiente, a conoscere la propria natura, elevandosi ad altezze molto maggiori e, in questo modo, a guadagnarsi la vita, invece dell'estinzione.

E, cosa abbastanza strana, l'uomo ha sempre voluto amare. Fino alla fine, era idiomatico che qualcuno “amasse” la musica, un colore, la matematica, un certo cibo… e a parte le spensierate frasi idiomatiche, c'erano coloro che amavano alcune cose in un senso altissimo, al di fuori di ciò che si potrebbe definire amore sessuale: “Non potrei amarti tanto, mia cara, se non amassi anche di più l'onore”. “Perché Iddio amava tanto il mondo che gli donò il Suo Figlio Unigenito…” L'amore sessuale è amore, certamente. Ma è più esatto dire che è una forma di amore, nello stesso modo in cui possiamo dire che la giustizia è amore, che la misericordia è amore, tolleranza, perdono e generosità, quando non serve a esaltare solo il proprio io.

Il cristianesimo fu un movimento d'amore, come documenta chiaramente una conoscenza anche minima del Nuovo Testamento. Ciò che non fu generalmente noto fin quasi alla fine (perché la conoscenza della cristianità primitiva fu spesso dimenticata o repressa) fu che si trattava di una religione cantica… cioè di una religione in cui le congregazione partecipava, nella speranza di avere una genuina esperienza religiosa, una esperienza più tardi chiamata teolepsi, o invasamento divino.

Molti dei primi cristiani raggiunsero spesso questo stato; di più lo raggiunsero solo di rado: eppure continuarono a cercarlo. Ma, quando l'avevano sperimentato, erano profondamente cambiati, interiormente illuminati dalla grazia: era questa esperienza intensa e i suoi effetti permanenti che rendeva loro possibile sopportare i maltrattamenti e le torture più orribili, morire lietamente, e non temere nulla.

Poche descrizioni spassionate dei loro servizi religiosi, riunioni nel senso migliore della parola, sopravvivono oggi, ma i resoconti migliori affermano che la gente lasciava i campi, le botteghe, persino i palazzi, per ritrovarsi insieme in un luogo nascosto… una catacomba, una radura montana, un posto dove nessuno poteva interromperli. È significativo che si ritrovassero insieme ricchi e poveri, maschi e femmine. Dopo aver mangiato insieme, genuinamente, in una festa d'amore, e dopo aver invocato lo Spirito, probabilmente cantando e danzando, l'uno o l'altro poteva essere afferrato da ciò che chiamava lo Spirito.

Forse l'uomo o la donna in questione (e poteva essere sia l'uno che l'altra) invocava e lodava Iddio, e forse la vera espressione caritica (cioè, per dono divino) si realizzava in ciò che veniva chiamato “parlare le lingue”; ma queste esibizioni, assolutamente genuine, non erano né eccessive né frenetiche; spesso questo capitava a turno. E, con un bacio di pace, si separavano e ritornavano al loro posto nel mondo fino alla successiva riunione.

I cristiani primitivi non inventarono la religione caritica; e questa non si spense con loro. La si ritrova spesso nella storia, e assume molte forme. Frequentemente sono forme orgiastiche, dionisiache, come l'adorazione della grande Madre degli Dei, Cibele, che esercitò una influenza immensa a Roma, in Grecia e nell'Oriente, mille anni prima di Cristo. O sono movimenti basati sulla castità, come i Catari del medioevo, gli Adamiti, i Fratelli del Libero Spirito, i Valdesi (che cercarono di portare una forma della cristianità apostolica nella struttura della Chiesa di Roma) e molti, molti altri appaiono nel corso della storia. Hanno in comune un elemento: l'esperienza soggettiva, partecipante, estatica: e hanno in comune, quasi invariabilmente, l'egualianza delle donne, e sono tutte religioni di amore.

Senza eccezioni furono ferocemente perseguitate.

Sembra che vi sia un elemento dominante, nell'organizzazione umana, che considera l'amore come un anatema, e non ne tollera la sopravvivenza.

Perché?

Un esame obiettivo dei movimenti basici (e Charlie! io so che non puoi essere obiettivo! Ma accetta questo!) rivela la semplice e terribile ragione.

Vi sono due canali diretti alla mente inconscia. Uno è il sesso, l'altro è la religione; e nei tempi precristiani, era abituale esprimerli insieme. Il sistema giudeo-cristiano vi pose fine, per una comprensibile ragione. La religione caritica non interpone nulla tra l'adoratore e la Divinità. Un supplicante, soffuso di adorazione, che parla per divina ispirazione, pervaso in tutto il corpo dall'estasi, non sta a cavillare sulle dottrine e non invoca intercessioni attraverso autorità temporali o letterarie. In quanto alla sua condotta, è semplice. Cercherà di fare ciò che gli renderà possibile ripetere l'esperienza. Se fa ciò che è giusto, l'esperienza si ripeterà; se non riesce a ripeterla, questo, da solo, è la sua totale e completa punizione.

È innocente.

L'unico modo concepibile per usare il potere immenso della religione innata — la necessità di adorare — per l'acquisizione di poteri umani, consiste nel porre tra l'adoratore e la Divinità un meccanismo di colpa. L'unico modo per realizzare tutto questo è organizzare e sistematizzare l'adorazione, e il modo per riuscirvi è sorvegliare attentamente l'altro grande impulso della vita… il sesso.

L'homo sapiens è l'unica specie, esistente o estinta, che abbia escogitato modi per esprimere il sesso.

Vi sono soltanto tre modi per affrontare i problemi del sesso. Lo si può soddisfare; lo si può reprimere; lo si può sublimare. Quest'ultimo fenomeno, nella storia, è spesso un ideale e frequentemente un successo, ma è sempre un'instabilità. La semplice, quotidiana soddisfazione, quale avveniva nel periodo aureo della Grecia, quando furono istituite tre classi di donne: le mogli, le etere e le prostitute, e quando, nello stesso tempo, venne idealizzata l'omosessualità, può essere barbara e immorale secondo molti criteri, ma produce una sorprendente sanità mentale.

D'altra parte, una attenta osservazione del medioevo fa vacillare la mente; è come aprire una finestra su un immenso manicomio, grande quanto il mondo e lungo mille anni: è un prodotto della repressione. Ci sono le manie dei flagellanti, quando migliaia di persone si frustavano, andando da una città all'altra, cercando penitenza per eccesso di senso di colpa; ecco il mistico Suso, nel quattordicesimo secolo, che si era fatto fare una cintura di castità irta di centocinquanta chiodi affilati: e per non tentare di alleviare quel tormento durante il sonno, si era fatto fare una briglia di cuoio per tenersi saldi i polsi contro il collo, e poi, per non cercare sollievo dai pidocchi e dalle pulci che l'infestavano, portava guanti chiodati che gli avrebbero lacerato la carne se si fosse toccato; e poiché si toccava, quando le ferite erano rimarginate, se le riapriva. Dormiva su una vecchia porta di legno e in quarant'anni non fece mai il bagno. Ci sono i santi che baciavano le piaghe dei lebbrosi e c'è l'Inquisizione.

Tutto questo in nome dell'amore.

Come è stato possibile un simile cambiamento?

Ce lo mostra con chiarezza l'esame di una sequenza. Prendi la soppressione dell'Agape, della “festa dell'amore” che sembra sia stata una universale e necessaria caratteristica della cristianità primitiva. Lo si può accertare attraverso la documentazione degli editti contro questa e quella pratica, ed è significativo che l'abolizione di un rito così importante di adorazione abbia richiesto circa trecento o quattrocento anni, e sia stata realizzata gradualmente, con sbalorditiva abilità ed efficienza.

Il Rinascimento curò molte forme di insania, ma non l'insania in se stessa. Quando le autorità temporali ed ecclesiastiche mantenevano ancora il controllo su fondamentali problemi sessuali, sulla morale e sul matrimonio, per esempio (sebbene la Chiesa sia entrata in causa piuttosto tardi, per quanto riguarda il matrimonio; in Inghilterra ai tempi di Shakespeare, i matrimoni erano validi per contratto privato e per il benedicente “licet” della Chiesa) la colpa era ancora il filtro tra l'uomo e il suo Dio. L'amore era ancora considerato eguale alla passione e la passione al peccato, fino al punto che era considerato peccatore un uomo che amasse la propria moglie con passione.

Il piacere, orlo esterno dell'enfasi, fu considerato nei giorni del protestantesimo peccaminoso in se stesso, in qualsiasi modo fosse raggiunto; Roma sosteneva che tutti i piaceri sessuali erano peccaminosi. E anche se questo vulcano otturato ha prodotto ponti e case, fabbriche e bombe, ha causato in aggiunta uno spaventoso fenomeno di nevrosi. E anche quando una nazione rifiutava ufficialmente una chiesa, rimanevano le stesse tecniche repressive, le stesse preoccupazioni dottrinarie, filtrate attraverso lo stesso complesso di colpa.

Così sesso e religione, che sono il vero significato dell'esistenza umana, cessarono di essere dei fini e divennero dei mezzi; l'ostilità invalicabile tra i combattenti era la prova dell'identità del loro scopo… la dominazione totale, per la suprema soddisfazione del desiderio di superiorità di tutte le menti umane.


Herb Railes va a dare la buonanotte ai bambini. Si inginocchia sul pavimento, vicino al letto di Karen. Davy osserva. Herb stringe Karen tra le braccia, le solletica il pancino fino a che lei squittisce, le bacia il collo e le morde il lobo dell'orecchio. Davy osserva, ad occhi spalancati. Herb copre la testa di Karen con la coperta, si acquatta prontamente perché lei non possa vederlo quando lui abbassa la coperta. Lei cerca, lo trova, ride pazzamente. Lui la bacia ancora, le rimbocca la coperta. Sussurra: «Papà, ti amo tanto» dice buonanotte e si rivolge a Davy, che osserva con aria solenne.

Herb tende la mano destra. Davy la prende. Herb gliela stringe.

«Buonanotte, vecchio mio» dice. E lascia andare la mano. «Buonanotte, papà» dice Davy, senza guardare Herb.

Herb spegne la luce ed esce. Davy scende dal letto, agguanta il cuscino, attraversa la stanza e lo sbatte con tutte le sue forze sulla faccia di Karen.

«Non riesco a capire» dice Herb, parecchio tempo dopo, quando le lacrime e le recriminazioni sono finite «non riesco a capire perché lo abbia fatto.»


Noi ledom rinunciamo al passato.

Noi ledom (continuava la “lettera” del cerebrostilo) lasciamo per sempre il passato, e tutti i prodotti del passato, eccetto la semplice, essenziale umanità.

Le speciali circostanze della nostra nascita ci rendono possibile tutto questo. Noi veniamo da una montagna senza nome e siamo unici, come specie; come tutte le specie, noi siamo provvisori. Transitorietà è passaggio, è dinamismo, è movimento, è mutamento, è evoluzione, è mutazione, è vita.

Le speciali circostanze della nostra nascita includono il fortunatissimo fatto che nel plasma germinale non c'è indottrinazione. Se l'homo sapiens avesse avuto il buon senso (poiché ne aveva il potere) avrebbe potuto farla finita con tutti i veleni, avrebbe potuto vincere tutti i pericoli, facendo crescere una nuova generazione pulita. Se l'homo sapiens avesse avuto il desiderio (aveva abbastanza potere e abbastanza buon senso) per stabilire una religione cantica e una civiltà in armonia con essa, avrebbe avuto delle generazioni innocenti.

L'homo sapiens dichiarava di cercare una formula per porre fine ai suoi mali. Ecco la formula: una religione cantica e una civiltà che le si adegui. Gli Apostoli di Gesù l'avevano trovata. Prima di loro, l'avevano trovata i greci e prima ancora i minoici. Poi la trovarono i Catari, i Quaccheri. In Oriente e in Africa fu trovata spesso… e ogni volta è riuscita a smuovere solo chi era direttamente interessato ad essa.

Gli uomini o per lo meno gli uomini che muovevano gli altri uomini, scoprirono sempre che una religione caritica non tollera la dottrina, poiché non ne ha bisogno. Ma senza una dottrina, senza un interprete, gli uomini che muovono gli altri uomini sono privi di potere… vale a dire, non sono superiori. In una religione caritica, non avevano nulla da guadagnare.

Eccetto, naturalmente, la conoscenza dell'anima: e la vita eterna.

I popoli dominati dal padre, che fondano civiltà dominate dal padre, hanno religioni paterne: una divinità maschile, una sacra scrittura autorevole, un forte governo centrale, l'intolleranza per la ricerca e l'indagine, un atteggiamento sessuale repressivo, un conservatorismo profondo (perché non si cambia ciò che hanno costruito i padri) una rigida demarcazione tra i sessi, negli abiti e nella condotta, e un profondo orrore dell'omosessualità.

I popoli dominati dalla madre che formano civiltà dominate dalla madre hanno religioni materne: una divinità femminile servita da sacerdotesse, un governo liberale che nutre le masse e soccorre gli indifesi, una grande tolleranza per il pensiero sperimentale, un atteggiamento meno rigido verso il sesso, un confine nebuloso tra le caratteristiche del sesso, e la paura dell'incesto.

La civiltà dominata dal padre cerca sempre di imporsi sulle altre. La civiltà dominata dalla madre no. Quindi è la prima, la civiltà patriarcale che tende a stabilirsi nella corrente principale, e la cultura matriarcale si erige nel suo interno. Qualche volta cerca di ribellarsi, più spesso viene repressa e annientata. Non vi sono stadi di evoluzione, ma fasi che segnano le ondulazioni del pendolo.

Il patrista si avvelena. Il matrista tende a decadere, e questo è soltanto un altro genere di veleno. Ogni tanto si incontra una persona influenzata egualmente da suo padre e da sua madre, e quella persona emula il meglio di entrambi. Di solito, tuttavia, la gente cade nell'una o nell'altra categoria; c'è una staccionata molto sdrucciolevole su cui bisogna camminare…

Tranne che per i ledom. Noi siamo liberali nelle arti e nella ricerca tecnologica, nelle espressioni di ogni genere. Noi siamo conservatori in certi campi: la nostra convinzione di non perdere mai l'abilità manuale e la capacità di coltivare la terra. Noi alleviamo i figli che non emuleranno né l'immagine paterna né l'immagine materna, ma i genitori; e la nostra deità è il Bambino.

Noi rinunciamo a tutti i prodotti del passato tranne noi stessi, sebbene sappiamo che vi sono molte cose bellissime; questo è il prezzo che paghiamo per la quarantena e la nostra salute; questo è tutto ciò che mettiamo tra noi e la fine. Questo è il solo tabù, la sola restrizione… e la sola richiesta che ci viene tramandata da coloro che ci hanno generato.

Perché, come l'homo sapiens, noi siamo nati dalla terra e dalle creature della terra; noi siamo nati dalla razza semibelluina, semiselvaggia; è stato l'homo sapiens che ci ha generati. Come l'homo sapiens, ci sono negati i nomi di coloro da cui siamo derivati, anche se, come l'homo sapiens, abbiamo le prove delle probabilità. I nostri genitori umani ci costruirono il nido, e si presero cura di noi, ma non ci permisero di conoscerli perché, a differenza di molti uomini, si conoscevano e quindi non volevano essere venerati. E nessuno, tranne loro stessi e le madri, sapeva di noi, che eravamo qui, che eravamo qualcosa di nuovo sulla faccia della Terra.

Non ci avrebbero consegnati all'homo sapiens, perché eravamo diversi; e come tutti gli animali da branco, da mandria, da alveare, l'homo sapiens crede nella parte più buia del suo cuore che tutto ciò che è diverso sia pericoloso per definizione e quindi che debba essere sterminato. Specialmente se è simile sotto un aspetto importante (oh quanto è orribile un gorilla, quanto spregevole un babbuino) e soprattutto se sotto qualche riguardo potrebbe essere superiore, potrebbe possedere tecniche e strumenti superiori ai suoi (ricordi la Reazione allo Sputnik, Charlie?) ma con assoluta e mortale certezza se le attività sessuali di questa specie diversa eccedono certi limiti arbitrari; perché questa è la chiave di tutti gli errori, dall'invidia all'odio. In una società di cannibali è immorale non mangiare carne umana.

Il pulsante scattò e Charlie Johns si trovò a guardare negli occhi sardonici e sorridenti di Philos.

Disse, sbalordito, in inglese: «Bene, per amore di Dio!»


«Niente bowling questa sera, tesoro?»

«No, tesoro. Ho chiamato Tillie Smith e l'ho pregata di rinunciare e lei è stata contenta e sono stata contenta anch'io.»

«Avete litigato?»

«Oh, no! Tutt'altro. È solo che… ecco, Tillie è molto suscettibile, in questi giorni. Se ne accorge, e si è accorta anche che io lo so. Preferisce rinunciare al bowling piuttosto che litigare con me, e sa che lo farebbe, anche se non vuole farlo affatto.»

«Mi sembra che ci sia ancora di mezzo la vecchia prostata.»

«Herb, sei un pettegolo. E poi, Tillie non ha la prostata.»

«Lei non ha la prostata di Smitty, è questo è il guaio.»

«Oh, credo che sia così, Herb, vecchio scandaloso!»

«Il sesso… è come i pantaloni.»

«Eh…? Oh, caro, stai tornando a filosofeggiare. E va bene… sputa l'osso.»

«Niente di filosofico. Piuttosto… come diresti di una favola?»

«Favoloso?»

«Sono favoloso. Il sesso è come i pantaloni. Benissimo. Io vado lungo Begonia Drive e cammino per due isolati e compro le sigarette e torno indietro, incontro un mucchio di gente e nessuno mi nota.»

«Tutti ti notano, bello come sei…»

«No, aspetta… aspetta. Nessuno mi nota, in realtà. Arrivi tu e chiedi a tutti quelli che mi hanno incontrato se mi hanno visto. Qualcuno dice di sì; molti non lo sanno. Prendi quelli che hanno detto di sì, e chiedi che pantaloni portavo. Potrebbero essere pantaloni da lavoro, o di gabardine o quelli dello smoking, con le strisce di seta nera.»

«Questo non c'entra con il sesso.»

«Aspetta, aspetta. Adesso immagina che io esca per andare al drugstore, e ci vada senza pantaloni.»

«Senza pantaloni?»

«Uh-uh. Chi se ne accorge?»

«Non faresti neanche cinquanta metri. Non avresti il coraggio di arrivare neppure alla casa di Palmer!»

«Lo notano tutti… giusto! Così…. il sesso. Se uno ne ha abbastanza, poco importa di che specie sia, purché non sia troppo strano: si fa gli affari suoi, non ci pensa, non dà fastidio agli altri. Ma quando ne è privo, oh, ragazzi! Non fa altro che pensare a quello, e solo a quello, e dà fastidio a tutti quelli che gli capitano a tiro. Come Tillie.»

«Oh, non è questo che darebbe fastidio a Tillie!»

«Non è questo che intendo dire. Voglio dire, per Tillie adesso è così. Ecco che cosa la turba, ecco perché non potete andare al bowling, perché lei è troppo nervosa.»

«Credo che tu abbia ragione, sai, quando dici che il sesso è come i pantaloni. Solo, non andare a parlarne in giro, o la gente dirà che tu racconti che Tillie non porta i pantaloni.» Jeannette ride. «Che pensiero! Un vecchio paio di pantaloni.»

«Già. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di prestato, qualcosa di azzurro.»

«Stai buono, e non provartici!»


Nel corridoio incontrarono Mielwis, che disse: «Come va, Charlie Johns?».

«Sono qui» disse Charlie con calore. «Credo che voi siate la cosa più straordinaria che sia mai esistita su questo vecchio pianeta, voi ledom. È sufficiente per rendere un individuo veramente religioso, la comparsa di una mutazione come voi, proprio quando il resto di noi sta andando in fumo.»

«Alloro ci approvi.»

«Quando ci si abitua all'idea… ecco, direi di sì! Dio, è un peccato che non ci fosse qualcuno di voi… a… a predicare o qualcosa di simile. Dico sul serio.»

Mielwis e Philos si scambiarono un'occhiata.

«No» disse Philos, come se fossero lontani da Charlie, al di fuori della portata del suo udito. «Non ancora.»

«Ma sarà presto?»

«Credo che andremo sull'Orlo» disse Philos. «Solo Charlie e io.»

«Perché?» chiese Mielwis.

Philos sorrise, e le luci buie dei suoi occhi lampeggiarono. «Ci vuole un po' di tempo, per tornare indietro.»

Allora anche Mielwis sorrise e annuì. «Sono contento che tu pensi bene di noi, Charlie Johns» disse. «Spero che sarà sempre così.»

«Che altro?» disse Charlie, mentre svoltava lungo un corridoio, insieme a Philos. Scesero lungo un pozzo, e quando furono nel crocevia, Charlie domandò: «Di che cosa volevi parlarmi?».

«C'è ancora qualcosa che tu non sai» disse Philos, facendo un cenno di saluto a un bambino che lo salutò a sua volta radioso.

«Qualcosa che hai intenzione di mostrarmi dall'Orlo?»

«Ciò che ho detto a Mielwis» rispose Philos, senza rispondere alla domanda «era, in effetti, che dopo che ti avrò detto il resto, una bella passeggiata ti aiuterà a inghiottirlo.»

«È così difficile da accettare?» rise Charlie.

Philos non rise. «È così difficile da accettare.»

Charlie smise di ridere; e uscirono dal Centro Medico, si avviarono sul terreno in una direzione nuova per Charlie.

«Sento la mancanza del buio» disse Charlie dopo un po', alzando lo sguardo verso il cielo argenteo. «Le stelle… e l'astronomia, Philos, e la geofisica, e tutto il resto, tutto ciò che richiede una portata più ampia dei boschetti di olivi e dei campi delle fattorie.»

«Ce n'è in abbondanza negli schedari del cerebrostilo, nel caso che diventi importante all'improvviso. Per il momento» disse Philos «aspetterà.»

«Che cosa?»

«Un mondo in cui si possa vivere.»

«Quanto tempo ci vorrà?»

Philos alzò le spalle. «Nessuno può ancora dirlo. Seace pensa che dovremmo mettere in orbita un satellite ogni cento anni, per controllare.»

«Ogni cento anni? Per amor di Dio, Philos… per quanto tempo intendete rimanere imbottigliati qui dentro?»

«Per il tempo necessario. Senti, Charlie, l'umanità ha guardato verso l'esterno per migliaia di anni. Negli archivi vi sono più informazioni sulla composizione delle stelle nane bianche di quante ve ne siano sulla struttura della terra che sta sotto i nostri piedi. È una buona analogia; noi abbiamo bisogno di equilibrare un po' le cose, trascorrendo un certo tempo a guardare all'interno invece che all'esterno. Come disse uno dei vostri scrittori… Wylie, mi pare… noi dobbiamo allontanarci dall'esame dell'oggetto e imparare a conoscere il soggetto.»

«E nel frattempo siete bloccati!» gridò Charlie, e agitò una mano per indicare un ledom che, in lontananza, stava strappando le erbacce. «Che intendete fare… rimanere immobili per diecimila anni?»

«Che cosa sono diecimila anni» chiese Philos, serenamente, «nella storia di una razza?»

Camminarono in silenzio sul terreno ondulato, fino a che Charlie scoppiò in una breve risata quasi di imbarazzo e disse: «Credo di non essere abituato a pensieri così importanti… Senti, sono ancora confuso circa il modo in cui hanno cominciato i ledom».

«Lo so» disse Philos in tono riflessivo. «Bene, per quanto riguarda i primi due… fu fatta passare la voce a un gruppo di persone molto intelligenti e lungimiranti. Come ti ho detto per mezzo del cerebrostilo, si preoccuparono di nasconderci la loro identità, e puoi essere certo che con il resto del mondo furono dieci volte più prudenti. L'homo sapiens non avrebbe accettato alla leggera l'idea di venir soppiantato; ho ragione?»

«Temo di sì.»

«Anche se la nuova specie non rappresentava una concorrenza diretta» annuì Philos. «Bene, dunque; anche se non sappiamo direttamente chi fossero, è chiaro che debbono avere avuto consiglieri molto abili in una decina di campi. Realizzarono il primo cerebrostilo, per esempio, e fecero quasi tutto il lavoro basico sul campo-A, anche se non credo che il primo campo sia stato veramente generato a quei tempi.

“Non saprei dire se abbiano lavorato su di noi… per noi… fino alla loro morte, o se abbiano portato il lavoro fino a un certo punto e poi ci abbiano isolati e siano ritornati al luogo da cui provenivano. So con certezza soltanto che c'era una piccola colonia di giovani ledom in una grande caverna in una montagna, che si apriva su una valle altrimenti inaccessibile. I ledom non misero mai piede in quella valle fino a che il campo-A non fu realizzato e non servì a formare la cupola.»

«Allora l'atmosfera non era radioattiva!»

«No, non lo era.»

«Allora in realtà i ledom coesistettero con l'homo sapiens, almeno per un certo tempo!»

«Infatti. L'unico modo in cui avrebbero potuto venire scoperti sarebbe stato… dall'alto. Naturalmente, una volta che venne pronto il campo-A, anche questo non fu più un problema.»

«Che cosa sembra, visto dall'alto?»

«Mi hanno detto» disse Philos «che sembra un normale gruppo di montagne.»

«Philos, voi ledom vi somigliate molto l'uno all'altro. Siete… eravate tutti una famiglia?»

«Sì e no. Secondo me, in principio ci sono stati due di noi, che non avevano parentela tra loro. Tutti gli altri sono discesi da quei due.»

Charlie rifletté un momento, poi decise di non formulare la domanda che aveva in mente. Chiese, invece: «Uno potrebbe andarsene da qui?».

«Nessuno desidererebbe farlo, non ti pare?»

«Però potrebbe?»

«Penso di sì» disse Philos, in tono vagamente irritato. Charlie si chiese se era un condizionamento. Sarebbe stato logico. «Da quanto tempo sono qui i ledom?»

«Risponderò a questa domanda» disse Philos. «Ma non ora.»

Colto un po' alla sprovvista, Charlie proseguì in silenzio per un poco. Poi chiese: «Vi sono altre comunità ledom come questa?».

«No.» Philos sembrava sempre più laconico.

«E fuori non c'è nessuno?»

«Presumiamo di no.»

«Lo presumete? Non lo sapete con certezza?» Poiché Philos non rispose, Charlie domandò, di punto in bianco: «L'homo sapiens è veramente estinto?».

«Inevitabilmente» disse Philos. E Charlie dovette accontentarsi di questo.

Avevano raggiunto l'orlo della valle, e stavano salendo sui primi contrafforti delle colline. La salita era più difficile, ma Philos sembrava desideroso di procedere più rapido, sembrava spinto da qualcosa. Charlie notò che continuava ad esaminare le rocce attorno a loro, e continuava a voltarsi per guardare i due grandi Centri.

«Stai cercando qualcosa?»

«Soltanto un posto per sederci» disse Philos. Avanzarono tra i grandi macigni e alla fine giunsero a un ripido pendio, in parte di solida roccia, in parte di pietrisco. Philos tornò a guardare in direzione dei Centri che da lì erano invisibili, e disse, con una bizzarra voce tesa: «Siediti».

Charlie si rese conto che da qualche minuto stava costruendo qualcosa di immenso, qualcosa di inatteso; trovò una roccia piatta e vi si sedette.

«È qui che ho… perduto… il mio compagno… il mio Froure» disse Philos.

Ricordando di aver promesso a Nasive che non avrebbe ammesso di saperne qualcosa, Charlie senza fatica assunse un'aria di profonda comprensione: e tacque.

«È accaduto molto tempo fa» disse Philos. «Ero stato appena incaricato di occuparmi della storia. L'idea generale era cercare di vedere cosa sarebbe successo se uno di noi se ne fosse imbevuto; se era velenosa come molti credevano. E per “molti” intendo molti di coloro che avevano lavorato con noi nella Prima Caverna.

«Erano fermamente convinti che noi avremmo dovuto troncare tutti i legami con l'homo sapiens, che pareva essersi comportato molto male, e cercare di non emularlo in alcun modo, neppure inconsciamente. Questo ci sarebbe costato la sua arte, la sua letteratura e molti dei suoi valori migliori; ma nello stesso tempo non volevamo negarci la sua scienza pura… tu per esempio hai nominato l'astronomia… e qualche dato sulla sua evoluzione. Qualche volta, sai bene, è importante conoscere quali sono gli errori da evitare. Questo non soltanto risparmia guai: in un senso morale da un valore agli errori spaventosi. Così… prima bisogna fare gli esperimenti in corpore vili» disse con un piccolo sorriso amaro.

«Ero arrivato all'incirca al punto in cui sei arrivato tu, nello studio dei ledom e dell'homo sapiens, avevo solo un maggior numero di dettagli. Froure ed io eravamo sposati da poco tempo e io dovevo trascorrere molto tempo da solo. Pensavo che sarebbe stato bello se io e Froure avessimo fatto una lunga passeggiata insieme, per parlare e per stare vicini. Eravamo tutte e due in stato interessante… Sedemmo qui e il… il…» Philos deglutì e ricominciò. «Il suolo si spalancò. È l'unico modo di descriverlo. Froure precipitò. Io caddi…»

«Mi spiace» disse inutilmente Charlie.

«Quattro giorni dopo mi dissotterrarono. Non trovarono mai Froure. Io perdetti entrambi i miei bambini. I soli che avrò mai, credo.»

«Ma tu potresti sicuramente…»

Philos interruppe quel caloroso suggerimento. «Ma sicuramente io non vorrei…» disse, con gentile ironia. E poi, seriamente. «Tu mi sei simpatico, Charlie Johns, e mi fido di te. Vorrei mostrarti perché non posso sposarmi, ma tu dovrai promettermi la tua assoluta discrezione.»

«Certamente!»

Philos l'osservò con solennità per un lungo attimo, poi giunse le mani. Il campo-specchio comparve di colpo. Philos posò l'anello al suolo, mentre il campo era ancora operante, indietreggiò di un metro, tirò bruscamente l'orlo di un sasso piatto. Il sasso si inclinò scoprendo l'imboccatura buia di una galleria. Lo specchio perfetto e privo di cornice, riflettendo il grande macigno, avrebbe offerto una mascheratura perfetta al foro, nel caso che dai Centri fosse arrivato qualcuno. Philos si lanciò nell'apertura, fece un cenno di richiamo a Charlie, e scomparve.

Sbalordito, Charlie lo seguì.


Trenta persone in soggiorno stanno strette, ma si è tra amici, niente formalità e alla gente non secca sedersi sul pavimento. Il ministro è un brav'uomo. È un brav'uomo, pensa Herb, in qualsiasi senso tu voglia usare quelle parole. Perché questo reverendo Bill Flester era stato cappellano nell'esercito, lui avrebbe scommesso che dicevano lo stesso fa chiesa e i pezzi grossi dell'esercito e anche i soldati. Flester ha gli occhi chiari e denti bellissimi, capelli corti grigio-ferro e una faccia giovanile e rubizza. I suoi abiti sono sobri ma non funerei, e la sua cravatta e i risvolti stretti della giacca parlano il linguaggio appropriato, come le sue parole. Ha cominciato formulando una tesi, come testo per un sermone, ma non è un testo biblico; è uno slogan efficace come quelli in cui puoi imbatterti a Madison Avenue o in qualunque altro posto: «C'è sempre un modo, se riesci a trovarlo».

I vicini ascoltano rapiti, Jeannette guarda i denti, Tillie Smith guarda le spalle del ministro, che sono ampie, e i capelli grigio-ferro. Smitty, rannicchiato all'estremità di un tavolino, si piega in avanti e si tira il labbro inferiore con il pollice e l'indice, in modo che puoi vedere benissimo le gengive, davanti ai denti, e questo è il modo con cui Smith vuol dire “Quel tipo ha qualcosa, dentro”.

«Ora, i nostri amici ebrei» sta dicendo Flester, con tono di filtrata approvazione «si sono costruiti un bel tempio su Forsythia Drive, e dall'altra parte del quartiere i nostri fratelli cattolici hanno una simpatica cappella di pietra. Cosi, ho fatto qualche lettura e ho camminato molto, e ho scoperto che ci sono ventidue diverse chiese protestanti in un raggio di dieci miglia; la gente di questo quartiere ne frequenta diciotto, e per lo mento quindici di esse sono rappresentate qui, in questa stanza. Ora, nessuno ha intenzione di costruire qui quindici o venti o ventidue specie diverse di chiese protestanti. I commercianti e gli insegnanti sanno benissimo cosa si fa con le piccole comunità sparse qua e là: bisogna centralizzare.

“Così, mi pare che noi dovremmo prendere esempio da loro. Una chiesa deve pensare all'efficienza, e all'interesse del prodotto, e all'aumento dei costi, come qualsiasi altra organizzazione. In una situazione nuova, bisogna trovare un modo nuovo di fare i propri interessi, come l'idea di andare in banca con la macchina, come questo nuovo sistema di fare gli acquisti per televisione di cui parlano i giornali domenicali. Noi siamo tutti protestanti e vogliamo tutti andare in chiesa qui, in questa zona. L'unico ostacolo è un problema di dottrina. C'è molta gente che prende molto sul serio la propria dottrina e, siamo franchi, ci sono state molte discussioni, per questo.

“È stato fatto molto per unire le chiese. Tu cedi qualcosa, io cedo qualcosa, e ci troviamo vicini. Ma molta gente pensa che ci si possa unire solo se si accetta di perdere qualcosa. È così che molta gente pensa: un compromesso significa che tutti perdono qualcosa. E noi non lo vogliamo.

“Io credo, con tutto il rispetto, che questa gente sbagli. Deve esserci un modo di riunirsi, in cui nessuno perde nulla e tutti guadagnano. C'è sempre una soluzione: basta pensarci.

“Ora, ecco che cosa penso, e non pretendo di averne il merito perché ciascuno di voi avrebbe trovato la stessa soluzione se avesse dovuto affrontare il mio problema; io penso che noi dovremmo convocare la gente delle varie chiese, al massimo livello; quello che voi chiamereste un gruppo direttivo, un gruppo esecutivo, e penso che dovremmo esaminare l'idea di una chiesetta per tutti. Ma invece di litigare per decidere l'etichetta da appiccicarle, carichiamo gli scaffali con tutte le marche, sapete, merci di buonissima qualità. Voi entrate in questo supermarket di Dio per comprare quello che vi occorre, e andate con il carrello a tirare giù dallo scaffale quello che vi serve.

“Ora, tanto per fare un esempio, se una delle signore è stata fedele alla marca Del Monte per tutta la vita, io non vorrei nasconderlo come un segreto, non assumerei un ragazzino perché andasse a strappare tutte le etichette, non le impedirei di servirsene né di dire alle sue amiche che è la marca migliore, secondo lei. Voglio soltanto che possa averla e servirsene ed essere contenta. E non ci saranno discussioni tra lei e il supermarket, né tra lei e gli altri clienti, se lei vuole un'altra marca, perché anche quella marca è li, su uno scaffale eguale, sotto una buona luce e in bella vista.

“Se possiamo fare questa proposta ai… diciamo dirigenti, così come potremmo dirlo ai distributori, non credo che osteggeranno l'idea di una distribuzione maggiore che non disturba la lealtà del consumatore. Credo che saranno invece entusiasti della confezione e della propaganda, come lo sarà la direzione del supermarket. Sarà un servizio svolto in modo nuovo.

“Nessuno deve essere privato di qualcosa che gli serve… questo è il modo di vita americano. Se volete battezzare i figli per immersione, avremo una fonte o una vasca abbastanza grande. Se volete le candele sull'altare, benissimo; una domenica è abbastanza lunga per tenere servizi con candele e senza candele. I candelieri possono essere telescopici. Pitture e decorazioni? Metteteli su cardini, in modo che possano venir nascosti o cambiati o quello che vi pare.

“Non scenderò in altri particolari; è la vostra chiesa e la faremo a modo vostro. Purché siamo guidati dall'idea di servire… e di non offendere nessuno. Vi sono più modi simili di amare Dio di quanto siano i modi diversi di amarlo, ed è ora che ci adeguiamo al sistema americano e lasciamo che le nostre chiese ci offrano un self-service della specie migliore, con un bel parcheggio e un bel parco giochi per bambini.»

Tutti applaudono.


Philos appoggiò la spalla contro la lastra che si alzò e si chiuse. Per un momento rimase completamente buio, poi si udì un suono raschiante e Philos tirò fuori un grumo di materiale che emanava uno splendore freddo e lo posò in una fenditura.

«C'è ancora una cosa importantissima che devi imparare su Ledom, e in un modo piuttosto spiacevole» disse Philos «non potresti mai impararla in modo migliore. Lo stesso Mielwis non immagina neppure quanto sarà efficace. Indossa questo.»

Da una cavità della roccia Philos prese una cappa: una fitta ragnatela, ecco a che cosa somigliava quella stoffa. Ne prese un'altra e vi si avvolse. Charlie, senza parlare, lo seguì, mentre Philos parlava in tono quasi collerico: «Froure precipitò e io mi lanciai, e quando Froure mi tirò fuori… Froure che aveva un piede fratturato e quattro costole spezzate, pensa!… ci trovammo qui; è quello che i geologi chiamano un camino. Non era così pulito. Era impossibile farci strada scavando, per uscire. Così ci spingemmo più oltre».

Superò Charlie e sembrò chinarsi, nelle ombre nere dell'angolo;

Poi scomparve. Charlie lo seguì e scoprì che quell'angolo nero era imboccatura di una galleria. Nell'oscurità, Philos gli prese una mano. Charlie inciampò nell'orlo della cappa e imprecò. «Fa troppo caldo.»

«Tienila egualmente» ordinò secco Philos. Avanzò deciso, continuando a trascinare Charlie, che scivolava e strascicava i piedi e faceva dal suo meglio per reggere il passo; e intanto Philos continuava a parlare, in fretta, seccamente: ed era evidente che gli faceva male dire ciò che diceva: «La prima cosa che ricordo è che eravamo in una specie di grotta cieca, qui in fondo. Froure era riuscito ad accendere una specie di luce, e io stavo malissimo. I miei bambini, tutti e due erano perduti. La luce si spense, io… scusami. Stai attento alla testa, qui è molto basso… ero nel sesto mese e mezzo. Erano bei piccini, ben formati.

«Erano piccini della tua specie» uscì dal buio la voce di Philos, dopo una lunga pausa. «Piccoli di homo sapiens.»

«Cosa?»

Philos si fermò, nel buio, e si udì un rumore raschiante. Ancora una volta, da un mucchio di pietrisco prese un blocco di materiale luminoso e lo fissò in un fenditura. Erano in una caverna dalle pareti lisce che un tempo era stata indubbiamente una bolla di pressione del magma di un vulcano. «È stato proprio qui» disse Philos, annuendo. «Froure cercò di nascondermeli. Io… io, perdo la testa quando qualcuno cerca di nascondermi qualcosa.

“Esplorammo qui intorno. L'intera collina era traforata, piena di questi camini. Ora non è più così, fra l'altro. Trovammo una via d'uscita, un passaggio a un centinaio di piedi dalla frana. Ma trovammo anche un passaggio nell'interno della collina… un passaggio che usciva al di là del cielo.

“Io ero sofferente, addolorato e anche incollerito, e anche Froure lo era. Ci venne un'idea pazzesca. Le ferite di Froure erano dolorose, ma non pericolose, e noi ledom sappiamo sbarazzarci abbastanza bene del dolore. Ma io avevo lesioni interne e bisognava fare qualcosa. Così ci accordammo che io sarei ritornato e Froure sarebbe… scomparso per un poco.»

«Perché?»

«Dovevo scoprire la verità. Avevo perduto due bambini, ed erano homo sapiens. Era capitato a me solo? Ecco, c'era un modo per scoprirlo. E se avessi scoperto ciò che temevo di scoprire, volevo andarmene con Froure da Ledom,… volevo andarmene lontano, almeno per pensarci sopra…

“Così decisi di ritornare. Froure sarebbe rimasto. Mi sarei fatto curare, e sarei ritornato indietro il più presto possibile. Bene… risalii l'altro camino e poi provocammo un'altra frana. E i soccorritori mi trovarono, e naturalmente scavarono dove io gli indicai e naturalmente non trovarono Froure. Ma quella seconda frana fu provocata troppo bene… io rimasi ferito di nuovo… e ci volle molto più tempo di quanto avessi pensato prima di rimettermi di nuovo in piedi. Tornai qui… oh, furono molto comprensivi e mi lasciarono sfogare il mio dolore come volevo… tornai qui sperando contro ogni speranza di arrivare in tempo, ma non arrivai in tempo. Froure, da solo, aveva messo al mondo due piccoli, ed uno era morto. “Erano homo sapiens”».

«Philos!»

«Sì, homo sapiens. Così cominciammo ad esserne sicuri. In un modo o nell'altro, per essere un ledom, un bambino doveva nascere nel Centro Medico. Ti pare di aver sentito mai dire una cosa simile, a proposito di una mutazione?»

«No, certo.»

«Non c'è nessuna mutazione, Charlie, ed è questo che Mielwis voleva farti sapere. E Froure è vivo ed è qui, insieme al mio figlio homo sapiens, ed è questo che io volevo farti sapere.»

Era troppo… era veramente troppo perché Charlie Johns lo assorbisse di colpo. Cominciò ad assorbirlo un po' alla volta.

«Mielwis non sa quello che vi è capitato.»

«Infatti.»

«Il tuo… Froure è qui, vero?» (Ma Nasive aveva detto che la frana era stata molti anni prima!) «Quanto tempo è passato, Philos?»

«Parecchi anni. Soutin, il bambino, è grande quanto te.»

«Ma… perché? Perché? Isolarvi da tutti…»

«Charlie, non appena mi fu possibile, io cominciai a scoprire tutto ciò che potevo su Ledom… cose che non avevo mai pensato di domandare. I ledom sono gente aperta e onesta, questo lo sai, ma sono umani, ed hanno bisogno di un po' di segretezza. Forse è questo il modo in cui l'ottengono… danno risposte alle domande, ma non ne offrono spontaneamente. Vi sono segreti nel Centro Medico e nel Centro Scientifico… non segreti nel vostro senso di “riservato”, “top-secret” e così via. Ma vi sono cose, molte cose, che di solito a nessuno verrebbe mai in mente di chiedere.

“Nessuno aveva mai pensato di chiedere spiegazioni per l'anestesia totale durante l'esame medico mensile, per esempio; nessuno si chiedeva perché i bambini venissero “tenuti in incubatrice” per un mese, prima che li vedessimo; chi avrebbe pensato di chiedere notizie sugli esperimenti sui viaggi nel tempo? È stato un caso puro che io abbia scoperto l'esistenza del Controllo Naturale… in realtà, non l'ho mai visto… e non ci avrei mai badato molto se non ci fosse stata la nascita di Soutin.»

«Chi è Soutin?»

«Un bambino nascosto nel Centro Medico. Un homo sapiens, la cui mente viene tenuta addormentata; è qualcosa che serve per controllare il lavoro. Così, vedi, i nostri tre bambini che erano morti e Soutin non erano i soli homo sapiens nati qui. Quando scoprii l'esistenza del Controllo Naturale decidemmo che Soutin dovesse assolutamente rimanere qui… e questo significava che avrebbe dovuto rimanere qui anche Froure. Quando Soutin nacque, era un cosino tanto buffo… perdonami, Charlie, per noi era davvero buffo… ma noi lo amavamo. Ciò che accadde ci indusse ad amarlo e a curarlo di più. Mielwis non avrà mai Soutin.»

«Ma… che cosa succederà? Cosa avete intenzione di fare?»

«Tocca a te, Charlie.»

«A me!»

«Lo porterai via con te, Charlie?»

Charlie Johns guardò, nella fioca luce argentea, la figura ammantata, il viso mobile e sensibile. Pensò all'ostinazione, alla sofferenza, alle cure, alla dolorosa solitudine di quei due esseri innamorati costretti a stare spesso lontani, e a tutto l'amore che avevano per il loro figlio. E pensò a quel figlio… che lì era un eremita, sepolto come una talpa: che a Ledom sarebbe stato una bizzarria o un animale da laboratorio; e che nel suo tempo… che cosa sarebbe stato? senza conoscere la lingua, le usanze… poteva esser anche peggio di qualsiasi cosa che potesse fargli Mielwis.

Fu sul punto di scuotere il capo, ma non vi riuscì, vedendo l'ansia lacerante sul viso di Philos. Inoltre… Seace non l'avrebbe permesso. Mielwis non l'avrebbe permesso. (Ma ricorda… ricordi? Lui conosceva la combinazione per azionare la macchina, ricordi?)

«Philos… potresti portarci all'insaputa di tutti alla macchina del tempo, se fosse necessario, nel Centro Scientifico?»

«Potrei farlo, se fosse necessario.»

«È necessario. Prenderò tuo figlio con me.»

Ciò che disse Philos non fu qualcosa di speciale. Ma il modo in cui lo disse fu una delle più belle ricompense che Charlie avesse mai ricevuto. Con uno scintillio negli occhi scuri, Philos sussurrò soltanto: «Andiamo a dirlo a Froure e a Soutin».

Philos si avvolse nella cappa, fece segno a Charlie di imitarlo, e poi posò le mani sulla parete. Le sue dita affondarono in cavità nascoste, tirarono verso l'esterno. Una sezione di roccia ruotò verso l'interno della camera. Era bassa, e aveva la forma d'una fetta di focaccia. Dal suo interno triangolare uscì un soffio d'aria gelida.

«È una specie di scompartimento stagno» disse Philos. «Il “cielo” finisce qui; in realtà ormai ne siamo fuori. Non posso tenere aperto questo passaggio o la costante perdita di aria potrebbe destare la curiosità alla stazione adibita al mantenimento della pressione.»

Per la prima volta Charlie si accorse che l'aria pura e tiepida di Ledom era non soltanto condizionata, ma anche pressurizzata.

«È inverno, adesso?»

«No, ma siamo ad una quota molto alta. Passerò per primo e ti guiderò.»

Entrò nella camera triangolare e premette contro la parete interna che ruotò, nascondendolo alla vista, poi tornò a scattare: vuota.

Charlie vi entrò e spinse. Davanti a lui, l'orlo della porta scattò contro la roccia solida; e gli sfiorò i calcagni nel richiudersi. E si trovò su una collina, sotto le stelle; boccheggiò per il freddo pungente, ma forse ciò che lo fece boccheggiare furono le stelle.

Nella luce delle stelle, che era molto intensa, scesero il pendio, si infilarono ansimando in una profonda fenditura della roccia e Philos vi trovò una porta. La spinse; un soffio tiepido li investì. Entrarono, e il vento richiuse la porta. Avanzarono ancora, e aprirono una seconda porta e lì, in una stanza lunga e bassa con un vero fuoco di legna che ardeva in un vero caminetto di pietra, c'era Froure, che correva verso di loro, contento, zoppicante ma contento, e, contento e a passo scioltissimo, Soutin.

Charlie Johns mormorò una sola parola e crollò, svenuto. E la parola che disse fu “Laura”.


«Qualche volta, quando ti guardi in giro, ti spaventi» dice Herb.

Jeannette sta tuffando del popcorn in un barattolo di colore, perché Davy possa farsi una collana. Davy ha solo cinque anni, ma è bravissimo con l'ago e il filo. «E allora non guardarti in giro. A cosa ti riferisci?»

«La radio, sentila.» Una voce sta lagnandosi in una canzone. Un orecchio esperto, se costretto ad ascoltare (se non è costretto, l'orecchio esercitato non ascolta) potrebbe riconoscere il tema come Vesti la giubba; c'entra un po' la lirica, e tanto la lirica quanto il tempo sono occlusi da un piano che suona ottave a trioli: clinglinglingclingclingcling. «Chi è che canta?»

«Non lo so» dice Jeannette, un po' seccata. «Non posso star dietro a tutti i Fratelli Qualcheduno e ai Trio di Miltown. Sono tutti eguali.»

«Già, ma chi è?»

Lei mette i popcorn sulla porporina e si ferma per ascoltare. «È quel tale con i denti storti che era alla televisione l'altra sera» tira a indovinare lei.

«No!» dice lui, trionfante. «Quello era quel Fauntleroy da strapazzo che chiamano Debsie. Cioè un maschio. Questa è una donna, cioè una femmina.»

«Non si direbbe.» Ascolta, mentre la voce scivola su tutta la sua portata di quattro toni e mezzo e scompare dietro la musica del pianoforte, stile catena per pneumatici. «Sai che hai ragione?»

«Lo so che ho ragione, ed è questo che spaventa.» Herb batte la mano sulla rivista che stava leggendo. «Sto leggendo qui Al Capp, sai, i fumetti… parla delle illustrazioni delle riviste, e dice che per lo meno nelle illustrazioni delle riviste si riesce a distinguere chi è l'uomo e che è la donna. Il più aggraziato è l'uomo. Così, intanto che sto leggendo questo, sento la radio e c'è una cantante con quella specie di ringhio che la fa sembrare un cantante maschio che cerca di cantare come una cantante femmina.»

«E questo ti spaventa?»

«Be', ci si confonde le idee» dice lui, scherzosamente. «Se continua così, diventerà una mutazione, e non saprai più se hai davanti un maschio o una femmina.»

«Sciocco. Non si fanno le mutazioni in questo modo.»

«Lo so. Voglio dire, se le cose vanno avanti così, quando arriverà la mutazione sesso doppio, nessuno se ne accorgerà.»

«Oh, adesso esageri, Herb.»

«Sicuro. Ma, parlando sul serio, qualche volta non hai l'impressione che ci sia una grande forza all'opera per trasformare le donne in uomini e viceversa? Non solo per quella cantante. Guarda la Russia sovietica. Mai, sulla terra, un grande esperimento sociale ha trasformato tante donne in un'orda così immensa di cavalli pezzati. Guarda la Cina Rossa, dove le piccole bambole cinesi sono state liberate dalla schiavitù e indossano le tute e spalano carbone per quattordici ore al giorno insieme ai loro fratelli. È stato l'altro lato del disco che abbiamo appena sentito.»

Jeannette fa sgocciolare la porporina. «Ma no» dice «sull'altro lato c'è Polvere di stelle.»


«Hai detto “Laura” e…»

Charlie levò lo sguardo verso il soffitto. «Mi dispiace», disse debolmente. «Forse sono stato troppo a lungo senza dormire. Mi dispiace.»

«Che cos'è una Laura?»

Charlie si levò a sedere, con l'aiuto di Philos. Guardò colui che aveva parlato, un ledom dai capelli bruni, dagli occhi grigi e dai lineamenti forti e fini, a quelle labbra ferme e scultoree che pure erano pronte al sorriso.

«Laura era quella che amavo» disse, semplicemente, come avrebbe potuto dirlo un ledom. «Tu devi essere Froure.» E poi tornò a guardare l'altro.

Stava timidamente accanto alla colonna che sorreggeva la trave su cui posava il soffitto di roccia. Indossava una cappa dal collo alto secondo lo stile ledom, una cappa di materiale biostatico chiusa sul petto… Ma era tagliata bassa, e lasciava nuda la parte inferiore del corpo, ad eccezione della sporran. Un viso… un viso grazioso, per nulla maschile o troppo bello; e, oh, non era Laura; solo, lei aveva i capelli di Laura.

Lei.

«Soutin» disse Philos.

«C-c-continuavi a dire “lui”!» gridò stupidamente Charlie.

«Di Soutin? Sì, naturalmente… che altro avrei dovuto dire?»

E Charlie pensò sì, certo… che altro avrebbe dovuto dire? Perché Philos gli aveva raccontato la sua storia in lingua ledom, e aveva usato il pronome ledom che non era né maschile né femminile ma che non era neppure neutro; era stato Charlie che aveva tradotto “lui”.

Disse alla ragazza: «Hai i capelli come quelli di Laura».

Lei disse, timidamente: «Sono contenta che tu sia venuto».

Non lo lasciarono dormire… non potevano, non ne avevano il tempo: ma lo fecero riposare e gli diedero da mangiare; Philos e Froure fecero il giro della casa, per metà sotterranea, per metà sull'orlo di una grande mesa, da cui soltanto una creatura alata avrebbe potuto fuggire, e che aveva alle spalle molti acri di bosco, e un grande pascolo dove, gli dissero, Soutin era andata a caccia di cervi, armata di arco e frecce. Philos e Froure girarono la casa, piansero, preparandosi a non rivederla mai più.

Soltanto allora Charlie pensò a ciò che sarebbe stato di loro, dopo che lui avesse portato via Soutin. Che cosa era ciò che avevano fatto… un tradimento? Qual era la punizione per il tradimento? Non poteva chiederlo. In quella lingua non c'erano parole per concetti come la punizione.

Lasciarono la casa, salirono la collina, entrarono nella camera stagna. Nell'interno, seppellirono il grumo di luce. Attraverso la galleria entrarono nel camino, e lì seppellirono l'altro grumo luminoso. Si tolsero le cappe e le nascosero, ed uscirono nella terra verde, sotto il cielo color acciaio di Ledom. Si incamminarono verso i Centri, a due a due come innamorati, perché Philos e Froure erano innamorati e Charlie e Soutin dovevano camminare in quel modo, perché lei era atterrita.

Quando si avvicinarono al Centro Medico, Froure rimase indietro con Soutin e Charlie, mentre Philos li precedeva. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto ricordare Froure se lo avesse visto solo. Ma se Philos, il solitario, gli avesse camminato accanto come un innamorato…

E sempre sorreggendo Soutin, sussurrando avvertimenti e incoraggiamenti e qualche volta ordini diretti; e sempre, i pensieri si raggrinzivano e si bruciavano in fondo alla mente di Charlie.

«Non gridare» disse a Soutin, severamente, quando si avvicinarono alla sotterranea; avrebbe voluto che qualcuno glielo avesse detto quando l'aveva vista lui per la prima volta. Varcando la soglia buia, si volse e la strinse fra le braccia, le nascose il viso contro la sua spalla. Lei era agile come una leonessa, ma rimase rigida per il terrore, mentre precipitavano. Grida! No… lei non riusciva a respirare!

E sulla sotterranea, si limitò a tenersi stretta a lui; lo ferì quasi con le dita forti e sottili, mentre se ne stava con gli occhi e le labbra serrate. Ma all'altra estremità, quando l'ascensore invisibile li sollevò, e lei ebbe la prima esperienza del moto che a lui aveva strappato lo stomaco… lei rise!

…E lui ne fu contento, e si allontanò dai suoi pensieri…

…di amore reciproco.

…di un uomo con utero innestato chirurgicamente che si accoppiava a un uomo con un con utero innestato chirurgicamente.

…dell'orgoglio dei bambini che venivano adorati.

…delle mani di Grocid e di Nasive, di legno brunito.

…dei ferri e degli aghi chirurgici che apportavano una novità, inumana e fatta dall'uomo, nel corpo dei neonati.

…e oh la distanza e la fusione tra la deità e una sconcia barzelletta.

Volarono in alto, lungo il fianco della struttura inclinata, mentre Charlie spegneva contro la propria spalla la folle risata di Soutin, e si avviarono nel silenzio del laboratorio di Seace. “Lui non ci sarà”, si disse Charlie.

Ma c'era. Lasciò un apparecchio in fondo alla stanza e si diresse verso di loro, senza sorridere.

Charlie si scostò, tirando con sé Soutin, obbligando Seace a passargli davanti per poter parlare con Philos.

Seace disse: «Philos, non è adesso che dovevi venire».

Philos, pallido, aprì la bocca per parlare, quando Froure gridò: «Seace!»

Seace non aveva visto Froure, o non aveva fatto caso al ledom “morto” da tanto tempo. Si voltò per troncare quell'interruzione, e poi il suo sguardo scattò, si strinse, si aggrappò ai lineamenti fini di Froure. Froure sorrise e giunse le mani, e il campo-specchio scattò: era perfido e calcolato con perfetto tempismo perché lo scienziato, dopo una sola occhiata a quel viso inconfondibile, impossibilmente vivo e presente, lo vide sostituito dalla propria immagine. Nello stesso momento in cui dubitava dei propri occhi, quegli occhi gli venivano negati.

«Abbassalo» disse una voce rauca. «Froure; è Froure?» Si avvicinò al piano intangibile dello specchio. Philos scivolò accanto a Froure e prese l'anello; Froure si fece da parte e Philos attirò Seace qua e là nella stanza, come un uccellino ipnotizzato, poi cancellò il campo-specchio e si fermò sorridendo. «Seace!» chiamò Froure, alle sue spalle.

E intanto Charlie Johns stava lavorando, lavorando disperatamente sui comandi della macchina del tempo. Regolò i quadranti, uno, due, tre, quattro, premette la leva, si volse e lanciò Soutin attraverso la porta aperta della macchina, si tuffò dietro di lei, chiudendo la porta. L'ultima cosa che vide, mentre la porta sbatteva, fu Seace che finalmente aveva compreso e scostava Froure bruscamente e balzava verso i comandi.

Charlie e Soutin caddero insieme, in un groviglio. Per un attimo rimasero così, poi Charlie si rialzò, si inginocchiò accanto alla ragazza che tremava e l'abbracciò.

«Volevo dir loro addio» sussurrò lei.

«Andrà tutto bene» la calmò Charlie. Le accarezzò i capelli. E all'improvviso, forse per reazione, rise. «Guarda come siamo!»

Lei guardò; lui, se stessa, e poi alzò su di lui un paio d'occhi attenti e spaventati. Lui disse: «Stavo pensando a cosa succederà, sulle scale, quando arriveremo; io con questo costume da Superman, tu…»

Lei tirò l'indumento dal collo alto. «Non saprò che cosa fare. Sono così…» Agitò la seta della sua sporran. «Questa» disse, e la sua voce crepitava con il disperato coraggio del confessionale «non è vera: non sono mai riuscita a far… credi che lo sapranno, dove andremo?» Lui smise immediatamente di ridere «Non lo sapranno mai» le sussurrò, sobriamente.

«Sono così spaventata» disse lei.

«Non dovrai più avere paura» le disse. E neppure io, pensò. Philos non avrebbe mandato Soutin nel tempo in cui l'umanità aveva acceso la miccia. O forse… sì? Avrebbe pensato che valesse la pena di donarle un anno tra i suoi simili, o un mese, anche se lei avesse dovuto morire con loro?

Avrebbe voluto poterlo chiedere a Philos.

«Quanto tempo occorrerà?» disse lei.

Lui guardò la linea sottilissima che era la porta. «Non so. Seace diceva che era istantaneo… per Ledom. Credo» disse «che la porta non si aprirà finché la macchina…» Stava per dire “è in moto” e poi “in viaggio” e poi “in funzione” ma tutte quelle frasi gli parevano sbagliate. «Credo che la porta si aprirà quando saremo arrivati!»

«Hai intenzione di provare ad aprirla?»

«Sicuro» disse lui. Non vi si avvicinò, non la guardò.

«Non aver paura» disse.

Charlie Johns si voltò e aprì la porta.


«Dio benedici mammina e papà e nonna Sal e nonna Felix e credo anche Davy» cantilena Karen. «E…»

«Continua cara. C'è qualcun altro?»

«Mmmm. E Dio benedici Dio, amen.»

«Bene, questo è molto carino, tesoro, Ma perché?»

Karen dice, attraverso i confini trasparenti del dormiveglia: «È perché dico sempre Dio benedici tutti coloro che mi amano, ecco perché».


Charlie Johns aprì la porta in un fulgore di luce, un fulgore di luce argentea, un fulgore argenteo e offuscato, una distesa d'argento fino al Centro Medico, capovolto e ritto a riempire lo sguardo.

«Hai dimenticato qualcosa» disse una voce. Mielwis.

Dietro Charlie, un grido strozzato. Non si voltò. «Resta dove sei!» gridò. Immediatamente Soutin gli sfrecciò accanto, uscì correndo dalla macchina, passò oltre i comandi, oltre Mielwis, Grocid, Nasive, Seace, e tutti la fissarono mentre lei si buttava in ginocchio accanto a Philos e a Froure, che giacevano uno accanto all'altro sul pavimento, le mani incrociate sull'addome, i piedi troppo abbandonati.

Per un attimo non si udì altro che il pesante respiro di Soutin; le sue lacrime, invece, erano silenziose.

«Se li avete uccisi» disse alla fine Charlie, con voce piena di odio «avete ucciso anche la loro figlia.»

Non vi furono commenti, a meno che lo sguardo abbassato di Nasive non fosse un commento. Mielwis disse, sottovoce: «Ebbene?» Charlie capì che si riferiva alla sua osservazione precedente.

«Non ho dimenticato nulla. Ho incaricato Philos di riferirti. Se ho fatto delle promesse, le ho mantenute.»

«Philos non è in condizioni di riferire.»

«È colpa vostra. E la tua promessa?»

«Noi manteniamo le nostre promesse.»

«Vediamo.»

«Prima vogliamo le tue reazioni a Ledom.»

Che cosa posso perdere, ormai? pensò, disperato, ma non vi furono cedimenti, in lui. Socchiuse gli occhi e disse, scegliendo le parole con cura:

«Voi siete la più corrotta banda di pervertiti che abbia mai avuto il buon senso di nascondersi in una tana.»

Vi fu una specie di fruscio, tra loro… un movimento, non un suono. Finalmente: «Che cosa ti ha cambiato, Charlie Johns? Pensavi molto bene di noi, poche ore fa. Che cosa ti ha cambiato?».

«Solo la verità.»

«Quale verità?»

«Non c'è nessuna mutazione.»

«Il fatto che siamo noi a farlo crea una differenza così grande? Perché ciò che abbiamo fatto è peggio di un incidente genetico?»

«Solo perché siete voi a farlo.» Charlie trasse un profondo respiro, e quasi sputò, quando disse: «Philos mi ha detto quanto siete antichi, come popolo. E volete anche sapere perché ciò che fate è male? Uomini che sposano uomini, incesto, perversione, non c'è nulla di corrotto che voi non facciate».

«Tu credi» disse cortesemente Mielwis «che il tuo atteggiamento sia insolito, o lo sarebbe se il resto della razza umana lo sapesse?»

«Sarebbe unanime al centodue per cento» ringhiò Charlie.

«Eppure una mutazione ci avrebbe resi innocenti.»

«Una mutazione sarebbe stata naturale. Potete dire questo di voi stessi?»

«Sì! Tu puoi farlo? Può dirlo l'homo sapiens? Vi sono gradi, in “natura”? Perché una particella cosmica che cambia i geni dovrebbe essere più naturale della forza della mente umana?»

«Il raggio cosmico obbedisce alle leggi di natura. Voi le abrogate.»

«È stato l'homo sapiens che ha abrogato la legge della sopravvivenza del più adatto» disse sobriamente Mielwis. «Dimmi, Charlie Johns, che cosa farebbe l'homo sapiens, se noi dividessimo il mondo con lui e conoscesse i nostri segreti?»

«Vi stermineremmo fino al vostro ultimo figlio anormale» disse freddamente Charlie. «E quell'ultimo lo metteremmo in un baraccone. Ecco tutto ciò che ho da dire. E adesso mandatemi via di qui.»

Mielwis sospirò. Nasive disse, all'improvviso. «D'accordo, Mielwis. Avevi ragione tu.»

«Nasive ha sempre sostenuto che avremmo dovuto dividere noi stessi e il campo-A e il cerebrostilo con l'homo sapiens. Sento che cerchereste di fare ciò che hai fatto… e che trasformereste il campo in un'arma e il cerebrostilo in un ordigno per schiavizzare le menti.»

«Probabilmente lo faremmo, per ripulire la terra. E adesso metti in moto la tua macchina del tempo.»

«Non c'è nessuna macchina del tempo.»

Letteralmente, le ginocchia di Charlie si piegarono. Si volse e guardò la grande sfera d'argento.

«Tu avevi detto che era una macchina del tempo. Non siamo stati noi ad affermarlo. Tu hai detto a Philos che lo era… e lui ti ha creduto.»

«Seace…»

«Seace ha un po' disposto la scena. Un orologio con i numeri a rovescio. Una scatoletta di fiammiferi. Ma sei stato tu… sei tu a credere ciò che volevi credere. Sei stato tu, homo sapiens. Tu lasci che chiunque ti aiuti, se ti aiuta a credere ciò che vuoi credere.»

«Avevi detto che mi avresti rimandato indietro!»

«Ho detto che ti avremmo riportato nella tua precedente condizione, e lo faremo.»

«Vi siete… serviti di me!»

Mielwis annuì, quasi allegramente.

«Toglietemi di qui» ringhiò Charlie. «Di qualsiasi cosa stiate cianciando.» Indicò la ragazza disperata. «E voglio anche Soutin. Ve la siete cavata benissimo senza Soutin, fino ad ora.»

«Credo che questo sia giusto» disse Grocid.

«E quando vuoi…»

«Subito! Subito! Subito!»

«Benissimo.» Mielwis alzò una mano; e, inspiegabilmente, tutti smisero di respirare. Mielwis pronunciò una parola di due sillabe: «Quesbu».

Charlie Johns rabbridivì dalla testa ai piedi, e lentamente alzò le mani e si coprì gli occhi.

Dopo un po', Mielwis disse sottovoce: «Chi sei?».

Charlie abbassò le mani. «Quesbu.»

«Non allarmarti, Quesbu. Sei di nuovo te stesso. Non avere più paura.»

Grocid sussurrò, intimorito: «Non credevo che fosse possibile».

Seace disse rapidamente, sottovoce: «Il suo nome… un comando postipnotico. Lo è veramente… ma spiegherà tutto Mielwis».

Mielwis parlò: «Quesbu: ricordi ancora i pensieri di Charlie Johns?»

L'uomo che era stato Charlie Johns disse, stordito: «Come… un sogno… o una storia che qualcuno mi ha raccontato».

«Vieni qui, Quesbu.»

Fiducioso come un bambino, Quesbu si avvicinò. Mielwis gli prese la mano e premette contro il bicipite del giovane una sfera bianca che si afflosciò. Quesbu crollò, senza emettere un suono. Mielwis l'afferrò prontamente e lo portò accanto a Philos e a Froure. Lo depose al loro fianco e guardò gli occhi spaventati di Soutin.

«Va tutto bene, piccola» sussurrò Mielwis. «Stanno soltanto riposando. Fra poco sarete di nuovo insieme.» Si mosse lentamente, per non spaventarla, ma con sicurezza, e la toccò con un'altra delle piccole sfere.


Jeannette parla a Herb di Karen; dice Dio benedici Dio, perché lei chiede a Dio di benedire tutti coloro che la amano.

«E anche Dio» dice Herb, pungente; e mentre le parole aleggiano nell'aria la frase non è più pungente.

«Io ti amo» dice Jeannette.


…e alla fine i capi di Ledom poterono conferire quietamente.

«Ma è esistito davvero un Charlie Johns?» chiese Nasive.

«Oh, sì, è esistito veramente.»

«Non… non è una cosa allegra» disse Nasive. «Quando io affermavo che dovevamo dividere con l'homo sapiens tutto ciò che abbiamo, era una specie di… discussione irreale. Non c'era nulla di reale, in un certo senso: soltanto i nomi delle cose.» Sospirò. «Mi piaceva. Sembrava… capire… molte cose… come la nostra statua… il Creatore, sì, e la festa.»

«Capiva, certo» disse Seace con una sfumatura di sarcasmo. «Mi sarebbe piaciuto vedere quanto avrebbe capito se gli avessimo detto la verità sul nostro conto prima che vedesse la statua e la festa, invece che dopo.»

«Chi era, Mielwis?»

Mielwis cambiò uno sguardo con Seace, scrollò lievemente le spalle e rispose: «Tanto vale che te lo dica. Si trovava a bordo di una macchina volante dell'homo sapiens che precipitò sulle montagne qui vicino. Si sfasciò durante il volo. Quasi tutto bruciò e cadde dall'alto, molto lontano. Ma una parte precipitò proprio sopra il nostro “cielo” e rimase lì. Dentro c'era Charlie Johns, gravemente ferito, e un altro homo sapiens che però era già morto. Ora, sapete che il “cielo” sembra un gruppo di montagne, se lo si guarda dall'alto, ma non sarebbe stato molto piacevole, in ogni caso, se le squadre di soccorso vi si fossero arrampicate.

“Seace vide il rottame con i suoi strumenti e immediatamente realizzò un trasportatore a campo-A e lo portò giù. Feci del mio meglio per salvargli la vita, ma era ferito troppo gravemente. Non riprese mai conoscenza. Ma riuscii ad ottenere una registrazione completa in cerebrostilo della sua mente.»

Seace disse: «È la registrazione più completa d'una mente che noi possediamo».

«Poi venne l'idea, a me e a Seace, che avremmo potuto usare quella registrazione per scoprire che cosa avrebbe pensato di noi l'homo sapiens se avesse saputo della nostra esistenza. Tutto quello che dovevamo fare era sopprimere l'id, la parte “me” di qualcuno per mezzo dell'ipnosi profonda, e sostituirla con la registrazione in cerebrostilo di Charlie Johsn. Poiché avevamo Quesbu, è stato semplice.»

Grocid agitò il capo, sbalordito. «Non sapevamo neppure di Quesbu, noi.»

«Il Controllo Naturale. No, non lo sapevate. Era una proprietà del Centro Medico. Non c'è mai stata ragione di parlare di Quesbu. È stato trattato bene, era addirittura felice, credo, sebbene non abbia mai conosciuto altro tranne che il suo ambiente, nel Centro Medico.»

«Ma adesso è diverso» disse Nasive.

Grocid chiese: «E che cosa sarà di loro… di Quesbu e dell'altro?».

Mielwis sorrise: «Se non fosse stato per questo incredibile Philos che ha nascosto il suo Froure e la loro creatura per tutti questi anni… e li ha veramente nascosti, io non ho mai sospettato niente… sarebbe difficile rispondere. Quesbu potrebbe difficilmente venir tenuto isolato, dopo la sua esperienza come Charlie Johns, anche se la considera un sogno. Perché gran parte della sua esperienza non è stata affatto un sogno… in realtà, ha veramente visitato i Centri, tutti. Eppure ormai è troppo adulto per venire trasformato in un ledom, se non parzialmente; e non gli farei mai una cosa simile. Ma questa creatura, Soutin ci dà una nuova possibilità. Riuscite a immaginare quale può essere?».

Grocid e Nasive si scambiarono un'occhiata. «Potremmo costruire una casa per loro?»

Mielwis scosse il capo. «Non nel Centro dei Bambini» disse con sicurezza. «Sono troppo… diversi. Qualsiasi attenzione e qualsiasi dimostrazione d'affetto non basterebbe a rimediare. Sarebbe chiedere troppo a loro e forse anche a noi stessi. Non dimenticare mai chi siamo Grocid… che cosa siamo e perché esistiamo. L'umanità non ha mai raggiunto la sua massima capacità di ragionare, la sua massima obiettività, se non ora, perché è sempre tormentata dalle dicotomie. In noi, nel concetto stesso di noi, sono state eliminate le differenze, tranne quelle individuali. E Quesbu e Soutin non sono diversi in senso individuale; sono una specie diversa. Noi ledom potremmo affrontare probabilmente questa situazione meglio di loro, ma siamo ancora giovani, nuovi, privi di esperienza; siamo soltanto nella quarta generazione…»

«Davvero?» disse Nasive. «Pensavo… voglio dire, non pensavo. Non lo sapevo.»

«Pochi di noi sanno, e a pochi di noi interessa, perché non ha importanza. Siamo condizionati a guardare avanti, non indietro. Ma poiché questo pesa sulla decisione che dobbiamo prendere circa Quesbu e Soutin, vi dirò brevemente in che modo hanno cominciato ad esistere i ledom.

“Dovrò dirlo in breve; perché sappiamo così poco.”

“Vi fu un homo sapiens, un autentico grande; non so se fosse noto come tale fra la sua gente. Mi sembra probabile. Credo che fosse un fisiologo o un chirurgo; doveva essere l'una cosa e l'altra e anche di più. Era nauseato dall'umanità, e non tanto per il male che essa commetteva, quanto per il bene che distruggeva in se stessa. Pensò che l'umanità, dopo essersi resa schiava per parecchie migliaia di anni, stesse inevitabilmente per annientarsi, a meno che fosse fondata da una società al di sopra delle partigianerie che l'avevano divisa, a meno che questa società venisse imbevuta di una lealtà assoluta verso l'umanità e nient'altro che l'umanità.

“Forse lavorò da solo per molto tempo; so che alla fine fu aiutato da un grande numero di persone che pensavano come lui. Il suo nome, i loro nomi non ci sono noti; l'umanità onora per emulazione e lui non voleva che copiassimo nulla dall'homo sapiens, se era possibile evitarlo. Lui e i suoi amici ci fecero, progettarono il nostro modo di vivere; ci diedero la nostra religione e il nostro cerebrostilo e i rudimenti del campo-A, e aiutarono la prima generazione a raggiungere la maturità.»

Nasive disse, all'improvviso: «Allora alcuni di noi debbono averli conosciuti!».

Mielwis alzò le spalle. «Credo di sì. Ma che cosa sapevano? Vestivano, agivano e parlavano come ledom; uno ad uno morirono e scomparvero. Da bambino, tu accetti ciò che vedi attorno a te. Noi quattro siamo insegnanti… esatto? E lo erano anche loro.

“E tutto quello che ci chiesero fu di tenere viva l'umanità. Non la sua arte, la musica, la letteratura, l'architettura. L'umanità; nel senso più vasto, dell'io dell'umanità.

“Noi non siamo veramente una specie. Noi siamo una costruzione biologica. A sangue freddo, potremmo definirci una specie di macchina con una funzione. La funzione è tenere viva l'umanità mentre viene assassinata, e dopo che sarà morta…»

«Per renderla!»

«Questo è un aspetto di Ledom di cui non abbiamo mai parlato a Charlie Johns, perché non l'avrebbe mai creduto. Nessun homo sapiens vorrebbe o potrebbe crederlo. Virtualmente, mai nella storia umana un gruppo al potere ha avuto la saggezza di abdicare, di ritirarsi, se non sotto pressione.

E poi, sebbene noi usiamo ancora le tecniche medicochirurgiche, abbiamo scoperto come indurre la mutazione e ottenerla spontaneamente, così il nostro sacrificio è anche più grande! Per noi, è un articolo di fede essere transitori.

“Noi dobbiamo essere come siamo, rimanere come siamo, mantenere la capacità di coltivare il suolo, tenere aperte le due grandi strade verso l'io interiore… la religione e l'amore… e studiare l'umanità come l'umanità non si è mai presa la briga di studiarsi, prima, dall'esterno. E di tanto in tanto dobbiamo incontrarci con l'homo sapiens, per vedere se è pronto a vivere, ad amare, ad adorare senza la gruccia di una bisessualità imposta. Quando lo sarà… e lo sarà, occorranno diecimila anni o cinquantamila, noi ledom cesseremo semplicemente di esistere. Noi non siamo un'Utopia. Un'Utopia è qualcosa di finito, di completo. Noi siamo transitori custodi… o un ponte, se preferite.

“L'incidente dell'arrivo di Charlie Johns qui ci ha dato la possibilità di scoprire in che modo l'homo sapiens reagirebbe all'idea di Ledom. Avete visto che cosa è accaduto. Ma adesso c'è il fattore Soutin; ci offre una nuova possibilità, la prima di vedere se l'homo sapiens può essere preparato alla propria maturità.»

«Mielwis! Vuoi dire affidare loro il compito di dare inizio…»

«Non a un nuovo homo sapiens. All'antico, con un cambiamento che lo renda capace di vivere senza odio. Di vivere come tutte le cose giovani, con una mano che li guidi.»

Grocid e Nasive si sorrisero l'un l'altro. «La nostra specialità?»

Mielwis sorrise a sua volta, ma scosse il capo. «Di Philos, direi, e di Froure. Lasciateli insieme… l'hanno meritato. Lasciateli vivere ai confini di Ledom… vi sono abituati. E lasciate che i giovani umani conoscano soltanto loro, e ricordino noi; e poi lasciate che i loro figli e i figli dei loro figli li ricordino e facciano di noi un mito…

“E noi li osserveremo sempre, forse li aiuteremo; se non riusciranno, falliranno, e se falliranno moriranno, come l'umanità è già morta…

“E un giorno, in qualche altro modo, ricominceremo di nuovo l'umanità, o forse l'incontreremo di nuovo… ma in un modo o nell'altro, un giorno o l'altro (quando ci conosceremo bene) potremo essere sicuri, e allora Ledom cesserà di esistere, e l'umanità avrà finalmente inizio.»


In una notte stellata, Philos e Froure sedevano all'aperto, per pochi minuti, nell'aria fresca e sottile. Quesbu e Soutin se ne erano andati un'ora prima, dopo un pranzo di famiglia, ed erano ritornati alla loro casa di tronchi e di argilla, sulla mesa coperta di boschi.

«Froure…»

«Che c'è?»

«I ragazzi…»

«Lo so» disse Froure. «È difficile indicare cos'è che non va… ma c'è qualcosa che non va affatto.»

«Non è nulla di grave… forse è soltanto la gravidanza.»

«Forse…»

Dall'oscurità inargentata di stelle. «Philos?»

«Quesbu! Che cosa… hai dimenticato qualcosa?»

Lui uscì dall'ombra, camminando lentamente, a capo chino. «Volevo… Philos…?»

«Sì, figliolo, sono qui.»

«Philos, Sou è… ecco, è infelice.»

«Cos'è che non va?»

«Io…» levo la testa di scatto, e nella luce fioca del suo viso, c'erano delle stelle: le lacrime. «Sou è meravigliosa, ma… ma io continuo ad amare qualcuna che si chiama Laura e non posso farne a meno!» sbottò.

Philos gli passò un braccio attorno alle spalle e rise; ma rise sommessamente, compassionevolmente, in modo carezzevole. «Oh, non è tua, Laura; è di Charlie!» Lo consolò. «Charlie è morto, ormai, Ques.»

Froure disse: «Ricorda l'amore, Quesbu, sì… ma dimentica Laura».

Quesbu disse: «Ma lui l'amava tanto…».

«Froure ha ragione» disse Philos. «Lui l'amava. Serviti di quell'amore. È più grande di Charlie… ed è ancora vivo. Prendilo e donalo a Sou.»

All'improvviso… Philos pensò che fosse una luce sul suo viso, ma era il cielo… all'improvviso il cielo lampeggiò: le stelle scomparvero. Froure gridò. E la mesa, che era loro così familiare, era qualcosa di sconosciuto, nell'argento offuscato di un cielo ledom.

«Ecco; ecco, finalmente» disse Philos. Si sentiva profondamente triste. «Mi chiedo quando Seace riuscirà di nuovo a… Ques, corri da Soutin… presto! Dille che tutto va bene; il cielo d'argento ci sta salvando!»

Quesbu corse via. Froure gridò: «Dille che l'ami!».

Quesbu si voltò senza interrompere il passo, agitò la mano come Charlie Johns, e scomparve tra gli alberi.

Froure sospirò, e rise un poco, anche.

Philos disse: «Non credo che glielo dirò… l'amore è troppo bello per guastarlo… povero Charlie. La sua Laura aveva sposato un altro, lo sai?»

«Non lo sapevo!»

«Sì… sai perfettamente che si può interrompere un cerebrostilo dove si vuole. Seace e Mielwis interruppero naturalmente la registrazione di Charlie in un punto in cui era pieno d'amore; avrebbe potuto comprendere un po' meglio Ledom. Ma in realtà Charlie aveva qualche altro ricordo.»

«Ed era a bordo di quella cosa volante perché voleva allontanarsi da…»

«Temo di no. Si era semplicemente stancato di lei, ed è per questo che lei aveva sposato un altro. Ma non vorrei dire questo a Quesbu.»

«Oh, no, ti prego!» disse Froure.

«Dilettanti… in amore» ridacchiò Philos. «In realtà, Charlie era a bordo di quell'aereo per raggiungere una località della costa non molto lontano da qui. Quell'anno c'erano stati parecchi terremoti, da quelle parti, e lui era un guidatore di bulldozer, lo sai. Oh!» gridò, alzando lo sguardo.

Il cielo cominciò a rifulgere, poi a scintillare.

«Oh, bello!» gridò Froure.

«Fallout» disse Philos. «Stanno ricominciando, gli idioti.»

E si accinsero ad attendere.

Загрузка...