Theodore Sturgeon Venere più X

«Charlie Johns» urlò incalzante Charlie Johns «Charlie Johns, Charlie Johns!» perché quello era assolutamente necessario… sapere chi era Charlie Johns, senza cedere mai neppure per un secondo, per nessuna ragione, mai.

«Charlie Johns sono io» disse in tono risentito, poi lo ripeté in tono lamentoso. Nessuno lo contraddisse, nessuno lo negò. Giaceva nella calda oscurità con le ginocchia rialzate e le braccia incrociate e la fronte premuta contro le rotule. Vedeva lampi d'un rosso cupo, ma li vedeva internamente alle palpebre, ed era Charlie Johns.

C.Johns, un tempo era stato stampigliato su un armadietto, era stato scritto in grassetto sul diploma di una scuola superiore, era stato battuto a macchina su un foglio-paga. Johns, Chas, era scritto sull'elenco telefonico.

Quel nome, d'accordo. D'accordo, andava benissimo, ma un uomo è più di un nome. Un uomo a ventisette anni si vede pettinato in un certo modo nello specchio al mattino e gli piace una goccia di salsa Tabasco sulle uova, che debbono avere il bianco ben cotto e il tuorlo fluido. È nato con un dito malformato e lo strabismo. Sa cuocere una bistecca guidare una macchina amare una ragazza manovrare un ciclostile andare in bagno spazzolarsi i denti compreso il ponte permanente, l'incisivo superiore laterale sinistro e il bicuspide. Esce da casa in anticipo ma arriva in ritardo al lavoro.

Aprì gli occhi e non c'erano affatto bagliori rossocupi, ma grigi… un freddo grigio argenteo, senza sorgente, simile alla traccia di una lumaca sulle foglie dei lillà, qualcosa di primaverile. Era primavera, oh, era primavera; la sera prima aveva fatto l'amore, Laura, lei…

Quando le sere sono lunghe, puoi fare tante cose. Quanto aveva supplicato Laura perché gli lasciasse portare di sopra il paravento; se Mamma avesse potuto vederlo! E giù, nella fetida cantina di Laura, strisciando i piedi nella semioscurità, con il paravento sotto il braccio, era andato a sbattere contro la punta di un cardine penzolante da uno scuretto scartato, si era fatto un buco nei calzoni di tweed marrone, si era procurato un livido rosso-sangue sulla coscia. E ne valeva la pena, oh, ne valeva la pena, in quella serata eterna, con una ragazza, una vera ragazza (lei sapeva dimostrare di esserlo) per tutta la lunga fine di quella serata; e l'amore, per tutta la strada del ritorno a casa, e naturalmente la primavera e naturalmente l'amore! Dicevano le raganelle e i lillà e l'aria, e il modo in cui il sudore gli si asciugava addosso. (Bello, è bello. È bello essere una parte di questo luogo e di questo momento. È la primavera, naturalmente, e naturalmente è l'amore; ma la cosa migliore è ricordare, è sapere tutto questo, Charlie.)

E meglio ancora dell'amore è ricordare la casa, il sentiero tra le alte siepi, le due lampade bianche che avevano il numero 61 dipinto grande, in nero (era stata Mamma a farle, con le sue mani, per conto del padrone di casa; era molto brava nei lavori manuali), solo che ormai le lampade si erano molto sciupate, con l'andar del tempo, e si erano sciupate anche quelle mani. Il vestibolo con la fila di cassette per le lettere, di ottone macchiato, e i campanelli discreti degli inquilini, e la grata del citofono della casa, che non aveva mai funzionato da quando erano venuti a stabilirsi lì, e la massiccia piastra di ottone che nascondeva la serratura elettrica, che lui aveva aperto, per anni, con una spallata, senza neppure dover cambiare il passo… e doveva avvicinarsi, avvicinarsi perché? era così importante ricordare; nulla di ciò che ricordava era importante; è il ricordare in sé che importa; tu puoi! Tu puoi!

I gradini che salivano dal pianterreno avevano vecchi listelli nichelati sul tappeto logoro e sfilacciature rosse agli orli. (La signorina Mundorf insegnava in prima, la signorina Willard insegnava in seconda, la signorina Hooper insegnava in quinta. Ricorda tutto.) Si guardò intorno, nella luce argentea in cui giaceva, ricordando; le pareti morbide erano diverse dal metallo e diverse dal tessuto, eppure sembravano l'uno e l'altro, ed erano tanto calde… continuò a ricordare, ad occhi aperti: la rampa che portava dal primo piano al secondo aveva i listelli nichelati, ma non aveva il tappeto, e i gradini erano tutti incavati, oh, molto lievemente, quando vi salivi potevi essere assorto in qualunque pensiero, ma quel clak-clak che era un cambiamento rispetto al flap-flap del primo piano, ti riportava lì, e tu sapevi dov'eri…

Charlie Johns urlò: «Oh, Dio… dove sono?»

Si distese, rotolò sul ventre, sollevò le ginocchia, e per un momento non riuscì a muoversi. Aveva la bocca arida e scottante come le federe che si stiravano sotto il ferro di Mamma: i suoi muscoli, gambe e dorso, erano allentati e aggrovigliati, come il cestino del lavoro a maglia che Mamma avrebbe rimesso in ordine, un giorno o l'altro…

…l'amore con Laura, la primavera, le lampade con il numero 61, la spallata alla serratura, su per le scale flap-flap, clak-clak e… senza dubbio poteva ricostruire anche il resto del percorso, perché era andato a letto e si era alzato per andare a lavorare… o no? O no?

Si sforzò di sollevarsi, tremando, si inginocchiò, si accoccolò indebolito. La testa gli cadde in avanti e si fermò, ansimando. Guardò il tessuto marrone dei suoi abiti come se fosse una tenda che stesse per aprirsi davanti a un orrore ignobile ma inevitabile.

E così avvenne.

«L'abito marrone» sussurrò. Perché sulla coscia c'era il piccolo strappo, e sotto c'era il piccolo gonfiore dolorante della lividura, a dimostrare che quella mattina non si era vestito per andare al lavoro, non era neppure arrivato in cima alla seconda rampa di scale. Invece, era… lì.

Poiché non riusciva ancora ad alzarsi, si trascinò in giro su pugni e ginocchia, battendo le palpebre girando la testa malferma. Ad un certo punto si fermò e si toccò il mento. La barba non era più lunga di quanto deve esserlo per un uomo che torna a casa da un appuntamento per cui si è rasato con cura.

Tornò a voltarsi e vide un alto ovale splendidamente inscritto nella parete incurvata. Fu la prima caratteristica che riuscì a scoprire in quel luogo imbottito. Lo guardò, sbalordito, e quell'ovale gli diede in risposta il Nulla.

Si chiese che ora fosse. Alzò il braccio e girò la testa e si portò l'orologio all'orecchio. Funzionava ancora, grazie a Dio. Lo guardò. Lo guardò a lungo senza muoversi. Gli sembrava di non saper più leggere l'ora. Alla fine riuscì a capire che le cifre delle ore erano disposte a rovescio, specularmente: il due al posto del dieci, il quattro al posto dell'otto. Le lancette indicavano quello che avrebbe dovuto essere undici minuti alle undici, ma, se questo orologio andava davvero all'indietro, doveva essere l'una e undici. E funzionava a rovescio. Lo provava la lancetta dei secondi…

E sai, Charlie, gli disse qualcosa al di sotto del terrore e dello sbalordimento, sai che tutto quello che devi fare, anche adesso, è ricordare. C'è stata quella terribile battaglia con l'algebra, alla scuola superiore, in terza, perché eri scivolato sull'algebra in prima e avevi dovuto ripetere, e poi avevi fatto con tanta fatica il secondo anno di algebra e il primo di geometria, e poi eri scivolato sulla geometria e avevi dovuto ripetere… ricordi? E poi, nel terzo corso, per l'algebra avevi quella tale signorina Moran, che era una specie di IBM con i denti. E poi un giorno tu le hai chiesto qualcosa, a proposito di un certo non so che per cui eri perplesso e lei ti ha aperto la porta di cui non conoscevi l'esistenza e lei stessa è diventata qualcosa di importante per te… ebbene, dopo quella volta, quando tu la guardavi sapevi qual era la ragione dei suoi modi gelidi, della sua brusca disciplina, della sua inumanità. Lei aspettava proprio qualcuno che venisse a farle domande sulla matematica, un po' oltre, un po' fuori dal libro di testo. E lei aveva disperato per tanto tempo di trovare qualcuno che lo facesse. Era tanto importante per lei, perché lei amava la matematica in modo tale che era un peccato che la parola “amore” fosse stata usata per qualche altra cosa. E non sapeva se il ragazzo che le faceva una domanda sarebbe stato l'ultimo, l'ultimo cui apriva una porta, perché stava morendo di cancro, cosa che nessuno aveva mai sospettato prima del giorno in cui lei non venne più a scuola.

Charlie Johns fissò il lieve ovale nella morbida parete argentea e desiderò che che la signorina Moran fosse lì. Desiderò che fosse lì anche Laura. Poteva ricordarle tutte e due così chiaramente, eppure erano lontane di tanti anni l'una dall'altra. (“E di quanti anni sono lontane da me?”, si chiese, guardando l'orologio.) Desiderò che ci fosse Mamma e la texana dai capelli rossi. (Lei era stata la prima per lui, la rossa; e come poteva accostarla a Mamma? Anzi, come poteva accostare Laura alla signorina Moran?)

Non riusciva a smettere di ricordare; non osava e non voleva assolutamente smettere. Perché, fino a che continuava a ricordare, sapeva di essere Charlie Johns; e anche in quel momento se si trovava in un posto nuovo senza sapere che ora fosse, non era sperduto, nessuno è mai sperduto, finché sa chi è.

Gemendo per lo sforzo, si alzò in piedi. Era così debole e stordito che riusciva a reggersi soltanto piantandosi a gambe divaricate, riusciva a camminare soltanto agitando le braccia per mantenersi in equilibrio. Si diresse verso la vaga linea ovale della parete, perché era l'unica cosa verso cui potesse dirigersi, ma quando cercò di avanzare, si mosse diagonalmente; era come quella volta (ricordò) in quel baraccone di Coney Island, dove ti portavano in una stanza e ti chiudevano dentro e a tua insaputa l'inclinavano un po' da una parte, e tu non avevi punti di riferimento esterni, e c'erano soltanto specchi verdi in cui potevi vederti. Dovevano ripulire quella stanza cinque, sei volte al giorno.

Adesso si sentiva nello stesso modo, ma aveva un vantaggio: sapeva chi era, e per giunta sapeva di star male. Quando inciampò nella morbida zona curva dove il pavimento diventava parete, e cadde in ginocchio sull'argento elastico, gracchiò: «Non sono io, adesso, ecco tutto». Poi udì le proprie parole e balzò in piedi: «Sì, sono io!» gridò «Sono io!»

Avanzò barcollando, e poiché non c'erano prese né appigli sull'ovale — era soltanto una linea sottile, più alta di lui — lo spinse.

E quello si aprì.

C'era qualcuno in attesa, fuori, che sorrideva, ed era vestito in modo tale che Charlie boccheggiò e disse: «Oh, mi scusi…» e poi cadde in avanti.


Herb Railes abita a Homewood, dove possiede un appezzamento di terreno che si affaccia per cinquanta metri su Begonia Drive, e per ottanta metri su Calla Drive, di fronte alla proprietà di Smitty Smith che ha un fronte di settantacinque metri. La casa di Herb Railes ha un solo piano, quella di Smith è una specie di ranch. I vicini di Herb, a destra e a sinistra, hanno case a un solo piano.

Herb entra nel viottolo e suona e sporge la testa dalla macchina. «Sorpresa!»

Jeannette sta falciando il prato con un tosaerba a motore e con tutto quel baccano il clacson della macchina la fa sussultare esageratamente. Posa il piede sul freno e lo preme fino a che il tosaerba si ferma, e poi corre ridendo verso la macchina.

«Papà, papà!»

«Papà, Papà, Papi!» Davy ha cinque anni, Karen tre.

«Oh tesoro, come mai sei a casa?»

«Ho finito la contabilità dell'Arcadia, e il grand'uomo ha detto, Herb, vada a casa dai suoi bambini. Hai un'aria fresca.» Jeannette indossa i calzoncini e una maglietta.

«Io ho fatto il bravo bambino, io ho fatto il bravo bambino» strilla Davy, frugando nella tasca di Herb.

«Anch'io ho fatto il bravo bambino» strilla Karen.

Herb ride e la solleva. «Oh, chissà che uomo diventerai!»

«Zitto, Herb, le confonderai le idee. Ti sei ricordato della torta?»

Herb depone la bimba di tre anni e toma verso la macchina. «Ho preso il preparato. È molto più buona quando sei tu a cuocerla.» E interrompendo il gemito della moglie, aggiunge: «Ci penso io, ci penso io. Sono capace di fare una torta migliore delle tue. Ecco il burro e la carta igienica».

«Il formaggio?»

«Accidenti. Devo telefonare a Lourie.» Prende il pacchetto ed entra per cambiarsi. Mentre Herb è via, Davy posa il piede dove l'ha posato Jeannette per fermare il tosaerba. La testa del cilindro è ancora calda. Davy ha i piedi nudi. Quando Herb esce di nuovo, Jeannette sta dicendo: «Sh! Sh! Comportati da uomo».

Herb indossa un paio di calzoncini e una maglietta.


Non fu un pudore da zitella a sconvolgere in quel modo Charlie Johns. Qualunque cosa l'avrebbe sconvolto… la luce di una torcia elettrica in piena faccia, l'improvvisa apparizione di una scala in discesa… E, comunque, aveva pensato che fosse una donna, vestito a quel modo. Non era riuscito a pensare che alle donne, da quando si era trovato in quella specie di serbatoio… Laura, Mamma, la signorina Moran, la texana dai capelli rossi. Ma certamente una prima occhiata a quel personaggio avrebbe indotto chiunque a pensare a una donna. Non che riuscisse a vedere niente, in quel momento. Era sdraiato supino su qualcosa di elastico e di meno morbido delle pareti del serbatoio… qualcosa che somigliava ai lettucci a rotelle degli ospedali. E qualcuno stava toccando delicatamente il taglio che aveva sulla fronte, mentre un panno umido e fresco che odorava vagamente di nocciola era stato posato sui suoi occhi. Ma chiunque fosse, gli stava parlando, e anche se non riusciva a capire una parola, non gli pareva che fosse una voce di donna. Non era una voce di basso profondo, ma non era una voce di donna.

Oh, fratello, che roba! Immagina una specie di accappatoio corto, scarlatto, con una cintura, che però si apre nettamente sopra e sotto. Sopra era tagliato dietro le braccia, e un collo rigido ampio si levava, sulle spalle, fin oltre la sommità del capo; aveva la forma della spalliera di una poltrona imbottita, ed era quasi altrettanto grande. Sotto la cintura, l'indumento era tagliato nel centro, in modo da formare una specie di coda di rondine, come un abito da cerimonia. Davanti, sotto la cintura, c'era una breve falda di seta, abbastanza simile a quello che gli scozzesi portano sulla parte anteriore del kitt, e che chiamano sporran, o borsa. Le calzepantofole, dall'aria molto morbida, dello stesso colore della veste e con le punte flosce davanti e dietro, salivano fino a metà polpaccio.

Qualunque cosa fosse, la medicazione placò le pulsazioni dolorose della sua fronte con rapidità sbalorditiva. Rimase immobile per un attimo, nel timore che la sofferenza potesse ritornare ad aggredirlo all'improvviso, ma non tornò. Alzò cautamente una mano, e in quel momento il panno gli fu tolto dagli occhi e si trovò di fronte una faccia sorridente che pronunciava varie sillabe fluenti che concludeva con un trillo interrogativo.

«Dove sono?» chiese Charlie.

La faccia aggrottò le sopracciglia e rise, gentilmente. Fredde dita sicure gli toccarono le labbra, e la testa si agitò.

Charlie comprese e disse: «Neppure io ti capisco».

Si appoggiò su un gomito e si guardò intorno. Si sentiva molto più forte.

Era in una grande camera a forma di T, dall'aria solida. Quasi tutto lo stelo della T era occupato dalla… dalla cella imbottita che aveva occupato; la porta era ancora aperta. Dentro e fuori, la cella emanava quella morbida, fredda luce argentea che non aveva una sorgente definita. Sembrava una immensa zucca con le ali.

La sbarra trasversale della T era un unico pannello trasparente, dal pavimento al soffitto e da un'estremità all'altra. Charlie ricordò di averne visto uno altrettanto grande nella vetrina di un grande magazzino, ma non ne era sicuro. Alle estremità della T c'erano delle tende; immaginò che le porte fossero lì.

All'esterno c'era uno spettacolo da mozzare il fiato. Qualche volta un campo da golf può presentare una distesa di verde dello stesso tipo… ma non per tanti chilometri quadrati. C'erano gruppi d'alberi, qua e là, ed erano alberi tropicali; si poteva vedere, quasi sentire l'inconfondibile splendore del flamboyante, tanto era vivido; e c'erano palme… palme da oasi, palme nane, palme da cocco e palmeti; felci e cactus in fiore. Su un mucchio di rovine di pietra, così pittoresche che forse erano state costruite lì con la funzione di essere rovine pittoresche, cresceva uno splendido fico alto quasi cento piedi, con le lunghe radici contorte e i tronchi multipli che si accordavano splendidamente con il fogliame lucente.

L'unico edificio che si poteva vedere, e loro si trovavano molto in alto, al dodicesimo o quattordicesimo piano, pensò Charlie, e per giunta in una zona elevata, era impossibile.

Prendete un cono… uno di quei cappelli a punta che si mettevano in testa all'alunno più somaro. Affusolatelo in modo che sia lungo tre volte di più di quanto dovrebbe essere. Adesso piegatelo in una curva aggraziata, circa in un quarto di cerchio. Poi rovesciatelo, piantatene la punta delicata nel terreno e allontanatevi, lasciando che la base massiccia si incurvi verso l'alto, senza nessun sostegno. E adesso fatelo alto almeno centocinquanta metri; con gruppi gemmati di finestre piacevolmente asimmetriche, e balconi curvi, piazzati in modo strano, che sembrino fare parte della superficie, invece di staccarsene, e avrete un'idea di quell'edificio, di quell'edificio impossibile.

Charlie Johns lo guardò, poi guardò il compagno e aprì la bocca e guardò l'edificio, tornò a guardare l'uomo. Sembrava umano e non sembrava umano. Gli occhi erano troppo distanti e troppo lunghi… ancora un po', e sarebbero stati sui lati del volto, invece che sulla parte anteriore. Il mento era forte e liscio, i denti sporgenti e magnifici, il naso grande, con le narici così arcuate che soltanto una frazione d'arco evitava loro di assomigliare alle narici di un cavallo. Charlie sapeva già che le dita erano forti e delicate; lo stesso si poteva dire del viso, del portamento. Il torso era un po' più lungo di quanto avrebbe dovuto, le gambe un po' più corte di come le avrebbe disegnate Charlie, se fosse stato un artista. E, naturalmente, quegli abiti…

«Sono su Marte» rabbrividì Charlie Johns, cercando di essere spiritoso, ma riuscì soltanto ad avere l'aria di essere miserevolmente spaventato. Fece un gesto inutile in direzione dell'edificio.

Con una sorpresa, l'uomo annuì premuroso e sorrise. Aveva un sorriso caldo e sicuro. Indicò Charlie, se stesso e l'edificio, mosse un passo verso l'immensa finestra e fece un cenno di richiamo.

Ebbene, perché no?… eppure Charlie lanciò un'occhiata esitante verso la porta della cella argentea da cui era uscito. Piccola come piaceva a lui, era la sola così lì, che gli fosse vagamente familiare.

L'uomo intuì la sua sensazione, e fece una specie di gesto rassicurante, indicando dapprima l'edificio lontano e poi la cella.

Con un sorriso poco convinto, Charlie si decise a muoversi.

L'uomo lo prese saldamente per il braccio e si avviò, non verso le estremità della stanza nascoste dalle tende, ma diritto verso la finestra, diritto attraverso la finestra. Ma questo lo fece da solo. Charlie piantò i calcagni sul pavimento e fuggì verso quella specie di lettuccio a rotelle.

All'esterno l'uomo si fermò, saldamente sospeso a mezz'aria, e fece un cenno di richiamo, sorridendo. Gridò qualcosa a Charlie, ma Charlie vide soltanto il movimento delle labbra… non udì alcun suono. Quando qualcuno è in un luogo chiuso, se ne accorge… lo sente, in realtà… e in ogni caso lo sa, e Charlie lo sapeva. Eppure quella creatura dall'abito vistoso aveva attraversato ciò che chiudeva quel luogo e l'aveva lasciato chiuso, e adesso chiamava Charlie perché lo raggiungesse, con impazienza, anche se allegramente.

Ci sono momenti in cui bisogna avere orgoglio, pensò Charlie, e questo è uno di quei momenti, ma io non ho orgoglio. Strisciò verso la finestra, si buttò a quattro zampe e tese lentamente le mani verso il pannello. E il pannello c'era, secondo il suo udito, secondo la sua percezione dello spazio, ma non secondo la sua mano. Strisciò cautamente verso l'esterno.

L'uomo rise (ma rideva con lui, non di lui, Charlie ne era certo), e gli venne incontro. Quando fece il gesto di prendere la mano di Charlie, Charlie la ritrasse. L'uomo rise ancora, si chinò e batté forte con la mano contro il pino su cui inspiegabilmente poggiava i piedi. Poi si alzò, e pestò, con forza.

Bene, evidentemente era ritto su qualcosa. Charlie ricordò (ricordava di nuovo) di aver visto all'aeroporto di San Juan una vecchia indiana che, per chissà quale ragione, aveva fatto il suo primo volo e si era trovata di fronte, per la prima volta, a una scala mobile. Era indietreggiata e aveva tastato sussultando, fino a che un giovanotto l'aveva sollevata di peso e l'aveva caricata sulla scala mobile. Lei si era aggrappata al corrimano e aveva continuato a strillare per tutta la salita e, arrivata in cima, non aveva smesso di strillare; erano strilli di gioia, lo erano stati per tutta la salita.

Bene, lui poteva strillare, ma non avrebbe strillato. Pallido, con gli occhi infossati, infilò la mano là dove non c'era il pannello, e batté dove aveva battuto l'uomo.

E sentì che c'era qualcosa.

Strisciando su una mano e sulle ginocchia, battendo con l'altra mano davanti a sé, con gli occhi socchiusi e la testa rovesciata in modo da non guardare in basso, passò attraverso il niente che chiudeva la stanza in modo tanto efficiente, e si avviò sul nulla che l'attendeva fuori.

L'uomo, di cui improvvisamente poteva udire la voce, rise e gli fece cenno di avventurarsi più oltre, ma Charlie era arrivato alla massima distanza cui accettava di arrivare. Così, con suo grande orrore, l'uomo balzò improvvisamente verso di lui, lo sollevò di peso, e gli posò la mano destra su un niente che era a mezz'aria e che correva circa all'altezza della sua mano, della sua cintura… un corrimano!

Charlie si guardò la mano destra, vuota in apparenza, che tuttavia stringeva qualcosa di benedetto; poteva vedere la carne appiattita all'estremità della presa, le nocche sbiancate. Posò la sinistra accanto alla destra e guardò nella brezza — c'era una brezza intensa — verso l'uomo, che disse qualcosa nella sua lingua cantilenante e indicò in basso. Di riflesso, Charlie Johns guardò giù e boccheggiò. Probabilmente non era più di un centinaio di metri ma a lui sembravano parecchi chilometri. Deglutì a vuoto e annuì, perché evidentemente quell'uomo gli aveva detto qualcosa di allegro come “Un bel salto, eh?”. Troppo tardi comprese che quell'uomo aveva detto l'equivalente di “Saltiamo, vecchio mio?” e lui aveva annuito con il capo.

Precipitarono. Charlie strillò. Ma non furono strilli di gioia.


I Bon Ton Alley è un complesso che consiste, naturalmente, di piste per bowling, e naturalmente di un bar; ma sono state fatte molte aggiunte. Ai dispensatori di salviette di carta, per esempio, sono stati affiancati i dispensatori di salviette più delicate, con cui le signore possono togliersi il rossetto. Tendine spumeggianti anche nel bar e una balza lunga fino a terra attorno al banco dei pretzel e delle uova.

La ragazza del bar è diventata in un certo senso una cameriera. E chi può rintracciare le tappe dell'evoluzione della birra in lattine ai pink ladies e addirittura, scusate l'espressione, al vermouth e soda? I tavoli da biliardo sono stati tolti e sostituiti da un Moschetto di articoli da regalo.

Lì siedono Jeannette Railes e la sua vicina, Tillie Smith, davanti a un frappé di créme di menthe ben meritato (specialmente Tillie, che stava diventando una giocatrice di bowling di prim'ordine) e stanno parlando delle faccende più importanti della serata… ossia di affari.

«In pubblicità, un account è un account» dice Jeannette «e un copywriter è un copywriter. Così, perché il vecchio Beerbelly continua a impicciarsi del settore copy?»

Tillie sorseggia, lecca delicatamente. «Anzianità» dice, una parola che spiega tante cose. Suo marito lavora nell'ufficio public relations delle Industrie Cavalier.

Jeannette corruga la fronte. Suo marito lavora per l'agenzia che cura l'immagine pubblicitaria delle Cavalier. «Ma non può farcela pesare.»

«Oh» sbadiglia Tillie, il cui marito è un po' più anziano e senza dubbio, sotto molti aspetti, molto più acuto di Herb «quei tipi dell'account sono facili da trattare, perché sono così spaventosamente bravi, quando si tratta di vedere quello che hanno sotto il naso.»

«Che cosa intendi dire?»

«Come quel vecchio Trizer che c'era da Cavalier, una volta» dice Tillie. «Uno dei ragazzi… adesso non domandarmi chi… voleva un po' più di posto nell'ufficio, così ha parlato con il Grand'Uomo… sai, scherzando… e ha fatto una specie di scommessa, ha detto che avrebbe fatto arrivare fino al soffitto il conto spese, e il vecchio Trizer non sarebbe mai riuscito a pescare l'errore.» Sorseggia, ride leggermente.

«E che cosa è successo?» chiede Jeannette.

«Oh, il vecchio Trizer sapeva che mio… uh, che questo tale ce l'aveva con lui, così quando cominciarono ad arrivare le strisce delle calcolatrici, pesantemente truccate, cominciò tranquillamente ad ammucchiarle fino ad averne un mucchio abbastanza grosso per farlo ricadere sulla testa di quel ragazzo. Ma il ragazzo le passava con tanta cautela che occorse un certo tempo. Intanto, naturalmente, il Grand'Uomo ne riceveva una copia ogni volta, così, tanto per mantenere vivo lo scherzo. Così, quando Trizer fu pronto a fare scoppiare la bomba, erano passate cinque settimane, ed era passato troppo tempo perché il Grand'Uomo trovasse lo scherzo ancora divertente. Così spedirono il vecchio Trizer al piano di sopra, in uno degli ultimi ranghi del Consiglio di Amministrazione, dove la sua anzianità non poteva far male ad altri che a lui.»

«L'hanno condito a puntino» dice Jeannette.

Tillie ride. «Mi fa venire in mente il nome di una pasticceria: Candito a Puntino.»

«Candito a Puntino… oh, sì» dice Jeannette, illuminandosi. «Herb potrebbe usarlo nella presentazione che sta preparando per ottenere un contratto pubblicitario con le pasticcerie Big Bug. Sii buona e non farne parola con nessuno. Glielo dirà lei a Herb, ma nel linguaggio delle cavallette; salta, ragazzo, salta.»


Erano ritti sull'elastico tappeto erboso: Charlie teneva le ginocchia ripiegate, e il suo compagno lo cingeva con un braccio, sorreggendolo. Charlie si scosse, sì raddrizzò e, quando poté, guardò in alto. Poi rabbrividì con tanta violenza che il braccio lo strinse più forte. Fece uno sforzo immenso, sogghignò e scostò il braccio. Il suo compagno gli fece un discorsetto, con dei gesti che indicavano l'alto, il basso, la velocità, la bozza sulla fronte di Charlie, un concentrato di umiltà che probabilmente includeva anche “Mi dispiace”. Charlie sogghignò ancora, gli batté debolmente una mano sulla spalla. Poi gettò in alto un altro sguardo preoccupato e si allontanò dall'edificio. Non era soltanto troppo grande e troppo alto; la sua mole sembrava incombere su di lui come un pugno. Era una struttura architettonica pazzesca quanto l'altra, solo aveva più la forma di un ragno che di un cono, era più base che sommità.

Attraversarono il prato — sembrava non vi fossero né strade né sentieri — e se Charlie aveva pensato che lo strano abbigliamento del suo compagno potesse attirare l'attenzione, si era sbagliato di parecchio. Era lui, invece, ad essere una stranezza. Non che la gente curiosasse o si affollasse intorno; no, per nulla. Ma si intuiva, dai loro allegri gesti di saluto e dalla rapidità con cui distoglievano lo sguardo, che erano incuriositi e che tuttavia consideravano fuori luogo quella curiosità.

Girarono attorno all'edificio, e trovarono una cinquantina di individui che sguazzavano in una piscina. Come costumi da bagno indossavano soltanto quelle morbide, seriche sporran, che aderivano loro addosso senza visibili sostegni; ma ormai lui era pronto ad accettare quel particolare. Senza eccezione, furono seri ed educati nell'accoglierlo, con un cenno della mano, un sorriso, una parola, e furono sinceramente felici di vedere il suo compagno.

Quelli che erano lontani dalla piscina indossavano abiti di vario tipo e di stili diversi… erano spesso appaiati, anche se Charlie non riusciva a capirne il motivo, se pure c'era un motivo. Qualche volta l'abbigliamento era costituito soltanto da un vivido nastro arancione, quasi fluorescente, attorno ai bicipiti, oltre naturalmente alla sporran, ma anche da pantaloni molto ampi, immensi colletti alla de' Medici, cappelli a pan di zucchero, sandali ortopedici… non c'erano limiti alla varietà e, ad eccezione di coloro che camminavano appaiati, non c'era somiglianza tra quegli indumenti, se non nella bellezza dei colori e nella ricchezza e assortimento dei tessuti. Quegli abiti erano evidentemente solo un ornamento. A differenza di qualunque altro popolo con cui fosse entrato in contatto o di cui avesse letto, non sembravano preoccuparsi di nascondere qualche parte del loro corpo.

Non vide neppure una donna.

Un posto strano. L'aria era particolarmente balsamica, e il cielo, sebbene fulgido — ora che guardava gli pareva avesse un po' della radiosità argentea che aveva visto nella sua cella imbottita — era offuscato. C'erano fiori a profusione; alcuni esalavano profumi carichi, intensissimi, e quasi tutti gli erano nuovi, e i colori erano spruzzati a mano libera, orgiasticamente. Il prato era impossibile come erano impossibili gli edifici… eguale ed elastico, dovunque completamente privo di fasce spoglie e di erbacce indesiderabili, ed era altrettanto perfetto lì, vicino agli edifici dove si muovevano decine di persone, quanto lo era in distanza.

Charlie venne condotto dietro all'edificio, attraverso un'arcata che pendeva inesplicabimente ma con eleganza a sinistra, e il suo compagno lo prese sollecitamente per il braccio. Prima che lui potesse chiedersi il perché di quel gesto, precipitarono per una sessantina di piedi, e si ritrovarono in un luogo che rassomigliava vagamente alla stazione di una metropolitana; solo che, invece di attendere un treno, salirono (o meglio, l'indigeno salì, Charlie vi fu trascinato) oltre l'orlo del marciapiede e Charlie provò la spiacevole sensazione di aver piegato le gambe per fare un salto mentre non c'era nessun salto da fare… perché il fossato era ricoperto, da una parte all'altra, dalla sostanza invisibile che li aveva levitati giù dall'edificio.

A metà percorso si fermarono e l'uomo lanciò un'occhiata indagatrice a Charlie; lui si preparò ad affrontare qualcosa di inatteso e annuì, e in qualche modo che Charlie non poté capire — gli sembrò una specie di gesto — si trovarono a volare in una galleria. Rimasero immobili e la sensazione di muoversi e di fermarsi fu appena avvertibile; qualunque cosa fosse la sostanza su cui erano ritti, li trascinò via a una velocità improbabile fino a che, dopo pochissimi minuti, tornarono a fermarsi davanti a un altro marciapiede. Entrarono in una specie di grotta quadrata laterale e vennero lanciati in alto, fino al livello del suolo, sotto l'edificio conico. Si allontanarono dalla metropolitana, mentre Charlie cercava di ringoiare il proprio cuore: quanto allo stomaco, che li seguisse se aveva voglia di farlo.

Attraversarono una zona che sembrava il crocevia delle grotte: tutt'intorno gli indigeni scendevano e salivano a velocità fulminea sui loro ascensori invisibili; erano uno spettacolo piacevole, con quegli abiti dai colori vivaci che svolazzavano. E l'aria era piena di musica; dapprima pensò che fosse una specie di sistema di comunicazione pubblico, ma poi si accorse che era la gente a cantare; sotto voce, mentre andava da un luogo all'altro, nella galleria e fuori, con armonie bellissime; tutti canterellavano e trillavano.

Poi, quando si avvicinarono a una parete, vide qualcosa che lo sbalordì a tal punto di fargli dimenticare l'esperienza di venir lanciato in alto per un centinaio di metri, come un seme: rimase immobile, stordito dallo sbalordimento, lasciandosi sospingere e guidare qua e là, completamente privo di punti di riferimento.

Due degli uomini che lo incrociarono nel crocevia erano incinti. Non c'era possibilità di errore.

Lanciò un'occhiata di traverso al suo sorridente compagno… il viso forte, le braccia muscolose, le gambe robuste… era vero che avevano il mento molto liscio e i… ehm, i muscoli pettorali molto prominenti. L'areola era considerevolmente più grande di quella di un uomo… d'altronde, perché no? Anche gli occhi erano considerevolmente diversi. Dunque… vediamo. Se “lui” era una donna allora erano tutte donne. E allora, dove erano gli uomini?

Ricordò come lei… lui… insomma, come quella creatura l'aveva sollevato, la prima volta, tra le braccia, come un sacco di patate. Bene, se le donne erano capaci di far questo… che cosa avrebbero potuto fare gli uomini?

Cominciò a immaginare dei giganti… autentici colossi alti tre o quattro metri.

Poi immaginò alcuni minuscoli fuchi incatenati in una… una stazione di servizio, nei sotterranei…

E poi cominciò a preoccuparsi per la propria sorte.

«Dove mi stai portando?» domandò.

La sua guida annuì e sorrise e lo prese per il braccio spingendolo in avanti.

Giunsero in una stanza.

La porta si aprì… o piuttosto si dilatò; era una porta ovale, e si divise in mezzo e si aprì con uno scatto quando si avvicinarono e si rinchiuse di scatto, entusiasticamente, dietro di loro.

Si fermò e si appoggiò alla porta. Poteva farlo. La porta sembrava abbastanza robusta da poter reggere dieci uomini come lui, e non aveva neppure una maniglia.

Alzò lo sguardo.

E tutti lo guardarono.


Herb Railes va a trovare Smitty. I bambini dormono. Ha un baby-sitter elettronico grande come una radiolina tascabile. Bussa, e Smitty lo fa entrare.

«Ciao.»

«Ciao.»

Si dirige verso la credenza della zona pranzo del soggiorno di Smitty, depone il baby-sitter e inserisce la spina nella presa. «Che cosa stai facendo?»

Smitty solleva il piccino che aveva deposto sul divano quando era andato ad aprire la porta. Se lo carica sulla spalla, dove il piccino si aggrappa come un bavero.

«Oh» dice «sto solo badando alla bottega fino a che ritorna la padrona.»

«All'inferno la padrona» dice Herb.

«A casa sua, sei tu, il padrone?»

«Stai scherzando» dice Herb «ma se per caso era veramente una domanda, ti darò una risposta chiara.»

«E allora dammi una risposta chiara.»

«Tra la gente come noi, in casa non ci sono più padroni.»

«Già, credo che la situazione ci stia sfuggendo dalle mani.»

«Non è questo che intendevo dire, testa di legno.»

«E allora che cosa intendevi dire, zuccone?» chiede Smitty.

«È una specie di squadra, ecco cosa volevo dire. Continuano a blaterare perché le donne si impadroniscono di tutto. Non si impadroniscono di niente. Si stanno solo associando.»

«Un pensiero interessante. Sei un bravo, bravo bambino» dice Smitty, in tono fatuo e cantilenante.

«Che cosa sono?»

«Lo dico al piccolo, stupido bastardo. Ha appena fatto un ruttino.»

«Fammelo vedere. Sono passati anni da quando ho preso in braccio un bambino così piccolo» dice il padre di Karen, che ha solo tre anni. Prende il piccino dalle mani di Smith e lo tiene un po' distante da sé. «Dedé dedé dedé.» E sporge la lingua ad ogni “d”. «Dedé dedé.»

Il piccino spalanca gli occhi e, poiché è sonetto per le ascelle, ingobbisce le spalle fino a che il mento umido affonda nel bavaglino. «Dedé dedé.» Gli occhi del bambino sembrano diventare improvvisamente a forma di mandorla, e la sua bocca ha un ampio sorriso sdentato, con una fossetta sulla guancia sinistra, e si sente un gorgogliare felice e aspirato in fondo alla sua gola. «Dedé dedé dedé, ehi, sorride» dice Herb.

Smith gira attorno a Herb Railes per vedere bene. «Accidenti» dice, impressionato. Avvicina la faccia a quella di Herb. «Dedé dedé.»

«Devi cacciar fuori la lingua, in modo che lui la veda muoversi» dice Herb. «Dedé dedé.»

«Dedé dedé dedé.»

«Dedé dedé.» Il piccino smette di sorridere e guarda prima l'uno poi l'altro. «Così lo confondi.»

«E allora stai zitto» dice il padre del piccino. «Dedé dedé dedé.» Questo diverte il bambino, che gracchia e si fa venire il singhiozzo.

«Scheiss» dice Smith. «Vieni in cucina che gli prendo l'acqua.»

Vanno in cucina, Herb con il bambino in braccio, e Smith tira fuori una bottiglia da cento grammi dal frigorifero e la mette in un riscaldatore elettrico. Prende il bimbo dalle mani di Herb e se lo riappende alla spalla. Il bambino singhiozza violentemente. Lui gli dà qualche pacca sulla schiena. «Accidenti, avevo promesso a Tillie che avrei messo in ordine io, qui dentro.»

«Farò il boy-scout. Tu hai le mani occupate.» Herb toglie i piatti dal piano del banco, li raschia sulla pattumiera, li ammonticchia nel lavello. Apre l'acqua calda. È tutto molto familiare, per lui, perché quel lavello e il suo lavello e i lavelli di tutte le case a destra e a sinistra e avanti e indietro sono tutti dello stesso tipo. Prende il barattolo del detergente liquido e lo guarda sporgendo le labbra. «Noi non lo adoperiamo più.»

«Perché?»

«Rovina le mani. Adesso prendiamo il Lano-Love. Costa un po' di più, ma» dice, e finisce la frase con quel “ma”.

«“Due mani meravigliose per quattro soldi in più”» dice Smith, citando un carosello televisivo.

«Non è solo pubblicità è proprio vero.»

Herb apre completamente l'acqua calda, la tempera con un po' d'acqua fredda, solleva il doccino e comincia a sciacquare uno per uno i piatti.


Erano quattro, oltre a quello che l'aveva condotto lì. Due indossavano abiti identici… una specie di fascia ventrale d'un verde vivo e, sui fianchi, il paniere di una gonna a paniere. Ma senza la gonna. Quello più alto, che stava di fronte a Charlie, indossava una specie di accappatoio rovesciato come quello del compagno di Charlie, ma di un arancione acceso. Il quarto indossava qualcosa che somigliava alla parte inferiore d'un costume da bagno maschile del 1890, in azzurro elettrico.

Ogni volta che lo sguardo sbalordito di Charlie si posava su uno di loro, quello sorrideva. Erano tutti distesi, appoggiati, sdraiati su basse panchine e su certi strani sgabelli che sembravano cresciuti dal pavimento. L'essere più alto era seduto a una specie di scrivania che sembrava che gli (o le) fosse stata costruita avanti e attorno. I loro caldi sorrisi amichevoli, il loro atteggiamento rilassato erano incoraggianti, eppure lui aveva la fuggevole sensazione che quella cordialità fosse analoga ai rituali saluti del mondo affaristico moderno, che non significavano niente per un estraneo, ma che cominciavano sempre con: «Se sieda. Si tolga le scarpe, se vuole… qui siamo tra amici. Prenda un sigaro e non mi chiami “signore”».

Uno dei due, quello in verde, parlò a quello in arancione nei toni da colomba tipici di quella gente, indicò Charlie e rise. Come la risata del suo compagno, non sembrava che fosse una risata alle sue spalle. Poi il suo compagno parlò, e il divertimento fu generale. Charlie vide la sua ex-guida, con l'accappatoio rosso e tutto il resto, accucciarsi per terra, con gli occhi chiusi e tastare freneticamente sul pavimento. Poi cominciò a strisciare sulle ginocchia e su una mano, tastando spaventato l'aria davanti a sé, con la faccia atteggiata a una maschera di comico terrore.

Gli altri ulularono.

Charlie sentì i lobi delle orecchie diventare scottanti, un fenomeno indicativo, in lui, o di collera o di ubriachezza, e sapeva benissimo di non essere ubriaco. «Voglio ridere anch'io» tuonò. Gli altri lo guardarono perplessi, senza smettere di ridere, mentre Accappatoio Rosso continuava la sua imitazione di un uomo del ventesimo secolo che si trovava per la prima volta alle prese con un ascensore invisibile.

Qualcosa scattò dentro Charlie Johns, che era stato spinto, tirato, trascinato, lanciato, scagliato, sbalordito, imbarazzato e sconvolto esattamente un po' più di quanto potesse sopportare. Puntò educatamente il piede contro il posteriore avvolto nella stoffa rossa, e mandò la creatura a fare uno scivolone attraverso la stanza, fin quasi ai piedi della scrivania dell'individuo abbigliato di giallo.

Cadde un profondo silenzio.

Lentamente l'individuo in rosso si alzò, si girò verso di lui, tastandosi con grazia il posteriore offeso.

Charlie si appoggiò più saldamente alla porta che non dava segno di volersi aprire e attese. Uno dopo l'altro, incontrò cinque paia di occhi. Non c'era collera, in quegli occhi, e poca sorpresa; solo dispiacere; e a Charlie sembrò più malaugurante del furore. «Be', accidenti!» disse all'Accappatoio Rosso «te la sei voluta!»

Uno di loro tubò, un altro gorgogliò in risposta. Poi quello vestito di rosso si fece avanti con una versione molto più elaborata della serie di gemiti e di gesti che Charlie aveva visto e sentito; il messaggio: «Sono un porco non volevo offenderti».

Charlie capì, ma ne fu seccato. Aveva voglia di dire: be', se capisci di aver sbagliato, perché sei stato così stupido da sbagliare?

Quello vestito di giallo si alzò lentamente, con imponenza, districandosi dall'abbraccio della scrivania.

Con espressione calorosa e compassionevole, proferì una parola di tre sillabe e fece un gesto, e dietro di lui una porta si aprì, o piuttosto una parete si dilatò. Vi fu un sommesso ululato di assenso, e tutti annuirono e sorrisero e fecero gesti di richiamo e indicarono quel passaggio.

Charlie Johns avanzò quel tanto che bastava per veder oltre apertura. Ciò che vide era, come aveva immaginato, scarsamente familiare, ma quel mucchio di ordigni affusolati, stranamente sbilanciati e fusi l'uno nell'altro, non poteva nascondere la funzione della piatta tavola imbottita in mezzo a un cerchio di luce, l'oggetto a forma di elmo a una estremità, le morse in cui dovevano venire infilate le braccia e le gambe; era una specie di sala operatoria, e lui non ne voleva sapere.

Indietreggiò bruscamente, ma dietro di lui c'erano tre persone. Sferrò un pugno e si accorse che glielo avevano bloccato. Cercò di scalciare, e una gamba nuda scattò e gli bloccò le ginocchia, ed era veramente una gamba molto forte. L'individuo vestito di arancione avanzò, sorridendo con fare di scusa e premette una sfera bianca, grande come una pallina da ping-pong, contro il bicipite destro di Charlie. La sfera ticchettò e si afflosciò. Charlie si riempì i polmoni per urlare ma non riuscì mai a ricordare se era riuscito ad emettere un suono.


«Visto?» dice Herb. Sono nel soggiorno di Smith, e Herb sfoglia pigramente le pagine del giornale. Smith sta dando da bere al piccino che tiene abilmente disteso lungo il braccio e dice: «Cosa?».

«Mutandine ridottissime… ma per uomo.»

«Vuoi dire da portare come biancheria?»

«Come i bikini, soltanto ancora più piccole se è possibile. A maglia. Mio Dio, non possono pesare più di dieci grammi.»

«Anche meno. È la cosa migliore che abbiano inventato, dopo la cipolla da cocktail.»

«Tu le hai già prese?»

«Puoi star sicuro. A quanto le offrono lì?»

Herb consulta l'annuncio pubblicitario sul giornale. «A un dollaro e mezzo.»

«Vai allo Spaccaprezzi sulla Quinta Strada. Due paia per due e settantatré.»

Herb guarda le illustrazioni. «Ci sono in bianco, nero, giallo chiaro, celeste e rosa.»

«Yup» dice Smitty. Ritira con cura il poppatoio; il bambino, che adesso non ha più il singhiozzo, si è addormentato.


«Su Charlie… svegliati!»

Oh Mamma ancora quattro minuti non farò più tardi ti giuro sono rientrato quasi alle due e spero che tu non sappia mai quanto ero sottosopra e lascia perdere l'ora. Mamma?

«Charlie… non so dirti quanto mi dispiace.» Ti dispiace, Laura? Ma io volevo che fosse perfetto. Perché chi, nella vita reale, riesce perfettamente, la prima volta? Su, su… è molto facile da sistemare; lo faremo ancora… Oh-h-h… Charlie.

«Charlie? Ti chiami Charlie? Chiamami solo Rossa.»

…una volta quando avevo quattordici anni (ricordava) c'era una ragazzina che si chiamava Ruth e c'era una specie di festicciola per ragazzi e, senza scherzi, giocavano all'ufficio postale. L'ufficio postale era una specie di compartimento stagno formato dalla doppia porta esterna e dalla doppia porta interna, coperta da tende pesanti, nella vecchia casa di Sansom Street, e per tutta la festa Charlie aveva continuato a guardare Ruth. Lei aveva quel tipo speciale di pelle calda e olivastra e i capelli corti, fini e lucenti, d'un nero dai riflessi azzurri. Aveva una voce melodiosa e sussurrante, una bocca contegnosa e gli occhi timidi. Aveva paura di guardarti per più di un secondo, e con quella pelle olivastra un rossore lo intravedevi appena, ma anche senza veder nulla capivi che era un rossore a riscaldarla. E quando le risatine e le dita puntate e il chiacchiericcio finirono per indicare il nome di Charlie e poi quello di Ruth, perché entrassero insieme nell'ufficio postale e chiudessero la porta, qualcosa dentro di lui disse soltanto: «Bene, certo!». Charlie le aprì la porta e lei entrò con gli occhi così bassi che sembravano chiusi; con le lunghe ciglia quasi posate sulle guance calde; con le spalle piegate per la tensione e stringendosi i polsi tra le mani; facendo passetti minuscoli; e Charlie strizzò l'occhio al pubblico che rumoreggiava e intimava il suono dei baci, poi chiuse la porta… e lei aspettava, in silenzio, e lui era un galletto sfacciato e aveva bisogno di avere quella reputazione, e la prese saldamente per le spalle. Per la prima volta lei svelò gli occhi timidi e saggi e lasciò che lui precipitasse in quella remota oscurità, dove galleggiò, senza muoversi, per secondi che parvero lunghi quanto anni; e lui disse: «È tutto quello che voglio fare con te, Ruth» e la baciò con grande cautela, molto leggermente, sulla fronte liscia e calda e si tirò di nuovo indietro per guardare in quegli occhi. «Perché, Ruth» disse «è tutto quello che oserei fare con te.» Tu mi capisci, Charlie, mormorò lei, tu sì, tu mi capisci.

«Tu mi capisci, Charlie. Tu sì, tu mi capisci.»

Aprì gli occhi e le nebbie fuggirono. Qualcuno si chinò su di lui, non Mamma, non Laura, non la Rossa non Ruth, non qualcuno ma quella cosa nell'accappatoio rosso, che disse ancora: «Adesso tu mi capisci, Charlie».

Quelle parole non erano inglese, ma per lui erano chiare come l'inglese.

Lui capiva persino la differenza. La struttura era diversa; tradotta, quella frase avrebbe significato press'a poco: «Tu (seconda persona singolare, ma in una forma alternativa che non denotava intimità né formalità, ma amicizia e rispetto, come se fosse un vocativo rivolto a uno zio molto caro) mi (un “mi” che indicava una utile assistenza e un'amichevolezza, quale poteva venire da un consigliere o da una guida, e non indicava, invece, una superiorità legale o altro) capisci (nel semplice senso verbale, piuttosto che nel significato di comprensione emotiva o psichica), Charlie». Era completamente consapevole di tutte le parole alternative e del loro contenuto semantico, ma non del sistema culturale che le aveva foggiate in quel modo, ed era consapevole che, se avesse desiderato rispondere in inglese, avrebbe potuto farlo. Era stato aggiunto qualcosa: non gli era stato tolto nulla.

Si sentiva… benissimo. Si sentiva come se fosse stato un poco senza dormire, e si sentiva un po' intimidito dalla nuova certezza interiore che la sua indignazione di poco prima era stata assurda quanto la sua paura; quella gente non aveva avuto intenzione di ridicolizzarlo e non dava il minimo segno di volergli fare del male.

«Io sono Seace» disse l'individuo vestito di rosso. «Mi puoi capire?»

«Certo che posso!»

«Ti prego… parla ledom.»

Charlie riconobbe quella parola… era un termine che serviva per definire la lingua, il paese e il popolo. Usando la nuova lingua disse, stupito: «So parlarla!» Si rendeva conto di parlarla con un accento bizzarro, probabilmente a causa della mancanza di familiarità fisica; come qualsiasi altra lingua, conteneva suoni che le erano caratteristici, come la cadenza linguale del gaelico, quella nasale del francese, quella gutturale del tedesco. Eppure era una lingua ben progettata per l'orecchio: ricordò di colpo il piacere che aveva provato da ragazzo quando aveva visto una macchina da scrivere che aveva i caratteri corsivi, quasi da manoscritto, in cui le code arricciolate di ogni lettera si univano all'inizio della lettera seguente; e la sillaba ledom, dal punto di vista auditivo, si univa alla sillaba successiva con la stessa scioltezza.

Riempiva la bocca più dell'inglese moderno; come l'inglese elisabettiano, era uno strumento più sonoro. Sarebbe stato difficile pronunciare il ledom con le labbra aperte e la mascella immobile, come facevano tanti dei suoi contemporanei con l'inglese che, nella sua evoluzione, sembra destinato a confondere coloro che sanno leggere il movimento delle labbra. «Riesco a parlarlo!» gridò Charlie Johns, e tutti cantilenarono premurosi le loro congratulazioni; e lui non si era mai sentito così soddisfatto dal giorno che aveva sette anni ed era stato applaudito da tutti i ragazzi del campeggio estivo, quando aveva nuotato le sue prime bracciate.

Seace lo prese per un braccio e lo aiutò a mettersi a sedere. L'avevano vestito dell'equivalente d'una camicia da notte da ospedale. Guardò quel Seace (adesso ricordava che la frase “Io sono Seace” era ricorsa spesso, da quando lui era “arrivato”, ma allora il suo orecchio non era riuscito a separare un fonema dall'altro) e sorrise, sorrise veramente, per la prima volta, in quel mondo bizzarro. Questo provocò un altro mormorio di contentezza.

Seace indicò l'indigeno dall'indumento arancione.

«Mielwis» disse, presentandolo. Mielwis fece un passo avanti e disse: «Siamo tutti molto lieti di averti tra noi».

«E questo è Philos». L'individuo che indossava le ridicole mutande azzurre fece un cenno con il capo e sorrise. Aveva lineamenti netti e ilari, e un rapido e lucente scintillio negli occhi neri, che poteva nascondere molte cose.

«E questi sono Nasive e Grocid» disse Seace, completando le presentazioni.

I due vestiti di verde sorrisero e Grocid disse: «Sei fra amici. Vogliamo assicurarci che tu lo comprenda bene».

Mielwis, quello più alto, che gli altri parevano circondare di un'intangibile aura di rispetto, disse: «Sì, ti prego di crederlo. Fidati di noi. E… se c'è qualcosa che vuoi, chiedi».

Armoniosamente gli altri fecero coro, ratificando quella dichiarazione.

Charlie, che cominciava a provare una sensazione di calore verso di loro, si inumidì le labbra e rise, incerto.

«Credo che… credo di desiderare soprattutto qualche informazione.»

«Qualsiasi cosa» disse Seace. «Qualsiasi cosa tu voglia sapere.»

«Ecco, allora, per prima cosa… dove sono

Mielwis attese che gli altri lasciassero a lui il compito di rispondere, poi disse: «Nel Centro Medico».

«Questo edificio è chiamato il Centro Medico» gli spiegò Seace. «L'altro, quello da cui siamo venuti, è il Centro Scientifico.»

Grocid disse, in tono reverente: «Mielwis è il capo (la parola significava “organizzatore” e “comandante” e qualcosa di più sottile e di più profondo come “ispiratore”) del Centro Medico».

Mielwis sorrise come se accettasse un complimento e, tutto compiaciuto disse: «Seace è il capo del Centro Scientifico».

Seace accennò che anche quello era un complimento e, tutto compiaciuto, disse: «Grocid e Nasive sono i capi del Centro dei Bambini. Immagino che vorrai vederlo».

I due che portavano il paniere accettarono l'investitura e Grocid tubò: «Spero che verrai presto».

Charlie guardò prima uno poi l'altro, sbalordito.

«Quindi vedi» disse Seace (e quel “vedi” significava “comprendi”; era come “adesso sai tutto”) «noi siamo tutti qui con te.»

L'esatto significato di quella frase sfuggì a Charlie, sebbene avesse l'impressione che fosse qualcosa di molto grande, come se qualcuno gli avesse presentato, nello stesso tempo, la regina, il presidente e il papa. Quindi, lui disse la sola cosa che riuscì a pensare, cioè: «Be' grazie…» e questo sembrò soddisfarli; poi guardò alla sola persona rimasta senza identificazione… Philos, quello coi pantaloni. Sorprendentemente, Philos gli strizzò l'occhio, e Mielwis disse distrattamente: «Philos è qui per te da studiare».

Il che non è precisamente ciò che disse. La frase era formata con una peculiare torsione grammaticale, qualcosa come quando qualcuno dice: “Io non mi piace le cipolle”, quando intende dire “Le cipolle non mi piacciono” (o almeno, quando dovrebbe dire così). In ogni caso, Philos non pareva meritare speciali onori o congratulazioni per il suo incarico, a differenza dei capi del Centro Medico, del Centro Scientifico, del Centro dei Bambini. Forse era soltanto un tale che lavorava lì.

Charlie accantonò il pensiero per ritornarvi più tardi e poi si guardò intorno. Gli altri gli restituirono lo sguardo, attentamente.

Charlie tornò a chiedere: «Sì, ma dove sono?»

Gli altri si guardarono l'un l'altro, poi fissarono lui. Seace chiese: «In che senso intendi, dove sei?»

«Oh» disse Seace agli altri «vuole sapere dov'è.»

«A Ledom» disse Nasive.

«E dov'è Ledom?»

Ancora quell'incrociarsi di sguardi. Poi Seace, con un'espressione che denotava l'inizio della comprensione, disse: «Vuole sapere dove si trova Ledom!».

«Sentite» disse Charlie, con quella che gli pareva una ragionevole dose di pazienza «cominciamo dal principio. Che pianeta è questo?»

«La Terra.»

«Bene, e adesso… La Terra

«Sì, la Terra.»

Charlie scrollò il capo. «Non la Terra che conosco io.»

Tutti guardarono Philos, che alzò le spalle e disse: «Probabilmente è così».

«È uno scherzo di questa lingua» disse Charlie. «Se questa è la Terra io sono…» In quel luogo, con quella gente, non riuscì a pensare a una similitudine abbastanza fantastica. «Lo so!» disse, all'improvviso. «Ci deve essere una parola che significa Terra, il pianeta su cui viviamo, in ogni lingua! Voglio dire, la parola marziana per Marte sarebbe Terra. La parola venusiana per Venere, sarebbe Terra.»

«Straordinario!» disse Philos.

«Tuttavia» disse Mielwis «questa è la Terra.»

«Il terzo pianeta del Sole?»

Annuirono tutti.

«Stiamo tutti parlando dello stesso sole?»

«Istante dopo istante» mormorò Philos «nulla rimane identico.»

«Non confonderlo» disse Mielwis con un tono rigido come una sbarra di ferro. «Sì, è lo stesso sole.»

«Perché non volete dirmelo?» gridò Charlie. La sua emozione sembrava imbarazzarli.

«Te lo stiamo dicendo. Te l'abbiamo detto. Questa è la nostra intenzione» disse Seace, con calore. «In quale altro modo possiamo rispondere? Questa è la Terra. Il tuo pianeta, il nostro. Siamo nati tutti qui. Anche se in tempi diversi» aggiunse.

«Tempi diversi? Vuoi dire… viaggi nel tempo? È questo che state cercando di dirmi?»

«Viaggi nel tempo?» fece eco Mielwis.

«Tutti noi viaggiamo nel tempo» mormorò Philos.

«Quando ero ragazzo» spiegò Charlie «leggevo molta fantascienza. Voi avete qualche cosa del genere?»

Quelli scossero il capo.

«Storie che parlano… ecco, soprattutto del futuro, ma non sempre. Comunque, molte di quelle storie erano sulle macchine del tempo… ordigni che potevano portarti nel passato o nel futuro.»

Lo guardarono tutti, con fermezza. Nessuno parlò. Charlie ebbe la sensazione che nessuno volesse parlare.

«Una cosa è certa» disse alla fine Charlie, tremando «questo non è il passato.» Si sentì atterrito, all'improvviso. «È così, non è vero?» Io sono… io sono nel futuro?»

«Straordinario» mormorò Philos.

Mielwis disse dolcemente: «Non credevamo che saresti arrivato presto a questa conclusione».

«Ve l'avevo detto» disse Charlie. «Io leggevo…» E, con suo grande orrore, cominciò a singhiozzare.


Il piccino dorme, e dal citofono elettronico, il cui compagno è appeso a un sostegno della porta tra le stanze di Karen e Davy nell'altra casa, giunge soltanto un sommesso ronzio a 60 cicli. Le mogli non sono ancora rientrate dal bowling. Tutto è tranquillo. Bevono. Smitty è mezzo sdraiato sul divano. Herb guarda la televisione, che è spenta, ma la poltrona in cui è avviluppato è piazzata in modo tale che è fisicamente impossibile guardare altrove e rimanere comodi. Così, sullo schermo spento, lui guarda i suoi pensieri. Ogni tanto ne formula uno a voce alta….

«Smitty?»

«Eh.»

«Se dici certe parole a una donna, lei si spegne.»

«…cosa stai parlando?»

«“Differenziale”» mormora Herb. «“Potenziale”.»

Smitty gira su se stesso quel tanto che basta per posare i piedi sul pavimento e per levarsi a sedere.

«“Trasmissione” mormora Herb. «“Potenziale”.»

«“Trasmissione” che cosa, Herb?»

«“Frequenza” è un'altra. Voglio dire, tu prendi una bravissima donna, piena di buon senso e tutto il resto. Giocando a bridge è capace di far sottili varianti all'italiana senza scomporsi. Forse ha addirittura un segnatempo automatico nella testa perché riesce a togliere dal fuoco un uovo che deve cuocere quattro minuti esattamente dopo quattro minuti, senza bisogno di orologio. Voglio dire, ha intuizione, intelligenza, tutto.»

«E allora benissimo.»

«Benissimo. E adesso tu comincia a spiegarle qualcosa che contenga una di quelle parole-interruttore. Per esempio, che finalmente puoi comprare una macchina con un congegno che blocca le due ruote posteriori in modo che girino insieme, in modo che tu puoi tirarti fuori dai guai quando una delle ruote è finita sul ghiaccio. Magari lei ha letto qualche cosa in proposito su un annuncio pubblicitario, e ti chiede qualche spiegazione. Tu dici, be', è solo che si può escludere l'effetto del differenziale. Non appena dice quella parola, vedi subito che lei si è spenta. Così tu le spieghi che il differenziale non è complicato per niente, è quel congegno in fondo alla trasmissione che rende possibile alla ruota posteriore all'esterno di ruotare più rapidamente della ruota all'interno. Ma intanto che parli puoi vedere che lei è spenta, e resterà spenta fino a che le parlerai di quell'argomento. Anche “frequenza”.»

«Frequenza?»

«Sì, l'ho citato l'altro giorno e Jeannette si è come spenta, così io mi sono interrotto e le ho detto, ehi, cos'è la frequenza, in fin dei conti? E sai che cosa mi ha detto lei?»

«No, che cosa ha detto?»

«Ha detto che era un pezzo di un apparecchio radio.»

«Be', diavolo, sono donne.»

«Non capisci dove voglio arrivare, Smitty. Be', diavolo, sono donne, diavolo! Non puoi accantonare il problema in questo modo.»

«Sì che posso. È molto più semplice.»

«E invece a me dà fastidio, ecco. Una parola come “frequenza”, ecco; è un buon inglese. Dice quello che deve dire. “Frequente” significa spesso, “frequenza” significa quanto spesso succede qualche cosa. “Cicli”, ecco un'altra parola-interruttore… e dice quello che deve dire, anche quella. Da un punto allo stesso punto, dopo aver fatto il giro. Oppure da avanti a indietro e poi ancora avanti, il che all'incirca è lo stesso. Ma comunque, tu di' a una donna “una frequenza di ottomila cicli al secondo” e lei si spegne due volte di fila, contemporaneamente.»

«Be', non hanno la mentalità tecnica, ecco tutto.»

«Non ce l'hanno? Le hai mai sentite parlare di vestiti, e i gheroni e le pieghe e le doppie cuciture alla francese eccetera? Hai mai visto una donna lavorare su una di quelle macchine da cucire a doppio ago a retromarcia che fanno i punti sbiechi e tutto il resto? O magari in ufficio, mentre manovra una macchina per contabilità a partita doppia?»

«Be', non capisco ancora cosa ci sia di male se non si prendono il disturbo di sapere cos'è un differenziale.»

«Adesso ci sei arrivato, o quasi! “Non si prendono il disturbo di pensarci”. Non vogliono pensarci. Possono farlo… possono risolvere faccende molto più complicate, ma non vogliono. E perché?»

«Credo che secondo loro non sia roba da signore o qualcosa del genere.»

«E perché diavolo non dovrebbe essere roba da signore? Hanno diritto al voto, guidano l'auto, fanno mille cose che un tempo facevano solo gli uomini.»

«Allora non so perché» brontola Smitty, e si allunga dal divano per prendere il suo bicchiere vuoto, poi va a prendere quello di Herb. «Quello che so io è questo: se è questo che vogliono, lascia che facciano. Sai che cosa ha comperato Tillie ieri? Un paio di stivali da deserto. Già, proprio come i miei. Io dico, e lascia che abbiano le loro maledette parole-interruttore. Forse così, quando mio figlio sarà cresciuto, quello sarà il modo con cui potrà distinguere suo padre da sua madre, e quindi vive la difference.»


Dalla sala operatoria, lo condussero in una stanza e gli dissero che era la sua, e gli dissero addio nel modo antico: era il “Ti raccomando a Dio” da cui si era evoluto “addio”. Era il primo incontro di Charlie con la parola ledom per Dio e con il loro modo di servirsene, e ne fu fortemente impressionato.

Si sdraiò, solo, in una stanza piuttosto piccola, decorata con buon gusto in vari toni di azzurro. Una parete era completamente occupata da una finestra e si affacciava su di un paesaggio simile a un parco e sul quel Centro Scientifico in equilibrio precario. Il pavimento era un po' ineguale, come molti di quelli che aveva già visto lì, elastico ed evidentemente impermeabile, progettato in modo che fosse facile pulirlo inondando d'acqua la stanza. In un angolo e in altri due punti della stanza il pavimento si sollevava a formare funghi o morbidi macigni che costituivano i sedili: l'oggetto nell'angolo poteva venire modificato, per mezzo della pressione esercitata da un minuscolo pannello, in modo da diventare più ampio, più stretto, più alto e fornito di protuberanze, rigonfiamenti e sporgenze, nel caso che qualcuno desiderasse un sostegno sotto le spalle o sotto le ginocchia.

Tre sbarre dorate e verticali accanto al “letto” controllavano le luci: una leva posta fra le prime due sbarre ne controllava l'intensità, abbassandole o alzandole, e una leva che si poteva alzare e abbassare allo stesso modo tra la seconda e la terza sbarra faceva scorrere l'intero arcobaleno dei colori. Un dispositivo identico era accanto alla porta… o più esattamente, accanto alla parete intatta in cui un segmento si dilatava quando si faceva un dato gesto verso un ghirigoro della vorticosa decorazione stampata sulla superficie. La parete accanto alla quale c'era il letto si piegava verso l'interno, la parte di fronte verso l'esterno, e non c'era neppure un angolo retto.

Apprezzò la premurosa comprensione con cui gli avevano offerto la necessaria intimità perché si potesse riprendere; si sentiva grato, incollerito, comodo, solo, spaventato, incuriosito e indignato, e quel miscuglio di sentimenti doveva raffreddarsi prima che fosse possibile ottenere un precipitato.

In principio fu abbastanza facile fantasticare, in quell'oscurità. Aveva perduto un mondo, e tanti saluti; fra una cosa e l'altra cominciava a sentirsene disgustato, e se avesse supposto che c'era il modo di lasciarlo senza rimetterci la pelle, gli sarebbe piaciuto farlo.

Si chiese che cosa poteva esserne rimasto. Avevamo fatto la guerra? Cosa vive adesso nel Taj Mahal… termiti o particelle alfa? E quel pagliaccio ha vinto le elezioni, poi, Dio ne guardi?

«Mamma, sei morta?»

Il padre di Charlie, che era stato così orgoglioso, quando lui era nato, e aveva piantato una sequoia, proprio in seme. Una sequoia a Westfield, nel New Jersey! Nel mezzo di una specie di bonifica abborracciata, diabolicamente progettata per essere antiquata dieci anni prima che venisse estinta l'ipoteca; l'aveva immaginata alta cento metri, alta sopra le rovine. Ma poi era morto di colpo, imperdonabilmente, lasciando gli affari in disordine e senza aver pagato i premi dell'assicurazione sulla vita, così che la madre di Charlie aveva venduto quel poco di roba che lui era riuscito a mettere insieme, e se n'era andata. E Charlie, quando ebbe diciassette anni, ritornò senza sapere cosa lo spingesse, in una specie di pellegrinaggio; e sebbene non avesse mai conosciuto suo padre, quando trovò la casa ancora là, ridotta alla baracca ignobile che suo padre aveva predetto, e quando trovò l'albero vivo e forte, fece una cosa strana; toccò l'albero e disse: «Va tutto bene, Papà». Perché Mamma non aveva mai avuto preoccupazioni e privazioni, finché lui era vissuto, e non ne avrebbe mai avute se lui avesse continuato a vivere; ma in un certo senso era convinto che suo padre sapesse tutto, ogni guaio, ogni stento, ogni umiliazione che lei subiva, e dentro di sé lei sembrava provare i sentimenti che può provare una donna cui il marito distrugge, poco per volta, l'amore e la sopportazione.

Così, vagamente, Charlie sentiva che doveva andare a dire quelle parole all'albero, come se suo padre vivesse là dentro, come un'amadriade o qualcosa di simile; gli pareva una cosa molto imbarazzante da ricordare, ma ricordava, ricordava.

Perché adesso quell'albero doveva essere colossale. O, se era passato abbastanza tempo, poteva essere morto… Se la rossa del Texas era una vecchia madama dal naso coperto di verruche in qualche città portuale, l'albero doveva essere maledettamente grande, e se Ruth (cosa diavolo era accaduto a Ruth?) era morta e sepolta, l'albero poteva essere la cosa più grande in tutto quel complesso nel North Jersey.

D'accordo; adesso era chiara una delle cose che doveva accettare.

Quanto era lontano? Quanto tempo era passato? (Non che potesse fare molta differenza. Erano passati vent'anni, e il mondo era cambiato e ostile ma forse era ancora troppo eguale, come quello di Rip van Winkle? O, se erano passati cento anni, o mille, che differenza avrebbe fatto, per lui?) Comunque: la prima cosa che doveva scoprirle: Quanto lontano?

E la seconda cosa che doveva capire riguardava direttamente lui, Charlie Johns. A giudicare da quello che era riuscito a scoprire fino a quel momento, non c'era nulla di simile a lui, lì, c'erano solo quei ledom, qualsiasi cosa fossero. E che cos'erano?

Ricordò qualcosa che aveva letto da qualche parte: era Ruth Benedict? Qualcosa a proposito del fatto che nessun concetto del linguaggio umano, come religione o organizzazione sociale, esisteva nella cellula germinale. In altre parole, prendi un bambino, di qualsiasi colore, di qualsiasi paese e trapiantalo altrove, e quel bambino crescerà simile alla gente della sua nuova patria. E poi c'era quell'articolo che aveva letto, e che esponeva la stessa idea, ma l'estendeva a tutta la portata della storia umana; prendi un bambino egizio dei tempi di Cheope, e trapiantalo nella moderna Oslo, e diventerà un norvegese, capace di imparare l'alfabeto Morse e magari di avere qualche pregiudizio contro gli svedesi.

Tutto ciò significava che il più attento studio della storia umana non era valso a dissotterrare un solo esempio di evoluzione umana. Il fatto che l'umanità fosse uscita dalle caverne e avesse finalmente creato tutta una complessa serie di civiltà non c'entrava; mettiamo che le siano occorsi trentamila anni per farlo, si può scommettere che se un gruppo di bambini moderni, abbastanza grandi per essere in grado di procurarsi il cibo, venisse abbandonato in un mondo selvaggio, impiegherebbe all'incirca lo stesso tempo per ricostruire tutto.

A meno che non intervenisse qualche balzo rivoluzionario immenso, come quello che aveva prodotto l'Homo sapiens. Ora, Charlie non sapeva ancora nulla sul conto dei ledom; nulla di cui valesse la pena di parlare; eppure era chiaro a) che erano umani e b) che erano drasticamente diversi da tutti gli umani del suo tempo. La differenza era ben più di una differenza sociale o culturale… molto superiore alla differenza, diciamo, tra un aborigeno australiano e un dirigente americano. I ledom erano fisicamente diversi in molti modi, alcuni sottili, altri spiccatissimi. Così, diciamo che si sono evoluti dall'umanità; e questa era una traccia per una risposta alla Prima Domanda: Quanto tempo? Ebbene, quanto tempo richiede una mutazione?

Non lo sapeva, ma poteva guardare alla finestra (standosene a tre rispettosi passi di distanza) e vedere una quantità di punti colorati che si muovevano nel parco sottostante; erano, o sembravano, adulti, e se le loro generazioni erano di una trentina d'anni, come erano di solito le generazioni, e se non deponevano le uova come i salmoni per poi lasciarle schiudere, allora, ecco, dovevano esistere da parecchio tempo. Per non parlare della loro tecnologia: quanto tempo occorreva per togliere quei difetti da un progetto architettonico come quello del Centro Scientifico?… Questa era una domanda cui era molto difficile rispondere.

Ricordò di aver letto una pubblicità, in una rivista, che elencava dieci cose di uso comunissimo, la carta di alluminio, un antibiotico, il latte in pacchetti, e così via, e rilevava che niente di tutto questo sarebbe stato possibile vent'anni prima. Se vivevi in una tecnologia come quella del ventunesimo secolo, eri destinato e vedere la valvola termoionica soppiantata dal transistor e questo dal diodo a tunnel, mentre nel giro di dieci anni, il satellite artificiale passava dal regno delle fantasie ridicole alla realtà di un mucchio di metallo che trasmetteva segnali dall'altra parte del sole. Forse lui era buffo quanto la vecchia indiana sulla scala mobile, ma non poteva trascurare il fatto che quella scala mobile, per quanto fosse estranea a quella donna, non era certo un prodotto del futuro.

Quindi tienilo presente, si disse d'impulso. Non sbalordirti. Tanta gente nel suo tempo non accettava affatto l'idea che la curva del progresso tecnologico non fosse una linea piatta e obliqua come un trampolino per tuffi in piscina, ma fosse invece una curva geometrica come un trampolino per i salti degli sciatori.

Quelle anime malinconiche e sconvolte soffrivano sempre attacchi di tardivo conservatorismo, si aggrappavano improvvisamente a questa o quella cosa in estinzione, cercando di mantenerla o di riportarla all'attualità. Non era un vero conservatorismo, naturalmente, ma solo la nostalgia inespressa dei cari, vecchi tempi quando si poteva predire che cosa sarebbe successo l'indomani, se non addirittura la settimana successiva. Incapaci di afferrare il grande quadro nella sua interezza, salutavano con gioia le nuove comodità, la miniaturizzazione di questo o l'accelerazione di quello, e poi si confondevano e si infuriavano quando l'accettazione di quelle cose cambiava il loro mondo.

Ebbene, lui, Charlie Johns, anche se non pretendeva di essere un cervellone, si era sempre reso conto che il progresso è dinamico, e che bisognava starvi sopra tendendosi un poco in avanti, come quando si è su una tavola da surf, perché, se si sta piantati a piedi piatti, si finisce per cadere in acqua.

Guardò di nuovo il Centro Scientifico, il cui equilibrio improbabile sembrava illustrare il suo pensiero. Dovrai protenderti in modi molto strani per stare in piedi su questa realtà, si disse… e questo lo riportò alla formulazione della Seconda Domanda.

Non doveva sprecare tempo e chiedersi in che modo era stato fatto. … in che modo lui era stato strappato dai logori scalini di legno tra il primo e il secondo piano della casa numero 61 della North 34th Street, nel suo ventisettesimo anno. Il modo era certamente qualcosa che riguardava la loro tecnologia, e lui non poteva certo comprenderlo. Poteva sperare di impararlo, in avvenire, ma non di dedurlo. E quello che doveva sapere era… perché?

Questa domanda si spezzava in un paio di segmenti. Aveva il diritto di pensare che portarlo lì era stata un'impresa gigantesca e importantissima… era un'ipotesi corretta. Giocherellare con lo spazio e col tempo non era certo una cosa di poco conto. Così c'era questo da considerare: perché era stata compiuta questa immensa, importante impresa? Vale a dire, che cosa ne ricavavano i ledom?

Ecco, poteva essere semplicemente una prova della loro attrezzatura: hai una nuova esca, e la provi, tanto per vedere che cosa puoi prendere. Oppure: avevano bisogno di un esemplare di un qualsiasi esemplare antico, di quella precisa zona di tempo e di spazio, così l'avevano pescato, e per caso quell'esemplare era Charlie Johns. Oppure: volevano Charlie Johns e non un altro, così l'avevano preso. E questa ipotesi, sebbene fosse logicamente la meno probabile, gli sembrava la più facile da accettare. Così la Seconda Domanda diventava: Perché proprio io?

E seguiva la Terza Domanda, come un corollario: Cosa faranno di me? Charlie Johns aveva i suoi difetti ma aveva anche una equilibrata stima di se stesso. Non era stato rapito né per la sua bellezza, né per la sua forza, né per la sua intelligenza, ne era certo, perché i ledom avrebbero potuto trovare di meglio nel suo vicinato. E non l'avevano certo scelto per qualche sua particolare capacità; Charlie si diceva spesso che lui non era un barbone soltanto perché lavorava sempre, o forse era comunque un barbone.

Aveva lasciato le scuole dopo la decima classe, quando la Mamma si era ammalata, e fra una cosa e l'altra non aveva mai ripreso gli studi. Aveva venduto biancheria per signora, frigoriferi, aspirapolveri ed enciclopedie, bussando a una porta dopo l'altra; aveva fatto il cuoco, aveva manovrato ascensori, aveva rimescolato il ferro in una acciaieria, aveva fatto il marinaio, l'imbonitore da fiera, il guidatore di bulldozer, il tipografo e il galoppino per una stazione radio.

Fra un lavoro e l'altro aveva venduto giornali, aveva fatto l'attacchino, aveva verniciato automobili e una volta, in una fiera commerciale mondiale, si era guadagnato da vivere sporcando i piatti con un tuorlo d'uovo poco cotto, per dimostrare come li avrebbe puliti una lavapiatti automatica.

Aveva sempre letto tutto quello su cui riusciva a mettere le mani, qualche volta a casaccio e qualche volta perché glielo aveva consigliato, direttamente o no, qualcuno cui aveva parlato; perché, dovunque andasse, attaccava facilmente, furiosamente discorso e aggrediva i cervelli della gente. La sua erudizione era vasta e piena di lacune, e qualche volta il suo modo di parlare lo dimostrava: usava parole che aveva letto e mai sentite usare, e lui le storpiava.

Così… lui era quello che era, e per questa ragione, o per un'altra, era stato strappato dal suo mondo e portato in questo.

Quindi, lo scopo dei ledom doveva essere stato quello di condurlo lì… o di toglierlo dal suo mondo!

Rifletté. Che cosa stava facendo, o che cosa si accingeva a fare, che il futuro non voleva che facesse?

«Laura» gridò forte. Era solo proprio all'inizio, era reale, era eterno. Forse era quello? Perché, se era quello, lui avrebbe trovato una via d'uscita, a costo di sfasciare quel mondo, a costo di gonfiarlo come un palloncino e di bucarlo.

Perché, ecco: se lui era nel futuro, portato lì per impedire qualche cosa che lui stava per fare nel passato, e se tutto questo coinvolgeva Laura, allora ciò che volevano impedire era che lui stesse con Laura, probabilmente: e la sola cosa che potesse avere importanza, per loro, era il fatto che lui e Laura avessero un figlio o più figli. Il che significava (aveva letto abbastanza fantascienza per riuscire a seguire facilmente questa congettura) che in qualche esistenza, in qualche flusso temporale o in qualche cosa del genere, lui aveva veramente sposato Laura e aveva avuto dei figli; e i ledom avevano deciso di interferire a questo proposito.

«Oh, Dio, Laura!» gridò… lei aveva i capelli che non erano né fulvi né biondi, avresti potuto definirli color albicocca, se non fosse stato un nome troppo vivace per quel colore; aveva occhi castani, ma così chiari che era proprio il castano che adoperavi al posto dell'oro, quando non avevi una vernice color oro. Lei si difendeva bene, senza timidezza, e quando si arrendeva, lo faceva con tutto il cuore. Aveva desiderato molte ragazze, lui, da quando aveva scoperto che erano qualcosa in più che strilli e risatine. Ne aveva amata qualcuna. Ne aveva avute parecchie — più di quante gli spettassero, aveva pensato talvolta — tra quelle che desiderava. Ma, prima di Laura, non aveva mai avuto una ragazza che lui amasse.

Era come con Ruth, quando lui aveva solo quattordici anni. Succedeva sempre qualcosa. In questi casi — era capitato spesso — lui aveva desiderato la ragazza che amava più di qualsiasi altra cosa, ma aveva anche desiderato di non rovinare tutto… Aveva fantasticato, ogni tanto; aveva pensato a un incontro delle quattro o cinque ragazze con cui questo era capitato, aveva immaginato che si consultassero per cercare di capire per quale ragione, pur amandole — e loro lo sapevano, tutte — lui si era tirato indietro. È non sarebbero mai riuscite a capirlo. Ebbene, ragazze, questa è le risposta, prendere o lasciare, la semplice risposta: non volevo sciupare tutto.

Fino ad ora.

«Ora!» urlò, forte, sbalordendo se stesso. Cosa diavolo significava “ora”??

…fino a Laura, fino a quella specie di resa totale. Solo, non potevi definirla una resa, perché anche lui si era arreso; si erano arresi tutti e due, insieme, nello stesso istante. Quella volta soltanto… e poi, mentre tornava, le scale…

La Seconda Domanda era: Perché proprio io? «Dovrai avere una buona giustificazione» mormorò rivolto al lontano, inclinato Centro Scientifico. E questo lo portava alla Terza Domanda: Che cosa faranno di me?, e al trauma provocato da quella domanda; lui doveva tirare avanti, in un modo o nell'altro, in quel luogo — e sentiva che sarebbe stato quasi sicuramente così — oppure doveva riuscire a tornare indietro. Doveva capirci qualcosa.

Doveva capirci qualcosa adesso. Posò la mano su tutte e tre le sbarre che controllavano la luce e la porta si dilatò. «Ti senti meglio?» chiese Philos.


Fuoricampo un gruppo di folletti urla “Goozle Goozle” all'unisono, e poi, con un rumore simile a quello provocato da un coperchio d'un bidone della spazzatura, arriva Wham Wham. Sullo schermo c'è una faccia; liscia, dalle labbra piene e lucenti, le sopracciglia sottili e arcigne, e arcigne è la parola adatta, e un collo robusto e muscoloso che spunta dal colletto aperto d'una giacca di pelle nera.


Goozle Goozle,
(Wham Wham)
Goozle Goozle,
(Wham Wham)
Goozle Goozle,
(Wham)

Ma invece del Wham che si ci aspetta (il televisore di Smitty ha un audio di autorità immensa, e quel wham ha una potenza subsonica che ti spaventa) la pensanti ciglia attorno agli occhi chiari si sollevano e interviene la voce, una voce calma e asessuata che canta un motivetto. Le parole dicono qualcosa a proposito di Teeee: io stringo teee, io bacio teee, io amo teee, eeee, eeee.

La telecamera indietreggia e il cantante viene mostrato in un movimento che si potrebbe spiegare sostenendo che, con immensa ambizione, lui sta cercando di stringere tra le natiche una piccola manopola collegata a un metronomo. Una esplosione di pigolii isterici costringe la telecamera a inquadrare la prima fila del pubblico, dove una ressa di ragazzine parlano e rabbrividiscono per l'impatto profondo con la propria femminilità. Ancora un'inquadratura del cantante che (deve essere proprio così) sta uscendo dal palcoscenico a cavallo d'un modello invisibile di bicicletta per esercizi ginnici, il cui manubrio va avanti e indietro, mentre i pedali girano e girano e la sella, la sella va su e giù.

Smith tende un braccio, afferra il telecomando, e spegne il televisore. «Gesù.»

Herb Railes si appoggia alla spalliera della grande poltrona, chiude gli occhi, alza il mento e dice: «Sensazionale».

«Cosa?»

«Ha qualche cosa per tutti.»

«Ti piace!» La voce di Smith si spezza sulla seconda parola.

«Non l'ho detto» fa Herb. Apre gli occhi e fa gli occhiacci a Smith, con scherzosa ferocia. «E non permetterti di sostenere che l'ho detto, capito?»

«Ma qualcosa hai detto.»

«Ho detto che è sensazionale e questo lo ammetto io e lo ammetti anche tu.»

«Lo ammetto.»

«E ho detto che ha qualcosa per tutti. Quando canta…»

«Squittisce.»

Herb ride. «Ehi, sono io l'esperto di pubblicità, qui dentro… Squittiscimi d'amore. Ehi, potrei utilizzare questa frase… Quando canta tutti coloro che sono spinti da una omosessualità aperta o latente, trovano in lui qualcosa da desiderare. I giovani torelli apprezzano le sue azioni e le sue passioni e sono dispostissimi a copiare la sua pettinatura e la sua giacca. E le donne, specialmente quelle più anziane, lo amano anche di più: per il suo viso da bambino e per i suoi occhi di fiore.» Alza le spalle. «Qualcosa per tutti.»

«Hai dimenticato di citare il tuo vecchio vicino ed amico Smitty» dice Smith.

«Be', chiunque ha bisogno anche di qualcosa da odiare.»

«Non stai scherzando, Herb?»

«No, non sto scherzando.»

«Mi preoccupi, ragazzo mio» dice Smith. «Quando fai così mi preoccupi.»

«Così come?»

«Quando parli sul serio.»

«È un male?»

«Gli uomini dovrebbero prendere sul serio il loro lavoro. Ma non dovrebbero prendere sul serio se stessi.»

«Perché, cosa capita a un uomo, in questo caso?»

«Diventa insoddisfatto.» Smith guarda Herb con occhi da gufo. «L'uomo che lavora in pubblicità vede, comincia a pensare seriamente ai prodotti, e fa ricerche serie, nel tempo libero. Si abbona, per esempio, al Bollettino del Consumatore. Si fa venire le idee, le prende sul serio. E ha un nuovo interesse e non riesce più a prendere sul serio il proprio lavoro.»

«Abbassa il fucile, Smitty» dice Herb, ma è impallidito un poco. «Se un uomo ha un nuovo interesse è una cosa seria.»

«E tutto il resto, al diavolo.»

«E tutto il resto, al diavolo.»

Smith accenna al televisore. «Non piace a me e non piacerà a nessuno.»

A Herb Railes viene in mente chi ha finanziato quello spettacolo di rock and roll. Un concorrente, Oh Dio, io e la mia lingua lunga. Vorrei che ci fosse Jeannette. A lei non sarebbe sfuggito.

«Ho detto che era uno show schifoso e che non mi piaceva» dice.

«Dovevi dirlo subito, Herbie, per farti capire.» Smith prende il bicchiere di Herb e va a riempirlo. Herb resta seduto e pensa come deve pensare un pubblicitario. Uno: Il cliente ha sempre ragione. Due: Datemi un pacchetto da cui escano tutti gli odori di tutti i peccati di tutti i sessi e io smuoverò il mondo. E quello, sbircia la grande cataratta spenta dell'occhio spento del televisore, quello ci andava maledettamente vicino.


«Mi sento male, molto male» disse Charlie Johns. Si accorgeva che, sebbene parlasse ledom, lo parlava come una lingua straniera — cioè, doveva pensare in quella lingua prima di parlare — e il suo idioma inglese filtrava bizzarramente, come quello di un francese che si ingarbuglia negli “it is not?”

«Capisco» disse Philos. Attraversò la stanza e si fermò accanto a uno dei sedili a fungo. Aveva indossato un indumento a strisce, bianco e arancio, simile a un paio d'ali che gli balzasse dalle spalle su una specie di sostegno; svolazzava libero, dietro di lui. Il suo corpo ben costruito era scoperto, ad eccezione delle scarpe intonate all'indumento e alla onnipresente spozzan. «Posso?»

«Oh, sicuro, sicuro, siedi… Tu non capisci.»

Philos alzò ironicamente un sopracciglio. Le sue sopracciglia erano folte e sembravano lisce, ma quando le muoveva e le muoveva spesso, si vedeva che erano leggermente appuntite, con due tetti pelosi, quasi piatti.

«Tu sei… a casa tua» disse Charlie.

Pensò, per uno spiacevole istante, che Philos stesse per prendergli la mano in un gesto di comprensione, e si agitò. Philos non fece quel gesto, ma espresse la stessa comprensione nella voce. «Anche tu ti ritroverai a casa tua, presto. Non preoccuparti.»

Charlie alzò la testa e lo guardò attentamente. Sembrava che pensasse veramente quello che aveva detto, eppure «Vuoi dire che posso tornare indietro?»

«A questo punto non posso rispondere. Seace…»

«Non lo sto chiedendo a Seace, lo sto chiedendo a te. È possibile rimandarmi indietro?»

«Quando Seace…»

«Mi occuperò di Seace quando sarà il momento. Adesso sii franco: è possibile rimandarmi indietro o no?»

«Sì. Ma…»

«Al diavolo i ma!»

«Ma forse tu non vorrai tornare.»

«E perché no?»

«Ti prego» disse Philos, e le sue mani fremettero di impazienza. «Non indignarti. Ti prego! Tu hai domande da fare… domande urgenti, lo so. E ciò che le rende urgenti è il fatto che tu hai in mente le risposte che desideri sentire. Ti irriterai ancora di più se non otterrai quelle risposte, ma qualcuna sarà diversa da come tu desideri, altrimenti non sarebbe sincera. E altre domande… non dovrebbero neppure venir formulate.»

«E chi lo dice?»

«Tu! Tu! Tu riconoscerai che alcune non dovrebbero neppure venir formulate, quando ci conoscerai meglio.»

«Al diavolo! Ma proviamo con qualche domanda, e rompiamo il ghiaccio. Tu mi risponderai?»

«Se posso, certamente.» (Qui c'era ancora uno spostamento grammaticale. “Se posso” significava quasi “se ne sono capace” ma c'era anche una sfumatura di se “se sono in condizione di farlo”. D'altra parte… forse stava semplicemente dicendo che avrebbe risposto se avesse conosciuto l'informazione richiesta; è questo, in fini dei conti, che mette qualcuno in condizioni di rispondere a una domanda). Charlie accantonò quel pensiero, e formulò la Prima Domanda.

«Da quanto lontano sei venuto? … Cosa intendi dire?»

«Esattamente quello che ho detto. Voi mi avete preso dal Passato. Da un passato quanto lontano?»

Philos sembrò sinceramente sorpreso. «Non so.»

«Non lo sai? O… non lo sa nessuno?»

«Secondo Seace…»

«Fino a un certo punto» disse Charlie, esasperato «hai ragione tu: alcune di queste domande dovranno aspettare, per lo meno fino a che avrò visto Seace.»

«Sei di nuovo in collera.»

«No. Sono tuttora in collera.»

«Ascolta» disse Philos, tendendosi verso di lui. «Noi siamo… ecco, un popolo nuovo, noi ledom. Bene, tu imparerai tutto questo. Ma non puoi pretendere che contiamo il tempo come fai tu, o che continuiamo con il metodo dei mesi e degli anni numerati che ha nulla a che fare con noi… E che importanza potrebbe avere… ormai? Che importanza può avere per te quanto tempo è passato, quando il tuo mondo è finito, e ti rimane soltanto il nostro, per vivere?»

Charlie impallidì. «Hai detto… finito?»

Philos alzò tristemente le mani. «Senza dubbio ti sei reso conto…»

«Ma di cosa ho potuto rendermi conto!» abbaiò Charlie; poi, lamentosamente: «Ma-ma-ma… credevo che forse qualcuno… magari molto vecchio…». L'impatto non lo raggiunse all'improvviso, ma gli lampeggiò intorno in immagini rapide di volti… Mamma, Laura, Ruth… e in mutevoli, massicci accordi di oscurità.

Philos disse, gentilmente. «Ma io ti ho detto che puoi tornare indietro ed essere ciò che sei nato per essere.»

Charlie rimase stordito, per un poco, poi si rivolse lentamente al ledom. «Davvero?»» chiese, supplichevole, come un bambino cui era stato promesso l'impossibile… ma a cui quella promessa è pure stata fatta.

«Sì, ma allora sarai là e saprai…» Philos fece un gesto inclusivo «tutto quello che sai.»

«Oh, all'inferno» disse Charlie. «Sarò a casa… questo è l'importante.» Ma qualcosa, dentro di lui, fissava un nuovo tizzone di terrore, vi alitava sopra, lo faceva pulsare, sempre più vivido. Sapere la fine… sapere quando sarebbe venuta, in quale modo sarebbe venuta; sapere, come nessun uomo aveva mai saputo, prima, che ciò che stava giungendo era veramente la fine… Te ne stai sdraiato accanto al corpo caldo di Laura, e lo sai. Compri lo stupido giornale scandalistico per Mamma che crede ad ogni parola, e lo sai. Vai in chiesa (magari anche spesso, adesso che sai) e guardi un matrimonio, lei in una confezione in seta bianca seduta accanto allo sposo che indossa un vestito troppo stretto, in mezzo a un mare ruggente di clacson che suonano allegri, e lo sai. Ora, in quel pazzo mondo squilibrato gli avrebbero detto quando sarebbe successo, e come.

«Ti dirò io cosa dobbiamo fare» disse rauco. «Rimandatemi indietro e non ditemi né quando né come verrà la fine. D'accordo?»

«Stai mercanteggiando? Allora farai qualcosa per noi?»

«Io…» Charlie si tastò i fianchi della camicia da notte, ma non c'erano tasche da rivoltare, per mostrare che erano vuote «…io non ho niente da darvi, in cambio.»

«Tu hai una promessa come merce di scambio. Saresti disposto a fare una promessa e a mantenerla, per ottenere ciò che vuoi?»

«Se è il tipo di promessa che posso mantenere.»

«Oh, lo è, lo è. Si tratta solo di questo: impara a conoscerci. Sii nostro ospite. Impara a conoscere Ledom da cima a fondo… la sua storia — che non è molta — le sue usanze, la sua religione e la sua ragion d'essere.»

«Questo potrebbe richiedere un'eternità.»

Philos scosse la testa bruna e la luce guizzò nei suoi occhi neri.

«Non richiederà molto tempo. E quando sentirai di conoscerci veramente, ce lo dirai, e sarai libero di ritornare. Se vorrai tornare.»

Charlie rise. «E sarebbe un se?».

Philos gli rispose, sobriamente: «Credo di sì».

Altrettanto sobriamente, Charlie Johns disse: «Guardiamo un po' cosa c'è scritto qui, in carattere piccolo. La clausola a proposito di “molto tempo”, mi preoccupa. Voi potreste sostenere che non conosco tutto di Ledom se non ho contato le molecole in tutti gli occhi degli abitanti di questo posto».

Per la prima volta, Charlie vide il rossore della collera sul viso d'un ledom. Philos disse freddamente: «Non faremmo mai una cosa simile. Non lo facciamo, e credo che non saremmo capaci di farlo».

Charlie sentì la propria ira ingigantirsi. «Mi stai chiedendo di accettare in buona fede un mucchio di cose.»

«Quando ci conoscerai meglio…»

«Vuoi che io faccia certe promesse prima di conoscervi meglio.»

Sorprendentemente, con aria convincente Philos sospirò e sorrise: «Hai ragione… secondo te. E sta bene, allora, niente patti per il momento. Ma ascolta bene: io ti propongo questo e Ledom lo manterrà: se, mentre studierai la nostra civiltà, sarai certo che noi ti stiamo mostrando tutto e che lo facciamo in modo abbastanza rapido da soddisfarti, allora ci prometterai di arrivare fino in fondo. E alla fine, quando sarai certo di aver visto abbastanza per conoscerci come noi vogliamo che tu ci conosca… allora faremo tutto quello che vorrai, per rimandarti indietro».

«È difficile controbattere una proposta come questa… e, tanto per saperlo, cosa succederebbe se non facessi questa promessa?»

Philos alzò le spalle. «Probabilmente verrai rimandato da dove sei venuto, in ogni caso. Per noi, la cosa più importante è che tu ci conosca.»

Charlie guardò in quegli occhi neri. Sembravano privi di malizia. «Potrò andare dove voglio» chiese «e fare le domande che voglio?»

Philos annuì.

«E ottenere le risposte?»

«Tutte le risposte che noi siamo in condizione di darti.»

«E più domande farò, e più luoghi visiterò, e più cose vedrò, tanto prima potrò andarmene?»

«Esattamente.»

«Che mi venga un colpo» disse Charlie Johns a Charlie Johns. Si alzò, fece un giro per la stanza, mentre Philos lo osservava, poi tornò a sedersi. «Senti» disse «prima di farti entrare qui, io ho pensato a qualcosa. Ho pensato tre domande importanti da rivolgerti. Bada bene, nel pensarle non sapevo quello che so adesso… cioè, che voi siete disposti a collaborare.»

«Fai queste domande, allora, per rassicurartene.»

«È quello che intendo fare. Abbiamo già considerato la Prima Domanda. Era: da che distanza sono venuto nel futuro… il mio futuro?» Alzò la mano, prontamente. «Non rispondere. A parte ciò che hai detto, e che non è molto, anche se pare che Seace sia in grado di rispondere, non voglio sapere altro.»

«Questo…»

«Taci un momento, e ti dirò il perché. In primo luogo potrebbe farmi intuire quando è venuta la fine, e sinceramente questo non lo voglio saperlo. In secondo luogo, adesso che ci penso, non credo che il saperlo cambierebbe le cose. Se torno indietro… ehi, sei proprio sicuro che ritornerei nello stesso luogo e nello stesso tempo da cui sono partito?»

«Almeno molto vicino.»

«Benissimo. In questo caso, non mi interessa se è un anno o diecimila. E intanto non dovrò pensare ai miei amici diventati vecchi o ai miei amici morti, né a niente di simile; quando tornerò indietro li troverò ancora.»

«Ritroverai i tuoi amici.»

«Benissimo, per quanto riguarda la Prima Domanda. Anche la Terza Domanda ha avuto una risposta. Era: Che mi succederà, qui?»

«Sono contento che abbia già avuto una risposta.»

«Benissimo; resta solo la domanda di mezzo, Philos; Perché proprio io

«Ti prego di…»

«Perché proprio io? Perché non avete prelevato qualcun altro? O, se dovevo essere proprio io, perché vi siete presi questo disturbo? Stavate provando il vostro macchinario e avete preso quello che vi capitava? Oppure io ho qualche qualità speciale, qualche capacità di cui avete bisogno? Oppure… maledizione, oppure l'avete fatto per impedirmi di fare qualcosa nel mio tempo?»

Philos arretrò davanti alla sua veemenza… non tanto per paura, quanto per la sorpresa e il disgusto, come si può arretrare davanti a una fognatura esplosa.

«Cercherò di rispondere a tutte queste domande» disse freddamente, dopo aver concesso a Charlie trenta secondi di silenzio per udire l'eco spiacevole della sua stessa voce, per essere certo che avesse finito. «In primo luogo, abbiamo preso te e te soltanto, e non potremmo aver preso altri. In secondo luogo: sì, cercavamo proprio te, perché possiedi una qualità speciale. L'ultima parte è ridicola, illogica e neppure degna della tua collera, e credo che sarai d'accordo con me. Perché guarda: (quel “guarda” significava: “attendi, ragiona, osserva, rifletti”) dato che hai ogni probabilità di venir riportato quasi esattamente nel punto da cui sei partito, in che modo il tuo comportamento potrebbe influire sui tuoi atti successivi? Sarà passato pochissimo tempo.»

Charlie rifletté, corrucciato. «Bene» disse alla fine, «forse hai ragione. Ma io sarò diverso, non ti pare?»

«Perché ci hai conosciuti?» Philos rise, gentilmente. «E credi davvero che l'averci conosciuti possa veramente renderti diverso da quello che eri?»

Nonostante i suoi desideri, un lieve sogghigno comparve all'angolo della bocca di Charlie. Philos aveva una risata simpatica. «Credo che non sarà possibile. D'accordo.» Poi chiese più garbatamente: «Allora ti dispiacerebbe dirmi che ho di tanto speciale per voi?».

«Non mi dispiace affatto» (fu una delle volte in cui l'idioma di Charlie trasparì bizzarramente: Philos lo stavo imitando, ma con simpatia). «È l'obiettività.»

«Sono irritato, sbalordito e sperduto. Che diavolo di obiettività può mai essere questa?»

Philos sorrise. «Oh, non ti preoccupare, sei all'altezza delle nostre necessità. Ascolta: hai mai avuto l'esperienza di sentire un estraneo, non necessariamente uno specialista, che abbia detto qualcosa sul tuo conto, qualcosa che ti ha insegnato qualcosa di te stesso… qualcosa che non avresti mai potuto sapere, senza quell'osservazione?»

«Credo che sia capitato a tutti.» Ricordò quella volta che aveva sentito la voce d'una delle sue amiche giungere, inconfondibilmente, attraverso il sottile divisorio di uno stabilimento balneare a South Beach… e stava parlando di lui! Diceva: «…e la prima cosa che ti dice è che non ha mai frequentato l'università, e che si è abituato da tanto tempo a fare concorrenza ai laureati che non gliene importa più nulla». Non era una cosa di gran conto e neppure dolorosamente imbarazzante, ma non parlò mai più a nessuno della faccenda dell'università; perché non aveva mai supposto di dirlo sempre, e non aveva saputo quanto era sciocco dirlo.

«Bene, allora» disse Philos. «Come ti ho spiegato, noi siamo una razza nuova e consideriamo nostro dovere sapere tutto ciò che possiamo sul conto di noi stessi. A questo scopo noi abbiamo strumenti che non saprei neppure descriverti. Ma l'unica cosa, come specie, che non possiamo avere, è l'obiettività.»

«Può essere verissimo, ma io non sono molto abile ad osservare le razze o le specie o le civiltà o cose del genere.»

«E invece lo sei. Perché sei diverso. Basta questo per fare di te un esperto.»

«E se quello che osserverò non mi piacerà?»

«Non capisci» disse premuroso Philos «che non ha importanza? Che noi ti andiamo a genio o no, sarà soltanto un fatto fra tanti altri. Noi vogliamo sapere cosa accade di ciò che vedi, quando è stato filtrato attraverso il tuo pensiero.»

«E quando lo saprete…»

«Conosceremo meglio noi stessi.»

Ironicamente, Charlie disse: «Tutto quello che saprete sarà ciò che penso io».

Altrettanto ironicamente, Philos disse: «Possiamo sempre non essere d'accordo…».

Risero insieme, finalmente. Poi: «Va bene» disse Charlie Johns. «L'hai spuntata.» Sbadigliò poderosamente e si scusò. «Quando cominciamo? Qual è la prima cosa in programma per domattina?»

«Pensavo che…»

«Senti» supplicò Charlie «è stata una giornata pesante, e io sono sfinito.»

«Sei stanco? Oh, bene, non mi dispiace aspettare mentre tu riposi ancora un po'.» Philos si sistemò più comodamente sul sedile.

Dopo un istante di silenzio perplesso, Charlie disse: «Voglio dire, debbo dormire un po'».

Philos scattò in piedi. «Dormire!» Si portò la mano alla fronte, la colpì. «Oh, ti chiedo scusa; me ne ero dimenticato. Naturalmente! E come fai?»

«Eh?»

«Noi non dormiamo.»

«Non dormite?»

«Tu come fai a dormire? Gli uccelli mettono la testa sotto l'ala.»

«Io mi sdraio, chiudo gli occhi. Poi… resto lì disteso, ecco tutto.»

«Oh, sta bene. Aspetterò. Quanto tempo?»

Charlie lo guardò di sbieco; forse scherzava.

«Di solito otto ore.»

«Otto ore!» E immediatamente, cerimoniosamente, come se si vergognasse di aver dimostrato ignoranza e curiosità, Philos si avviò verso la porta. «Farò meglio a lasciarti solo, allora. Ti va bene?»

«Benissimo.»

«Se vuoi qualcosa da mangiare…»

«Grazie, me l'hanno spiegato quando mi hanno detto come far funzionare le luci, ricordi?»

«Benissimo. Troverai i vestiti nell'armadio, qui.» Toccò o sfiorò un ghirigoro nella parete di fronte. Una porta si dilatò e si richiuse di scatto. Charlie intravide tessuti clamorosamente vivaci. «Scegli quelli che preferisci. Ah…» esitò. «Ti accorgerai che tutti… nascondono, ma noi abbiamo cercato di farli comodi, nonostante tutto. Ma vedi… nessuno dei nostri aveva mai visto un maschio, prima d'ora.»

«Voi siete femmine!»

«Oh, no!» disse Philos, fece un cenno di saluto e se ne andò.


Smith va matto per il Vecchio Bucaniere, osserva Herb Railes, in piedi nel bagno degli Smith, a piano terreno, mentre guarda nell'armadietto dei medicinali. L'armadietto dei medicinali è sulla parete sopra la toeletta, e c'è un altro armadietto sopra lo scaffale dei cosmetici, vicino al lavabo. Queste case hanno tutte due armadietti. Nel prospetto vengono definiti Per lui e Per lei. Jeannette li ha chiamati Per lui e Per Noi, e a quanto pare Tillie Smith si sta veramente associando, come ha detto poco prima Herb, perché dei quattro ripiani, uno e mezzo è pieno di ninnoli e aggeggi femminili.

Per il resto, c'è la Lozione Prebarba Vecchio Bucaniere, che raddrizza i peli della barba prima della rasatura e il Fissatore Vecchio Bucaniere, che tiene giù i capelli dopo che sono stati pettinati. C'è anche la Delizia del Vecchio Bucaniere, un balsamo per bagno con aggiunta di vitamina C. (Una volta, Herb si è preso la briga di guardare sul dizionario la definizione di bucaniere: una specie di scorridore dei mari, e non c'è da meravigliarsi che dovessero mettersi tutto quel profumo, ma comunque non era il genere di scherzo che faceva ridere Smitty).

Personalmente, a Herb dispiace un po' che Smitty sia così attaccato alla serie Vecchio Bucaniere, perché sul mercato c'è roba migliore. Guancia Liscia, per esempio. Herb deve quasi tutta la sua posizione nell'agenzia pubblicitaria all'aver creato lo slogan per il Guancia Liscia: l'immagine di un amatore latino-americano (accuratamente continentale, perfetto per chi aveva gusti transatlantici, che strofinava la guancia contro quella di una femmina estatica e molto mammifera, con sotto la scritta: Vuoi una guancia liscia?

Bene! dice Herb, quasi a voce alta. Un tubetto di unguento per le emorroidi. Tranquillanti, naturalmente, aspirine e una boccetta di capsule mostruose, metà gialle metà azzurre. Prenderne una tre volte al giorno. Acromicina. Herb sarebbe disposto a scommetterci. Senza toccare niente, si sporge curioso in avanti per guardare l'etichetta. La data gli dice che è stata acquistata tre mesi fa. Herb medita, era all'incirca il mese in cui Smitty aveva smesso di bere per un po'.

Prostata, eh?

Burro di cacao, per le labbra screpolate. Smalto incolore per le unghie. Un bastoncino per ritocco. Che diavolo è un bastoncino per ritocco, n. 203 Bruno? Si piega più vicino. La dicitura afferma: Per ritocchi temporanei tra le applicazioni della tintura. Il tempo cammina, Smitty. O, meglio ancora: il tempo ti piomba addosso, Smitty.


Charlie ricordava (ricordava, ricordava) una cantilena che aveva sentito all'asilo. L'aveva sentita cantare dai bambini più grandi, i bambini di seconda, dalle bambine che saltavano la corda:


Il Gattino sta saltando

un piccino sta arrivando

non un bimbo

né una bimba

ma soltanto un bel piccino


Cantilenando in silenzio, si addormentò. Sognò Laura… si erano conosciuti da così poco tempo, ma sembrava da sempre; avevano già un linguaggio da innamorati, piccole definizioni e frasi che avevano significato soltanto per loro: È una cosa da uomini, Charlie. Lui poteva dire “È una cosa da donne, Laura” anche del suo acuto gridolino, quando la coccinella le si era impigliata nei capelli d'albicocca, e l'aveva fatta ridere e ridere.

Nello svegliarsi passò attraverso una strana zona della mente, giungendo a un punto di sensibilità in cui capiva chiaramente e freddamente che Laura era divisa da lui dalle barriere impenetrabili dello spazio e del tempo, ma in cui, contemporaneamente, sua madre sedeva ai piedi del suo letto. E mentre passava attraverso questa zona, divenne sempre più chiaro, per lui, che era a Ledom, così non avrebbe avuto nessun disorientamento al risveglio; eppure, il senso della presenza di sua madre diventò più forte, così quando aprì gli occhi e vide che lei non c'era, fu come se l'avesse vista — realmente lei non la sua immagine — scomparire con un pop. Furibondo e offeso, si svegliò urlando, chiamando sua madre…

Quando finalmente ebbe i piedi in basso e la testa in alto, si diresse verso la finestra, senza avvicinarsi troppo, e guardò fuori. Il tempo non era cambiato, e gli sembrò di aver dormito per tutto un giro dell'orologio, perché il cielo, sebbene fosse ancora coperto, era luminoso come lo era stato durante il tragitto dal Centro Scientifico. Era affamato; e ricordando le istruzioni andò al letto-scaffale su cui aveva dormito e tirò verso l'esterno la prima delle tre sbarre dorate.

Una sezione irregolare della parete (lì non c'era nulla di quadrato, di piatto, di verticale o di perfettamente liscio) scomparve sollevandosi e rientrando, come la saracinesca di certe vecchie scrivanie, e fu come se quella ridicola bocca cacciasse fuori una lingua molto ampia, perché dall'orifizio scivolò fuori una specie di tavola su cui erano posati una ciotola e un piatto. Nella ciotola c'era una specie di pappa di farina d'avena. Sul piatto c'era un mucchio di frutti dai colori esotici, disposti con un gusto squisito in modo da formare un quadro armonioso con le loro forme improbabili. C'erano banane e arance, e qualcosa che sembrava uva, ma gli altri frutti erano grandi e chiazzati di azzurro e di vermiglio e di verde iridescente, e di almeno sette varietà di rosso. Ciò che desiderava soprattutto al mondo, in questo mondo o in qualsiasi altro, era qualcosa di fresco da bere, ma non c'era nulla del genere. Sospirò e prese un globo color orchidea, lo fiutò — aveva un odore simile a quello del pane imburrato — e provò a morderlo. Poi emise un grugnito altissimo di sbalordimento e si girò attorno, cercando qualcosa con cui asciugarsi la faccia e il collo. Perché sebbene la buccia del frutto fosse, sotto le sue labbra, a temperatura ambiente, il succo, che usciva a pressione considerevole, era gelido.

Dovette servirsi della camicia bianca per asciugarsi; poi prese un altro frutto color orchidea e tentò di nuovo, con risultati soddisfacenti. Il succo limpido e freddo era privo di polpa e aveva un sapore di mela sfumato di cannella.

Poi guardò la pappa di farina. Non aveva mai amato molto i cereali cotti, ma l'aroma di quella pappa era appetitoso, sebbene non riuscisse a riconoscerlo. Accanto alla ciotola c'era un oggetto, una specie di posata. Assomigliava vagamente a un cucchiaio, ma in realtà consisteva di un manico che reggeva un cappio di filo sottile, azzurro vivo, simile a una minuscola racchetta da tennis, ma senza corde.

Perplesso, afferrò il manico e spinse il cappio nella pappa. Con sua grande sorpresa, la pappa si ammucchiò sopra il cappio, come se al di sotto ci fosse il solido incavo di un cucchiaio. Lo sollevò e vide che il cibo era ammucchiato allo stesso modo anche nella parete inferiore… neppure un po' di più: e non sgocciolava. Lo assaggiò, cautamente, e lo trovò così delizioso che non lo turbò neppure la consistenza gommosa dell'area invisibile nell'interno del cappio. La guardò, sì, e spinse un indice per provare (e quella zona invisibile resistette lievemente al dito), ma nonostante questo continuava a godersi, con tutte le ghiandole salivari, quel cibo saporito, dolce e carico di spezie, robusto e nutriente. Il sapore era assolutamente nuovo per lui, ma, mentre si ingozzava e raschiava il fondo vuoto della ciotola fino a storcere il filo azzurro si augurò ardentemente di poterne avere ancora, al più presto.

Soddisfatto, almeno fisicamente, sospirò e si alzò dal letto, mentre la tavola e il suo carico scivolavano silenziosamente nell'apertura che tornò ad essere, di colpo, parte della parete. «Servizio in camera» mormorò Charlie, scuotendo la testa con fare di approvazione.

Si accostò all'armadio che gli aveva mostrato Philos e sfiorò il ghirigoro nel disegno della parete. Lo sportello si dilatò. L'interno era illuminato dal solito chiarore argenteo opaco, privo di sorgente. Lanciando uno sguardo cauto agli orli dell'apertura ovale e irregolare, perché quella cosa poteva aprirsi e chiudersi con autentico entusiasmo, sbirciò nell'interno, sperando di rivedere i suoi bravi calzoni fabbricati negli Stati Uniti. Non c'erano.

C'era invece una fila di costruzioni — era l'unica parola adatta — di tessuti rigidi e flosci, inamidati, sottilissimi, opachi, in tutte le combinazioni di colore: rossi, azzurri, verdi, gialli, tessuti che sembravano contenere tutti i colori contemporaneamente, tessuti che potevano cogliere una sfumatura qui e una là dalle stoffe che erano lì intorno; e tessuti che non avevano colore, che smorzavano qualsiasi cosa su cui si posassero. Erano messi insieme in pannelli, tubi, pieghe, drappeggi, cuciture, ed erano tagli di sbieco, orlati di frange, ricamati, ricchi di applicazioni e di orlature.

Via via che i suoi occhi e le sue mani si abituavano a quel bagliore, riuscì a comprendere che esisteva una certa sistematicità: quel miscuglio poteva venire suddiviso, e certi pezzi singoli potevano essere esaminati isolatamente come indumenti. Alcuni erano semplici come camicie da notte, per quanto riguardava la forma, anche se chi li avesse indossati per dormire avrebbe senza dubbio sognato di venire affettato da una griglia a diffrazione. C'erano calzoni di vari tipi, mutandine aderenti, pantaloni flosci, pantaloni a coscia, perizomi, oltre a gonnellini lunghi e corti, fluenti e a crinolina, gonne ampie e strette. Ma che cos'era quel nastro scintillante, largo cinque centimetri e lungo due metri e mezzo, costruito come una serie di lettere U unite per le estremità superiori? E come si poteva usare una sfera perfetta di materiale elastico nero… sulla testa?

Se la posò sul capo e cercò di tenerla in equilibrio. Era facile. Inclinò il capo per farla rotolare via. Rimase dov'era. La tirò. Non era facile toglierla, era impossibile. Era attaccata a lui. Non gli tirava neppure i capelli, sembrava che fosse attaccato al suo scalpo.

Si avvicinò alle tre sbarre d'oro, per posarvi sopra le mani e chiamare Philos, poi si fermò. No, avrebbe dovuto vestirsi prima di chiamarlo in aiuto. Qualsiasi cosa fossero quegli strani, assurdi individui, non desiderava riprendere l'abitudine di farsi vestire da una donna. Era un'abitudine che aveva perduto da molti anni.

Tornò all'armadio. Imparò in fretta il sistema per appendervi gli abiti; non erano appesi ad attaccapanni, ma se prendevi un indumento e lo stendevi come volevi che rimanesse appeso, e lo facevi toccare contro la parete di destra, rimaneva come lo mettevi. Poi potevi spingerlo attraverso l'armadio, dove scivolava come se fosse appeso a un filo, solo che non c'erano fili. Quando lo tiravi fuori, cadeva e ritornava semplicemente un indumento vuoto.

Trovò un lungo pezzo di stoffa che aveva vagamente la forma di una clessidra, con un pezzo di nastro sottile a un'estremità. La stoffa era di un blu cupo abbastanza sobrio, il nastro era di un rosso vivo. Pensò che era possibile dargli la forma di un paio di calzoni decenti. Si tolse la camicia bianca che per fortuna era aperta sul dorso, altrimenti non sarebbe mai riuscita a sfilarla per colpa della sfera nera che gli ballonzolava sulla testa ad ogni movimento. Si piazzò sull'addome l'estremità della stoffa priva del nastro, si fece passare il resto fra le gambe, fin sulle reni, afferrò i capi del nastro, se li fece girare attorno ai fianchi, con l'intenzione di allacciarli sul davanti. Ma prima che potesse farlo, i due capi del nastro si fusero, senza segni di giunture o di cuciture. Tirò il nastro; si tese, poi tornò lentamente indietro fino a che gli aderì alla vita, e allora smise di contrarsi.

Meravigliato, tirò il lembo libero della stoffa fino a che aderì a sufficienza, poi lo lasciò ricadere liberamente in una specie di grembiule, sul davanti. Si girò e si torse, guardandolo stupefatto. Gli aderiva come una pelle e sebbene avesse le gambe nude di lato, fino alla cintura stretta da una sottile striscia rossa, per il resto era nascosto, come aveva detto Philos.

Poteva fare a meno di altri indumenti perché, come aveva imparato nella sua breve esperienza all'aperto, lì c'era un clima tropicale. D'altra parte molti di quegli individui portavano qualcosa anche nella parte superiore del corpo, magari soltanto un bracciale o qualcosa sulle scapole. Osservò meditabondo il mucchio di accessori nell'armadio e vide un pezzo di stoffa dello stesso colore dell'indumento che aveva indossato. Lo prese. Doveva essere una specie di giacca o di cappa. Sembrava pesante; in realtà era leggera come una piuma, e non soltanto era identica, ma aveva una sottile orlatura dello stesso nastro rosso che costituiva la cintura delle brache.

Indossarla fu un rompicapo, fino a che non comprese che non saliva sulle spalle, ma passava sotto le braccia, come l'indumento che aveva visto addosso a Seace. Aveva lo stesso collo rigido dietro, e davanti si univa esattamente sullo sterno. Non c'erano allacciature, ma non erano necessarie; aderì dolcemente ai suoi muscoli pettorali e vi rimase attaccata. Alla cintura calzava alla perfezione, ma i due lembi non si toccavano; tuttavia, gli aderiva addosso splendidamente. La camicia non scendeva a coda di rondine come quella di Seace, ma era tagliata piatta, a lunghezza uniforme.

In fondo all'armadio c'erano anche le scarpe; su uno scaffale vide quello che rappresentava il minimo indispensabile in fatto di calzature: forme modellate, costruite per aderire alle dita, e altre fatte per aderire al calcagno, senza nulla in mezzo. Ve ne erano molti altri tipi; sandali con cinghie e fibbie, e sandali con lacci e nastri che si fondevano gli uni negli altri, altri senza allacciature; morbidi stivali multicolori che arrivavano al ginocchio, scarpe con la punta rialzata alla turca, scarpe ortopediche e molte altre calzature, con la sola eccezione dei tipi che potevano stringere il piede e provocare fastidio.

Si lasciò guidare dal colore e trovò un paio di stivali che parevano di camoscio e che non avevano quasi peso: si appaiavano perfettamente all'indumento blu cupo ornato di rosso. Si augurò che fossero della sua misura… e lo erano; gli calzavano perfettamente, meravigliosamente; e poi si rese conto che senza dubbio tutte quelle scarpe si sarebbero adattate naturalmente alla sua misura e a quella di chiunque altro.

Soddisfatto di sé, provò ancora una volta, inutilmente, a tirare la ridicola bolla nera che gli ballonzolava sulla testa, poi si avvicinò alle sbarre e le toccò. La porta si dilatò con uno scatto, e Philos entrò. (Era rimasto lì, davanti alla porta, per quelle otto ore?) Indossava un gonnellino ampio di un giallo amarillide, scarpe eguali e un bolero nero, che sembrava infilato a rovescio: ma addosso a lui non stava male. Il suo eloquente viso bruno si accese quando vide Charlie.

«Già vestito? Oh, benissimo!» E poi corrugò la fronte, indescrivibilmente. Era un'espressione che Charlie non riuscì a comprendere.

«Ti pare che vada bene?» chiese. «Vorrei avere uno specchio.»

«Certo» disse Philos. «Se posso…» Attese. Charlie sentì che stava rispondendo alla richiesta in modo distratto, rituale. Ma diceva: «Posso?».

«Certo» disse Charlie, e boccheggiò. Perché Philos giunse le mani… e scomparve! e invece lì c'era qualcun altro, risplendente in un indumento blu cupo, con un colletto altissimo che incorniciava benissimo il suo viso allungato, con i calzoni aderenti ornati da un grembiule drappeggiato con eleganza, con scarpe splendide; e persino con le spalle nude che sormontavano la giacca e la stupida bolla nera che gli danzava sulla testa, faceva una figura eccellente. Ad eccezione della faccia che, inspiegabilmente, non lo riguardava.

«Va bene?» La figura scomparve e riapparve Philos. Charlie rimase a bocca aperta. «Come hai fatto?»

«Oh… avevo dimenticato, non puoi averlo visto.» Tese la mano, che aveva un anello di lucente metallo azzurro, lo stesso azzurro scintillante del filo con cui Charlie aveva mangiato la crema di cereali. «Quando lo tocco con l'altra mano, forma un ottimo specchio.» Eseguì, e la bella figura con la sciocca sfera sulla testa riapparve e poi scomparve di nuovo.

«Che ordigno!» disse Charlie, che aveva sempre amato gli ordigni di ogni genere. «Ma perché mai ti porti dietro uno specchio? Tu puoi vedertici?»

«Oh, no.» Philos, sebbene avesse ancora quell'espressione contratta, riuscì ad insinuarvi un sorriso. «È soltanto un congegno difensivo. Noi ledom litighiamo di rado, e questa è una delle ragioni. Puoi immaginarti, quando sei accalorato e contorto e illogico (la parola conteneva in concetti di “stupido” e “imperdonabile”), messo faccia a faccia con te stesso, obbligato a guardarti esattamente come ti vedono tutti gli altri?»

«Be', questo ti raffredderebbe un po'» ammise Charlie.

«Ed è per questo che chiediamo il permesso di usarlo su qualcuno, prima di farlo. Semplice educazione. È qualcosa di antico quanto il nostro popolo, e probabilmente è vero anche per il tono: una persona si offende se la si mette davanti a se stessa, a meno che non lo desideri specificamente.»

«Avete una bella fabbrica di giocattoli, qui» disse Charlie, con ammirazione. «Ho passato l'esame?»

Philos lo squadrò, e l'espressione contratta si intensificò.

«Stai benissimo» disse con voce tesa. «Benissimo, veramente. Hai scelto molto bene. Andiamo?»

«Senti» disse Charlie «c'è qualcosa che non va, vero? Se sei inquieto per il mio aspetto, è ora che tu me lo dica.»

«Oh, bene, poiché me lo chiedi… ecco» (Charlie vide che sceglieva le parole con molta cura) «…ci tieni tanto a quel… ehm… cappello?»

«Quello, per l'amore del cielo! È così leggero che quasi lo dimenticavo, e poi tu e il tuo specchio… diavolo, no! Me lo sono messo sulla testa così, e non sono più riuscito a toglierlo.»

«Non è un gran guaio.» Philos si avvicinò all'armadio, lo dilatò, si chinò all'interno e ne uscì stringendo qualcosa che aveva la forma e la grandezza di un calzascarpe. «Ecco, toccalo con questo.»

Charlie eseguì, e l'oggetto nero cadde sul pavimento, dove rimbalzò fiaccamente. Charlie lo spedì nell'armadio con un calcio e rimise a posto l'oggetto simile a un calzascarpe. «Che cos'è?»

«Il de-stator? Disattiva le forze biostatiche della stoffa.»

«È la forza biostatica che mi fa aderire addosso questi vestiti?»

«Be', sì, perché non si tratta esattamente di materia non-viva. Chiedilo a Seace; io non lo capisco.»

Charlie lo sbirciò. «Sei ancora preoccupato. Faresti meglio a dirmi di che si tratta, Philos.»

L'espressione contratta si approfondì e Charlie non aveva creduto che fosse possibile.

«Preferirei di no. L'ultima volta che qualcuno ha scherzato con te l'hai fatto volare con una pedata attraverso la camera centrale di Mielwis.»

«Mi dispiace. Allora ero molto più sconvolto di adesso… su, dimmi di che si tratta.»

«Sai che cosa ti eri messo in testa?»

«No.»

«Un'imbottitura da portare sotto la gonna.»

Uscirono dalla stanza ridendo rumorosamente.

Andarono a fare visita a Mielwis.


«Ce ne mettono a giocare a bowling» dice Smitty.

«Stanno scioperando.»

«Oh, che buffo pubblicitario!» Ma Smith non sta prendendo in giro Herb. Ride fra sé.

Cade il silenzio. Non sanno più di cosa parlare. Herb sa che Smith sa che ognuno di loro sa che l'altro sta cercando qualcosa da dire. Herb pensa che è un fatto strano, che la gente non possa stare insieme senza ruttare parole, qualsiasi vecchia parola; ma non lo dice a voce alta, perché Smith potrebbe pensare che lui sta tornando a parlare sul serio.

«I risvolti passano di nuovo di moda» dice Smith, dopo un po'.

«Già. Milioni e milioni di individui si fanno cambiare la linea dei calzoni. Cosa credi che se ne faranno i sarti, di quei risvolti? E che fine farà tutta la stoffa per i risvolti, che i fabbricanti non adopereranno più?»

«Faranno i tappeti.»

«Costano lo stesso» dice Herb, alludendo ai nuovi calzoni senza risvolto.

«Oh, già» Smith sa che cosa intende dire.

Ancora quel silenzio.

Herb dice: «Voi avete molta roba che si lava e non si stira?»

«Un po'. Ce l'hanno tutti.»

«E chi la lava e la porta senza che sia stirata?»

«Nessuno» dice Smith, con una sfumatura di indignazione. «Qualsiasi buona tintoria usa delle tecniche speciali adesso, e fa un ottimo lavoro.»

«E allora perché c'è la roba che si lava e non si stira?»

Smith alza le spalle. «Perché no?»

«Già» dice Herb, che sa quando smetterla con un argomento.

Il silenzio.

«Il vecchio Farrel!»

Herb alza lo sguardo al grugnito di Smith, e vede Smith che sta guardando attraverso la finestra e attraverso la finestra della casa di fronte.

«Che cosa sta facendo?»

«Guarda la TV, credo. Ma guarda quella sedia pazzesca.»

Herb si alza, attraversa la stanza. Ha un portacenere, lo depone sulla tavola, torna indietro. Da una stanza di quaranta metri, non si può capire che sta guardando.

«Una di quelle sdraio speciali.»

«Sì, ma rossa. In quella stanza, come fa a starci una sedia rossa?»

«Tienili d'occhio, Smitty. Cambierà arredamento.»

«Cosa?»

«Ricordi due anni fa, tutto pannelli di pino e roba stile ranch, e poi un giorno arriva quella grande poltrona verde. E in una settimana, bum! Tutto stile coloniale americano.»

«Oh, già.»

«Così, in una settimana, sta' a vedere.»

«Bum!»

«È quello che dico.»

«E come può permettersi di cambiare due volte l'arredamento in due anni?»

«Forse ha dei parenti.»

«Lo conosci?»

«Io? Diavolo, no. Non sono mai stato in casa sua. Ci salutiamo appena.»

«Credevo che se la passasse male.»

«Perché?»

«L'automobile.»

«Così spende tutto cambiando arredamento alla casa.»

«Gente strana, però.»

«Strana in che senso?»

«Tillie ha visto che lei comprava la melassa, al supermarket.»

«Oh, diavolo» dice Herb. «È come un culto, quella roba. Non mi meraviglio della macchina. Probabilmente nemmeno gli interessa se qualcuno si accorge che ha già diciotto mesi.»

Il silenzio.

Smith dice: «È quasi ora di ridipingere questa casa».

Herb dice: «Anche la mia».

Fasci di luce bianca sciabolano il paesaggio; la giardinetta di Smith si infila nel viottolo, entra nella rimessa e si ferma. Le portiere sbattono, come parole di due sillabe. Si avvicinarono voci femminili, parlano tutte e due contemporaneamente, senza perdere una battuta. La porta si apre, entra Tillie, entra Jeannette.

«Ehi, bulli, cosa state facendo?»

«Solo chiacchiere da uomini» dice Smith.


Percorsero corridoi ondulati e per due volte camminarono senza danno su abissi senza fondo e vennero sollevati verso l'alto. Mielwis, in un fregio diagonale di nastro giallo e porpora avvolto verso destra e verso sinistra attorno alla gamba sinistra, era solo e aveva l'aria molto imponente. Accolse Charlie con grave allegria e approvò chiaramente, apertamente, vivamente l'abbigliamento blu cupo.

«Vi lascio» disse Philos, al quale Mielwis non aveva prestato alcuna attenzione (il che, pensò Charlie, poteva significare solo che lo accettava); annuì e sorrise gentilmente. Charlie agitò un dito e Philos se ne andò.

«Molto discreto» disse Mielwis, con approvazione. «Ce n'è uno solo, come Philos.»

«Ha fatto del suo meglio, per me» disse Charlie, poi aggiunse, quasi controvoglia: «Io credo…».

«Bene» disse Mielwis. «Il buon Philos mi dice che tu ti senti meglio.»

«Diciamo che comincio a capire come mi sento» disse Charlie «questo è molto più di quanto sapevo quando sono venuto qui.»

«Un'esperienza sconvolgente.» Charlie l'osservò attentamente, in un certo senso vi fu costretto. Non aveva alcun elemento per giudicare la probabile età di quella gente; e se Mielwis sembrava più anziano, questo era dovuto certamente al rispetto che gli altri gli attribuivano, e alla sua taglia un po' imponente, e al suo viso più pieno, e alla distanza veramente straordinaria — persino lì — tra i sui occhi. Ma non c'era nulla, in quelle creature che lasciasse pensare a un invecchiamento nel senso che intendeva lui.

«Dunque tu vuoi sapere sul nostro conto tutto quello che c'è da sapere.»

«Certamente.»

«Perché?»

«Perché è il mio biglietto di ritorno a casa.» La frase era così idiomatica che in quella lingua era quasi priva di significato, e Charlie lo capì nello stesso momento in cui la pronunciava. In quella lingua pareva non esistesse il concetto di “pagamento” o di “permesso di transito”; la parola che aveva scelto per “biglietto” significava “etichetta” o “scheda”. «Voglio dire» aggiunse «mi è stato detto che quando avrò visto tutto ciò che tenete a farmi vedere…»

«…e tutto ciò che chiederai di vedere…»

«…e quando avrete visto le mie reazioni, accetterete di rimandarmi nel luogo da cui sono venuto.»

«Sono lieto di poter ratificare questo accordo» e Charlie ebbe l'impressione che Mielwis volesse fargli capire che si trattava di una misura specialissima. «Cominciamo.» In un certo senso, suonò come una spiritosaggine.

Charlie rise, perplesso.

«Non so da dove cominciare.» Certe parole che aveva letto da qualche parte… Charles Fort? Oh! Come gli sarebbe piaciuta quella situazione!… Fort aveva detto: “Per misurare un cerchio, comincia da un punto qualsiasi”. «Sta bene, allora. Voglio sapere… qualcosa di personale sul conto dei ledom.»

Mielwis allargò le mani. «Qualunque cosa.»

Improvvisamente intimidito, non osò fare domande dirette. Disse: «Se ricordo bene, Philos ha accennato a qualche cosa, ieri sera… comunque, prima che io mi addormentassi… Philos ha detto che voi ledom non avete mai visto il corpo di un maschio. E io ho pensato immediatamente che volesse dire… che voi eravate tutte femmine. Ma quando glielo ho chiesto, ha risposto di no. Ora, o siete una cosa o siete l'altra, giusto?».

Mielwis non rispose, ma rimase immobile; lo guardò amichevolmente con quegli occhi immensi, serbando sulle labbra un mezzo sorriso altrettanto amichevole. Nonostante il suo imbarazzo che, per qualche ragione, cominciava a diventare acuto, Charlie riconobbe quella tecnica e l'ammirò; aveva avuto un'insegnante che la usava, una volta. Era un modo di dire: “Arrivaci da solo”, ma non sarebbe mai stato usato verso qualcuno che già non conoscesse tutti i fatti. Una specie di “sfida al lettore” di un libro di Ellery Queen.

Charlie rimescolò nella propria mente tutte le impressioni imbarazzanti che aveva provato al riguardo: il notevole sviluppo pettorale (ma non insolitamente notevole) e la grandezza delle areole; l'assenza di individui dalle spalle ampie e dai fianchi sottili. E, fra le altre caratteristiche, i capelli, che venivano tenuti in modi diversi quanto erano diversi gli abiti, ma erano per lo più corti, e gli abiti stessi, con la loro assurda varietà. Ma rifiutò di lasciarsi sviare.

Poi pensò alla lingua che inspiegabilmente (per lui) riusciva a parlare correntemente, e che pure gli presentava costantemente misteri ed enigmi. Guardò il serio, paziente Mielwis, e si disse in ledom: Io lo sto guardando. Esaminò la particella pronominale “Lo”, da sola, per la prima volta, e scoprì che era lui ad attribuirle un genere preciso: quando pronunciava quella parola la traduceva “Lo” in inglese perché per qualche sua ragione Charlie preferiva così. Ma, in se stessa, nella lingua ledom, non aveva alcun significato di genere o di sesso. Eppure era una particella pronominale personale; non sarebbe stata adoperata per parlare di oggetti. In inglese, c'è un pronome impersonale, che si riferisce alle cose. Il pronome personale, in lingua ledom, era uno solo… personale e senza genere. Charlie lo faceva corrispondere a “lui, lo”, ma era un errore, e adesso lo sapeva.

Forse il fatto che il pronome non avesse genere significava che i ledom non avevano sesso? Perché in questo modo la straordinaria osservazione di Philos avrebbe acquisito consistenza: non avevano mai visto un maschio ma non c'erano femmine. Le parole e i concetti “maschio” e “femmina” esistevano in quella lingua: l'alternativa era “entrambi”. I ledom avevano tutti e due i sessi.

Levò lo sguardo verso gli occhi pazienti di Mielwis.

«Voi siete l'uno e l'altro» disse.

Mielwis non si mosse e non parlò per quello che parve un tempo molto lungo. Poi il suo mezzo sorriso si allargò come se fosse soddisfatto di ciò che leggeva nel viso di Charlie. Quindi disse, gentilmente: «È una cosa tanto terribile?».

«Non ho pensato se sia terribile o no» disse candido Charlie. «Sto solo cercando di immaginare come sia possibile.»

«Te lo mostrerò» disse Mielwis, e si alzò maestosamente, girò attorno alla scrivania, avvicinandosi allo sbalordito Charlie.


«Ehi, bulli» dice Tillie Smith. «Cosa state facendo?»

«Chiacchiere da uomini» dice Smith.

Herb dice: «Ehi, giocatrici. Come è andato il bowling?».

Jeannette dice: «Tre colpi e io sono fuori».

«Questa battuta l'ha già detta Herb» dice Smith, in quel suo modo plumbeo, e non è vero.

Tillie parla più forte di tutti: «Che cosa ne diresti di un highball? Beviamo qualcosa».

«Noi no» dice Herb, facendo tintinnare prontamente il ghiaccio in un bicchiere che per il resto è vuoto. «Io ho già bevuto il mio, ed è tardi.»

«Lo stesso per me» dice Jeannette, che ha capito al volo.

«Grazie per i liquori e per tutte le barzellette sconce» dice Herb a Smith.

«Non dire niente delle ballerine» dice Smith. Jeannette fa grandi gesti, come se giocasse a bowling, «'notte, Til. Sempre in gamba.»

Anche Tillie fa ampi gestì come se giocasse a bowling, e costringe Smith a sdraiarsi di nuovo, in quella che è comunque la sua posa preferita. I Railes raccolgono la sacca da bowling dei Jeannette; Herb grugnisce drammaticamente nel sollevarla, e Jeannette stacca il baby-sitter e glielo infila sotto il braccio sinistro mentre gli caccia la borsa sotto il braccio destro e siccome è una signora, aspetta che sia lui ad aprire la porta con il ginocchio.


«Vieni» disse Mielwis, e Charlie si alzò e lo seguì in una stanza più piccola. Una intera parete, dal pavimento al soffitto, era coperto di fessure etichettate… una specie di schedario, pensò; e il Signore ci salvi, neppure quelle erano in linee rette, ma disposte ad arco… e adesso che ci pensava, gli ricordavano gli archi che aveva visto disegnati su un banco di montaggio da un esperto di efficienza; portata massima della mano destra, portata ottimale della mano sinistra, e così via. Contro una parete c'era una specie di morbido scaffale, bianco e piatto… un lettuccio per visite mediche, se mai ne aveva visto uno. Mielwis, passando, vi batté sopra la mano, gentilmente, e il lettuccio lo seguì per la stanza, abbassandosi lievemente; così che, quando fu a dieci piedi dalla parete, era alto quanto una sedia. «Siediti» disse Mielwis, volgendo il capo.

Charlie sedette, stordito, e guardò il ledom rimanere ritto e osservare le etichette. All'improvviso, con sicurezza, tese le mani verso l'alto. «Noi siamo qui.» Agganciò le dita sottili in una delle fenditure e abbassò la mano. Dalla fenditura cominciò a uscire un diagramma: era largo circa un metro e lungo quasi due. Quando si abbassò, le luci della stanza si affievolirono leggermente, mentre l'immagine sul diagramma diventava più brillante. Mielwis alzò la mano e abbassò un secondo diagramma, poi sedette accanto a Charlie.

Ora la stanza era completamente buia, e i diagrammi rifulgevano di luce. Erano immagini colorate, di fronte e di profilo, di un ledom abbigliato soltanto della serica sporan che cominciava qualche centimetro sotto l'ombelico e scendeva allargandosi verso l'orlo inferiore fino a cinque o sei centimetri più su di mezza coscia, e si stendeva dalla parte anteriore d'una gamba alla parte anteriore dell'altra. Charlie ne aveva già viste, più corte e più lunghe di questa, rosse, verdi, azzurre, purpuree e candide, ma doveva ancora vedere un ledom che ne fosse privo. Era evidentemente un tabù fondamentale, e non fece commenti.

«Ora sezioneremo» disse Mielwis, e in qualche modo che Charlie non riuscì a percepire, fece mutare i diagrammi: blip! E la sporran era scomparsa, insieme alla pelle sottostante, ed erano esposte la fascia e le fibre muscolari della parete addominale. Con una lunga bacchetta nera magicamente comparsa, Mielwis indicò gli organi e le funzioni che descriveva. La punta della bacchetta era, a volontà, un ago, un cerchio, una freccia e una specie di mezza parentesi, e il linguaggio era conciso intimamente connesso alle domande di Charlie.

E Charlie ne fece di domande! Il suo imbarazzo era ormai scomparso, e avevano preso il sopravvento due delle sue caratteristiche più radicate: l'una, il risultato delle sue letture e delle sue indagini onnivore, indisciplinate, instancabili; l'altra, le grandi lacune che erano rimaste nella sua pur considerevole cultura. L'una e l'altra caratteristica apparivano ora molto più drastiche di quanto avesse creduto; sapeva molto di più di quanto sapesse di sapere, e possedeva ignoranza e informazioni errate in misura dieci volte superiore rispetto a quello che aveva immaginato.

I particolari anatomici erano affascinanti, come lo sono spesso, e per la solita ragione che stordisce chiunque sia capace di stupirsi; per l'ingegnosità, l'inventiva, l'efficiente complessità d'una cosa vivente.

In primo luogo, i ledom avevano chiaramente entrambi i sessi in forma attiva. L'organo intromittente era radicato molto indietro, in quella che nell'homo sapiens potrebbe essere chiamata fossa vaginale. La base dell'organo aveva, da ogni parte, un os uteri, che si apriva sulle due cervici, perché i ledom avevano due uteri, e generavano sempre due gemelli. In erezione, il phallos discendeva ed emergeva; quando era flaccido era completamente rinchiuso e, a sua volta, conteneva l'uretra. L'accoppiamento era reciproco… in realtà, sarebbe stato virtualmente impossibile in qualsiasi altro modo. I testicoli non erano né interni né esterni, ma superficiali: si trovavano all'altezza dell'inguine, proprio sotto la pelle. E c'era una meravigliosa riorganizzazione dei plessi nervosi, almeno due nuove serie di muscoli sfinterei, e una complicata ridistribuzione di certe funzioni, come quelle delle ghiandole di Bartolini e di Cowper.

Quando Charlie fu completamente sicuro di avere ottenuto tutte le risposte che gli interessavano e quando non riuscì a pensarne altre, e quando Mielwis ebbe esaurito le sue spiegazioni, quest'ultimo toccò i due diagrammi con il dorso della mano, e i diagrammi scivolarono verso l'alto e scomparvero nelle loro fenditure, mentre le luci si riaccendevano.

Charlie rimase seduto in silenzio per un istante. Ebbe una visione di Laura… di tutte le donne… di tutti gli uomini. Biologia, ricordò, senza ragione; usavano i simboli astronomici di Marte e di Venere per indicare il maschio e la femmina… Cosa diavolo avrebbero usato per questi? Marte più y? Venere più X? Saturno capovolto? Poi girò lo sguardo verso Mielwis, battendo le palpebre. «Ma, in nome di tutto ciò che è sacro, in che modo l'umanità si è ridotta così?»

Mielwis rise indulgente, e si rivolse di nuovo verso lo scaffale. Anche dopo quella dimostrazione, Charlie continuò a pensare a Mielwis come a un “lui”… che era una comoda traduzione di quel pronome ledom privo di genere. Mielwis cominciò a camminare avanti e indietro. Charlie attese paziente qualche nuova rivelazione, ma Mielwis emise un grugnito annoiato e si diresse in un angolo, dove posò una mano su uno degli onnipresenti ghirigori irregolari. Una voce esile disse educatamente: «Sì, Mielwis?»

Mielwis disse: «Tagin, dove hai registrato le dissezioni dell'homo sapiens

La voce fievole si fece udire di nuovo: «Negli archivi, sotto Primati Estinti».

Mielwis ringraziò la voce e girò attorno a un altro banco pieno di fenditure. Trovò quello che cercava. Charlie si alzò, a un suo cenno, e gli si avvicinò, e il lettuccio lo seguì, obbediente. Mielwis fece abbassare altri diagrammi; e si sedette.

Le luci si smorzarono, si spensero; i diagrammi fiammeggiarono.

«Ecco le dissezioni dell'homo sapiens, maschio e femmina» cominciò Mielwis. «E tu hai descritto i ledom come “malridotti”. Voglio mostrarti quanto piccolo sia stato, in realtà, il cambiamento.»

Cominciò una bella dimostrazione dell'embriologia degli organi riproduttivi umani, mostrando quando erano simili le formazioni prenatali degli organi sessuali, e alla fine dimostrò quanto rimanevano simili. Ogni organo del maschio aveva il suo corrispondente nella femmina.

«E se tu non provenissi da una civiltà così assolutamente concentrata su differenze che in se stesse non erano drastiche, ti accorgeresti di quanto erano minime, in realtà, queste differenze.» Era la prima volta che aveva sentito un ledom fare riferimento all'homo sapiens.

Continuò con alcuni diagrammi che mostravano condizioni patologiche. Dimostrò in che modo, grazie a semplici procedimenti biochimici, un organo poteva venire atrofizzato e un altro poteva giungere a una funzione che aveva svolto in tempi antichissimi. Si poteva fare sì che un uomo desse latte, che a una donna crescesse la barba. Dimostrò che il progesterone era normalmente secreto dai maschi, e il testosterone dalle femmine, anche se in quantitativi molto limitati.

Continuò a mostrare immagini di altre specie, per dare a Charlie un'idea della varietà che, in natura, ha l'atto della riproduzione; l'ape regina, che si accoppia in volo, e che poi ha in sé una sostanza capace di fecondare letteralmente centinaia di migliaia di uova, letteralmente per generazioni e generazioni; le libellule, nell'alata danza d'amore, con i corpi snelli piegati a U in forma di un cerchio quasi perfetto, che vorticano e planano sulle paludi; e certi rospi, la cui femmina depone le uova entro larghi pori sul dorso del maschio; i cavallucci marini, i cui maschi mettono al mondo i piccoli; certe varietà di polipi che, in presenza dell'amata, agitano un tentacolo la cui estremità si spezza e nuota da sola, fino alla femmina che, se accetta, la avvolge, e se no, la divora. Quando ebbe finito, Charlie era disposto ad ammettere che, nell'immensa varietà della natura, la differenza tra i ledom e l'homo sapiens non era né eccessivamente insolita né particolarmente drastica.

«Ma che cosa è successo?» chiese, quando ebbe riflettuto. «Come è accaduto tutto questo?»

Mielwis rispose con una domanda: «Che cos'è uscito per primo dal fango, per respirare aria invece che acqua? Che cos'è sceso per primo dagli alberi e ha raccolto un ramo per usarlo come strumento? Quale specie di bestia ha scavato per prima un buco nel terreno e vi ha lasciato deliberatamente cadere un seme? È accaduto, ecco tutto. Queste cose accadono…».

«Ma tu sai molto di più, a questo proposito» accusò Charlie. «E sai molte cose anche sul conto dell'homo sapiens

Con una lievissima sfumatura di risentimento, Mielwis disse: «Questa è la specializzazione di Philos, non la mia. Per quanto riguarda i ledom. Per quanto riguarda l'homo sapiens, sono certo che tu non desideri conoscere né il tempo né il modo della sua scomparsa. Nessuno cerca di nasconderti le informazioni che desideri veramente, Charlie Johns, ma non pensi che l'origine dei ledom e la fine dell'homo sapiens possano avere qualcosa in comune? Naturalmente… sta a te decidere».

Charlie abbassò gli occhi. «Gr-grazie, Mielwis.»

«Parlane con Philos. Lui può spiegarti meglio di chiunque. E ammetto» aggiunse con un ampio sorriso, «che sa meglio di me quando deve fermarsi. Non è nella mia natura nascondere informazioni. Vai a parlare con lui.»

«Grazie» disse ancora Charlie. «Lo farò.»

Le parole di commiato di Mielwis spiegarono che la natura, per quanto possa essere disordinata, per quanto possa produrre errori trascendenti e complicati, sostiene un principio sopra tutti gli altri: la continuità. «E lo conserva» disse « anche quando deve compiere un miracolo per riuscirvi.»


«Oh, sai, è magnifico» dice Jeannette a Herb mentre prepara, comunque, qualcosa da bere, e lui torna in cucina dopo aver dato un'occhiata ai bambini «è magnifico avere dei vicini come gli Smith.»

«Magnifico» dice Herb.

«Voglio dire, avere anche interessi in comune.»

«Hai combinato qualcosa di buono, questa sera?»

«Oh, sì» dice lei porgendogli il bicchiere e appollaiandosi contro il lavello. «Tu hai lavorato per sette settimane a una presentazione per le pasticcerie Big-Bug, per incrementare le vendite di gelati e di pasticcini di lusso, in una catena di negozi…»

«E allora?»

«Nome della catena di negozi: Soltanto Dolci.»

«Oh, ehi, bellissimo. Sei geniale.»

«Sono una scroccona» dice lei. «È stata Tillie a venir fuori con quella frase e forse dimenticherà di averla detta, perché tu ci hai lavorato sopra sette settimane.»

«Brava brava. La userò. Smitty mi aveva buttato giù, questa sera.»

«Gli hai pizzicato il naso?»

«Già.»

«Cos'è successo?»

Lui le dice dello show televisivo, che lui aveva detto qualcosa che suonava come un complimento, e lo spettacolo era finanziato dalla concorrenza.

«Oh» dice lei. «Tu sei uno sciocco, ma lui è egualmente una carogna.»

«Ma me la sono cavata benissimo.»

«Non importa, vorrei avere una bomba pronta, in tutti i casi.»

Lui guarda fuori dalla finestra.

«Sarebbe un guaio se la bomba scoppiasse così vicina.»

«Soltanto se sapessero chi l'ha sganciata.»

«Ah» dice lui. «Non vogliamo mica bombardarlo.»

«No, naturalmente. Vogliamo soltanto avere una bomba a disposizione, per ogni evenienza. Inoltre, io ho un bersaglio che sarebbe una vergogna trascurare.» Gli parla del vecchio Trizer che è stato spedito al piano di sopra e che sarebbe così contento di farla pagare a Smitty.

«Lascialo in pace, Jeannette. Ha la prostata.»

«“E là giacque, prostrata sul pavimento”. Te l'ha detto lui?»

«No, l'ho scoperto io, ecco tutto.» E aggiunse: «Anche le emorroidi».

«Oh, bello, punzecchierò Tillie.»

«Sei la femmina più vendicativa che io conosca.»

«Hanno umiliato il mio tesoruccio, e io non gliela farò passare liscia.»

«E poi lei penserà che te lo abbia detto io.»

«Oh, continuerà a chiedersi in che modo è saltato fuori. Ci penso io, tesoruccio. Siamo una squadra; ecco cosa siamo.»

Lui fa ruotare il bicchiere e guarda il liquido che vortica.

«Smitty ha detto qualcosa del genere.» Le dice degli stivali da deserto, le dice che Smitty è convinto che presto i figli non sapranno quale dei genitori è il padre.

«E questo ti dà fastidio?» fa lei allegramente.

«Un po'.»

«Lascia perdere» gli dice. «Noi siamo una specie nuova, tesoruccio. E con questo, immagina che Karen e Davy crescano senza quella cosa di cui si legge, l'immagine paterna, l'immagine materna e tutto il resto.»

«“La storia della mia vita” di Karen Railes. Quando ero bambino, non avevo una mamma e un papà come gli altri bambini, avevo una Commissione.»

«Commissione o no, brontolone, hanno da mangiare, da bere, da vestirsi, hanno una casa e l'affetto, e questo non dovrebbe essere abbastanza?»

«Be', sì, ma anche quell'immagine paterna dovrebbe valere qualcosa.»

Lei gli accarezza il collo.

«Solo se sei convinto di essere importante. E tu sei già sicuro di essere il solo abbastanza importante per far parte di questa Commissione, giusto? Andiamo a letto.»

«Che cosa intendi dire?»

«Andiamo a letto.»


Charlie Johns trovò Philos in attesa davanti all'ufficio di Mielwis, con l'aria di chi è appena arrivato.

«Come è andata?»

«È stato enorme» disse Charlie. «Ecco, sbalorditivo, no?» Guardò attentamente Philos, poi disse: «Penso che non lo sia, per te.»

«Vuoi sapere altro? O questo ti è bastato? Devi tornare a dormire?»

«Oh, no, non fino a questa notte.» C'era anche la parola “notte”, ma come “maschio” e “femmina” sembrava avere un'applicazione molto più remota di quanto gli occorresse per potersi esprimere. Pensò che avrebbe dovuto aggiungere qualcosa: «Quando sarà buio».

«E quando è buio?»

«Sai bene. Il sole cala. Stelle, luna, tutto il resto.»

«Non viene buio.»

«Non… di cosa stai parlando? La terra gira ancora, no?»

«Oh, capisco che cosa vuoi dire. Oh, sì, immagino che là fuori venga ancora l'oscurità… ma non a Ledom.»

Philos inclinò il capo da una parte. «Questa non è una domanda cui si può rispondere con un sì o un no.»

Charlie guardò lungo il corridoio, verso una delle grandi vetrate, verso il cielo argenteo, fulgido e coperto.

«E perché?»

«Faresti meglio a chiederlo a Seace. Lui può spiegarti meglio di me.»

Controvoglia, Charlie rise; e in risposta all'occhiata interrogativa di Philos, spiegò. «Quando sono con te, è Mielwis che può rispondermi. Quando sono con Mielwis, mi dice che l'esperto sei tu. E adesso tu mi mandi da Seace.»

«In che cosa ha detto che io sono esperto?»

«Non l'ha spiegato esattamente. Ha fatto capire che tu sai tutto quello che c'è da sapere sulla storia di Ledom. Ha detto qualcosa d'altro… vediamo. Ha detto che tu sai quando devi smettere di dare informazioni. Sì, è così; ha detto che tu sai quando fermarti, perché non è nella tua natura nascondere le informazioni.»

Per la seconda volta, Charlie vide un rapido rossore passare sul viso bruno ed enigmatico di Philos. «Ma è nella mia natura.»

«Oh, senti, adesso» disse Charlie, ansiosamente «forse mi sbaglio. Forse mi è sfuggito qualcosa. Non voglio causare guai tra te e…»

«Ti prego» disse Philos, con voce calma «so che cosa intendeva dire, e tu non hai fatto alcun danno. È qualcosa, a Ledom, che non ha nulla a che fare con te.»

«Sì, invece! Mielwis ha detto che forse l'inizio di Ledom può avere qualche legame con la fine dell'homo sapiens, e questo è ciò che voglio chiarire. Senza il minimo dubbio, mi riguarda!»

Si erano avviati, ma ora Philos si fermò e posò una mano sulla spalla di Charlie. «Charlie Johns» disse «ti chiedo perdono. Abbiamo tutti e due torto e ragione insieme. Ma, sinceramente, in tutto questo non c'è nulla di cui tu sei responsabile. Ti prego di lasciar perdere, perché ho avuto torto a comportarmi così. Lasciamo perdere i miei sentimenti, i miei problemi.»

Maliziosamente, Charlie disse: «Davvero… e così io non saprò tutto su Ledom?». E poi rise e disse a Philos che andava tutto benissimo, e che avrebbe dimenticato.

Ma non avrebbe dimenticato.


A letto, Herb dice all'improvviso: «Però Margaret non ci ama».

Jeannette dice, soddisfatta: «Così bombarderemo anche lei. Dormi. Margaret chi?».

«Mead. Margaret Mead, l'antropologa che ha scritto l'articolo di cui ti ho parlato.»

«E perché non ci ama?»

«Dice che un ragazzo cresce con il desiderio di somigliare a suo padre. Così quando il padre è bravo a mantenere la famiglia ed è un buon compagno di giochi e dà una mano in casa, come lavasciugapiatti o come spostaimmondizie o addirittura come moglie, il ragazzo cresce pieno di vitamine e diventa a sua volta specializzato nel mantenere la famiglia eccetera.»

«E cosa c'è di male?»

«Dice che da Begonia Drive non possono uscire avventurieri, esploratori e artisti.»

Dopo un silenzio, Jeannette dice: «Di' a Margaret di andare a scalare l'Annapurna e di farsi l'autoritratto. Te l'ho già detto… noi siamo una nuova specie di gente. Noi stiamo inventando una gerite nuova che non è sconvolta perché papà sembra sbronzo e perché mamma se l'intende con l'uomo del ghiaccio. Cresceremo una bella schiera di gente che apprezzerà ciò che ha e non passerà la vita a mettersi alla pari con qualcuno. Sarà meglio che tu la smetta di pensare a cose serie, tesoruccio. Ti fa male».

«Sai» dice lui, sbalordito «è precisamente quello che mi ha detto Smitty.» Ride. «Tu lo dici per tirarmi su, lui me lo dice per buttarmi giù.»

«Credo che dipenda da come la si vede.»

Lui se ne rimane sdraiato per un po', pensando ai loro stivali da deserto e i miei genitori sono una Commissione e come è carino un uomo con uno strofinaccio, e alla fine la testa comincia a girargli. Allora pensa, al diavolo, e dice: «Buonanotte, tesoro».

«Buonanotte, tesoro» mormora lei.

«Buonanotte, stellina.»

«'nanotte, stellina.»

«Accidenti!» ruggisce lui. «Smettila di chiamarmi sempre con gli stessi nomi con cui ti chiamo io!»

Lei non è proprio spaventata, ma sbalordita sì, e sa che lui sta pensando a qualcosa, quindi non dice niente.

Dopo un po' Herb la tocca e dice: «Scusami, tesoro».

Lei dice: «D'accordo… George».

Lui deve ridere.


Occorsero solo pochi minuti di “metropolitana” (c'era un nome ledom per indicarla, ma era nuovo e non aveva nessuna diretta traduzione inglese) perché Philos e Charlie arrivassero al Centro Scientifico. Quando uscirono ai piedi di quella struttura capovolta, girarono attorno alla piscina, dove stavano guazzando trenta o quaranta ledom, e si fermarono un momento a guardare. Avevano parlato poco, lungo il tragitto, poiché tutti e due avevano molte cose a cui pensare, e fu attraverso i suoi pensieri che Charlie mormorò, mentre osservava i tuffi, le lotte, le corse: «Che cosa regge quei grembiulini?». E Philos, allungando una mano, tirò lievemente i capelli di Charlie e chiese: «Che cosa ti tiene i capelli attaccati alla testa?».

E Charlie, come gli era capitato molto di rado in vita sua, arrossì.

Girarono attorno all'edificio, passando sotto l'enorme struttura sospesa e Philos si fermò. «Sarò qui, quando avrai finito» disse.

«Vorrei che venissi con me» disse Charlie. «Questa volta vorrei averti vicino, quando qualcuno dirà: “Parlane a Philos”.»

«Oh, lo diranno. E io ti parlerò chiaro, quando sarà il momento. Ma non pensi che dovresti conoscere meglio Ledom com'è ora prima che io ti confonda le idee con una quantità di notizie su Ledom com'era una volta?»

«Tu cosa sei, Philos?»

«Uno storico.» Accennò a Charlie di portarsi alla base del muro e posò una mano sul corrimano invisibile. «Pronto?»

«Pronto.»

Philos indietreggiò e Charlie salì vertiginosamente. Ormai conosceva abbastanza quella sensazione per riuscire ad accettarla senza sentire che l'universo si rovesciava; riuscì a guardare Philos che ritornava verso la piscina. Strana creatura, pensò. Sembra che non sia simpatico a nessuno.

Si fermò silenziosamente a mezz'aria davanti alla grande finestra, e avanzò arditamente in quella direzione. E la varcò. E mentre lo faceva, avvertì con certezza di trovarsi al chiuso; che cosa faceva, quella parete invisibile… ritraeva gli orli esattamente attorno a lui, in modo che lui faceva parte della chiusura, mentre passava? Doveva essere qualcosa di simile.

Si guardò intorno. La prima cosa che vide fu la cella imbottita, l'argentea zucca alata — la macchina del tempo — con la porta aperta, come quando lui ne era uscito. C'erano le tende all'estremità della stanza, e strani apparecchi obliqui su una specie di sostegno massiccio al centro della stanza, alcune sedie, una specie di scrivania coperta da un mucchio di carte.

«Seace.»

Nessuna risposta. Attraversò la stanza, un po' intimidito, sedette su una delle sedie, o sgabelli. Chiamò un po' più forte, senza risultato. Accavvallò le gambe e attese, le disaccavallò e tornò ad accavallarle in direzione contraria. Dopo un po' tornò ad alzarsi e andò a sbirciare nella zucca argentea.

Non pensava che l'avrebbe colpito così duramente; pensava che non l'avrebbe colpito affatto. Ma lì, proprio lì, su quel liscio, morbido pavimento argenteo incurvato, lui era rimasto disteso più morto che vivo per anni per miglia incalcolabili a distanza di tutto ciò che aveva importanza per lui, persino il prezioso sudore inaridito sul suo corpo. Gli occhi gli bruciarono sotto lo stimolo delle lacrime. Laura! Laura! Sei morta? Essere morta ti rende più vicina a me? Sei diventata vecchia, Laura, il tuo dolce corpo si è raggrinzito e incartapecorito? E quando questo è accaduto, tu sei stata lieta che io non fossi lì a vedere? Laura, sai che darei qualsiasi cosa nella mia vita e anche la mia vita stessa pur di toccarti una sola volta… per toccarti anche se tu sei vecchia e io non lo sono?

Oppure… la fine, quella cosa terribile, definitiva, è accaduta mentre tu eri giovane? Il grande martello ha colpito la tua casa, e tu sei scomparsa in un istante di fuoco? O è stata la pioggia impalpabile del veleno, che ti iha fatto sanguinare dentro e vomitare e alzare la testa per guardare i tuoi meravigliosi capelli caduti sul guanciale?

Ti piaccio? gridò, in un urlo silenzioso, in un improvviso, tacito prorompere di gaiezza; ti piace Charlie con questo pannolino per neonato, blu notte orlato di rosso, e con questa giacca trasformabile indossata a rovescio? E questo assurdo colletto?

Si inginocchiò sulla soglia della macchina del tempo e si coprì la faccia con le mani.

Dopo un poco si alzò e andò a cercare qualcosa di concreto.

Mentre guardava, disse: «Sarò con te quando accadrà, Laura. O fino a che accadrà… Laura, forse moriremo insieme di vecchiaia, aspettando…». Accecato dai suoi sentimenti, si ritrovò a frugare tra le tende a una estremità della stanza, senza sapere in che modo fosse arrivato lì o che cosa stesse facendo. Dietro non c'era altro che la parete, ma c'era un ghirigoro e lo toccò. Apparve un'apertura simile a quella che aveva contenuto la sua colazione, ma non ne uscì alcuna lingua sporgente. Si chinò e guardò nell'interno illuminato, e vide una pila di scatolette trasparenti approssimativamente cubiche, e un libro.

Tirò fuori le scatolette, dapprima per pura curiosità, poi con crescente eccitazione. Le tolse ad una ad una, ma con la stessa cura le rimise a posto, una ad una, come le aveva trovate.

In una scatola c'era un chiodo, un chiodo arrugginito, con una striscia di metallo lucente che mostrava dove era stato tagliato, diagonalmente.

In una scatola c'era un pezzo di bustina di fiammiferi, stinta e rovinata dalla pioggia. E lui la conosceva, la conosceva! L'avrebbe riconosciuta ovunque. Era solo un frammento, ma veniva dal Dooley's Bar and Grill di Arch Street. Solo… solo che le poche lettere rimaste erano rovesciate…

In una scatola c'era una calendula secca. Non clamorosa, non uno dei bellissimi, miracolosi fiori ibridi dei ledom, solo il piccolo bocciolo d'una calendula secca.

In una scatola c'era una zolla di terra. Di quale terra? Era la terra che i suoi piedi avevano calpestato? Veniva dal misero sentiero di terra battura sotto la grande lanterna bianca su cui era dipinto il 61 quasi sbiadito? I denti della macchina del tempo avevano azzannato quella zolla, in un precedente tentativo?

E alla fine c'era un libro. Come tutto ciò che era lì, rifiutava di essere un rettangolo regolare; era un oggetto circolare dai contorni precisi quanto quelli di una ciambella e le linee, nell'interno erano disposte ad archi irregolari. (D'altra parte, se s'impara a scrivere senza spostare il gomito, non è meglio scrivere su linee arquate?). In ogni caso, si apriva lungo una specie di dorso, come deve fare un buon libro, e lui poteva leggerlo. Era scritto in ledom, ma lui sapeva leggerlo, e questo lo stupì non più di quanto lo avesse stupito accorgersi che lo sapeva parlare, anzi, lo stupì meno; aveva già provato sbalordimento, e quello bastava per tutto.

Innanzi tutto consisteva di una descrizione altamente tecnica di un procedimento, e poi c'erano parecchie pagine di annotazioni incolonnate, e con molte cancellature e correzioni, come se qualcuno avesse annotato qualche esperimento, qualche calibrazione. Poi c'erano molte pagine che recavano l'immagine di quattro quadranti, come quattro orologi o manometri, ma senza lancette. Verso la fine erano vuoti ma sui primi erano scarabocchiate le lancette e alcuni strani appunti. Mandato scarafaggio, non tornato. C'erano molte annotazioni non tornato, fino a una pagina sulla quale era scarabocchiato un immenso, trionfale punto esclamativo ledom. Era l'esperimento 18, e in grafia tremante c'era scritto: mandata noce, ritorno fiore. Charlie prese la scatola con il fiore e, dopo averla rigirata parecchie volte, distinse finalmente il numero 18.

Quei quadranti, quei quadranti… si girò di scatto e si precipitò verso il gruppo di strumenti bizzarri, al centro della stanza. Certo, c'erano quattro quadranti, e attorno all'orlo di ognuno un cursore, sistemato in modo da poter scorrere in cerchio attorno al quadrante. Vediamo, se sistemavi i quattro cursori secondo le istruzioni del libro, e poi… oh, sicuro, era così. Un interruttore era un interruttore in qualsiasi lingua e su questo poteva leggere ACCESO e SPENTO.

Tornò nell'angolo, voltò freneticamente le pagine. Esperimento 68… l'ultimo, prima che cominciassero le pagine vuote. Mandate pietre. Ritornato (nella fonetica ledom) Charlie Johns.

Strinse disperatamente il libro e cominciò a leggere da quella pagina la regolazione del diagramma, a impararla a memoria.

«Charlie? Sei qui, Charlie Johns?»

Seace!

Quando Seace, entrato da qualche invisibile porta dietro la macchina del tempo, girò attorno nell'angolo, Charlie era già riuscito a mettere a posto il libro. Ma non era riuscito a trovare in tempo il ghirigoro, e adesso era là ritto, con il ripostiglio aperto e la calendula morta e inscatolata tra le mani.


«Cosa stai facendo?»

Herb apre gli occhi e vede sua moglie ferma vicino a lui. Dice: «Me ne sto sdraiato in un'amaca un sabato a mezzogiorno e parlo con me stesso».

«Ti tenevo d'occhio. Hai l'aria molto triste.»

«Come disse Adamo quando sua moglie cadde dall'albero. Eva è caduta di nuovo.»

«Oh, su, stellino d'oro… dillo a mammina.»

«Tu e Smitty non volete che io parli seriamente.»

«Sciocco. Ero addormentata, quando l'ho detto».

«E va bene. Stavo pensando a un libro che ho letto e che vorrei rileggere. La prodigiosa scomparsa

«Forse è scomparso, allora. Oh Dio, è di Philip Wylie.»

«Gli piacciono i pesci e odia le donne.»

«Ed è questo che ti rende così triste su questa amaca?»

«Non ero proprio triste. Stavo soltanto cercando disperatamente di ricordare cosa diceva quell'uomo.»

«Nella Prodigiosa scomparsa? Io me lo ricordo. Diceva che tutte le donne del mondo sparivano da un giorno all'altro. Spaventoso.»

«L'hai letto! Oh bene. Dunque, c'è un capitolo che spiega il tema. È quello che voglio ricordare.»

«Oh-h-h-h… sì. Me lo ricordo. Ho cominciato a leggerlo poi l'ho saltato perché volevo vedere come andava a finire. C'era…»

«La sola cosa che mi piace in uno scrittore di pubblicità più che in uno scrittore di best-seller» interrompe Herb «è il fatto che tutti e due sono fabbricanti di parole, ma lo scrittore pubblicitario si dà da fare perché le sue parole non si mettano mai di mezzo tra il cliente e il prodotto. È quello che ha fatto Wylie, invece, in quel capitolo del libro. Quelli che ne hanno bisogno non lo leggono.»

«Vuoi dire che io ne ho bisogno?» dice lei in tono difensivo; poi: «Cosa c'è lì dentro, di cui avrei bisogno?»

«Niente» dice miseramente Herb, e torna a sprofondarsi nell'amaca, a occhi chiusi.

«Oh, tesoro, non volevo…»

«Non sono arrabbiato. È solo che mi pare… mi pare che ti dia ragione. Credo che abbia le idee più chiare di te.»

«Mi dà ragione in che cosa, per l'amor del cielo?»

Herb apre gli occhi e guarda il cielo.

«Dice che la gente ha fatto il suo primo grosso errore quando ha cominciato a dimenticare le somiglianze tra gli uomini e le donne e ha cominciato a badare solo alle differenze. Dice che questo è il peccato originale. Dice che è stato questo a spingere gli uomini a odiare gli uomini e anche le donne. Dice che questa è la ragione di tutte le guerre e di tutte le persecuzioni. Dice che questa è la ragione per cui abbiamo perduto tutta la capacità di amare, salvo una parte minima.»

Lei sbuffa: «Io non ho mai detto niente di simile!».

«È a questo che stavo pensando. Tu hai detto che noi siamo una specie nuova di gente, come una commissione o una squadra. Ci sono cose femminili e cose maschili, da fare; e al giorno d'oggi non importa molto chi è a farle. Sono cose che può fare un uomo o una donna, o tutti e due.»

«Oh» dice lei. «È questo.»

«Wylie la mette in modo divertente, anche. Dice che certa gente crede che gli uomini siano più forti delle donne perché gli uomini hanno allevato le donne selettivamente.»

«Tu allevi le donne selettivamente?»

Lui ride, finalmente, ed è questo che lei voleva; non sopporta che lui abbia l'aria triste. «Ogni volta» dice lui, e l'attira sull'amaca.


Seace, il capo inclinato da una parte, si avvicinò vivacemente a Charlie. «Bene, mio giovane sparacalci. Cosa stai facendo?»

«Vorrei scusarmi per quella faccenda» balbettò Charlie. «Ero molto sconvolto.»

«Hai trovato quel fiore, ehm?»

«Ecco, sono venuto e tu eri… voglio dire, non c'eri…»

Sorprendentemente, Seace gli batté una mano sulla spalla. «Bene, bene; è una delle cose che intendevo mostrarti. Sai che fiore è?»

«Sì» disse Charlie, che non riusciva quasi a parlare. «È una calendula.»

Seace gli passò davanti e prese il libro, scrisse il nome del fiore.

«A Ledom non esiste» disse orgogliosamente. Fece un cenno verso la macchina del tempo. «Non sappiamo mai che cosa pescheremo. Naturalmente, tu sei l'esemplare più prezioso. C'è una possibilità su centoquarantatré quadrilioni che questo capiti ancora, se tutto questo ha un significato, per te.»

«Vuoi… vuoi dire che questa è tutta la possibilità che io ho di ritornare?»

Seace rise. «Non fare quella faccia sconsolata! Milligrammo per milligrammo… credo, atomo per atomo… tu tiri fuori quello che metti dentro. Questione di massa. Abbiamo la scelta completa di quello che mettiamo dentro. Quello che ne esce…» Alzò le spalle.

«Ci vuole molto tempo?»

«Questo speravo di saperlo da te, ma tu non hai saputo spiegarlo. Per quanto tempo credi di essere rimasto là dentro.»

«Mi sono sembrati anni.»

«Non sono stati anni; saresti morto di fame. Ma a questa estremità è istantaneo. Chiudi la porta, giri l'interruttore, apri la porta, ed è finito.» Con calma, prese la calendula e il libro, li ripose nel ripostiglio, lo richiuse. «E adesso, su! Cosa vuoi sapere? Mi hanno detto che devo oramai nasconderti soltanto quando e come l'homo sapiens si è tagliato la stupida gola collettiva. Oh, mi dispiace. Non voglio offenderti personalmente. Da dove vuoi cominciare?»

«Ci sono tante…»

«Sai una cosa? Vi sono certi particolari preziosi. Lascia che ti faccia un esempio. Riesci a immaginare un edificio, una città, un'intera civiltà forse, che funziona sulla base della sola idea tecnologica del generatore elettrico e del motore… che è essenzialmente la stessa cosa?»

«Io… be', certo.»

«Sarebbe sbalorditivo per chi non avesse mai conosciuto prima questa realtà. Avendo a disposizione l'elettricità e i motori, tu puoi spingere, trainare, riscaldare, raffreddare, aprire, chiudere, illuminare… be', più o meno fare moltissime cose. Esatto?»

Charlie annuì.

«Esatto. Tutto ciò che è relativo al moto, capisci quello che intendo. Anche il calore è moto, se ci pensi bene. Ecco, noi abbiamo una cosa che fa tutto quello che può fare un motore elettrico, più molte altre cose nel campo della statica. È stata realizzata qui a Ledom, ed è la pietra di volta dell'intera struttura. Si chiama campo-A. A sta per Analogo. Un congegno molto semplice come concezione fondamentale. Naturalmente la teoria…» Scosse il capo. «Hai mai sentito parlare di un transistor?»

Charlie annuì. Quello era un uomo con cui si poteva conversare anche usando soltanto i muscoli del collo.

«Ora, è un congegno semplice per quanto può essere semplice un congegno» disse Seace. «Un piccolo grumo di materia con tre fili dentro. Mandi un segnale in un filo, e il segnale esce moltiplicato per cento. Non occorre tempo per scaldarlo, non ci sono filamenti che si rompano, né valvole che si guastino, e non c'è quasi bisogno di energia, per farlo funzionare.

“Poi arriva il diodo a tunnel e fa sembrare complicato il transistor; lo fa sembrare troppo pesante, troppo grande e inefficiente, in confronto; e molto più piccolo e, a occhio nudo, molto più semplice. Ma la teoria, Dio! Ho sempre detto che un giorno ridurremo queste cose a tal punto che potremo fare qualsiasi cosa senza bisogno di energia… solo, nessuno riuscirà mai a comprendere la teoria.»

Charlie, che aveva già udito altre volte quella battuta professionale, sorrise educatamente.

«Dunque: il campo A. Cercherò di spiegartelo senza ricorrere a termini tecnici. Ricordi il cucchiaio che hai usato questa mattina? Sì? Sì. Bene, nel manico c'è un generatore d'energia microminiaturizzato. La forma del campo è determinata da guide fatte di lega speciale. Il campo è così piccolo che non potresti vederlo anche se fosse visibile, e non lo è, neppure con nove microscopi elettronici in serie. Ma quel filo azzurro attorno all'orlo è composto in modo che ogni atomo è un esatto analogo delle particelle subatomiche che formano le guide. E, per ragioni di tensione spaziale su cui non voglio farti sprecare tempo, nell'interno del cappio appare un analogo del campo. Giusto? Giusto. Questo è il congegno, il mattone su cui tutto è costruito. Tutto il resto, qui, è stato fatto mettendo insieme molti di quei mattoni. La finestra… è un cappio analogo. Ve ne sono due che sorreggono questo edificio… credevi che stesse in piedi a forza di preghiere, per caso?»

«L'edificio? Ma… il cucchiaio era un cappio, e immagino che anche la finestra possa esserlo, ma non vedo nessun cappio fuori dall'edificio. Dovrebbe essere all'esterno, vero?»

«Certamente. Hai un buon occhio, ma non occorrono occhi per vedere questo. Certo, questo edificio è sorretto in due punti, dall'esterno. E ci sono i cappi. Ma invece di essere fatti di lega metallica, sono onde stazionarie. Se non sai cos'è un'onda stazionaria non ti assillerò con la spiegazione. Vedi quello?» E puntò un dito. Charlie seguì il dito di Seace e vide le rovine e il grande fico.

«Quello» disse Seace «è uno dei puntelli, o almeno la sua estremità esterna. Prova a immaginare un modello di questo edificio, sorretto da due triangoli di plastica trasparente, e avrai un'idea della forma e della grandezza dei campi.»

«E cosa succede quando qualcuno ci cammina dentro?»

«Non lo fa nessuno. Taglia un arco nella base del tuo pezzo di plastica e capirai perché nessuno ci cammina dentro. Qualche volta un uccellino ci va a sbattere contro, poveraccio, ma per lo più sembrano in grado di evitarlo. Il sostegno rimane invisibile perché la superficie non è veramente una superficie, ma una matrice vibrante di forze, e la polvere non vi si posa. Ed è perfettamente trasparente.»

«Ma… non cede? Il piano del cucchiaio che ho usato, si piegava sotto il peso del cibo… l'ho visto. E queste finestre…»

«Tu hai veramente un buon occhio!» lodò Seace. «Bene, il legno è materia, il mattone è materia, l'acciaio è materia. Qual è la differenza tra loro? Ciò che li compone e il modo con cui sono messi insieme, ecco tutto. Il campo-A può essere regolato in modo da diventare tutto quello che tu vuoi… spesso, sottile, impermeabile, quello che ti garba. Anche rigido… rigido come nessun'altra cosa al mondo.»

Charlie pensò: “Va tutto benissimo finché paghi la bolletta della luce per tenere tutto in piedi.” Ma non lo disse perché quella lingua non aveva una parola per “bolletta della luce” e neppure per “pagare”.

Guardò il gigantesco fico, socchiuse gli occhi e cercò di vedere la cosa che sosteneva l'edificio.

«Scommetto che quando piove la si vede» disse alla fine.

«No» disse Seace, vivacemente. «Non piove.»

Chiarlie alzò lo sguardo verso lo splendore offuscato. «Cosa?»

Seace gli si avvicinò, alzò lo sguardo a sua volta. «Tu stai guardando l'interno di una bolla a campo-A.

«Vuoi dire…»

«Sicuro, tutta Ledom è sotto una cupola. La temperatura è controllata, l'umidità è controllata, le brezze soffiano quando lo vogliamo noi.»

«E non c'è notte…»

«Non dormiamo, quindi, perché preoccuparcene?»

Charlie aveva sentito dire che probabilmente il sonno era una tendenza innaturale, ereditata dagli abitatori delle caverne che erano necessariamente obbligati a starsene accoccolati immobili nelle grotte durante le ore di buio per evitare i carnivori notturni; secondo quella teoria, la capacità di perdere coscienza e di rilassarsi durante quei periodi era diventata un fattore di sopravvivenza.

Tornò a guardare il cielo. «E fuori cosa c'è, Seace?»

«È meglio lasciarne la spiegazione a Philos.»

Charlie cominciò a sogghignare, poi il suo sorriso si spezzò. Quel rimandarlo da un esperto all'altro sembrava avvenire sempre quando sfiorava l'argomento della fine della razza umana così come l'aveva conosciuta lui.

«Dimmi solo una cosa, in… ecco, in teoria, Seace. Se il campo-A è trasparente alla luce, dovrebbe essere trasparente anche alle radiazioni, no?»

«No» disse Seace. «Te l'ho detto… è quello che noi vogliamo che sia, e possiamo anche renderlo opaco.»

«Oh» disse Charlie. Distolse lo sguardo dal cielo e sospirò.

«Questo per quanto riguarda gli effetti statici» disse vivacemente Seace. Charlie apprezzò la sua comprensione. «In quanto alla dinamica… te l'ho detto, questo campo può fare tutto ciò che possono fare il motore elettrico e l'elettricità. Vuoi muovere del terreno? Regola un campo analogo così sottile che si insinui tra le molecole e fallo affondare nel fianco di una collina. Espandilo di pochi millimetri, e fallo indietreggiare. Ecco il badile pieno… ma il badile è grande quando vuoi tu, e il tuo analogo può venire spostato ovunque tu voglia. In questo modo si può manovrare qualsiasi cosa. Un uomo può controllare e creare forme per fondamenta e pareti, per esempio, e può rimuoverle facendo sì che cessino di esistere. E non ti servi di un miscuglio di sabbia e di composti chimici; il campo-A può omogeneizzare in pratica qualsiasi cosa.» Batté la mano sulla colonna incurvata, simile a cemento, a fianco della finestra.

Charlie, che un tempo aveva guidato un bulldozer, cominciò a complimentarsi con se stesso per la sua precedente decisione di lasciarsi soltanto impressionare, ma non sbalordire, dalla tecnologia. Ricordò quando aveva guidato un Allis Chalmers HD-14 all'officina dei trattori per far saldare un angolo nuovo alla lama, e lungo la strada un capo operaio l'aveva fermato e gli aveva chiesto di coprire una trincea. Mentre gli spalatori si toglievano di mezzo, lui aveva riempito e ribattuto una trincea lunga trenta metri in una sola passata, in circa novanta secondi… un lavoro che avrebbe impegnato quei sessanta uomini per il resto della settimana. Dato lo strumento adatto, un uomo esperto vale per cento, per mille, per diecimila uomini.

Era difficile, ma non impossibile, immaginare qualcosa come il Centro Medico, alto più di quattrocento piedi, che veniva eretto in una settimana da tre uomini soltanto.

«E ancora per quanto riguarda la dinamica. Un campo-A appropriato può equivalere ai raggi X per quanto riguarda il controllo del cancro e gli effetti di mutazione genetica… ma senza provocare ustioni e altri effetti secondari. Immagino che tu abbia notato le nuove piante.»

E anche tutta la gente nuova disse Charlie, ma lo disse tra sé.

«Quell'erba là fuori? Nessuno la falcia; è così, e basta. Con il campo-A noi trasportiamo qualsiasi cosa, lavoriamo il cibo, confezioniamo i tessuti… oh, tutto; e il consumo di energia è veramente trascurabile.»

«Che genere di energia è?»

Seace si tirò leggermente il naso dalle narici equine. «Hai mai sentito parlare di materia negativa?»

«E la stessa cosa dell'antimateria… dove l'elettrone ha una carica positiva e il nucleo è negativo?»

«Tu mi sorprendi! Non sapevo che foste arrivati così lontano.»

«Certi tali che scrivevano fantascienza ci erano arrivati.»

«Bene. Ora, sai cosa accade se la materia negativa viene a contatto con la materia normale?»

«Blam! Un botto gigantesco.»

«Esatto… tutta la massa si trasforma in energia, e con una piccolissima massa, si ottiene comunque una grande quantità di energia. Ora: il campo-A può costruire un analogo di qualsiasi cosa, persino d'una piccola massa di materia negativa. È sufficiente operare una trasformazione con la materia normale e liberare energia… tutta quella che vuoi. Così… tu costruisci un campo analogo con un eccitatore elettrico. Quando cominci a cedere, un semplice afflusso addizionale lo spinge a mantenersi, e avanza anche molta energia da sfruttare.»

«Non pretendo di capirlo» sorrise Charlie. «Mi limito a crederlo.»

Seace sorrise a sua volta e disse, con ironica severità: «Tu sei venuto qui per discutere di scienza, non di religione». E proseguì di nuovo, vivacemente. «E adesso basta con il campo-A, d'accordo? D'accordo! Quello che volevo farti osservare è che, in se stesso, è semplicissimo e può fare quasi tutto. Prima ti ho detto… o se non te l'ho detto avevo comunque intenzione di dirtelo… che tutta Ledom ha, come chiavi di volta, due cose molto semplici, e il campo-A è la prima. L'altra… l'altra ha il nome di cerebrostilo.»

«Lascia che indovini.» Tradusse il termine in inglese e stava per dire: “Una nuova moda in fatto di cervelli?”. Ma quella battuta non avrebbe attaccato, a Ledom. “Stile” era una parola e un concetto, a Ledom, ma non era la stessa parola del suffisso di “cerebrostilo”. Questa, invece, dava la sensazione di stylus, di un mezzo per scrivere. «Qualcosa con cui scrivere sui cervelli.»

«Ci sei quasi arrivato» disse Seace. «Non del tutto… È qualcosa su cui scrive un cervello. Ecco… mettiamola così. La sua prima funzione è venire impressionato da un cervello. E può venire usato… ed è usato… per imprimere nozioni in un cervello.»

Charlie sorrise, confuso. «Farai meglio a dirmi prima che cos'è.»

«Solo un po' di materia colloidale in una scatola. Questa, naturalmente, è una semplificazione eccessiva. E per continuare a semplificare all'eccesso, quando è collegato a un cervello fa una registrazione sinaptica di qualsiasi sequenza particolare venga svolta da quel cervello. Probabilmente tu sai abbastanza sul processo di apprendimento per sapere che la semplice formulazione di una conclusione non basta per insegnare qualcosa. Per una mente incolta, la mia dichiarazione che l'alcol e l'acqua si interpenetrano a livello molecolare potrebbe essere accettata per fede, ma non in altro modo. Però se io arrivassi a questo passo passo, se lo dimostrassi misurando quantità uguali di acqua e di alcol e poi mischiandole, e se mostrassi che il risultato è inferiore al doppio della misura originale, allora la mia affermazione comincerebbe ad avere senso.

“E per andare oltre, per raggiungere una vera comprensione, io devo essere certo che la mente in questione conosca i concetti 'alcol', 'acqua', 'misura', e 'mescolare', e inoltre che è contrario al genere di ignoranza noto come senso comune il fatto che eguali quantità di due fluidi si aggreghino in una quantità inferiore al doppio del quantitativo originale. In altre parole, ogni conclusione deve essere preceduta da una serie logica e consistente completamente basata su prove ed osservazioni precedenti.

“E supponiamo che il cerebrostilo assorba certe sequenze dalla mia mente e le trasferisca alla tua; non sarà la semplice presentazione di un totale, una conclusione, ma l'instillazione dell'intera sequenza che conduce a questa conclusione. Avviene quasi instantaneamente, e tutto quello che si richiede alla mente ricevente è di connetterlo a quanto aveva appreso in precedenza. E, sia detto per inciso, si tratta di un'operazione molto impegnativa.»

«Non sono sicuro di…» Charlie vacillò.

Seace continuò. «Ciò che intendo dire è che se, tra molti dati dimostrati esatti, la mente contenesse qualche affermazione raggiunta attraverso la logica… e bada, la logica e la verità sono due cose totalmente diverse, quell'affermazione si troverebbe in conflitto con le altre. Vincerebbe quella che portasse a proprio sostegno il maggior numero di dati veri e dimostrabili. Alla fine (in realtà molto presto) la mente stabilirebbe quale delle affermazioni era errata. Questa situazione perdura fino a che la mente scopre perché è errata… cioè, fino a che ha esaurientemente paragonato ogni passo logico, dalla premessa alla conclusione, a ogni passo relativo di ogni altra conclusione.»

«Un ottimo strumento per insegnare.»

«È il solo surrogato noto per l'esperienza» sorrise Seace «ed è molto più rapido. Voglio sottolineare il fatto che non è semplice indottrinazione. Sarebbe impossibile imprimere una falsità in una mente per mezzo del cerebrostilo, per quanto fosse logica, perché presto o tardi si giungerebbe a una conclusione contraria ai fatti osservati e l'intera costruzione andrebbe a pezzi. Allo stesso modo, il cerebrostilo non è una specie di “sonda mentale”, progettata per estorcere i tuoi segreti intimi. Siamo riusciti a distinguere tra le correnti dinamiche della mente (o sequenza in azione) e le parti statiche, o immagazzinate. Se un insegnante registra la sequenza dell'acqua e dell'alcol fino alla sua conclusione, lo studente non apprenderà certo la storia della vita dell'insegnante e i suoi gusti in fatto di frutta insieme alla lezione di fisica.

“Volevo che tu comprendessi questo perché fra poco andrai fra la gente e probabilmente ti chiederai in che modo quella gente riceve un'istruzione. Bene, la ricevono dal cerebrostilo, in una seduta di mezz'ora una volta ogni ventotto giorno. E puoi credermi, per il resto del tempo lavorano a stabilire le correlazioni… e non importa che cosa stiano facendo d'altro.»

«Mi piacerebbe vedere quello strumento.»

«Non ne ho uno qui, ma tu hai già avuto a che fare con un cerebrostilo. Come credi di avere imparato la nostra lingua in… oh, credo che siano stati in tutto una decina di minuti?»

«Quella specie di cappuccio nella sala operatoria, dietro l'ufficio di Mielwis?»

«Esatto.»

Charlie rifletté per un momento, poi disse: «Seace, se potete fare questo, perché quella sciocchezza di farmi imparare tutto quello che posso su Ledom, prima di rimandarmi a casa? Perché non mi mettete la testa sotto quell'arnese per altri dieci minuti e non me lo insegnate in questo modo?».

Seace scosse gravemente il capo.

«Vogliamo la tua opinione. La tua opinione, Charlie Johns. Ciò che ti dà il cerebrostilo è la verità, e quando tu l'hai assorbita, sai che è la verità. Noi vogliamo che tu assorba le informazioni attraverso lo strumento noto come Charlie Johns, per raggiungere le conclusioni di quel Charlie Johns.»

«Forse vuoi dire che io potrei non credere a tutto ciò che vedrò?»

«So che non lo crederai. Capisci? Il cerebrostilo ci darebbe le reazioni di Charlie Johns alla verità. Le tue osservazioni ci daranno le reazioni di Charlie Johns a quello che lui crede sia la verità.»

«E perché è tanto importante, per voi?»

Seace aprì le mani magre ed eleganti. «Per fare un controllo. Per controllare la nostra rotta.» E prima che Charlie potesse valutare quelle parole, o fargli altre domande, si affrettò a riassumere: «Così, vedi che non siamo taumaturghi o maghi. E non stupirti quando scoprirai che noi, dopotutto, non siamo una civiltà principalmente tecnologica. Possiamo fare molte cose, questo è vero. Ma le facciamo con due soli strumenti che, a quanto sa dirmi Philos, non ti sono familiari… il campo-A e il cerebrostilo. Ci servono per eliminare il problema dell'energia e della manodopera; abbiamo più di quanto ci sarà mai necessario. E ciò che tu chiameresti istruzione non richiede più molto personale, né molte energie. Allo stesso modo, non abbiamo scarsità di cibo, di alloggi, di vestiario. Tutto questo lascia la gente libera di fare altre cose…».

«Quali altre cose, per amore di Dio?» chiese Charlie.

Seace sorrise: «Vedrai…».


«Mammina?» domanda Karen. Jeannette sta facendo il bagno alla piccolina, che ha tre anni.

«Sì, tesoro?»

«Davvero io sono uscita dal tuo pancino?»

«Sì, tesoro.»

«No, non è vero.»

«E chi ti ha detto che non è vero?»

«Davy ha detto che è uscito lui dal tuo pancino.»

«Ecco, è vero. Chiudi gli occhi forte-forte-forte-o ti entrerà il sapone.»

«Be', ma se Davy è uscito dal tuo pancino, perché io non sono uscita dal pancino di papà?»

Jeannette si morde le labbra (cerca sempre di non ridere dei suoi figli, a meno che non siano loro i primi a farlo) e versa lo shampoo.

«E allora, mammina, perché?»

«I papà non lo fanno mai.»

«Mai?»

«Mai.»

Jeannette insapona e sciacqua e torna a insaponare e a sciacquare e non viene detto altro fino a che il visetto roseo riesce ad aprire senza pericolo gli occhi azzurri. «Voglio le bollitine…»

«Oh, tesoro! Ti ho già lavato i capelli.» Ma lo sguardo supplichevole, lo sguardo sto-cercando-di-non-piangere, la convince, e sorride e si arrende. «E va bene, ma solo per un po', Karen. Ma stai attenta, non farti andare le bollitine sui capelli. D'accordo?»

«D'accordo!» Karen osserva allegramente mentre Jeannette versa nell'acqua un sacchetto di polvere per il bagno di schiuma e apre il rubinetto dell'acqua calda. Jeannette resta lì vicino, in parte per badare ai capelli, in parte perché le piace. «Be', allora» dice bruscamente Karen «non abbiamo bisogno dei papà.»

«Cosa vuoi dire? E chi andrebbe in ufficio e porterebbe a casa le caramelle e i tosaerba e tutto il resto?»

«Non per questo. Volevo dire per i bambini. I papà non sanno fare i bambini.»

«Be', tesoro, loro aiutano.»

«Come, mammina?»

«Basta con le bolle. L'acqua sta diventando troppo calda.» Chiude il rubinetto.

«Come mammina?»

«Be' tesoro, è un po' difficile per te, forse, ma un papà ha un amore speciale. È molto bello e meraviglioso, e quando lui ama così una mamma, tanto tanto tanto, lei può avere un bambino.»

Mentre sta parlando, Karen ha trovato un pezzetto di sapone e tenta di vedere se riesce a infilarselo. Jeannette si abbassa sulla vasca da bagno e le tira fuori la mano e le fa cadere il sapone con un buffetto sulla mano.

«Karen, non toccarti là. Non è bello!»


«Comincia a capire?»

Charlie guardò pensieroso Philos, che l'aveva aspettato ai piedi dell'ascensore invisibile, con la sua solita aria di apparire come per caso, e con i soliti vigili occhi scuri scintillanti d'un divertimento segreto… o forse soltanto di consapevolezza… o forse di qualcosa di diverso, come una sofferenza. «Seace» disse Charlie «ha un modo dannatissimo di rispondere a tutte le domande che gli fai, e di lasciarti con l'impressione che ti nasconda qualcosa.»

Philos rise. Come Charlie aveva già notato, Philos aveva una bella risata. «Credo» disse il ledom «che tu sia pronto per la parte più importante. Il Centro dei Bambini.»

Charlie guardò verso il Centro Medico, poi alzò lo sguardo verso il Centro Scientifico. «Ci sono parecchie cose importanti, direi.»

«No» disse Philos, con sicurezza. «Quelli soni i parametri, per così dire, la cornice, l'impulso meccanico, ma nonostante tutto sono soltanto il contorno e un contorno molto sottile. Il Centro dei Bambini è la cosa più importante.»

Charlie tornò a guardare la massa sospesa sopra di lui e si meravigliò. «Deve essere molto lontano.»

«Perché dici questo?»

«Qualsiasi cosa più importante di questa…»

«…sarebbe visibile da qui? Certo, lo è.» Philos indicò… una casetta. Sorgeva in una piega tra le colline, circondata dal solito impeccabile tappeto verde, e sulle sue pareti basse e bianche crescevano fiammeggianti piante rampicanti, in fiore. Il tetto era appuntito, marrone con uno spruzzo di verde. C'erano cassette di fiori alle finestre, e a una estremità la parete bianca cedeva al fascino della pietra naturale e si affusolava in un camino da cui usciva fluttuando il fumo azzurro.

«Ti dispiace arrivare fin là a piedi?»

Charlie fiutò l'aria tiepida e splendente, e sentì la verde elasticità sotto i suoi piedi. «Se mi dispiace!»

Si avviarono verso la casetta lontana, scegliendo un cammino tortuoso tra le dolci ondulazioni del terreno. Ad un certo punto Charlie disse: «Tutto lì?».

«Vedrai» disse Philos. Sembrava teso per l'impazienza e la gioia.

«Hai mai avuto figli?»

«No» rispose Charlie, e pensò immediatamente a Laura.

«Se ne avessi» disse Philos, «li ameresti?»

«Oh, certo che li amerei!»

«Perché?» domandò Philos. Poi si interruppe, e con grande serietà prese il braccio di Charlie, si girò per guardarlo meglio, e disse lentamente: «Non rispondere a questa domanda. Mi basta che tu ci pensi sopra».

Sbalordito, Charlie non riuscì a pensare a una risposta; finalmente disse: «D'accordo». E Philos l'accettò. Proseguirono il cammino. L'impazienza sembrò aumentare; il ledom irradiava qualcosa… Charlie ricordava di aver visto un film, una volta, una specie di diario di viaggio. La macchina da presa era piazzata su un aereo che volava a bassa quota su una pianura, su case e campi, e la terra vicina correva via, e il commento musicale era carico della stessa impazienza. Il film non ti preavvertiva dell'assoluta enormità che stavi per vedere; per un tempo e una distanza che parevano eterni c'era solo quella campagna piatta e quella velocità, e una strada e una fattoria qua e là, ma la musica cresceva in tensione in suspence, fino a che, con una esplosione totale di colore e di prospettiva, ti trovavi scagliato oltre l'orlo del Gran Canyon del Colorado.

«Guarda là» disse Philos.

Charlie guardò e vide un giovane ledom che indossava una tunica di seta gialla, appoggiato a uno sperone roccioso, su un pendio scosceso e non molto lontano. Mentre si avvicinavano, Charlie si aspettava che avvenisse qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ciò che accadde in realtà: quando qualcuno incontra un proprio simile, c'è una reazione, una interazione di qualche genere, che si tratti di un homo sapiens, di un ledom o di castoro; ma questa volta non vi fu alcuna reazione. Il ledom in giallo stava ritto su una gamba, con il dorso appoggiato alla roccia, un piede contro l'altro ginocchio, entrambe le mani serrate sotto la coscia alzata. Il viso, dai lineamenti piuttosto delicati, era sollevato, ma non era né rivolto verso di loro né distolto, e gli occhi erano semichiusi.

Charlie disse, a bassa voce: «Cosa…»

«Sh!» sibilò Philos. Passarono davanti a quella figura, senza affrettarsi. Philos le si avvicinò e, facendo cenno a Charlie di non far rumore, passò una mano davanti agli occhi semichiusi. Non vi fu alcuna reazione.

Philos e Charlie passarono oltre, e Charlie si voltò spesso a guardare. Finché poterono vedere la figura non vi fu alcun movimento, tranne l'agitarsi lieve dell'indumento serico nella brezza lieve. Quando, finalmente, una volta messo il dorso della collina tra loro e la creatura in trance, Charlie disse: «Mi pareva che tu avessi detto che i ledom non dormono».

«Quello non è sonno.»

«A me sembra qualcosa di molto simile. O forse è ammalato?»

«Oh, no… sono contento che tu l'abbia visto. Lo vedrai ancora, ogni tanto. È soltanto… fermo.»

«Ma che gli è successo?»

«Nulla, ti dico. È… ecco, una pausa. Non era rarissima nemmeno nel tuo tempo. I vostri indiani d'America, gli indiani delle pianure, potevano farlo. E anche certi nomadi delle montagne dell'Atlantide. Non è sonno. È qualche cosa che tu fai, senza dubbio, quando dormi. Hai mai studiato il sonno?»

«Non proprio quello che si potrebbe dire uno studio.»

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