PARTE TERZA Terra natia

19

In tre giorni, riuscirono ad arrivare dalla Pennsylvania al confine californiano. Laura li trasportò dentro e fuori da un mondo secco e caldo, con le strade ampie, il traffico leggero, e l’orizzonte che sembrava sempre un po’ più vicino. Una volta si fermarono anche a un ristorante sull’autostrada, ma il menu sopra la cassa era scritto in uno strano corsivo che assomigliava più al persiano che all’inglese, il che implicava, fra le altre cose, che il loro denaro non sarebbe valso a nulla. Così Laura li riportò su una strada interstatale, e si fermarono a un ristorante della catena Stuckey’s, appena fuori Kingman, in Arizona.

— Non sapevo che eri in grado di fare tutto questo — disse Karen.

Sua sorella scrollò le spalle. — Neanche io.

— Stavo pensando — continuò Karen — che potrebbe attirare l’attenzione.

— Non credo che abbia più importanza ormai. Abbiamo già i loro occhi su di noi.

— È solo una questione di tempo — disse Karen. — Anche tu hai questa sensazione?

— Sì. Credo che faremo meglio a fare in fretta.

Karen ordinò un tramezzino e una coca cola. Michael chiese un hamburger, e Laura ordinò un’insalata. Mentre aspettavano, Karen allargò le mani sul bancone di marmo ingiallito. — Ora le cose sono cambiate.

— So quello che vuoi dire — rispose Laura. — Io riesco a fare cose che prima non mi riuscivano.

— Perché l’esigenza è più impellente. È questo che provo… urgenza.

La cameriera portò il pranzo. Karen fissò Michael, che fissò il suo hamburger. Ondate di luce attraversavano le ampie finestre dipinte di verde. Tutto era fermo. L’aria condizionata era ferma. Stabile, pensò Karen.

— Su, mangiate — li incitò Laura. — Sarà meglio che ci sbrighiamo.

Era la prima Volta che Karen andava a San Francisco.

Gavin ci era stato un paio di volte per affari. Le aveva sempre detto che era una città meravigliosa. E lo era, pensò Karen, da una certa distanza. Le piacevano le colline e i vecchi edifici bianchi smerlati, e le piacevano le nuvole basse che correvano dall’oceano. Ma una volta entrati, era una città come tante altre, con gli stessi marciapiedi affollati, gli stessi autobus diesel e gli stessi quartieri che era meglio evitare.

Trovarono alloggio a un Ramada Inn su Market Street. La carta di credito di Karen fu accettata, e lei si domandò per quanto tempo l’avrebbe passata ancora liscia con quella storia. Era un conto che divideva con Gavin, e ora che se n’era andata, probabilmente lui l’avrebbe tagliata fuori.

Ma c’erano problemi più immediati dei quali preoccuparsi.

Portarono ognuno una delle grosse valigie su per le scale moquettate fino al secondo piano. La stanza era grande e aveva un leggero odore di chiuso, ma le lenzuola erano fresche e gli asciugamani puliti. Il bagno era un tempio di specchi.

Laura tirò fuori la cartolina che le aveva dato Jeanne. — Potremmo andarci stasera. Non è tanto lontano.

Ma Karen scosse il capo con decisione. — È già tardi. Io sono stanca.

— Be’, una mangiata e una notte di sonno non ci farà certo male. C’è una tavola calda giù nell’atrio; vi andrebbe bene?

— Io voglio fare una doccia e andare a dormire — disse Karen. — Andate voi due, d’accordo?

Laura si fermò un attimo davanti alla porta. — Sei sicura che vada tutto bene?

— Sto bene. Ho solo bisogno di stare un po’ sola.

Michael ordinò un altro hamburger.

— Ti uccide quella roba, sai? — gli disse Laura. — Riempiono il bestiame di ormoni. È una cosa disgustosa.

Michael sorrise. — Sei diventata improvvisamente vegetariana?

— Io dico solo che se devi mangiare carne, la dovresti mangiare veramente. Belle bisteccone da belle vaccone grasse. Una volta c’era un ristorante, non lontano da qui, che faceva bistecche a un prezzo ragionevole. Ma di carne vera, non di cartilagine e TVP.

— Hai abitato da queste parti?

— A Berkeley. Ma tanto tempo fa.

— Negli anni sessanta — disse Michael.

Laura sorrise dentro di sé. Le faceva sempre un certo effetto quando la gente diceva “gli anni sessanta” a quel modo, come parlando di un luogo, o di un indirizzo. — Sì — rispose — negli anni sessanta.

Michael addentò il suo hamburger. — Eri una hippy?

— Quella è veramente una parola stupida, Michael. Io l’ho sempre pensato. È una parola da riviste come Time.

— Be’ — disse lui — sai com’è.

Lei annuì con riluttanza. — Credo di poter dire che lo ero, comunque. In ogni caso, ero una hippy di Berkeley. A volte venivo giù all’Haight. Ballavo al Fillmore… penso che questo mi qualifichi.

— Un paio di anni fa ho visto un programma alla TV che ne parlava — disse Michael. — Si intitolava L’Estate dell’Amore.

Il sorriso di Laura si tramutò in una smorfia. — L’Estate dell’Amore era piena di tossicomani. Era la fine di tutto. Diecimila persone che cercavano di vivere sulla penisola. Sai che cos’era Haight Street alla fine della così detta Estate dell’Amore? Era il posto in cui un sacco di ragazzini senza casa andavano a prendersi l’epatite. O malattie veneree. O a farsi violentare, o mettere incinta. Era un disastro… tutti quanti parlavano solo di andarsene via.

— Come hai fatto tu — disse Michael con aria seria.

— Sì.

— Te ne sei andata a Turquoise Beach.

— Be’, sono andata a finire lì.

— E qui era così? Voglio dire, quando si stava bene? Haight era come Turquoise Beach?

Laura scosse il capo con enfasi. — Haight era un luogo unico. Era pieno di tutti quegli idealisti pazzi, poeti e santi… non c’è modo in cui te lo possa spiegare. Era come stringere tutto il mondo in pugno. Turquoise Beach è un buon posto, sai. È il migliore che sono riuscita a trovare. Ma è molto più lento. Non c’è quella passione. Non c’è…

Si ritrovò a balbettare.

— Non avevo intenzione di rattristarti — disse Michael.

Il ragazzo sedeva dalla parte opposta del tavolo; il figlio di sua sorella, molto anni ottanta con i suoi capelli corti e la magliettina stretta. Era strano pensare che nel 1967 lui non esisteva ancora. Improvvisamente, le venne in mente che avrebbe potuto essere suo figlio, che lei avrebbe potuto avere un figlio come quello, che avrebbe potuto farlo crescere. Invece se n’era andata nella Terra del Mai-Mai… dove si poteva rimanere giovani per sempre. O quasi per sempre. Finché non ci si svegliava un giorno, con i capelli grigi e in menopausa.

— So cosa significa — disse Michael, parlando a bassa voce, quasi solo per sé stesso — cercare un mondo migliore… io lo posso capire.

Laura appoggiò la forchetta sul tavolo. — Fallo — disse. Il suo appetito era scomparso. La sua voce si era indurita. — Fallo, Michael. Ma cerca bene, mi raccomando. Non ti arrendere troppo presto.

Karen fece la doccia, poi si sdraiò su uno degli ampi letti a due piazze dell’albergo. Il materasso era duro (si era abituata ai vecchi materassi di felpa di casa) ma andava bene. Aveva programmato di ordinare qualcosa al room service, ma in seguito aveva scoperto di non avere fame. Aveva aperto le tende, ma fuori non c’era altro che lo squallore del parcheggio.

Guardò il telefono.

Alzò il ricevitore, pensando che dopotutto avrebbe fatto meglio a mangiare qualcosa. Ma quando il centralinista rispose, Karen si ritrovò a chiedere una linea interurbana. Forse era quello che aveva avuto intenzione di fare fin dall’inizio; forse era per quello che aveva mandato Michael e Laura a mangiare da soli.

Chiamò Toronto.

Era il numero che le aveva lasciato Gavin tutti quei mesi prima. Se risponde lei, si disse riattacco. Ma forse sarebbe venuto Gavin. Tre ore di differenza, pensò. A casa era ora di cena. Forse Gavin stava mangiando nell’appartamento con vista sul lago della sua ragazza. Forse nevicava. Forse avevano le tende aperte, e guardavano la neve che cadeva nell’oscurità dell’acqua.

Aspettò fino al quarto squillo, poi al quinto, e poi ebbe l’impulso di riattaccare, di riattaccare subito, ma invece udì un ticchettio lontano, e infine la voce di Gavin: — Pronto?

— Ciao — disse, con un filo di voce. — Sono io.

— Cristo, Karen… dove sei?

— Abbastanza lontana — ma questo era stupido. — Negli Stati Uniti — aggiunse. Non voleva che lo sapesse con precisione.

— E che diavolo ci fai laggiù?

— Abbiamo dovuto andarcene.

— Michael è con te?

— Certo che è con me… sicuro che lo è.

— Lo sai che hai lasciato un bel casino qui, vero? Ho fatto denuncia alla polizia. Ho dovuto lasciarli entrare in casa. Era strano. Tutte quelle scatole di cartone accatastate. Era come la Mary Celeste. E la scuola mi ha chiamato per Michael. Lo stai facendo andare a scuola, almeno?

— Michael sta bene — disse in tono difensivo.

— Hai per caso una spiegazione razionale per tutto questo?

Nessuna che saresti in grado, di capire, pensò Karen. — Non proprio — rispose.

— Hai avuto una specie di esaurimento, è così? Hai preso Michael, e te ne sei semplicemente andata? Così semplicemente?

— Così semplicemente — rispose lei.

— Capisci che non sembra una cosa tanto giusta. Potrebbe andare a tuo sfavore quando si parlerà dell’affidamento.

Dapprima non capì. L’affidamento di che cosa?

Poi le venne in mente. — Gavin, ma è pazzesco!

— Ovviamente non ho spinto su questo. Voglio dire, sono io quello che se n’è andato. Lo ammetto. Ma ne ho parlato con Diane, e a noi sembra che Michael abbia bisogno di una situazione famigliare più stabile.

— Stabile?

— Piuttosto che essere tirato fuori dalla scuola e farsi trascinare in giro per tutto il Paese. — E poi con tono petulante — Non lo vedo da mesi, sai? Forse tu pensi che non sia importante per me. Ma non dimenticare che io sono suo padre.

Karen si sentì raggelare. Si domandò perché avesse chiamato. Le era venuto in mente che forse Gavin era preoccupato. Voleva rassicurarlo.

— Dimmi dove sei — disse Gavin. — O meglio, dimmi quando tornate a casa.

— Non puoi fare così — disse Karen. — Non puoi semplicemente darmi degli ordini.

— Ma non è questo il problema, vero? È Michael il problema.

— Non puoi prendermelo.

— Intendo il suo benessere. La sua scuola. La sua salute. Dovrò dire alla polizia che hai chiamato.

— Michael sta bene!

Ma mentre lo diceva, sembrò una menzogna.

— Non è a me che fai del male, sai — disse Gavin. — È a lui che lo fai.

— Lui sta bene.

— Voglio solo un indirizzo. Anche un numero di telefono. Michael è lì? Fammi parlare con lui. Io…

Karen sbatté giù il ricevitore.

Dopo cena, Laura e Michael camminarono per un paio di isolati lungo Market Street. Era tardi, e quello non era il migliore dei quartieri, ma la strada era piena di gente. Un uomo di mezza età con dei baffi alla Salvador Dalì chiese loro se avevano degli spiccioli. Laura gli diede una moneta da un quarto di dollaro. — Che Dio vi benedica — disse l’uomo con aria felice. Le fece venire in mente l’Haight, i suoi giorni di Berkeley. Quanto aveva perso da allora… lentamente, senza accorgersene.

Quando tornarono in albergo, Karen dormiva. — Vai pure in bagno — disse Laura al nipote. — Io farò l’ultimo turno.

Dieci minuti dopo, il bagno era suo. Fece una doccia volutamente lunga, con l’acqua al massimo del calore che poteva sopportare; si lavò anche i capelli, e si frizionò con un asciugamano mentre il vapore svaniva dagli specchi.

La luce del bagno era una fluorescenza spietata e fredda, e gli specchi erano dappertutto.

Vecchia, pensò Laura.

Guarda quella donna nello specchio, pensò. Quella donna crede di essere giovane. Si muove come si muoveva quando aveva vent’anni. Crede di essere giovane, e crede di essere carina.

Ma sta ingannando sé stessa su entrambi i punti.

Boh, pensò Laura. È solo che sono un po’ depressa, un po’ stanca di guidare, e un po’ spaventata. Ehi, pensò, basta stringere gli occhi e far scomparire le rughe.

Le rughe, le piaghe, le smagliature.

Troppo tardi, pensò. Troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi… ormai sei vecchia.

La più bella del reame.

Difficilmente.

Troppo tardi per l’amore, e troppo tardi per dei bambini. Era rimasta troppo tempo a giocare, e ora tutti i buoni programmi alla TV erano finiti, e le luci stavano per spegnersi.

Piagnucolona, pensò. Dovresti vergognarti.

Be’, si vergognava.

A letto, si disse. A dormire. Ognuno ha bisogno del suo sonno per mantenersi bello.

Attraversò lentamente il tappeto di felpa dell’albergo, ascoltando lo scricchiolio delle sue stesse fragili ossa nell’oscurità silenziosa.

Il mattino dopo controllarono l’elenco telefonico, ma non c’era nessun Timothy Fauve residente nella zona della Baia.

— Non significa niente — disse Laura. — Magari sta usando un nome diverso, o qualsiasi altra cosa.

Però, pensò Karen, non era certo di buon auspicio.

Dopo aver fatto colazione, guidarono fino all’indirizzo della cartolina che Tim aveva spedito a casa.

Corrispondeva a un albergo nel Mission District. Era una pensione, e non certo il genere di posto al quale era abituata Karen; un albergo derelitto, con degli uomini chiaramente senza fissa dimora stravaccati sul marciapiede davanti. Si chiamava Gravenhurst, e il nome era inciso su un vecchio cartello coperto di ruggine. Karen lo guardò costernata. Non era certo il genere di posto dove si sarebbe immaginata di andare.

Ma seguì Laura su per i tre scalini di cemento consunto, con Michael alle spalle.

L’ingresso era buio e puzzava leggermente di muffa e di luppolo. Sulla destra c’era una stanza con il bar, e alla sinistra una scrivania. Laura vi si diresse e chiese di Timothy Fauve. L’uomo dietro la scrivania era esageratamente obeso, e sembrava avere gli occhi sbarrati. Alzò lo sguardo verso Laura, e disse che non aveva mai sentito quel nome. — Era qui a Natale l’anno scorso — disse Laura.

— C’è un sacco di gente che passa di qua.

— Non potrebbe dare un’occhiata?

L’uomo si limitò a fissarla.

Laura aprì la borsa ed estrasse una banconota da venti dollari. — Per favore — disse.

Karen era stupita. Lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non le sarebbe mai venuto in mente.

L’uomo sospirò e iniziò a sfogliare un enorme e antichissimo registro. Infine disse: — Fauve, stanza 215. Ma se n’è andato da mesi.

— Se lo ricorda? — chiese Laura.

— Cosa c’è da ricordare? Era un tipo tranquillo. Andava e veniva.

— Non gli ha mai parlato?

— Io non parlo.

Laura sembrò esitare un attimo. — È vuota adesso, quella stanza?

— Al momento — disse l’uomo — la stanza non è occupata.

— Possiamo darle un’occhiata?

— Assomiglia a tutte le altre stanze. Ed è vuota da maggio. Abbiamo avuto una perdita nei tubi dell’acqua.

— Solo qualche minuto? — ed estrasse un’altra banconota da dieci.

L’uomo se l’infilò nel taschino della camicia. — Se lo desidera — disse, e le porse la chiave.

Ma aveva ragione lui, pensò Karen. Non c’era niente da vedere. Solo quel lungo corridoio umido, una porta di legno con una maniglia e una serratura, una stanza vuota.

Era un buco. Aveva le dimensioni di uno sgabuzzino. Dietro a una porticina crepata c’erano un water e un lavandino, ma niente doccia. Le pareti erano coperte di stucco grigio. Il tubo rotto aveva fatto bagnare il tappeto, e la muffa stava raggiungendo la porta.

— Viveva qui? — chiese Michael.

— Almeno per un certo periodo — rispose Laura.

— Non credo che se la passasse molto bene.

— Non sappiamo perché si trovasse qui — disse Laura. — In verità, non sappiamo niente di lui. Abbiamo perso completamento le sue tracce, da quando se n’è andato di casa. Ma lui è stato in questa stanza. Lo sento.

Karen lanciò un’occhiata a sua sorella.

— Sono successe delle cose qui — disse Laura. — Viaggiava da qui. Lascia delle tracce.

— Viaggiava fuori dal mondo — disse Karen.

— Sì.

Karen cercò di sentirlo anche lei. Erano anni che non permetteva a sé stessa anche solo di credere che una cosa simile fosse possibile. Ma certamente ora non c’era motivo di negarlo… Fissò la stanza vuota e squallida, cercando di trovarci dentro della magia.

Non c’era nulla.

Se sono mai stata capace di farlo, pensò, ora non lo sono più.

— Sai dove se n’è andato? — chiese.

Laura sospirò.

— No — rispose. — Non lo so.

Sconfitti, riattraversarono l’atrio in silenzio. Laura lasciò cadere la chiave sul banco, e l’uomo non alzò neanche lo sguardo.

Uscendo, Karen si riparò gli occhi dalla luce, improvvisamente allarmata. C’era un uomo appoggiato alla loro macchina.

Era solo un poco più alto di Karen, e troppo magro, ma era ragionevolmente ben vestito. Una camicia bianca inamidata e un paio di Levi’s puliti. I suoi occhi erano stretti, e le sue labbra atteggiate a un sorriso. Teneva le mani in tasca. Alzò gli occhi; il suo viso era pallido alla luce del sole.

Per un attimo, restò perplessa. Poi, quando lo riconobbe, sentì la testa che le girava.

— Tim! — urlò Laura.

Il sorriso dell’uomo si allargò.

— Mi cercavate? — disse.

20

Andarono a pranzo al Fisherman’s Wharf.

— Dovreste lasciare che vi porti un po’ in giro — aveva detto Tim. — Una gita turistica.

Il ristorante piacque a Karen. La cameriera portò piatti di pesce in salse ricche e burrose; e oltre le vetrate potevano vedere la Baia di San Francisco e il Golden Gate Bridge. Le nuvole si erano sollevate, e un luminoso sole invernale si rifletteva sulla fila di battelli turistici ormeggiati al molo.

— Ma noi non siamo turisti — disse Laura. — Noi non abbiamo tempo.

— Be’ forse ne avete — disse Tim. — Forse le cose non stanno poi tanto male quanto pensate voi.

— Come hai fatto a trovarci?

— Ho cercato — Karen percepì la sottile enfasi con la quale disse la parola “cercato”. — E sapevo che voi mi stavate cercando.

— Puoi fare questo?

Tim annuì.

Ma quello non era il luogo adatto per parlarne. Karen mangiò metodicamente, non molto cosciente di che cosa stesse mangiando, e lanciando occhiate a suo fratello. Era ben vestito. Aveva un aspetto abbastanza sano. Ma allora perché viveva in quell’albergo che era un buco meno di un anno prima? Sì le cose stavano andando per il verso giusto, per lui… ma poi Karen notò il leggero ma persistente tic nervoso del suo sopracciglio destro, il che le fece pensare che forse c’era anche qualcosa che non andava proprio per il verso giusto…

Tim si rivolse a Michael, che aveva ordinato un piatto di pesce misto, dopo aver scoperto che il menu non proponeva alcun genere di burger. — Dev’essere strano scoprire che si ha uno zio dopo tutti questi anni.

Michael scrollò le spalle. Era stato zitto per tutta la mattinata. Silenzioso, ma attento.

— Un pochino — disse.

— Qualche volta dovremmo trovarci e fare una bella chiacchierata — disse Tim.

— Certo — rispose Michael.

Karen sentì una pugnalata di sconforto.

— A casa — disse Tim. — È lì che sono stato.

Dopo pranzo, Laura guidò fino a un parco che dava sulla baia. Rimasero seduti in macchina con i finestrini chiusi, e Karen osservò una fila di gabbiani che scendeva verso l’acqua. Era un luogo tranquillo, ed erano soli.

— Immagino che tu non intenda Polger Valley — disse Laura.

Tim rise, e Karen si ricordò improvvisamente dei vecchi tempi. La stessa risata beffarda. — È quella che chiamate casa? Ma siate oneste: vi siete mai realmente sentite a casa, lì?

— Mamma e papà hanno ammesso un paio di cose — disse Laura?

— Be’, che ne direste di dirmi quello che sapete? — chiese Tim.

Così, Laura gli riferì quello che avevano scoperto; gli disse dei loro veri genitori, e dell’Uomo Grigio. E Karen ripeté la parte che le aveva raccontato Willis; la baracca sulla strada vicina a Burleigh e i corpi che vi aveva trovato.

Tim ascoltò attentamente; quando Karen ebbe finito, sul suo viso c’era una smorfia. Scosse il capo. — Ne avevo saputa una parte da altre fonti. Ma questo riempie alcuni vuoti.

— Tu sapevi? — disse Laura.

— Mi è stato detto.

— Quando?

— Be’, recentemente.

— Chi te l’ha detto… l’Uomo Grigio?

Le parole sembrarono rimanere sospese a mezz’aria, e per un attimo Karen sentì il richiamo dei gabbiani.

— Ovviamente dovrei partire dall’inizio — disse Tim. — Volete la versione lunga o quella da Selezione Reader’s Digest?

Laura diede un’occhiata a Michael per una frazione di secondo e disse: — Credo quella più breve.

Tim era seduto davanti accanto a Laura, e Karen vedeva solo la sua nuca, o il suo profilo quando si voltava, ma lo stava fissando con la massima attenzione possibile, cercando ricordare il suo aspetto precedente e di individuare i cambiamenti. Si ricordò il bambino imbronciato delle foto di sua madre. Ma ora non era imbronciato. Anzi, al contrario, era fin troppo espansivo. A volte parla come un rappresentante, pensò Karen.

— Me ne sono andato di casa — cominciò Tim. — Ho viaggiato parecchio. Ho fatto diversi mestieri per un po’ di anni. E ho fatto anche molti viaggi di altro genere. Ma alla fine tornavo sempre qui… perché questo è un posto che mi è familiare so come arrangiarmi. E mi arrangiavo abbastanza bene, la maggior parte delle volte. Ma avevo gli stessi vostri problemi. L’Uomo Grigio… mi capitava di vederlo, a volte. E non era solo quello. Forse l’avete sentita anche voi questa sensazione… è come avere nostalgia di un posto che non si è mai visto. Giuro che non ho mai avuto la sensazione di appartenere a questo luogo.

Karen notò che Michael annuiva di tanto in tanto.

— Così — continuò Tim — a un certo punto mi sono messo a bere. E nel giro di poco, anche quello è diventato un problema. Mi ricoverarono in ospedale un paio di volte. Poi capii quello che mi sembra abbiate capito voi due… e cioè che non è una cosa dalla quale si possa fuggire. — Le sue labbra si compressero in un sorriso stretto e sinistro. — Noi possiamo scappare più lontano e più in fretta di chiunque, giusto? Ma non possiamo scappare via.

— E allora qual è l’alternativa? — chiese Laura.

— Smettere di scappare via — disse Tim. — E iniziare a correre verso.

— Il che significa…?

— Io ho trovato l’Uomo Grigio, e l’ho seguito — disse Tim.

Un nuovo silenzio riempì l’abitacolo.

— L’avevo già fatto — continuò Tim — quando eravamo bambini. Quando non sapevo che cosa volesse. Quando mi fidavo di lui. Vi ricordate quella notte nella gola…? La vecchia città costiera?

— Sì — disse Karen involontariamente.

— Be’ — disse Tim — è da quel posto che lui arriva.

Fino a lì c’era arrivata anche lei. Tim aggiunse: — È da lì che veniamo anche noi.

Lei si protese in avanti, pronta a negarlo.

— È l’ipotesi più sensata — disse Tim — che vi piaccia o no. Qualunque cosa siamo, l’Uomo Grigio è uno di noi. Da questo non si scappa. Noi possiamo fare quei trucchetti, e nessun altro al mondo lo può fare… tranne lui. Che cosa vi suggerisce questo?

— Che cos’hai scoperto? — chiese Laura con impazienza.

— Siamo parenti — disse Tim. — Siamo una famiglia. I rapporti sono un po’ strani, ma posso avvicinarmi abbastanza dicendo che… potreste considerarlo uno zio.

21

Michael ascoltò dallo zio la descrizione del mondo dell’Uomo Grigio con crescente interesse.

Era da lì che provenivano, ed era lì che erano stati creati. E quella era l’unica vera casa che avevano e che avrebbero avuto mai.

Non si trattava necessariamente di un buon posto. Era come un qualsiasi mondo; non nettamente buono o cattivo, ma un pochettino di entrambi. Non era un’utopia, ma chi crede nelle utopie? Bisognava prenderlo così com’era.

Ma c’erano alcune differenze là.

La storia si era svolta in maniera leggermente diversa. Roma e la Chiesa Romana dominavano ancora l’Europa; l’America si era guadagnata la sua indipendenza ed era diventata il rifugio dei Protestanti Europei. Non si chiamava Stati Uniti, ma Novus Ordo il nuovo ordine delle Americhe; una grande potenza economica e militare. Per due secoli Roma aveva invidiato e temuto il Novus Ordo, ma ora c’era una minaccia ben più grossa, proveniente dalle nazioni islamiche del Medio Oriente e dell’Africa.

Il Novus Ordo, una nazione eretica, si era dedicata a sperimentazioni o ricerche che scomodavano forze che la Chiesa non si azzardava a toccare. L’alchimia, la magia cabalistica, l’astrologia… era tutto molto diverso lì, ma molto reale. Erano gli americani che avevano scoperto per primi la possibilità di camminare attraverso i mondi, e che quella capacità poteva essere facilmente accessibile. Forse nel passato si era presentata per caso, un talento selvaggio in gente che non sospettava neanche di possederlo, che si ritrovava fuori dal mondo per sbaglio mentre sognava, o che lo usava per sfuggire alle famiglie o ai creditori. Ora era possibile identificare quelle persone, metterle assieme, e spingere la cosa al suo limite.

Non necessariamente come un’arma, (anche se quest’implicazione non era certo stata scartata) ma come una ricerca. Uno strumento per imparare.

È da lì che veniamo, disse la voce di Tim… o almeno, è da lì che vengono i nostri genitori.

I nostri veri genitori.

— E l’Uomo Grigio — disse Michael.

— Lui è un esperimento fallito — dichiarò Tim. — È malato.

— Ci sta dando la caccia — disse Karen. — Ci sta dando la caccia da quando siamo in vita. E ha ucciso i nostri genitori.

Camminarono sull’erba del promontorio; i tre adulti, e Michael.

— Anche la bambina sulla spiaggia — disse Michael. — L’ho visto. L’ha semplicemente spinta via… come uccidere un insetto.

— Non era programmato in quel modo — fece Tim a bassa voce.

— Per tutti questi anni — riprese Karen — ci ha dato la caccia, e qualche volta ci ha trovati… viene da pensare che se avesse avuto intenzione di ucciderci, l’avrebbe già fatto.

— Non capisco bene tutti i suoi scopi — disse Tim. — Ma forse uccidere noi non è tanto facile quanto uccidere gli altri. I nostri genitori si fidavano di lui. Era un fratello per loro, e di conseguenza li poteva avvicinare senza far nascere sospetti. Per noi non è mai stato così.

— Tranne che per te; tu ti fidavi — disse Laura.

Tim la guardò con un’espressione perplessa.

— Quella notte nella gola, nel vicolo. Tu gli hai parlato come se l’avessi già conosciuto. Se avesse voluto, Tim, ci avrebbe potuti uccidere in quel momento.

— Credo che volesse la nostra fiducia — disse Tim.

— Sembrava avere già la tua.

— Non gli ho più parlato dopo quella volta.

— E le cose che ci ha dato; quei giocattoli. Lo sai che mamma e papà li hanno ancora, nascosti in un cassetto? E le cose che ha detto. Ho riflettuto spesso su questo. Era come una maledizione, o un presagio, o qualcosa di simile.

— La sua follia.

— Ne sembri totalmente certo.

— Ho parlato a della gente.

— Gente di quel luogo… il Novus Ordo?

— Gente importante.

— Sei semplicemente entrato e hai fatto due chiacchiere?

— Ho detto loro chi ero.

— Ma di che cosa stiamo parlando, di un progetto militare di qualche genere?

— Un progetto di ricerca — disse Tim.

— E ti hanno lasciato venir via così?

— Hanno capito che non potevano fermarmi.

— E tu hai creduto a quello che ti hanno detto?

— Non avevo motivo di non crederlo.

Laura scosse il capo. — Se è vero — disse — allora vogliono qualcosa. Per forza. Proprio come l’Uomo Grigio vuole qualcosa.

— Ho parlato a un tale di nome Neumann — disse Tim. — Un vero essere umano in carne e ossa; non un mostro. Niente di sovrannaturale. Sta lavorando a quello che chiamano il Progetto Plenum. Certo, è logico che vogliano qualcosa da noi. Hanno bisogno del nostro aiuto. Così, in un certo senso, io sto portandovi questo messaggio. Ma Cristo, Laura, non è solo questo. Quella è casa nostra, lo capisci? È un luogo al quale possiamo appartenere. — La fissò con uno sguardo intenso. — Non ti manca questo? Non l’hai mai desiderato?

— Se quella è casa nostra — intervenne Karen pensando a quello che le aveva detto Willis — perché i nostri genitori se ne sono andati?

— Loro scappavano da Camminatore, non dal progetto.

— Ma se hai appena detto che si fidavano di lui. Che è così che li ha uccisi.

— Avevano paura di lui. Ma faceva sempre parte della famiglia. Gli volevano bene — diede un calcio a un sasso, che rotolò giù dalla discesa erbosa fino alla baia. — Ehi, succede, sapete? Che la gente ami chi vuol farle del male. È possibile.

Lasciarono Tim a un deposito degli autobus BART e tornarono in albergo. C’era tempo per parlare anche l’indomani. E intanto c’era parecchio su cui riflettere.

Laura ordinò da mangiare in camera, e Michael si sedette sulla poltrona grande accanto alla finestra, ignorando un tramezzino e strimpellando accordi che si sentivano appena con la Gibson che si era portato dietro per tutto il Paese. Ascoltando sua madre e sua zia che cercavano di capirci qualcosa, a Michael apparve abbastanza ovvio che la comparsa di Tim le aveva colte di sorpresa. Non era quello che si erano aspettate.

— Non sta dicendo la verità — disse Laura — o per lo meno, non tutta la verità.

— È passato tanto tempo — disse Karen. — È difficile giudicare.

— Difficile per te, forse. Io me ne sono sempre accorta quando Timmy diceva bugie.

— Ma non è più un bambino.

— Ma è sempre Tim.

Continuarono così. Michael attaccò il suo tramezzino, e scese al bar per procurarsi una coca cola. Quando tornò, sua madre stava dicendo: — Dipende da quello che vuole da noi, non è vero?

— Vuole che torniamo là con lui — disse Laura. — In quel posto… il Novus Ordo.

— Non l’ha detto.

— Lo dirà…

— Forse dovremmo dargli ascolto — disse Michael.

Le due donne girarono la testa contemporaneamente, come se si fossero dimenticate che era lì. Michael bevve un sorso dalla lattina e disse: — Da come lo descrivete, sembra un tipo a posto. Voglio dire; non stava tanto bene a casa, ma in certe circostanze, chi potrebbe? E non si è arreso. Lui aveva il talento, e l’ha seguito fin dove l’ha portato. Non vedo che cosa ci sia di male in questo.

Laura scosse il capo. — Tu non lo conosci, Michael. Tu non hai mai vissuto con lui. Lui odiava papà, e forse anche noi, in una maniera malsana. Non credo che quel genere di odio si possa semplicemente vaporizzare.

— Almeno lui non aveva paura.

— Non come abbiamo paura noi — disse Laura. — Non allo stesso modo.

Non aveva paura del suo talento, pensò Michael, e non aveva paura di usarlo. Non si era fatto sottomettere dalle botte, e non si era rifugiato in uno stagnante paese di mare per tutti quegli anni. Certamente bisognava dargliene atto.

Ma si tenne il pensiero per sé.

22

Timothy Fauve tornò in autobus all’albergo. Era un buon albergo, vicino al mare. Aprì la porta della sua camera e ci trovò dentro Camminatore, la sua grossa figura stravaccata su uno dei letti. Teneva un braccio dietro la testa, e il cappello grigio era appoggiato sul suo petto. Sentendo la porta che si apriva, alzò lo sguardo. — Salve, Tim — disse.

Tim chiuse la porta dietro di sé. — Non sapevo che avessi una chiave.

— Io non ne ho bisogno.

Tim fece un sorriso tremolante. — Immagino di no.

Accese le luci, e si accasciò su una sedia. Camminatore voleva qualcosa. Oppure lo stava controllando. Guardò l’uomo nella penombra della stanza con un misto di gratitudine e disagio. Voleva bene a Camminatore, ma lui pretendeva molto.

— Hai parlato con loro — disse l’Uomo Grigio.

— Sì.

— E ti hanno ascoltato?

— Credo di sì. Credo che abbiano qualche dubbio, ma questo era prevedibile. Ma penso che lo supereranno.

— E Michael?

— Credo sia interessato.

— Questo è ciò che conta — disse Camminatore.

— Ma non sarà facile — si azzardò Tim. — Hanno paura di te. Sanno certe cose.

Camminatore si alzò a sedere. — Quali cose?

— Come hai ucciso Julia e William.

— Te l’avevamo detto — gli ricordò Camminatore.

— Certo. Ma il modo in cui l’ha descritto Karen… sembrava peggio.

Camminatore si alzò in piedi. La sua presenza era ingombrante in quella stanza. Aveva la finestra alle spalle, e la sua ombra incombeva su Tim.

— Tu capisci — disse Camminatore — che non era mia intenzione farlo. Ma loro erano armati… e io ho reagito come potevo.

— Karen non ha parlato di armi.

— Karen non era presente. — L’uomo assunse un’espressione preoccupata. — Ne abbiamo già parlato, e io ho ammesso che è stato un errore, Se avessi potuto evitarlo, l’avrei fatto. Ma allora avevamo meno esperienza.

— C’è anche un’altra cosa — continuò Tim, chiedendosi se fosse saggio o meno insistere su quel punto ma allo stesso tempo desideroso di avere una risposta. — Hanno parlato di una bambina… su una spiaggia in qualche paesino della California…

L’espressione di Camminatore s’incupì. — Che cosa stai dicendo; che loro hanno dei dubbi; o che li hai tu?

— Io sto semplicemente riferendo. Credevo che tu lo sapessi.

— Ma la cosa ti preoccupa?

— Forse un pochino. Diciamo che fa sorgere degli interrogativi.

— Tu c’eri su quella spiaggia?

— No — disse Tim seccamente.

— Non dirò mai di non aver fatto cose delle quali mi sono poi pentito. Ma quella volta era un momento cruciale. Mi stavo concentrando su Michael. Ed era vicino… avrebbe potuto essere finita lì, avrei potuto portarlo a casa. È stato un gesto di reazione. Istintivo.

— Tuttavia — disse Tim — un bambino…

— Mi chiedo che cosa avresti fatto tu nella stessa situazione.

Tim abbassò il capo…

— Io so quello che sono — disse Camminatore. — Me ne rendo conto. E ci vivo insieme.

Appoggiò la sua grossa mano sulla spalla di Tim.

— Se commetto un peccato — disse — poi espio le mie colpe. Ti ricordi com’è andata quando ti ho trovato?

Non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Si trovava in quell’albergo pulcioso nel Mission District, lo stesso in cui aveva incontrato poi le sue sorelle, e pesava circa cinquanta chili. Faceva piccoli lavoretti giornalieri quando aveva bisogno di soldi, beveva vino tocai e brandy alla pesca, e mangiava cene Kraft in camera, da solo, quando si ricordava di mangiare. Il giorno di paga significava un’ubriacatura, o del sesso a buon mercato, oppure, molto, molto occasionalmente, una dose di eroina molto tagliata. Era dal 1974 che ogni tanto ci cascava; da quando un operaio disoccupato di Detroit gli aveva mostrato come si faceva. Tuttavia, proprio ultimamente, si stava facendo più spesso di quanto non desiderasse, iniziando a prendere un vizio che non si poteva permettere. Erano più le volte che stava male che quelle che stava bene, e spesso saltava anche i pranzi Kraft. Era molto magro per la sua statura e presto anche quello avrebbe potuto interferire con il poco lavoro che riusciva a rimediare, e senza quei soldi sarebbe stato in mezzo alla strada… avrebbe dormito sui marciapiedi. E questo era un male, poiché Tim aveva imparato che, ironia della sorte, quello in cui viveva era il miglior mondo possibile; aveva aperto molte porte nella sua vita, ma non aveva mai trovato un posto dove desiderasse vivere. Per la maggior parte erano mondi freddi, chiusi, brutti. Di conseguenza, fallire in questo sarebbe stato come fallire del tutto.

E fu più o meno allora che apparve Camminatore.

Camminatore era spuntato senza preavviso, e per Tim era stato come entrare in un sogno, in qualcosa che apparteneva alla sua infanzia. Perché aveva conosciuto quell’uomo, una volta tanto tempo prima. Era stato suo amico per un certo periodo. Camminatore gli aveva dato delle cose, e gliene aveva mostrate altre. Ma poi Tim aveva scoperto che lo metteva in soggezione, e aveva passato tutti quegli anni sulla strada, cercando di evitarlo, perché alla fin fine ne aveva paura… aveva paura di ciò che avrebbe potuto volere da lui. Ma un giorno se l’era ritrovato lì, in quella squallida camera d’albergo; un uomo anziano, ma pur sempre una presenza imponente, che irradiava calma e sicurezza. Tim l’aveva fissato, e Camminatore aveva detto: — Io non ti ho mai dimenticato. — Ed era stato come se gli avessero dato il benvenuto a casa.

— Tutti gli altri ti hanno dimenticato — aveva continuato l’uomo — Tranne io.

Tim, che aveva passato tre lunghi giorni dall’ultima volta che aveva mangiato o si era bucato, si era messo a piangere.

Camminatore l’aveva portato a Novus Ordo; l’aveva sfamato, l’aveva rivestito, l’aveva rimesso in piedi e reso di nuovo rispettabile. Tu non hai bisogno della bottiglia, o dell’ago, gli aveva detto, e per qualche magia che Tim non riusciva a capire, improvvisamente fu effettivamente così. Quei bisogni vennero portati via. Scomparvero nel nulla. E lui glien’era stato grato; una gratitudine a pieno cuore che non aveva mai provato prima di allora. Era meglio della siringa.

Camminatore gli aveva mostrato tutto ciò che poteva diventare suo. La sua eredità, gli aveva detto. — Tu sei state fatto per questo. — Immaginati una terra, gli aveva detto, una terra verde che si estende per chilometri; fattorie, città, e cieli azzurri. E tu sei in cima a una collina, e la osservi, ed è tua… appartiene a te.

Un’eredità di terre e di potere.

I regni della Terra.

— Se lo desideri — aveva detto Camminatore — basta che tu faccia un piccolo lavoretto per noi.

Anche adesso, in quella camera d’albergo a San Francisco, il ricordo era lucido e limpido come un gioiello. Il mio posto, pensò Tim. Casa mia, ecco cosa mi ha promesso. E forse, pensò, questo era il modo di Camminatore per espiare l’incidente sulla spiaggia. Trovarmi e farmi stare bene. Era abbastanza sensato. Un incidente poteva capitare a chiunque.

Eppure…

— A volte — disse Tim — penso che dovremmo semplicemente dir loro la verità.

— Anch’io provo questa tentazione — disse Camminatore. — Ma sai bene che loro non capirebbero.

— Non si fidano di te. Non… non alla stessa maniera in cui mi fido io.

— Fortunatamente — disse Camminatore — non è di me che si devono fidare.

— Tutto ciò che vogliamo — continuò Tim — è riportarli a casa, vero? Loro se ne accorgerebbero, se ci venissero.

— Ne sono certo — disse l’uomo iniziando a svanire, ormai soddisfatto, infilandosi in qualche angolo nascosto che conduceva fuori dal mondo. — Ne sono certo.

— Le rivedrò ancora domani — disse Tim — e farò un lavoro migliore.

Camminatore sorrise e scomparve.

Ormai solo, Tim si sentì rassicurato. Stava facendo quello che era giusto. E se non era giusto, stava facendo l’unica cosa possibile. A pensarci bene, aveva ben poche alternative.

Aveva paura di Camminatore, ma allo stesso tempo si fidava di lui. Era quel genere di rapporto. Un rapporto di fiducia.

Dopo tutto, l’Uomo Grigio era la cosa più simile a un padre che avesse mai avuto.

23

Michael rimase sveglio a lungo nella quiete plumbea della sua stanza, completamente silenziosa a parte il leggero respiro di Karen e di Laura nell’oscurità.

Gli piaceva l’oscurità, e gli piaceva averla intorno. In tutte le strane camere in cui aveva dormito, da Turquoise Beach a Polger Valley e poi fino a San Francisco, l’unica costante familiare era stata l’oscurità. Era la cosa più vicina a casa sua che conosceva.

Casa, pensò. Una parola che Tim aveva usato più di una volta.

Ora come ora, Michael non era certo del suo significato.

Casa era una camera d’albergo buia lungo qualche autostrada deserta.

Oppure, casa era quel mondo distante che gli capitava a volte di vedere nelle sue visioni; il “mondo migliore” del quale aveva parlato alla zia Laura. Pensò a quel mondo; oceani e foreste, come avrebbe potuto essere stata l’America cento anni prima. Ma era anche un mondo pieno di vita, con città affollate e vivaci mercati. Strade, fattorie, e grandi, delicate macchine volanti. Si domandò se in quel mondo esistesse una città chiamata San Francisco, e pensandoci, si rese conto che esisteva; ma non era grande come questa, e la gente parlava soprattutto lo spagnolo e il nahuatl. Era quella casa sua?

Forse.

Ciò che probabilmente non era casa sua era quella nei sobborghi di Toronto dove era cresciuto. Era già un ricordo per lui. Un ricordo che diventava sempre più lontano… avrebbe potuto essere a un milione di chilometri di distanza.

Ma Tim aveva parlato di un’altra casa.

L’aveva chiamata Novus Ordo. Michael ripeté le parole, a bassa voce, nell’oscurità.

È da li che veniamo. È li che siamo stati creati.

Era un po’ come essere Made in Japan, o Made in Hong Kong. Forse, pensò Michael, forse da qualche parte ce l’abbiamo scritto. Un segno di nascita, o un tatuaggio. “Made in Novus Ordo”.

Forse, dopo tutto, non era un luogo così malvagio.

Lo percepì debolmente lungo un distante corridoio di possibilità. Una porta.

Porte e angoli, pensò Michael assonnato. Era solo a un passo laterale da lì. Lo poteva sentire, e lo poteva vedere. Era un luogo molto, molto freddo. Vide una vecchia e buia città industriale; non era San Francisco, ma qualche posto nell’est; un luogo catramoso sotto un cielo grigio. Vide fiamme che sgorgavano dalle ciminiere delle fabbriche; vide un fiume scuro che serpeggiava verso sud.

Non era un posto attraente. Ma Tim l’aveva detto. Non era particolarmente buono o cattivo come posto. Non era un’utopia.

Ma era casa.

La parola riecheggiò nella sua mente finché non perse tutto il suo significato. Casa, pensò, è il luogo a cui appartieni. È dove c’è uno spazio per te. Dove ti capiscono. Dove tu puoi parlare.

Casa era un luogo in cui non era mai stato.

A meno che Tim non l’avesse trovato per lui.

Quel mattino, Karen scese alla tavola calda dell’albergo con Michael e Laura, dove li stava aspettando Tim. Era una giornata fosca. La nebbia premeva sulle vetrine, e la parte opposta della strada sembrava persa fra strati di nubi.

— La questione — disse Tim — è che cosa volete realmente. Perché siete venute a cercare me, innanzitutto?

— Per scoprire che cosa siamo — disse Laura — e per vedere che cosa si può fare per la faccenda dell’Uomo Grigio.

L’ora di punta della colazione era finita, e la sala era quasi deserta. Un uomo con un secchio e uno straccio puliva con grande calma le piastrelle del pavimento. Karen sedeva con Michael sulla parte centrale della panca di vinile, felice di lasciar parlare sua sorella.

Tim continuò; — Be’, una parte l’avete ottenuta. Sapete chi siete, e sapete da dove venite. Per quanto riguarda l’Uomo Grigio… vi assicuro che non potete trattare con lui senza bisogno di aiuto.

— Il tuo aiuto?

— L’aiuto della gente che l’ha creato.

— La gente di cui parlavi… il Novus Ordo.

— Esattamente — disse Tim.

— Tu vuoi che noi andiamo lì.

Laura lanciò un’occhiata a Karen, che annuì.

— Sarebbe una soluzione saggia — disse Tim. — Forse l’unica soluzione. Avete molte alternative?

— Ma dobbiamo prenderti in parola per tutto questo — disse Laura.

Tim si tirò indietro. Assunse un’espressione cauta. — Non sono sicuro che piaccia ciò che stai implicando.

— È passato tanto tempo, tutto qua. L’ultima volta che ti abbiamo visto, avevi l’età di Michael. Te lo ricordi? Eri un ragazzino in giubbotto di pelle con un pessimo carattere. Ed eri tremendamente litigioso.

Tim riuscì a darsi un’aria offesa. — Vuoi dire che non vi fidate di me.

— Voglio dire che aspettarsi fiducia è chiedere parecchio. Siamo lì in mezzo alla strada, e improvvisamente appari tu; “ciao sorella, come va?” Ma sono passati vent’anni, Timmy. La gente cambia. Chi è questo tipo? E che cosa vuole da noi? Mi sembra una domanda legittima.

Tim scosse il capo. Aveva un’aria triste, pensò Karen, ma c’era anche una piccola traccia, molto debole, di quell’odio che una volta esprimeva tanto liberamente.

— Siamo alle solite, vero? — disse Tim. — Arrivate fino al limite, e poi scappate via. È così che state vivendo, tutt’e due. Be’, è facile inventare scuse. Ma non risolverete certo i vostri problemi.

Laura sbatté le palpebre. — Perché dici questo? Tu non sai niente di noi.

— Forse avevo solo quindici anni, però avevo gli occhi. E ho una memoria.

— Prova a vederla dal nostro punto di vista — disse Laura. — Prova a farlo, almeno.

La sua risposta arrivò come un morso. — Ci sto provando. Solo non riesco a capire che cosa volete.

La cameriera portò del caffè in una caraffa bollente. Karen vide Michael che porgeva la sua tazza, e si domandò quando avesse iniziato a bere caffè. Forse con la pubertà, come la barba.

Cercò di focalizzare la sua attenzione sulla conversazione, ma non ci riuscì. Quale posto al mondo poteva essere più sicuro della tavola calda di un albergo? Eppure si sentiva a disagio, esposta…

— Almeno mi piacerebbe sapere a che cosa andiamo incontro — disse Laura.

— È una vecchia città — disse Tim con tono paziente. — Si chiama Washington, ed è sul fiume Potomac, ma non assomiglia molto alla città che voi conoscete con lo stesso nome. È inverno, e il clima è più freddo del nostro, quindi ci si può aspettare che nevichi. C’è un edificio che si chiama Istituto di Ricerca per la Difesa. È un edificio del governo, e lì dentro ci sono delle persone che vi vogliono parlare.

— Loro ci possono aiutare?

— Mi hanno fatto capire che possono mostrarci un modo per viaggiare senza lasciare tracce; in pratica, un modo per sfuggire a Camminatore.

— Ti hanno fatto questo favore?

— No. Non ancora.

— Allora dobbiamo fidarci della loro parola.

Tim prese stavolta un’espressione sofferente. — Non possono tenerci lì. Non esiste punizione, esiste solo la ricompensa. Ovviamente non vogliono darla troppo presto.

— Hanno un tale bisogno di noi?

— Per il loro lavoro. Niente di terribile. È della nostra cooperazione che hanno bisogno.

Un pensiero attraversò la mente di Karen. — E come facciamo a sapere che lui non lavora per loro?

Laura e Tim si voltarono di scatto verso di lei. Karen arrossì, ma insistette; — L’Uomo Grigio, intendo. Forse lui lavora per loro. Sarebbe lui la punizione.

Laura ci rifletté, e annuì pensierosa. — Forse. Che cosa ne pensi, Tim?

— Siete paranoiche — disse. — Quante volte ve lo devo dire? Stiamo parlando di persone ragionevoli, non di mostri.

Karen finì il suo caffè. Tim lasciò il denaro per la colazione, assieme ad un’enorme, eccessiva mancia. — Vi ho detto tutto quello che so — concluse. — Il succo è che presto io tornerò lì, e credo che voi dovreste venire con me.

Era come un ultimatum. Karen lo percepì dalla sua voce. Era un ordine, o una supplica, o una combinazione minacciosa di entrambi. Tim non era cambiato.

Cadde il silenzio.

— Andrò io — disse Laura improvvisamente.

Karen rimase a bocca aperta. Tim sembrò altrettanto stupito.

— Domani — disse.

Altri sguardi stupiti.

— Be’ — continuò Laura — perché no? Prima si va, meglio è, non vi pare? Ma solo uno di noi — aggiunse. — Solo uno di noi. Andrò io. E se mi sembra che sia tutto a posto, tornerò indietro e chiamerò gli altri — fissò suo fratello negli occhi. — Va bene per te?

Seguì un silenzio ancor più lungo del precedente. Tim fissò Laura, poi Karen, e infine Michael. Ci sta ispezionando, pensò Karen, per vedere se siamo sinceri.

Ma perché non fidarsi? Di che cosa aveva paura lui?

— Penso che vi stiate comportando in maniera irragionevolmente circospetta. Comunque, è già qualcosa.

— Non è necessario che tu lo faccia — disse Karen.

— Lo so — rispose Laura.

Erano tornati in camera, e Michael stava facendo la doccia. Erano sole.

— È pericoloso — disse Karen. — Ho un brutto presentimento.

— Be’, Cristo, anch’io. Ma io non sono un ostaggio abbastanza importante da trattenere. Credo che Tim dovrà riportarmi indietro. Mi faranno fare un giro turistico, e forse sarà una messinscena, forse sarà progettato in modo da attirarci lì… ma riuscirò ugualmente a scoprire qualcosa.

— Stiamo presupponendo che lui sia un bugiardo — disse Karen — che stia lavorando per l’Uomo Grigio.

— È quantomeno possibile. C’è sempre stato un rapporto, fra loro due, che non ho mai ben capito.

— Allora è troppo pericoloso. Non puoi andare.

Laura sospirò, alzando gli occhi al cielo. — Che altre possibilità abbiamo? Correre e continuare a correre? Non voglio più. Voglio smetterla di scappare. E in ogni caso, non è me che vogliono. Camminatore mi ha sempre lasciato in pace a Turquoise Beach. Non sono io il premio.

Era vero, pensò Karen, ma era anche spaventoso. Ciò che implicava era spaventoso. — Allora chi è il premio?

— Non tu o io — disse Laura. — lo credo… in definitiva, io credo che sia Michael che vogliono.

Per favore, no, pensò Karen.

Ma forse Tim non stava mentendo; forse era tutto vero. E forse era tutto a posto.

Sdraiata sul letto, Karen volle crederci.

Forse è vero, pensò, forse esiste veramente un luogo che possiamo chiamare casa nostra. Non il genere di utopia che Laura aveva cercato dall’altra parte del continente, non il Paradiso, forse neanche un posto particolarmente bello, ma sempre casa. Una casa vera e propria, alla quale appartenevano.

Sarebbe stata una buona cosa.

Ma pensò al suo sogno che non era un sogno, il sogno della gola dietro la casa di Costantinopole e dell’oscurità di un vicolo acciottolato in una vecchia e fumosa città di mare. Pensò alla solitudine delle fabbriche e dei magazzini, e ai palazzi di ossidiana nera. Pensò alla neve che cominciava a cadere.

Era il genere di mondo nel quale Tim sarebbe entrato di sua volontà. Karen aveva sentito ciò che aveva detto sua sorella sul loro talento. Era un talento la cui ampiezza dipendeva dalla propria immaginazione. Il che era come dire l’anima stessa. Si ricordò Tim da bambino, e immaginò che avesse aperto porte su una dozzina o più di quei mondi tetri, limitati e glaciali. Forse era l’unico genere di porta che lui riuscisse effettivamente ad aprire… di tutta la rete di possibilità, nient’altro che quei vicoli bui e quelle città fredde.

Addormentandosi infine, si ricordò ciò che le aveva detto Laura: È Michael che vogliono. Le parole riecheggiarono nella sua testa.

Non mio figlio, pregò. Per favore, non Michael.

Penso all’Uomo Grigio, tutti quegli anni prima, e ai regali che aveva dato loro; i regali che tre bambini avevano accettato e che languivano in un cassetto chiuso da tre decenni.

I regni della Terra.

Che cosa significava?

La più bella del reame.

Un indovinello.

Il figlio primogenita.

Dormendo, rabbrividì.

Laura, nel letto accanto, aveva pensieri simili.

Camminatore le aveva donato uno specchio. Lo stesso specchio che aveva ritrovato nel cassetto a Polger Valley… lo specchio che ora vedeva chiaramente con l’occhio della mente. Era uno specchio di plastica rosa da pochi soldi, e il vetro cromato si era scrostato con il passare degli anni. Ma era ovvio ciò che aveva voluto significare quel dono di Camminatore. Era il suo modo di dire “tu sei vanitosa”. La tua maledizione è la vanità.

Ed era vero. Ora lo poteva sentire. La sua vita si era basata su quello. Le droghe erano uno specchio nel quale si era guardata per un certo tempo. Anche Turquoise Beach era uno specchio; uno specchio magico che rifletteva solo cose piacevoli. Anche Emmett era uno specchio, e lei si era specchiata nei suoi occhi.

Nel complesso, pensò Laura con amarezza, non è altro che merda. E per una cosa del genere lei era rimasta lì, sola e abbandonata su quell’isolotto di tempo.

Quindi, pensò, devo essere io. Era perfettamente logico. Era per quello che si era offerta di andare con Tim. Era una buona idea, ma era anche un atto di coraggio; lasciate che corra questo rischio al posto di qualcun altro. Per la prima volta, per favore, Dio, lascia che io me ne prenda cura.

Però aveva paura.

Ma non c’era niente di strano. Era normale che fosse spaventata. Ora si trattava di affrontare le verità vere. Il confronto finale. I segreti definitivi.

Non dormirò mai, pensò. Sono troppo tesa per dormire.

Ma il sonno si impossessò di lei senza avvertirla.

Dormì, e dormì anche Karen, e la notte si consumò. Quando si svegliarono il sole brillava in cielo, e il letto di Michael era vuoto.

24

La capitale del Novus Ordo era buia nell’inverno, e Michael non era vestito in maniera adeguata.

Si era messo due magliette, un paio di jeans pesanti e un cappello da baseball della squadra dei Blue Jays calcato fino alle orecchie. Ma non era sufficiente. Il vento soffiava in quelle strade solitarie tagliente come un coltello, e la neve si infiltrava nelle sue scarpe da ginnastica.

La strada era deserta. Si domandò se vigesse per caso un coprifuoco, o se fosse solo per via del tempo. Ma doveva anche essere tardi, lì. Gli edifici erano vecchi e neri, illuminati a strani e imprecisi intervalli da lampade al sodio. Ogni tanto passava sbuffando un’automobile dall’aria pesante, oppure una carrozza tirata da cavalli. Cadendo, la neve faceva un suono secco e polveroso. Michael rabbrividì.

Ma era vicino. Lo sentiva. Ancora un paio di quegli isolati lunghi e stretti, poi a destra, e poi ancora a sinistra. Non sapeva da dove gli proveniva quella cognizione, ma era immediata e sicura; si era fissata nella sua mente dal momento in cui era arrivato.

Ma il tempo era veramente brutto, e cercare di camminare significava ridursi in pessimo stato. Così, si riparò sotto l’esigua tettoia di un negozio in stile gotico, sulla cui insegna era scritto OROLOGI, MECCANISMI OROLOGERIA, RIPARAZIONI, e tentò di farsi dare un passaggio.

Due automobili gli passarono davanti. La terza si fermò.

Si trattava di un enorme veicolo grigio, e un cilindro nero, forse un serbatoio o una camera di compressione, spuntava da sotto il cofano. La portiera destra si aprì, e Michael si infilò nella macchina.

L’interno felpato dell’automobile non era molto più caldo della strada, ma almeno era riparato dal vento. Michael guardò l’autista con gratitudine. Si trattava di un tipo di mezza età imbacuccato in pellicce dall’aria russa e guanti pesanti. Si fissarono con aria indagatrice per un minuto, finché il conducente non fece qualche mossa elaborata con la leva del cambio e il veicolo ripartì sussultando.

— È un po’ tardi per essere in giro — disse l’uomo.

Michael annuì. — Non era una cosa programmata.

— Ti sei ritrovato nella tempesta?

— Uh-huh.

— Potresti rimanerci secco, ad andare in giro vestito così.

L’accento dell’uomo era strano, pensò Michael. Come una combinazione fra olandese e francese. Il tono era neutro e cauto. — Be’, sapete com’è — disse Michael. Non esisteva una scusa plausibile per i suoi vestiti.

— Vieni da fuori città? — chiese l’uomo.

— Sì.

— E vai lontano?

— Non molto.

— Dammi l’indirizzo. Ti ci porterò.

Ma non aveva un indirizzo. Esitò un attimo. — Non conosco il numero — disse — ma posso indicarle la strada.

— Meglio di niente — disse l’uomo.

Procedettero in silenzio per un certo tempo. Un enorme spazzaneve a vapore con un lampeggiante blu sul tetto intersecò la loro strada a un incrocio. Dei cavi sospesi ronzarono e sbatterono fra loro nell’oscurità. Gli edifici erano alti e bizzarri, come quelle fotografie delle case Tudor che aveva visto sul suo libro di geografia. Le finestre a livello strada erano tutte vetrine di negozi. Dopo un po’, vennero sostituiti da edifici più grandi, simili a magazzini, alternati da qualche torre di pietra o di cemento con colonne di marmo finto e guglie che s’innalzavano dai cornicioni.

Non era un posto buono, aveva detto Tim, ma neanche necessariamente un posto cattivo.

Casa, aveva detto.

Ma Michael rabbrividì sul sedile freddo, e aspettò prima di dare un giudizio.

— A sinistra — disse, seguendo il suo istinto. — Giusto. Ora su per di qua. Forse un isolato o due…

La via che imboccarono era più ampia, e costellata di alti palazzi di ossidiana. I cavi per i tram erano tesi sopra di loro. Il rombo delle gomme suggerii che sotto la neve la strada doveva essere acciottolata.

Quella crescente sensazione di familiarità eccitò e preoccupò Michael allo stesso tempo. Come faceva a sapere da quale parte andare? Era strano. Eppure, lo sapeva. L’istinto era forte, potente…

— Qui! — esclamò improvvisamente.

La vettura si fermò.

Seguì un attimo di silenzio, interrotto solo dal rumore del vento sul parabrezza.

L’edificio era enorme. Un muro di pietra che si apriva su un cortile. Sopra il cancello d’ingresso vi era incisa una piramide con un occhio al centro.

— Palazzo del governo — osservò l’uomo al volante.

Trovare la strada fino a lì era stata la parte facile.

Michael era rimasto sveglio a lungo dopo che sua madre e Laura si erano addormentate. Si sentiva talmente sveglio in quella camera d’albergo di San Francisco, che aveva l’impressione di non potersi addormentare mai più. I pensieri giravano nel suo cervello come un motore surriscaldato. Stava pensando a Tim.

Stava pensando alla zia Laura che avrebbe seguito Tim fino al Novus Ordo.

Capiva esattamente le sue intenzioni. Era un’idea abbastanza sensata. La zia non si fidava di Tim, e voleva sapere con esattezza a che cosa andavano incontro. Michael sapeva che lei aveva paura, e che probabilmente il suo era un vero atto di eroismo.

Ma a ripensarci, non era poi così sensata come idea. Più ci pensava, e meno gli pareva sensata. Se era necessaria una perlustrazione, perché andarci con Tim? Perché fidarsi anche solo di quel tanto? Immaginò che Laura non sarebbe stata in grado di trovare quel posto da sola… il suo talento non era molto forte, ed era stata lì una sola volta, e decenni prima, da bambina.

Ma io lo posso trovare, pensò Michael. L’aveva già sentito. In un modo curioso, era stato in grado di sentirlo attraverso Tim. Forse era quello il modo in cui l’Uomo Grigio li trovava sempre; quella leggera ma netta sensazione di una strada intrapresa, di una presenza passata. Non era una cosa per la quale si poteva mettere la mano sul fuoco, eppure lui la sentì, in quella camera d’albergo di San Francisco.

C’era anche la questione della distanza fisica (la città si trovava dall’altra parte del continente), ma Michael era arrivato a capire che neanche quella era una barriera sostanziale, e che nel vortice delle possibilità la distanza era tanto mutevole quanto il tempo. Washington o Tijuana, Parigi o Pechino, non aveva nessuna importanza.

Si alzò al buio, senza svegliare sua madre o sua zia. Si vestì con gli abiti più pesanti che riuscì a trovare. Ora, pensò. Non c’era motivo di attendere oltre. Laura aveva progettato di partire l’indomani; Michael sarebbe andato prima di lei, e avrebbe reso inutile il suo viaggio. Solo per dare un’occhiata, si era detto. Solo per farsi un’idea del posto. E poi tornare indietro. Tornare indietro prima del mattino. Naturalmente, tutto ciò non sarebbe piaciuto a sua madre e sua zia. Non l’avrebbero approvato. Ma era lui l’uomo di famiglia. La responsabilità era sua.

Un mezzo passo laterale, e un quarto di giro in una direzione alla quale non sapeva dare un nome. Era quasi spaventosamente facile. Un attimo dopo si ritrovò in piedi in una strada buia con la neve fino alle caviglie, che chiedeva un passaggio fino a un edificio che non aveva mai visto, seguendo un imperativo talmente urgente che si domandò se avesse avuto mai la possibilità di scegliere, fin dall’inizio.

La cosa più strana era che l’edificio non era affatto protetto.

Sembrava una fortezza, con cancelli di ferro e posti di guardia, ma il cancello era aperto e il vasto cortile deserto. Michael si incamminò istintivamente sotto la neve che cadeva, rabbrividendo per il freddo, la sua ombra moltiplicata dal bagliore delle lampade al sodio. Si fermò un attimo e si guardò alle spalle, verso l’ingresso. L’automobile che l’aveva portato fin lì era ancora ferma, parcheggiata, con il motore spento. Pensò che fosse una cosa un po’ strana, ma non importava. Si diresse con decisione verso l’edificio principale; un’enorme lastra di pietra e di mattoni con occasionali finestre sbarrate. Veli e drappi di neve cadevano tutt’attorno a lui. Era come essere contenuto nella neve, avvolto dalla neve. Non aveva più tanto freddo, ora.

L’istinto, o forse meglio la costrizione che provava, era diventata fortissima. Si fece guidare fino alla porta centrale d’acciaio dell’edificio, che era socchiusa. E anche quello era un fatto strano. Ma lui non ci pensò. Un refolo di vento gli fece entrare della neve nel colletto, spingendolo in avanti come una mano. Dentro, sembrava dirgli. Va bene, pensò Michael, è lì che sto andando. È lì che voglio andare.

Entrò nell’edificio.

Il corridoio era deserto. Metà delle lampade fluorescenti sul soffitto erano spente o traballavano, e un poco di neve si era accumulata all’interno, sulla soglia. Michael chiuse la porta alle sue spalle; il rumore riecheggiò nel corridoio come un batter di mani.

Che cosa è questo posto?

Casa, pensò. La parola era lì, nella sua mente. Ma non era proprio un suo pensiero; era il pensiero di Tim. La voce di Tim. O quella di Camminatore.

Scosse il capo e procedette lungo il corridoio.

Il corridoio puzzava di disinfettante e di nastro isolante bruciacchiato. Alcune porte erano aperte, altre no; da quelle aperte si potevano scorgere uffici bui, senza finestre, con scrivanie grigie di metallo. Ogni tanto, il corridoio svoltava a sinistra o a destra, o si diramava in due o tre direzioni diverse. Non c’erano numeri né cartelli. Michael continuò a camminare senza farci caso, seguendo l’imperativo dentro di sé, e avvicinandosi sempre più al cuore dell’edificio (come se quel palazzo avesse effettivamente avuto un tiepido cuore che batteva) e a qualunque cosa lo attendesse lì.

Gli venne in mente che avrebbe dovuto essere spaventato.

Sui suoi abiti la neve si era sciolta. Sentiva i capelli freddi e bagnati sul collo, e i piedi intirizziti. A ogni passo, le sue scarpe da ginnastica facevano un suono di gomma umida e appiccicosa. Dovrei avere paura, pensò, perché niente di tutte questo è come dovrebbe essere. C’era qualcosa di ovviamente sbagliato, e lui ne era al centro; quell’edificio vuoto esisteva, in un certo senso, unicamente a suo beneficio.

Ma non poteva neanche immaginare di fermarsi o di tornare indietro; il pensiero non lo sfiorava nemmeno; la sua mente non lo poteva contenere. E questo avrebbe dovuto terrorizzarlo più di ogni altra cosa… ma al posto della paura c’era solo un leggero disagio. Solo il contorno della paura; come se la paura fosse stata seppellita, coperta dalla neve.

Chiuse gli occhi, e procedette con fiducia. Arrivò a una scalinata e la seguì in discesa; non sapeva quanto, ma quando si fermò, l’aria era più calda. Era un’aria calda, viziata e chiusa; succhiò l’umidità dai suoi vestiti e gli compresse il petto.

Arrivò davanti a una stanza. La stanza aveva una pesante porta d’acciaio, ma la porta si aprì senza un suono e con grande facilità quando Michael la toccò.

Entrò.

La stanza conteneva solo una sedia di legno; per il resto era vuota. Una serie di luci puntavano in basso dal soffitto. Michael era solo. Era arrivato, pensò con gioia, al centro dell’edificio.

Ma il misterioso senso dell’orientamento che l’aveva guidato fino a quel momento improvvisamente scomparve, e con quello svanì anche l’inibizione che aveva frenato la sua paura. Improvvisamente si sentì spaventato. Profondamente spaventato, terrorizzato. Era come risvegliarsi da un incubo. Sentì il panico che ribolliva dentro di lui. Che cosa ci faceva lì? Che cosa era quel posto?

Si voltò nuovamente verso la porta, ma scoprì con nuovo terrore che non era in grado di muoversi in quella direzione. Ci provò, ma semplicemente non poteva. Le sue gambe si rifiutavano di funzionare; non riusciva a sollevare i piedi. Non riusciva neanche a inclinare il suo corpo verso la porta, o a lasciarsi cadere in quella direzione.

Si sentì come potrebbe sentirsi una persona intrappolata in un edificio crollato; impotente e imprigionato. Voleva gridare aiuto, ma aveva paura dell’attenzione che avrebbe potuto attirare. Tuttavia, pensò, doveva, averlo già fatto. Per quale motivo si trovava lì, pensò, se non perché qualcuno lo voleva lì?

Avvertì un movimento alla porta, e si rannicchiò sulla sedia di legno. Si aggrappò al bordo del sedile, e fissò con gli occhi sgranati l’irraggiungibile corridoio.

Un uomo entrò nella stanza.

Era l’uomo dell’automobile. L’uomo che gli aveva dato un passaggio fin lì.

L’uomo si avvicinò. Sorrise. Sembrava pervaso da una genuina felicità, e quella era una cosa terribile… irradiava felicità.

— Ciao, Michael — disse. — Io mi chiamo Carl Neumann.

25

— Forse — disse Laura — è andato a fare una passeggiata.

Il che era quantomeno plausibile. A giudicare dallo stato della sua valigia aperta, era ovvio che Michael si era vestito prima di andarsene. Allora, pensò Karen, in effetti esisteva quella possibilità. Poteva essere uscito prima dell’alba. Forse sarebbe tornato.

Era un’idea rassicurante, e dopo un quarto d’ora se ne era quasi convinta, solo che a quel punto si rese conto che la porta della camera era ancora chiusa a chiave, e peggio ancora, era chiusa con la catena… dall’interno.

Quindi, non aveva lasciato la stanza. Non in questo mondo.

Stranamente, riuscì a mantenere la calma anche di fronte a quella rivelazione. Indicò la catena a Laura, che esclamò “Maledizione!”, e digitò una serie di numeri sul telefono. Era il numero che aveva lasciato Tim.

— Stanza 251 — disse Laura a denti stretti. Poi, dopo una lunga pausa: — Fauve. Timothy Fauve… è cosa? Oh, Cristo… No. No, non fa niente. Grazie.

Abbassò la cornetta.

— Se n’è andato — azzardò Karen.

— Questa mattina. Maledizione!

Così, Michael se ne era andato, e Timmy se n’era andato.

L’hanno preso, pensò Karen. Era lui che volevano, e ora lo hanno preso. Ecco che cosa significa.

Ma Michael se ne era andato solo da qualche ora al massimo. Era poco tempo. Voleva riprenderselo… far tornare indietro l’orologio finché non l’avrebbe ritrovato nella stanza, e poi afferrarlo e stringerlo, stringerlo così forte che nessuno avrebbe potuto portarglielo via.

— Una volta — disse Karen — quando Michael aveva appena due anni, erano passati un paio di giorni dal suo compleanno, lo stavo portando in giro in carrozzina mentre facevo la spesa. Eravamo in centro, ed era quasi Natale. I negozi erano affollati. Ero piegata su uno scaffale e gli stavo dando le spalle. Stavo cercando quel sapone profumato che mandavo a mamma tutti gli anni, che le piaceva tanto. Ma il sapone non c’era, e allora stavo frugando fra gli altri prodotti. Mi sembrava come… come se ce ne dovesse essere almeno uno, ma era dietro qualche altra cosa. Così rimasi un sacco di tempo a cercare in quel punto, mentre la folla passava alle mie spalle. Ma non trovai quello che volevo. Così alla fine mi voltai e cercai la carrozzina. Ma non c’era. Era scomparsa, con Michael dentro. Ma io non mi feci prendere dal panico. Rimasi solo di sasso. Era come se avessero tolto il fondo a tutto. Mi girava la testa, ma avevo la mente lucida. Lo chiamai, chiesi alla gente “avete visto una carrozzina? Una carrozzina gialla a fiori?” e intanto mi facevo strada fra i corridoi. E poi la vidi. Ero come un radar; avevo individuato la carrozzina in mezzo alla folla. Era lontana, vicina alle scale mobili. Il mio cuore prese a battere forte. Corsi fino alla carrozzina, spintonando la gente che mi ostruiva il passo. Non me ne importava niente. Era come fare i cento metri.

Karen fece una pausa.

— Poi — continuò — quando arrivai, trovai semplicemente una donna anziana molto confusa che spingeva in giro la carrozzina di Michael. L’aveva vista, e se l’era presa. Forse credeva di essere nel 1925, o qualcosa di simile. Io le tolsi le mani dalla maniglia e lei si limitò a fissarmi. C’era una tale confusione, e un tale rammarico, credo, in quell’espressione, che non riuscii ad arrabbiarmi. Cinque secondi prima ero pronta a farla a pezzetti, Ma invece dissi solo: “Me ne occuperò io, ora.” E lei mi rispose: “Oh, va bene: Grazie.” E se ne andò spaesata giù per la scala mobile. Ma quello che mi ricordo bene è la mia corsa. Vidi la carrozzina, e corsi a tutta velocità in quella direzione. Non mi importava di nulla, tranne che di arrivare lì. Non avevo mai corso così in vita mia. Mai. Ma mi piacerebbe…

Esitò un attimo, improvvisamente.

— Ma mi piacerebbe — continuò — poter correre ancora così.

Con voce dolce, Laura disse: — Forse lo puoi fare. Forse lo devi fare.

Karen fissò sua sorella, cercando di capire.

— Forse se n’è andato di sua volontà — disse Laura — o forse è stato preso. In ogni caso… credo che non abbiamo altra scelta; dobbiamo seguirlo.

— Seguirlo dove?

— Il posto più logico sarebbe il mondo del quale parlava Tim. Il Novus Ordo. Ma questa non è un’indicazione molto precisa. Dobbiamo sapere dove è andato… dobbiamo sentirlo.

— Sei in grado di farlo?

— No. Ma voglio! Ci sto provando. Ma è come cercare il fumo… lo sento, ma poi svanisce nel nulla. — Fissò Karen. — Forse tu sei in grado di farlo.

Ma era assurdo, pensò Karen. Io non ho nessun talento. Lo disse.

— Karen, non è vero — disse Laura. — Tu hai cercato di condurre un certo genere di vita, e so che è passato molto tempo. Ma tu eri potente almeno quanto me… tanti anni fa.

— Eravamo bambini!

— Non cambia nulla.

— Cambia eccome!

— Tu cerchi di convincertene, ma è sempre stata una bugia. Karen, capisci quello che ti sto dicendo? Si tratta di una cosa importante. Se non ci provi… be’, allora forse lo abbiamo perso. Vince l’Uomo Grigio. Forse non lo riavremo mai.

Il figlio primogenito, pensò Karen. Michael!

Ma non posso, pensò. Laura si sbaglia. È passato troppo tempo.

Rimase seduta in quella camera d’albergo silenziosa, con gli occhi di sua sorella che la fissavano, e non riusciva a pensare ad altro che a quella corsa, all’inseguimento della carrozzina, e Michael perso nella folla. L’aveva trovato, allora. E che bella sensazione era stata.

Michael? Pensò. Era là fuori in quel momento? Era veramente possibile raggiungerlo, trovarlo?

Sentì una leggera, improvvisa elettricità… una sorta di giramento di testa, come se la stanza stesse cadendo nel nulla.

Ma era una brutta cosa. Questo era un dato di fatto per lei. Era bruttissimo permettere che quella cosa tornasse a far parte della sua vita, era bruttissimo cederle; era sbagliato. Pensò a Willis Fauve. Vide il suo viso nella sua mente, e lo vide come era vent’anni prima, con i capelli a spazzola ancora scuri, e gli occhi come nubi cariche di pioggia sotto le sue sopracciglia enormi. Una cosa bruttissima e pericolosa.

Ma Willis aveva solo paura, si disse. Willis aveva paura, e alla fine Willis aveva perso i suoi figli; erano scappati via dalla sua vita tutti quanti. E ora Karen aveva paura, e Michael se n’era andato. Forse era così che funzionava. Forse era inevitabile, come il girare di una ruota.

Tutti quei pensieri passarono per la sua testa in una frazione di secondo.

Ma lui è là fuori, pensò.

E anche questo era un dato di fatto.

Lui è la fuori, e forse Laura ha ragione; forse io posso trovarlo.

Chiuse gli occhi, allontanò il pensiero di Willis una volta per tutte, e aprì se stessa in una maniera che aveva quasi dimenticato. Tutto ciò che devo fare è guardare, pensò. Ci sono mondi là fuori, come petali di un fiore. Da quanto tempo non lo faceva?Da un quarto di secolo? Ma era facile, e forse quello era il segreto essenziale che aveva custodito per tutti quegli anni. La facilità nel farlo.

E oh, pensò Karen, quanto si era dimenticata.

L’energia fluiva nel suo corpo. Porte e finestre, pensò, come un prisma, come guardare attraverso un caledoscopio e vedere mutamenti e cambiamenti ad ogni movimento del tuo polso. Ogni frammento di vetro colorato era una porta, e ogni porta era un mondo. E attraverso uno di quelli, avrebbe trovato Michael. L’avrebbe visto da lontano. Avrebbe corso.

Era passato di lì non molto tempo prima.

Karen aveva gli occhi chiusi e stretti, ma vide una città; un complesso scuro di vie serpeggianti piene di neve, un pallido raggio di sole che filtrava attraverso l’ammasso di nubi, automobili rumorose e cavalli che espiravano nuvolette di vapore.

Vide un palazzo nero dietro mura di pietra nera.

Istintivamente, cercò Laura. — Prendi la mia mano — sussurrò. — Ora! Non so per quanto tempo sarò ancora in grado di farlo!

Sentì le dita di Laura che s’intrecciavano alle sue.

Era facile, pensò, come varcare una soglia. Bastava muoversi, ma non era esattamente un movimento, in una certa direzione, ma non era esattamente una direzione. Qui, e qui, e qui. E poi…

L’aria fredda le punse la pelle. Aprì gli occhi, e vide le mura di pietra, prosaiche e reali, proprio davanti a lei. Le mura erano alte e impossibili da scavalcare. Ma Michael era dietro quelle mura. Lo sentiva. Ed era stata fortunata. Il grande cancello di ferro era aperto.

Il cardinale Palestrina venne svegliato dall’insolente squillare del telefono. Disorientato, si portò la cornetta all’orecchio. La centralinista dell’albergo annunciò una chiamata di Carl Neumann.

— Passatela pure — disse Palestrina in tono esausto.

La voce di Neumann attraverso il telefono era squillante e penetrante. — Sta succedendo — stava dicendo. — Dovreste essere qui il più presto possibile.

Palestrina si rizzò a sedere. — Così presto?

— In questo momento, Eminenza. Mentre vi sto parlando.

— Il ragazzo?

— Il ragazzo. E non solo il ragazzo.

L’hanno colto dall’aria pura, pensò l’ecclesiastico, ancora assonnato. Colto da un mondo oltre l’orlo del mondo. Era, a modo suo, una specie di miracolo. — Va bene — disse. — Sto arrivando.

— Eccellente — disse Neumann.

Il cardinale si vestì di fretta, buttandosi addosso una pesante pelliccia mentre usciva dalla stanza. Si fermò nell’atrio dell’albergo per un veloce caffè in un bicchiere di cartone cerato, talmente caldo che gli bruciò le labbra, e poi salì su un taxi fermo al bordo del marciapiede ghiacciato.

26

Laura non riusciva a capire come e quando si era separata da sua sorella.

Semplicemente, non era possibile. Le parole si ripetevano nel suo cervello come un disco che salta; è impossibile. Erano assieme… stava tenendo la mano di Karen. Era stato come quella volta a Pittsburgh, quando avevano seguito Tim in quello che ora immaginò fosse qualche angolo del Novus Ordo. Erano come gemelle siamesi, attaccate l’una all’altra.

Appena arrivate, si erano incamminate sulla neve dopo aver superato i cancelli di ferro nero di quel brutto edificio, e avevano attraversato il cortile con le sue lunghe ombre mattiniere. Michael era lì dentro, aveva detto Karen. Laura non riusciva a sentirlo, ma l’aveva presa in parola. Trovarlo e uscire subito, aveva pensato. Perché noi possiamo farlo; possiamo andarcene con un passo laterale quando ci pare e piace.

Era un’idea rassicurante.

Ma a ripensarci, se era vero, perché Michael non era ritornato a casa? Come avevano fatto a tenerlo lì?

Ma era una domanda alla quale non poteva rispondere. Andiamo avanti, si era detta. Avanti, lungo questi corridoi serpeggianti, corridoi come le radici di un vecchio albero, che s’infilò nelle profondità della terra. L’aria era chiusa e puzzava di anestetico, sovrastato però da qualche altro odore nauseabondo, come di garofani. Gira, gira e gira nella semioscurità. Era diventato automatico.

Poi si era fermata, e aveva cercato Karen. Ma Karen non c’era più.

Quella sparizione la preoccupò, ma forse non quanto avrebbe dovuto. Proseguì ugualmente… non proprio senza scopo, ma senza nessuna meta conscia. Semplicemente, accadeva. Era come camminare nel sonno. Si sentiva effettivamente addormentata. Si sentiva narcotizzata.

Ecco che cos’era, si disse Laura; era come essere sotto l’effetto di qualche droga; non una droga psichica o uno stimolante, ma un qualche narcotico soporifero; un qualcosa di sciropposo e potente, come immaginava doveva essere l’oppio. Continuò a camminare su quelle piastrello tetre e asettiche, pensando, “da questa parte per la Città di Smeraldo… attraverso il campo di papaveri…”

Il corridoio si restrinse finché diventò appena poco più largo del suo corpo stesso.

Da qualche parte, suonava un campanello. Un campanello d’allarme, pensò Laura. Stava segnalando qualche genere di emergenza. Ma lei l’ignorò, e continuò a camminare.

Poi, il corridoio finì, e lei si trovò davanti a una stanza, un ultimo cul-de-sac senza nemmeno una finestra, debolmente illuminato, con un ingresso ad arco. Ma dev’essere questo ciò che io voglio, pensò Laura. Deve essere qui che avevo intenzione di venire.

Entrò dalla porta stretta, e vide una donna.

Non se l’aspettava. La donna sembrava talmente comune. Era una donna normalissima di mezza età, che indossava abiti familiari; un paio di Levi’s e una camicia larga, forse vestita in maniera un po’ troppo giovanile per la sua età. I suoi capelli iniziavano a diventare grigi, e l’espressione del suo viso era intensa. Un misto di stupore e di smarrimento. Questa donna, pensò, dev’essersi persa in qualche modo.

Ma poi mosse un passo nella stanza, e lo fece anche la donna. Solo allora si rese conto che la parete opposta era uno specchio, e che la donna era lei.

Improvvisamente, sentì che le cedevano le ginocchia. Non sono io! pensò. Quella non sono io. Io non sono affatto così! Io sono quella carina… e, fra l’altro, che cosa ci faccio io qui? Dove sono tutti quanti? Dov’è Karen, dov’è Michael?

Voleva tornare indietro, ma non poteva. Invece, fece un altra passo avanti (e lo fece anche quel riflesso triste e smarrito), e si voltò, ma solo per scoprire, con orrore, che anche le pareti laterali erano specchi, e che gli angoli che formavano creavano più immagini di lei stessa di quante ne potesse tollerare; un’infinità d’immagini, moltiplicate lungo gli scuri corridoi specchiati, tutte che la fissavano con quell’espressione totalmente confusa. Non sono io, si disse ancora. Nessuna di queste sono io. Alzò le mani per mandarle via, come fossero stati corpi fisici che le si erano affollati attorno. Voleva andarsene… ma, misteriosamente, si sentiva troppo debole per muoversi; la porta era troppo lontana. Non possono tenerci qui, pensò, e cercò brancolando una via d’uscita, una via per San Francisco e la luce del sole; una porta segreta, o una finestra nascosta.

Ma non c’erano vie. Niente porte, niente finestre, niente uscite. Solo specchi, come pozzi, che la tiravano giù. Avvertì una vampata di terrore claustrofobico, e vide la donna dello specchio che la fissava a sua volta, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata in un grido, rendendosi conto all’improvviso che era in trappola, che non c’era via di scampo, e che non c’era nessun altro lì, tranne lei stessa.

Il cardinale Palestrina raggiunse Carl Neumann nel suo ufficio dell’Istituto di Ricerca per la Difesa.

L’ufficio era affollato. C’era un uomo che Palestrina individuò come un burocrate del Pentagono; il superiore di Neumann. E c’erano tre veggenti dell’Istituto; creature nane con semplici grembiuli di cotone. Vide anche due di quegli uomini che Neumann chiamava scienziati, ma che lui preferiva considerare stregoni; gli uomini che avevano messo in atto gli incantesimi vincolanti.

L’eccitazione che regnava nella stanza era palpabile. Soprattutto, si vedeva in Neumann. Era il suo trionfo, la gratificazione che aveva dovuto aspettare per troppi decenni. Il suo viso era rosso e gli occhi gli schizzavano per tutta la stanza, come se avesse voluto memorizzarla insieme a tutti i dettagli di quella giornata, alle persone presenti, e alle loro espressioni. Guardò Palestrina, e gli si avvicinò.

— Il ragazzo è già qui? — chiese il cardinale.

— Lo teniamo in isolamento da diverse ore — disse Neumann con un sorriso. — E sembra aver attirato a sé gli altri. Come api al miele. Sta arrivando tutto assieme.

— Quando potremo vederlo?

— Presto. Stiamo aspettando che sia tutto in ordine. Abbiamo incantesimi e fatture che prepariamo da vent’anni, e stanno operando tutti proprio qui, proprio in questo momento. Dio mio, lo si sente nell’aria.

Il cardinale immaginò che in effetti si potesse sentite. L’aria aveva un odore strano, come se fosse stata bruciacchiata con qualche macchinario enorme e bollente.

— Stiamo solo aspettando che ci diano l’okay i nostri veggenti — disse Neumann.

I tre veggenti nani, che a giudicare dai lineamenti nodosi e ammassati dovevano essere degli omuncoli, sedevano sulle loro sedie, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ce n’era uno per ciascuno di loro, spiegò Neumann. Uno per Laura, uno per Karen e uno per Michael, ognuno in tandem con il proprio soggetto. Mentre il cardinale li guardava, uno di loro sbadigliò e si stiracchio. Il gesto fu talmente animalesco… talmente poco umano, che Palestrina dovette trattenere un brivido.

L’omuncolo gli sorrise dalla parte opposta della stanza. Un ghigno ferino.

— Ma siete in grado di tenerli? — chiese Palestrina a Neumann.

— Ne siamo certi. Questo edificio è una gabbia; così è stato progettato. Dal giorno della prima fuga, abbiamo iniziato a studiare il problema, e alla fine abbiamo progettato ciò che riteniamo sia una barriera insormontabile. Capirete che non si tratta semplicemente di una barriera fisica.

— Magia imprigionante — disse Palestrina.

— Esattamente.

— E siete in grado di calcolarla con tanta precisione?

— Crediamo di sì.

— Si dice, e vi prego di non interpretare male le mie parole, che gli americani siano particolarmente ferrati nelle scienze profane.

Neumann si sentiva generoso. — Ma è vero — ammise candidamente — basta che vi guardiate attorno!

Il cardinale Palestrina si servì un’altra tazza di caffè dalla caffettiera nell’angolo dell’ufficio. Berne troppo gli avrebbe dato dolori di stomaco, ma sentiva di aver bisogno di stare ben sveglio. Molte cose stavano per accadere.

Cose buone, presumibilmente. Dopo tutto, pensò, la logica di Neumann era difficile da confutare. Certo, la sua amoralità era indiscutibile; tuttavia l’americano comprendeva la gravità degli eventi del Medio Oriente. Dopo tutto, un’arma è sempre un’arma. Morte, sotterfugi, innocenza depredata… non era forse questo il significato della guerra? Il Vaticano aveva assegnato a lui il compito di e valutare l’arma segreta di Neumann e il suo possibile utilizzo bellico. E di valutare anche il suo peso per quanto riguardava l’ordine morale… ma forse questo era irrilevante; un lusso che l’Occidente non si poteva permettere. È forse più umana una spada di una pallottola? È forse più divina una pallottola di una bomba? Le notizie dalla Sicilia erano pessime. Forse talmente pessime da costringere a soprassedere alla sottigliezza dei mezzi che si potevano usare.

Tuttavia, era impossibile guardare quegli omuncoli sorridenti e quegli stregoni in camice bianco senza almeno un brivido di disagio.

Tornò da Neumann e gli chiese: — presupponendo che riusciate a tenere questa gente… siete in grado di garantire sul loro utilizzo?

Neumann sembrò risentirsi di quell’insinuazione. — Possono essere revisionati e resi utilizzabili.

Queste parole, pensò Palestrina. Queste parole fredde, piatte, terribili. Revisionati! — Intendete un intervento chirurgico.

— Si tratta di una cosa molto, delicata, chiaramente, ma ora disponiamo di tecniche molto più sofisticate rispetto a quelle che abbiamo impiegato nel caso di Camminatore. Ciò che stiamo cercando di catturare è la facoltà dell’immaginazione. È come una farfalla favolosa di una specie rarissima. Il trucco sta nel trattenerla senza ucciderla o danneggiarla. Fortunatamente, ci sono alcune funzioni neurologiche che possono essere facilmente localizzate. Con il bisturi giusto nel punto giusto si può staccare la volontà dall’immaginazione, cauterizzare l’una senza distruggere l’altra. Possiamo farli lavorare per noi.

— Ma è il ragazzo che vi serve… non gli altri.

Neumann diede un’occhiata all’orologio da polso. — Che cosa vuole che le dica?

— La verità.

Il timbro e l’autorità della voce di Neumann stupirono lo stesso Palestrina.

— Questo non è un confessionale — disse.

— Li farete operare… farete la messa a punto delle vostre procedure chirurgiche — (Anch’io conosco queste parole, pensò.) — Li mutilerete, e poi li userete, oppure li ucciderete, a seconda di come vi garba.

— Vi faccio presente che non apprezzo per niente questo vostro tono — ribatté Neumann. Ma si bloccò subito, e ritrovò la solita compostezza. Il cardinale sentì che era venuto fuori il suo potere; lui era pur sempre un legato pontificio di Roma, l’antico Impero, la vecchia Europa, e tutto ciò che questo implicava. Neumann prese fiato e continuò: — Queste sono questioni controverse, Vostra Eminenza, o per lo meno dovrebbero esserlo. In questo genere d’impresa una certa dose di crudeltà è inevitabile. Questo lo sappiamo tutti.

Crudeltà e sensi di colpa, pensò Palestrina. Il tutto riassunto nel significato recondito delle parole di Neumann: Ecco la tua parte.

In quel momento la porta si aprì; entrò Camminatore. Il cardinale si fece da parte, come per allontanarsi da lui. Camminatore indossava il solito abito grigio completo di cappello dalla tesa piegata, e fissava Neumann con una specie di attesa, come se questi gli avesse promesso qualcosa; un regalo, o la risposta a una domanda.

Neumann, che stava consultando i tre veggenti, si voltò nuovamente verso i suoi ospiti e sorrise. — È quasi fatta ormai… mancano soli pochi minuti.

Gli omuncoli si sorrisero a vicenda.

Karen non si era resa conto di aver perso la sorella, o per lo meno non se ne rendeva conto abbastanza da esitare nel suo cammino. La sua mente era fissa su Michael.

L’aveva visto.

Era successo poco dopo il loro ingresso nell’edificio. Il silenzio di quei lunghi corridoi di pietra era opprimente, e lei non se l’era sentita di romperlo; c’era solo il suono dei suoi passi sulle squallide mattonelle verdi… e quelli di Laura, prima che svanissero. Si muoveva con regolarità e sicurezza, sebbene non fosse mai stata in quel posto, come se avesse posseduto un istinto direzionale, una mappa disegnata nelle sue stesse cellule. Michael era lì da qualche parte. Lo sapeva; la sua presenza saturava l’edificio; l’aria era piena di lui. Era molto vicino, ora.

E poi l’aveva visto. L’aveva visto alla fine di quel corridoio, dove si divideva in due direzioni in una Y asimmetrica. Vedendolo, Karen annaspò e quasi perse l’equilibrio. Le sembrava stranamente distante, come visto dalla parte sbagliata di un telescopio. Ma era lui. Non si poteva confondere la sua figura allampanata, la sua maglietta fuori dai pantaloni, e il suo cappellino da baseball. Michael la guardò, ma sembrò non riconoscerla. Poi, con suo grande dolore, scomparve nuovamente, dileguandosi verso sinistra.

Karen inciampò, poi si rialzò e cominciò a correre.

Si ricordò della storia che aveva raccontato a sua sorella, della vecchia signora che si portava via Michael nella sua carrozzina e di lei che l’inseguiva. Quella corsa avrebbe dovuto essere uguale, pensò; ma per qualche motivo non lo era affatto. Non c’era alcun piacere, alcun sollievo in quella corsa, ma solo una determinazione risoluta e affannata.

Il corridoio curvò nuovamente, e lei lo seguì in una lunga spirale che scendeva verso il basso. Non riusciva a calcolare quanta strada avesse percorso o quanta ancora ne dovesse percorrere. Nella sua mente c’era solo l’immagine di Michael.

Poi il corridoio divenne nuovamente dritto, e lei lo vide ancora… disperatamente, ancora più lontano. — Michael! — chiamò, e la sua stessa voce le sembrò strana, rimbombante, in quel corridoio senza porte e mal illuminato, come uno sparo. — Michael…!

Ma lui stava scappando… scappando via da lei.

Karen annaspò e riprese a correre. Sentiva una specie di panico sotterraneo, un qualcosa che sarebbe stato panico, se solo fosse riuscita a pensare con maggiore chiarezza. Ma la cosa più importante, l’unica cosa importante in quel momento, era non perderlo di vista.

Corse finché ci riuscì. A intervalli regolari Michael si fermava, la guardava, e lei era troppo lontana per distinguere l’espressione del suo viso, ma aveva paura di vedere un sorriso di scherno, un modo per far sì che lei lo seguisse. Era una cosa crudele, e lei non riusciva a capirla. Perché si comportava a quel modo? Che cosa aveva in mente?

Ma non poteva far altro che seguirlo.

Quando non fu più in grado di correre, si accasciò contro una parete. La pietra era fredda contro la sua schiena, ma lei non riusciva a muoversi, poteva solo stringersi nelle spalle per trovare sollievo al dolore dei suoi polmoni affaticati. Infine alzò lo sguardo e vide nuovamente Michael, questa volta più vicino, con un’espressione imperscrutabile. Gli si avvicinò barcollando, e lo vide varcare una porta ad arco. Era l’unica porta che avesse visto in quel labirinto, e vi si avvicinò con circospezione. Ora capiva che c’era qualcosa di sbagliato, che le cose erano andate storte fin dall’inizio, in un modo che non aveva affatto previsto. Ma ecco che Michael riapparve; lo vide chiaramente, solo in una stanzetta, che la guardava impassibile, come aspettandola. Karen si schiarì la gola e fece un passo avanti, cercando di toccarlo.

Ma non era Michael.

Sbatté le palpebre davanti a quell’immagine che non riusciva a mettere a fuoco. Improvvisamente si rese conto che non era Michael, ma una cosa orribile, delle stesse dimensioni e fattezze di Michael, ma di plastica liscia. La riconobbe; era Baby. Era la bambolina che L’Uomo Grigio le aveva regalato tanti anni prima, grottescamente cresciuta, che la fissava con i suoi occhi dipinti di blu.

Karen si morse una mano e fece un passo indietro.

Allora scomparve anche Baby, fu sostituita dall’immagine grottesca, un’impressione sfuggente, di una creatura rugosa, tutta secca, che le rideva in faccia selvaggiamente… e poi lo spazio rimase semplicemente vuoto, la visione dispersa come fumo, e Karen si ritrovò sola nella stanza.

Si voltò per andarsene. Ma era stanca. Era stanca come non lo era mai stata in vita sua, e i suoi piedi non volevano fare quello che lei voleva che facessero. Così, si sedette sul pavimento di pietra fredda, lasciò ricadere lo mani in grembo, e chiuse gli occhi; solo per un minuto.

— È fatta — disse Neumann.

Il cardinale Palestrina assistette al festeggiamento dei presenti.

27

— Karen non si rendeva conto di quanto tempo fosse passato.

Si svegliava, si addormentava, e poi si svegliava ancora, ma i periodi di veglia erano parziali e transitori. Quando infine tornò pienamente in sé, si trovava in una stanza più grande di quella che ricordava; vide delle sedie di legno dall’aria antica, e un’unica porta. E non era sola.

Anche Laura era lì, e sbatteva le palpebre alla luce. E Michael. Sentì un’ondata di gratitudine. Almeno, pensò, siamo insieme.

C’era anche Tim.

Si mise a sedere, dato che prima era distesa sul pavimento freddo, e si avvicinò a una delle sedie. Michael, che stava facendo la stessa cosa, le diede un’occhiata che significava “sto bene”, e questa era una cosa buona. Laura si alzò a fatica.

Tim, che era in piedi con un’espressione calma e infinitamente paziente, disse: — Tra poco vi sentirete meglio.

Dapprima, Karen non capì che cosa volesse dire. Era come un messaggio da un altro pianeta; un linguaggio alieno. Ci sentiremo meglio tra poco? Era impazzito?

— Tu lo sapevi… — disse Laura. — Tu facevi parte di tutto questo.

Tim non negò. Karen lo fissò a bocca aperta. Be’, in effetti poteva benissimo essere capace di un’azione del genere. Era più che possibile.

— Ditemi se avete bisogno di qualcosa — disse Tim. — Se avete fame, o se avete sete. Non dovete soffrire qui, sapete.

Laura gli lanciò uno sguardo sprezzante. Karen si aspettava quasi una scenata, ma Laura si limitò a dire: — Vattene — con voce fredda e distante.

— Tornerò più tardi — disse Tim, e uscì dall’unica porta della stanza. Senza neanche doverci pensare, Karen capì che non sarebbe stata in grado di seguirlo, che la stessa porta per lei era sbarrata, che quella era una prigione, e che non avrebbero permesso a nessuno di loro di andarsene.

Non erano stati picchiati, intimiditi o torturati; li avevano solo isolati. Karen cercò di raccontare lo scherzo che le avevano fatto con la falsa immagine di Michael; ma il ragazzo assunse un’espressione talmente colpevole che lei si fermò. Lui non ne era responsabile e lei non voleva che lui si convincesse di esserlo. Michael parlò con tono di scusa: — Io volevo solo scoprire a che cosa andavamo incontro. Sono venuto qui perché volevo risparmiare a zia Laura questa preoccupazione.

— Se non fossi venuto tu, avrebbero usato me come esca — disse Laura. — Michael, apprezzo molto quello che hai fatto. È stato un gesto coraggioso.

— È stato stupido.

— Non lo potevamo prevedere. In ogni caso, ora dobbiamo pensare a come uscire di qua.

— Non possiamo — disse Michael.

— Come fai a saperlo?

Gli occhi di Michael erano vecchi, cinici. — Dovresti essere in grado di sentirlo. C’è ben di più che quattro pareti in questa stanza. Credo che sia una specie di magia. Noi avremmo potuto uscire facilmente da una prigione normale… così hanno dovuto costruirne una speciale.

Laura aprì la bocca per rispondere, ma la chiuse subito. Ciò che aveva detto Michael era vero, e anche Karen riusciva a percepirlo. Era come un ottundimento, una soppressione. Non si poteva guardare che su, giù, a destra e a sinistra. In un certo senso, la situazione era paradossalmente ironica: per anni e anni Karen aveva desiderato proprio quello, quella completa normalità, la sensazione di essere fermamente ancorata in un luogo e in un tempo. Be’, eccola lì. Ma quella non era un’ancora; era un guinzaglio, era una catena.

Si ritirò in un angolo e pensò a Tim.

Si erano fidati di lui perché faceva parte della famiglia. Ma immaginò che per lui la famiglia non avesse mai significato più di tanto. Forse non ne aveva motivo, in effetti. In fondo, che cos’era la famiglia? Willis, con i suoi capelli a spazzola e i suoi grossi pugni? Jeanne, che lo prendeva in braccio e gli metteva il ghiaccio sui lividi? Quegli episodi (Timmy pieno di bozze bluastre che si faceva medicare in grembo a mamma) erano gli unici momenti di tenerezza che lei riusciva a ricordare fra Timmy e Jeanne, e pensò che forse lì c’era stata una spia, un indizio sul perché della volontaria cattiveria di Tim. Io sono stato cattivo, e per questo mi hanno picchiato. Ora ho la mia ricompensa.

Quindi non gli importerebbe, ragionò Karen, se noi l’odiassimo per questo. Lui lo desidera. Per quell’odio sarebbe stato ricompensato; dall’Uomo Grigio, o dai maghi senza volto che li avevano confinati in quella prigione. Si domandò che ricompensa gli avessero permesso. Ma non aveva importanza. I Regni della Terra. Un fermacarte.

Tim è diventato quello che Willis ha sempre temuto, pensò. Di conseguenza, alla fini fine, la colpa era di Willis… raccoglievano i frutti del suo amore spaventato.

Ma la domanda che seguì fu inevitabile: ho forse fatto di meglio, io?

Tutto quello che io ho mai voluto è stato di proteggere Michael. E anche Willis aveva sempre voluto solo proteggerci… così affermava. Ma non era sufficiente. Non è servito proprio a niente. Lui ha cercato di proteggerci con la paura, e io ho cercato di proteggere Michael con l’ignoranza. Ed eccoci qua. Non può essere peggio di così. Io l’ho ferito, pensò tristemente. L’ho ferito almeno quanto Willis ha ferito Tim. Ed eccoci qua.

Continua così, rise, è una ruota che gira, e la situazione non migliora mai, e forse quella era la cosa più spaventosa; che nonostante tutto quello che aveva desiderato, e quello che aveva tentato, lei non era, alla fin fine, meglio di Willis Fauve.

Il cardinale Palestrina seguì silenziosamente Carl Neumann fino alla porta aperta della cella.

— Ci sentiranno — disse.

— Non possono — disse Neumann, e la sua voce rimbombò nel corridoio. — Qui fuori non ci possono né sentire né vedere. Fa parte dell’incantesimo. Guardate; li potete guardare. Avanti, Vostra Eminenza.

Riluttante, il cardinale fece un passo avanti.

Si sentiva come un voyeur, un guardone. Non c’era nessuna barriera visibile, nessuna vetrata rassicurante; solo il vuoto fra lui e quelle tre persone. E la magia. Ma la magia era talmente intangibile…

Dormivano.

C’erano delle stuoie rosse sul pavimento, e delle coperte per combattere il gelo della terra, dato che si trovavano a uno dei livelli più bassi dell’Istituto. Le due donne di mezza età e il ragazzo dormivano con espressioni preoccupate. Comprensibile, pensò Palestrina. Ne avevano passate tante… Rapiti, e poi tenuti lì contro la loro volontà…

— Avete parlato con loro? — domandò.

Neumann scosse il capo. — Solo per un attimo con il ragazzo, quando è arrivato. Stiamo usando il fratello per abituarli… per adattarli alla cattività.

— Ah, il fratello. E gli parlano?

— Di malavoglia. Ma è il loro unico contatto.

— Il ragazzo — disse Palestrina.

— Sì. È lui che conta.

— Non sembrerebbe un granché.

— Non si vede — disse Neumann.

Un ragazzo normale, vestito in maniera un po’ strana. Era difficile immaginarselo che entrava e usciva dai mondi. Il cardinale Palestrina, che si riteneva una persona credulona oltre che un modello di fede, aveva scoperto con il viaggio in America che la sua mente comune faceva fatica a credere ai miracoli.

E gli riusciva ancor più difficile immaginare che quel ragazzo potesse essere un’arma efficace contro gli eserciti islamici. Lo disse.

— Ma il suo potenziale è enorme — spiegò Neumann. — Dovete capire… è la purezza che è in lui che conta. Gli altri, in un modo o nell’altro, sono tutti vincolati, legati. Sono come a metà. Compromessi dalle circostanze, o dai geni, o dalla loro paura… o come Camminatore, azzoppati da un intervento chirurgico approssimativo. In confronto, il ragazzo è un’essenza distillata. Semplice e potente. Lui può trasportare se stesso nel cuore dell’Arabia. O portarci i vostri eserciti.

— Ma non di sua volontà…

— Quando avremo, finito con lui… — disse Neumann.

L’operazione. La cauterizzazione della sua anima, pensò Palestrina. Il taglio sottile.

— E quell’uomo che sta collaborando — disse.— Il fratello. Gli avete fatto la stessa cosa? Lo avete tagliato in quel modo?

— No — rispose Neumann con tono calmo. — No, non Tim. Non ce n’è stato bisogno.

— Presto — disse Tim — vi faranno uscire di qua.

Avrebbe dovuto essere una buona notizia. Karen odiava quella stanza, la sua strettezza, il suo gabinetto a vista nell’angolo… e quella sensazione di ottundimento continuo che provava, la magia imprigionante. Ma certamente, pensò, non li avrebbero portati in un posto migliore. A meno che non fosse ugualmente imprigionante, o che li rendesse in qualche modo inoffensivi. Non pensava al futuro. La magia le faceva un effetto sedativo, come un potente tranquillante; forse altrimenti sarebbe stata troppo spaventata anche solo per pensare.

— Non sarà così tanto male — disse Tim.

Indossava abiti puliti, di foggia un po’ antica e con uno strano taglio, a metà fra il tweed e il vittoriano. Probabilmente lì la gente si vestiva così. C’era un che di pazzesco nel suo aspetto… la testa inclinata da un lato, gli occhi studiatamente inespressivi, e quell’atteggiamento paziente. Come se fosse stato lui a sottoporsi a un grande sforzo.

Laura, dalla parte opposta della stanza, si alzò in piedi negli abiti stazzonati che ormai indossava da tre giorni. — Che cosa ti hanno offerto? — disse. — È questo che continuo a domandarmi. Perché hai fatto una cosa del genere?

Tim assunse un’espressione offesa. Offesa ma paziente. — Perché credi che una persona faccia una cosa? — disse. — Forse non avevo altra scelta. Pensaci. Forse i motivi sono logici. Dicevo sul serio, sai, quando vi ho parlato di questo posto. Questa è casa. Almeno per me. E potrebbe diventarlo anche per voi, se solo le deste una possibilità. Avere una casa — disse in tono convinto — è una cosa importante.

— I Regni della Terra — disse Karen, sorprendendo perfino se stessa.

Lui si voltò verso di lei, esterrefatto.

— Un fermacarte — spiegò Karen. — Io me lo ricordo.

— Non so di che cosa tu stia parlando.

— Lo sai benissimo. È questo che ti hanno offerto — Calma, distaccata, lontana da tutto, Karen riuscì a dirlo. Ci pensava un po’. — È questo che ti hanno offerto. Un luogo su cui regnare. Un regno. Tu desideri questo — scosse il capo. — Più grande di papà. Oh, Timmy, sei sempre stato così limitato mentalmente. Tu prendevi tutto così alla lettera, così seriamente.

Incredibilmente, Tim stava diventando rosso in volto. Ritrovò la sua compostezza e disse: — La fai sembrare una favola. Ma che diamine, è una favola. Noi tutti conduciamo delle vite da favola. Questo dovrebbe essere scontato, ormai.

— E tu gli hai creduto? — disse Laura. — Questa gente… la gente che ci ha chiuso qui… tu credi che importi loro che cosa ti accade?

— Gli importa sì. Deve importargli — c’era la sua vanità in gioco. — Vedrete. Voi non li conoscete. Voi…

— So che sono in grado di fare questo — Laura intendeva questa stanza, il loro imprigionamento. — Ma non gli importa niente di te! — Lo disse con aria beffarda, deridendolo. — È solo Michael quello che hanno sempre voluto!

— Tu credi di sapere — sbottò Tim — ma non sai un cazzo di niente!

— E ora ce l’hanno — insistette Laura. — E tu che cosa conti? Più nulla. Sei il modello dell’anno scorso.

— Tutti noi! — gridò Tim. — Loro vogliono tutti noi! Lui non è diverso. Perché dovrebbe essere speciale? Lui è come noi!

Fece un gesto con la mano in direzione di Michael, che era seduto su una sedia, impassibile, e lo guardava. Negli ultimi tre giorni, Michael era sempre rimasto così. Era l’incantesimo, aveva pensato Karen. Faceva lo stesso effetto a tutti loro.

Ma adesso si alzò in piedi. Fissò Tim dalla parte opposta della stanza, e per la prima volta Karen si rese conto che erano più o meno alti uguali. Suo figlio quanto suo fratello. Per un attimo, persino di più.

Tim, esterrefatto per la seconda volta quel giorno, fissò lo sguardo sul nipote.

Michael gli restituì lo sguardo. — Ti sbagli — disse calmo. — Io sono diverso.

E che cos’era quel bagliore sul volto di Tim, ora? si domandò Karen. Forse paura? Era possibile?

L’aria si riempì di un’improvvisa elettricità.

Il cardinale Palestrina era con Neumann nell’ufficio di lui quando l’omuncolo irruppe dalla porta.

La creatura balzò sul tavolo di Neumann e gli sussurrò qualcosa in un orecchio. Con un’espressione fra l’affascinato e il disgustato, l’americano osservò i lineamenti scimmieschi della creatura che si contraevano. Ma sicuramente non si trattava di un sorriso.

Il cardinale stava completando il rapporto che avrebbe presentato alla Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari. Aveva deciso, seppure con riluttanza, che la sua ricerca era stata positiva, e che avrebbe suggerito un programma di ricerca congiunto fra l’America e l’Europa per quanto riguardava il ragazzo dell’altro mondo, e che le possibilità di utilizzo strategico erano più importanti delle considerazioni di ordine morale.

L’indomani avrebbe presentato il suo rapporto al consolato per farlo trasmettere via Marconi al Vaticano. Tutto il resto sarebbe seguito; Neumann avrebbe avuto il suo denaro, il suo prestigio; e a tempo debito, i suoi eserciti spettrali.

Ma improvvisamente Carl Neumann si alzò in piedi. I suoi pugni erano stretti, le sue labbra serrate. Che cos’è successo? si domandò il cardinale. Mio Dio… e adesso?

— Sta accadendo qualcosa di imprevisto — disse Neumann a denti stretti — Nella cella.

28

Tim si sbaglia, pensò Michael. È proprio me che vogliono.

Ci aveva pensato su in quegli ultimi giorni; aveva faticato e arrancato per ragionare sotto l’influenza ottundente della magia che li teneva prigionieri. Ma alla fine era giunto a delle conclusioni.

Se mi vogliono, aveva pensato, è perché sono diverso.

Laura stessa gliel’aveva confermato, sugli scogli ventosi sopra Turquoise Beach. Io non sono mai riuscita a fare tanto, gli aveva detto.

E si ricordava le sensazioni che aveva provato; quell’elettricità che sfociava dalla terra sotto i suoi piedi, il vortice di tempo, di luoghi e di possibilità, e la maniera in cui lui teneva fra le mani tutto questo.

È questo che vogliono, aveva concluso.

Ma era una cosa nuova, quella forza. Loro l’avevano prevista, ma forse non l’avevano capita.

Lasciò che quell’idea rimanesse lì, stagnante nel suo cervello, per un certo tempo.

Più tardi aveva pensato: come si costruisce una gabbia per un animale che non si è mai visto?

Era una domanda interessante.

Be’, si costruisce basandosi su quello che già si sa. I nonni di Michael, i suoi veri nonni, una volta erano fuggiti da un luogo come quello. L’aveva detto Tim, e non c’era motivo di non credergli, almeno su questo. Di conseguenza quella stanza doveva essere una gabbia più resistente; dovevano aver rafforzato i loro incantesimi e le loro magie. Ma ugualmente, non era forse come costruire una trappola per lupi quando bisogna catturare una tigre? Ehi, pensò, loro non conoscono me.

Ma ne conseguiva una domanda: quanto sono potente, in realtà?

Il suo talento era ancora nuovo anche per lui. Non era qualcosa che aveva avuto modo di praticare molto. Sentiva le magie imprigionanti come legami fisici, e una notte aveva cercato di combatterle, esercitando una forza contraria, tanto per sperimentare.

Ma era stato inutile. Niente cedeva. Era rimasto solo e vuoto, e tutte le innumerevoli porte di tempo e di possibilità erano rimaste irrimediabilmente chiuse.

Forse dopotutto non era poi una tigre.

Allora aveva deciso di non pensarci per un certo tempo. Si era addormentato, e quando si era svegliato aveva cercato di non pensare assolutamente a niente.

Era abbastanza facile. Gli incantesimi vincolanti gli facilitavano il compito.

Ma presto un altro pensiero aveva attraversato la sua mente; non esattamente un vero e proprio pensiero quanto un sogno ad occhi aperti. Si trattava del mondo che aveva visto per la prima volta nella casa dei Fauve a Polger Valley, e che aveva rivisto abbastanza spesso in seguito.

Solo pensarci lo faceva sentire meglio. Era un posto, Michael ne era certo, dove non esistevano prigioni come quella.

Si permise di sognarlo.

Si lasciò andare alla deriva sull’orlo del sonno. Era allo stesso tempo un luogo e un sogno ad occhi aperti. Era tutto ciò che provava quando Laura parlava con desiderio di un “mondo migliore”. Forse era il genere di posto che cercava lei quando aveva trovato Turquoise Beach; un mondo che aveva cercato, ma che non era riuscita ad afferrare. Michael conosceva le autostrade che si dipartivano dai paesini francesi del sud fino alle grandi città del nord, Tecumseh, New Amsterdam e Montreal. Conosceva le linee ferroviarie che correvano verso ovest attraverso le praterie; i paesi agricoli, i paesi indiani e i paesi freddi di smistamento ferroviario, come Brebeuf e Rel. Conosceva i paesi russi della costa nord-occidentale, dove la gente cacciava ancora gli animali da pelliccia durante l’inverno. Conosceva le città inca e spagnole del sud-ovest, con le loro superstrade, i loro templi, i loro vestiti dai colori brillanti e gli strani, selvaggi festeggiamenti. Sapeva anche che tutto questo si chiamava semplicemente America, e che non era tanto un Paese quanto una confederazione molto elastica; una specie di Commonwealth. Sapeva che i confini non avevano molta importanza, in quel mondo. Sapeva che si poteva viaggiare dal Quebec a Coquitlan o da Shelekhov a Cuernavaca senza mostrare il passaporto. Sapeva che i mercati erano ricchi di prodotti comuni, e che qualsiasi individuo abile al lavoro poteva trovare qualcosa da fare in qualsiasi città. Sapeva anche che quell’anno il raccolto era stato abbondante.

Ma soprattutto conosceva i paesaggi di quel mondo; topografie a mezz’aria, leggere e inconfondibili come l’odore della pioggia. Saline immobili nella calma vuota dei pomeriggi del sud; e a nord notti glaciali, immerse nel bagliore dell’aurora. Lui era stato in quei posti nei suoi sogni, e aveva camminato per quelle strade mentre dormiva. C’era un’affinità… un’attrazione… Come quell’istinto che ti conduce a casa quando hai perso la strada, pensò.

Sapeva tutto questo senza bisogno di sforzarsi, allo stesso modo in cui conosceva il suo nome. Inoltre, sapeva che lì ci si poteva costruire una vita… sapeva che era un mondo dove si poteva vivere senza il terrore quotidiano di un annientamento nucleare, o di una guerra imminente, o della roulette giornaliera delle rapine e della violenza da strada.

Un posto dove il Novus Ordo non poteva raggiungerlo.

Un mondo dove lui non sarebbe stato un diverso.

E stranamente fu proprio quel sognare ad occhi aperti, più che il tentativo di sciogliersi dai suoi legami, che lo fece sentire improvvisamente più libero, che aprì i suoi orizzonti per un allettante momento. Michael sbatté le palpebre e pensò: è questo che mi rende diverso; ed è questo quello che loro non si aspettano.

Ma poi le pareti e il soffitto gli si erano chiusi attorno, e lui si era ritrovato in quella stanza, che non era altro che una stanza, nella quale era prigioniero.

Quando sentì Tim che parlava di lui, si alzò in piedi. — Ti sbagli — gli disse. — Io sono diverso. — E dall’espressione di Tim, capì che aveva detto qualcosa di importante.

Tim si riprese in fretta. Fece un passo indietro, raddrizzò la schiena, e atteggiò il viso a una maschera di fredda tolleranza. — Non intendevo insultarti. Michael. Certo, tu sei importante. Ma lo sono anche Laura e tua madre. E lo sono anch’io.

Michael fece un passo indietro, verso Laura. Istintivamente, le prese la mano. Lei lo fissò perplessa. Ma si toccarono, e vi fu un lampo, breve ma significativo, di vera energia.

Ora, pensò Michael. Ora, che sono impreparati, o mai più.

— Ce ne stiamo andando — disse.

Non era una vuota minaccia, ma una chiara constatazione di fatto. Tuttavia, Michael si sorprese delle sue stesse parole. Gli occhi di Laura si dilatarono, poi lo fissò e annuì impercettibilmente con il capo.

Afferrò la mano di sua madre.

— Non credo che questo sia un progetto molto realistico — disse Tim. — Non credo che tu abbia ben compreso qual è la vostra situazione qui.

— Invece sì — rispose Michael.

Ora erano tutti e tre in contatto, e si era instaurato una specie di circuito. Sentiva la vanità ferita di Laura, e la passività e la rassegnazione di Karen. E sotto, seppellite nel profondo ma pur sempre potenti, quelle piccole, tenui ondate di energia.

Riuniscile, s’impose. Mettile assieme.

Un mondo migliore. Quelle foreste e quelle città. Erano a un solo passo di distanza.

E Tim, che ora aveva avvertito qualcosa, disse: — Ehi! Oh, Cristo… aspettate un attimo…

Non si aspetta più, pensò Michael.

La stanza fu invasa da uno strano odore, di olio di motore surriscaldato e metallo bruciacchiato, come se un macchinario enorme fosse andato in sovraccarico. Molto lontano, Michael ebbe l’impressione di sentire un grido selvaggio di dolore, quasi inumano.

E la magia che li imprigionava cedette un poco attorno a lui.

— Che Dio ti stramaledica, smettila! — urlò Tim.

Karen allungò la mano libera verso il fratello. Adesso capiva che cosa stava per succedere; adesso era ovvio. Tim fece un passo indietro. — Vieni con noi — disse Karen. — Per te sarà pericoloso rimanere qui.

Ma non abbiamo tempo anche per questo, pensò Michael. Non era nemmeno sicuro di riuscire a sostenere quello sforzo. Già nel corridoio suonava un campanello d’allarme, e lui vide delle ombre che si muovevano dietro la porta.

Tim scosse il capo. — No!

— Potrebbero ucciderti. Lo farebbero.

— Badate, loro uccideranno voi! — disse Tim con aria di sfida. — Non permetteranno che accada una cosa simile! Ve lo manderanno dietro, e questa volta vi lasceranno alla sua fottutissima mercé!

L’Uomo Grigio, interpretò Michael.

— Timmy — disse Karen — non è un gioco. Avresti dovuto capirlo tanto tempo fa.

Ma Tim si limitò a scuotere il capo. Assomiglia a Willis, pensò Michael… era strano, eppure si sarebbe potuto giurare che erano parenti di sangue. Quella rabbia. Quella paura…

Karen chinò il capo.

— Mi dispiace — disse.

Ora! pensò Michael. Ma ciò nonostante, esitò ancora, e sentì che quell’attimo stava scivolando via, come un improvviso dietro-front.

Non posso farlo!

Era la voce del bambino di dieci anni terrorizzato dentro di lui, e Michael ne fu paralizzato.

Non posso farlo! Sono troppo forti per me! Voglio che qualcuno mi venga a prendere… Voglio andare a casa

Ma non c’era nessuna casa. Ora lo sapeva. C’era solo sua madre, con lui in quella cella, e suo padre, che viveva nella beatitudine e nell’ignoranza sulle rive di un lago molto distante. E naturalmente, Tim aveva mentito. Il Novus Ordo non aveva niente a che vedere con casa loro.

Lo scampanare degli allarmi. Passi nel corridoio.

Le mani di Laura si strinsero attorno a quella di Michael.

E poi, in un momento di lucidità in mezzo a quel frastuono lacerante, ebbe ciò che identificò come un pensiero genuinamente adulto: dopo tutto, casa non è un luogo vero e proprio, ma una situazione che ti crei tu: un territorio che ti sei cercato. È un atto di volontà; una cosa che fai tu.

Karen avvertì la sua esitazione e gli lanciò un’occhiata carica di terrore.

— È là fuori, Michael — disse Laura. — Per favore… io so che c’è.

Casa.

Aveva il mondo dentro di sé.

Quelle foreste e quelle città.

Casa, pensò…

E allora le pareti cedettero, e vi fu solo il tempo, la possibilità, e un grande movimento simultaneo. Michael chiuse gli occhi e li riaprì davanti a un cielo azzurro e alto. Molto, molto lontano da lì.

29

Il cardinale Palestrina seguì Carl Neumann fino alla cella vuota.

Il fatto che fosse vuota era spaventoso, e poté leggere lo shock nell’espressione di Neumann, come una incomprensione intontita. Era come se l’americano avesse subito una grave perdita. Sembrava profondamente addolorato, neanche gli fosse morto un bambino. Timothy Fauve, il collaboratore, stava in piedi in un angolo, immobile, e guardava Neumann come un topolino di campagna in campo aperto che guarda un falco sopra la sua testa. Per un lungo momento, nessuno parlò.

Infine, fu Neumann a rompere il silenzio, ma non a parole. Con un movimento unico si voltò verso l’omuncolo che li aveva seguiti lungo i corridoi fino alla cella, e gli affibbiò un calcio nelle costole. La sfortunata creatura volò per qualche metro, poi si accasciò contro una parete. Sembrava morta.

Il cardinale Palestrina distolse lo sguardo.

È finita ormai, pensò. Non c’è più nessun Progetto Plenum, e non c’è più nessuna arma segreta. Tutto quello sforzo e tutti quei sacrifici non erano approdati a nulla. Rimaneva sempre il collaboratore, Tim, l’uomo che si stava facendo piccolo piccolo contro la parete, ma Neumann gli aveva già spiegato che non era molto potente. Il suo talento fruttava solo una magia stentata, insipida, capace solo di aprire porte strette su mondi squallidi e marginali, e l’alcoolismo e la tossicodipendenza avevano eroso anche quel poco.

E poi c’era Camminatore… ma Camminatore era stato mutilato da una goffa operazione di neurochirurgia; svuotato fino a diventare niente più che un segugio psichico, una macchina per cacciare. Così, il Progetto era terminato, e probabilmente anche la carriera di Neumann. Una commissione d’inchiesta, un prepensionamento forzato.

All’atto pratico, pensò il cardinale, che cosa poteva significare tutta la faccenda? Un potenziale vantaggio per l’Europa irrimediabilmente perduto; l’indebolimento dell’alleanza con gli americani, e anni di trinceramento e di sangue e di compromessi.

Quindi, un disastro. Era accaduta una cosa terribile.

Eppure, il cuore del cardinale Palestrina batteva forte, e lui sentiva una specie di euforia; come un senso di trionfo; era una sensazione strana, come se quel giorno, in quel posto sgradevole, il Diavolo si fosse preso una bella batosta.

Camminatore apprese da uno stregone sconvolto quanto era accaduto nella cella d’isolamento, e vi corse subito, cercando Neumann. Mentre si avvicinava, nei corridoi, lo sentì lui stesso; una breccia nelle magie fondamentali dell’IRD, chiara e palese come uno squarcio in un muro.

Quando entrò nella cella, Neumann alzò gli occhi. Già solo dal suo sguardo, Camminatore capì la portata dell’avvenimento.

Ma io li ho fatti arrivare, si disse. Io ho fatto la mia pane. Avevamo un contratto, anche se tacito, e io ho fatto la mia parte, si ripeté Camminatore con convinzione. Il pagamento è fuori discussione, pensò.

Ma l’espressione di Neumann spazzò via le sue certezze.

Per la prima volta, Camminatore dubitò che fosse troppo tardi. Forse non me lo restituiranno mai, pensò, quello che mi hanno sottratto. Quello che ho perso.

Toccò con un dito la cicatrice accanto al suo occhio. Non era conscio di quel gesto.

— Non è finita — stava dicendo Neumann. Si rivolgeva a Palestrina, e nella sua voce c’era un tono di supplica. — Possiamo ricominciare daccapo. Possiamo ripartire dagli elementi fondamentali.

Il cardinale scosse il capo. — Sta parlando di anni. Generazioni.

— Non necessariamente!

— Sfortunatamente — disse l’ecclesiastico — i nostri bisogni sono più immediati.

Bisogni! — ora Neumann stava urlando. — Non ve ne è mai importato niente! Oh, sì, facevate finta. Necessità strategiche. Visione globale. Avete detto tutte le frasi giuste. Ma non ve ne importava nulla, non è vero? Solo le presuntuose strette di mano, le insensatezze gesuitiche, e il fottutissimo ordine morale

Ma Palestrina si limitò a voltarsi e a lasciare la cella.

Le mani di Neumann si contrassero e si tesero disperatamente. Sembrava un cane ferito, pensò Camminatore.

— Fottuto Papista — sussurrò Neumann.

Camminatore fece un passo avanti. Il suo cervello vorticava. Erano successe tante cose, e lui ci capiva ben poco. Fammi diventare intero, voleva dire; era quello il nostro accordo, me l’hai promesso. Ma sapeva dallo sguardo di Neumann che non sarebbe servito a nulla.

Allora si limitò a dire semplicemente: — Vuoi che li ritrovi?

Neumann mise a fuoco Camminatore, con uno sguardo freddo e rovente allo stesso tempo.

— Sì — disse.

— E che li uccida?

Era tutto ciò che gli poteva offrire. Era tutto. Sapeva bene quanto erano stati fragili gli incantesimi di intrappolamento, e quanto tempo ci avevano messo a concepirli… più di due decenni, dal giorno in cui aveva offerto i tre doni ai tre bambini; piccoli ma potenti incantesimi vincolanti. Tuttavia, era una ragnatela che non si poteva ricostruire… sicuramente non prima della morte di Neumann.

— Sono pericolosi — disse Neumann, facendo (immaginò Camminatore) la stessa congettura di perdita e di vendetta… la sua rabbia e il suo odio aumentavano come il ruggito di una macchina, la macchina che aveva gestito quell’edificio per tanti anni. — Sanno dove siamo, e questo potrebbe essere un problema — sospirò. — Sì, uccidili.

Camminatore diede un’occhiata a Timothy Fauve, che ora li fissava a bocca aperta dal suo angolino, schiacciato contro la parete.

— E questo qua?

— Comincia da lui.

Tim osservò l’Uomo Grigio che si avvicinava.

La sua rabbia montò istantanea. Non per questo, pensò.

Non l’ho fatto per questo.

Cristo, e quanti chilometri aveva percorso per arrivare lì da quando aveva lasciato quella casa a Polger Valley vent’anni prima? Quanti fottutissimi lavori degradanti, e quanti giorni senza mangiare, e notti passate su strade deserte a fare l’autostop da Detroit a Chicago a Des Moines al fottutissimo West Point? Quante bottiglie svuotate, quante vene insultate? Quanti balzi zoppicanti in mondi storpi (ora poteva ammetterlo) come quello? E per che cosa? Per consegnare le sue sorelle e farle uccidere? E per farsi uccidere anche lui come ringraziamento?

No. Oh, no!

Fissò l’Uomo Grigio negli occhi, con i pugni serrati. — Io mi fidavo di te! — disse.

Camminatore non rise.

Casa! Voleva dire Tim. Io sono venuto a casa! E tu me l’hai mostrata! Regni! Imperi! Tu mi devi tutto questo!

Camminatore si fece avanti.

Tim raddrizzò la schiena. Sentiva quello che Camminatore stava per fare. Ne aveva il presentimento; sentiva lo schiudersi dei muri del mondo attorno a lui. Fissò negli occhi l’Uomo Grigio, ma non vide segni di comprensione. Solo un’ombra.

Camminatore lo toccò. Era finita.

— Vai a farti fottere — disse Tim. — Tu non sei mai stato mio padre.

E precipitò nel caos… di lui rimase solo l’eco, che rimbalzò sulle vecchie mura di pietra.

30

— Non possiamo nasconderci — disse Laura. — Non sono neanche sicura che possiamo scappare.

Ma Michael era più ottimista. — Muoversi molto serve. Credo che almeno ci farà guadagnare tempo.

Così, fecero l’autostop e ottennero un passaggio sull’ampia autostrada che correva fra Ville Acadienne e le vie di comunicazione trasversali del Nord Urbano. Rimasero in silenzio, esterrefatti davanti alle foreste e al volo degli uccelli, all’enormità del mondo in cui erano giunti. Il guidatore disse che veniva dai paesi del Chickasaw, e che stava andando a visitare la sua famiglia. Disse che potevano approfittare del suo passaggio fino a lì. Così viaggiarono verso nord per tutta la notte e per parte della giornata dopo, e quando Laura confessò che non avevano denaro, o perlomeno non denaro utilizzabile, il guidatore offrì loro la colazione a una tavola calda. Li avrebbe anche portati più avanti, ma loro rifiutarono. Aveva già fatto abbastanza.

Camminarono per tutto il pomeriggio. Quando cominciò a far buio, bussarono alla porta di una vecchia casa di campagna e chiesero ospitalità per la notte. La donna che venne ad aprire, carina, con una gonna da contadina e un paio di occhiali spessi senza montatura, disse loro che potevano sistemarsi nel fienile e mangiare gli avanzi della cena, e che erano fortunati che non faceva più tanto freddo.

Sulla paglia, sotto una lampadina nuda e davanti a quello che sembrò loro un festino di formaggio e di sidro leggermente alcolico, parlarono del futuro.

— Dobbiamo andare in un posto dove possiamo agire — disse Laura. — Almeno per un po’.

Michael ci pensò su. — Lo faremo — disse. — Ma per ora stiamo bene qui.

— Ci inseguirà — disse Laura.

— Probabile.

Laura si guardò attorno. — Be’, almeno è un posto amichevole — e fissò Michael incuriosita. — Ci sei mai stato prima?

Michael raccontò loro di come l’aveva sognato, delle città e della natura selvaggia, delle macchine volanti, delle autostrade e delle ferrovie. Spiegò che genere di luogo fosse; che l’aveva sognato, poi realizzato nel sogno, e come era riuscito a fuggire di prigione sognandolo.

Voleva dire loro che cosa significava per lui, ma non trovava le parole; poteva solo scrivere le sue caratteristiche e sperare che loro capissero.

Forse lo capivano. Notò il modo in cui lo guardava Laura, l’intensità del suo sguardo, e si domandò se anche lei non avesse sognato quel mondo… magari in lontananza, in maniera impalpabile… una porta che non era mai riuscita ad aprire.

Karen si accomodò e ascoltò Michael che parlava; ascoltò lo scorrere della sua voce, ora che le catene della prigione si erano spezzate. Si chiese ancora se non fosse cresciuto di qualche centimetro. Forse era un gioco di luce, o di prospettiva, ma avrebbe giurato che era più alto. In più c’era qualcosa nella sua voce, una certa fermezza, che le era nuova.

L’ombra, per lo meno, dell’età adulta. Improvvisamente si rese conto che Michael doveva aver compiuto sedici anni nella prigione del Novus Ordo.

Il pensiero la disturbò.

Dopo un po’, Michael si sedette di guardia davanti all’ampia finestra del fienile, osservando la pianura che si estendeva nell’oscurità, mentre Karen e Laura si parlavano sussurrando fra la paglia. Arrivati a quel punto, pensò Karen, era possibile pensare cose che prima erano impensabili… ed era persino possibile dirle. Si ritrovò a raccontare a Laura ciò che stava pensando a proposito di Michael, a proposito del suo fallimento. — Ciò che mi addolora è che non sono stata in grado di salvarlo. Per tutta la sua vita io lo guardavo e mi dicevo: io non farò a lui quello che papà ha fatto a noi… non gli farò vivere una vita così. Ma mi prendevo in giro da sola. — La ruota, pensò. Forse non l’aveva mai picchiato, ma la sua influenza era stata dannosa almeno quanto quella di papà. Noi plagiamo i nostri figli, pensò tristemente. E i nostri figli, plagiati, plagiano i loro figli, e la ruota gira, e macina vite spezzate.

— Ma tu l’hai salvato — disse Laura.

Karen scosse il capo.

— Dico sul serio — insistette Laura. — L’unico motivo per il quale siamo arrivati fin qui è Michael. Il suo talento, la sua potenza. Ma questo non è un colpo di fortuna, o un mistero. Forse chiunque di noi avrebbe potuto essere come lui. Ma noi siamo incatenati… abbiamo tutte le inibizioni che ci ha instaurato Willis. Io credo che l’unico motivo per il quale Michael è diverso è che non si porta in giro il peso di tutto quel dolore. Nessuno l’ha mai spaventato. Forse tu non l’hai mai preparato a questo, ma Cristo, chi avrebbe potuto? Ma non gli hai mai fatto avere paura di se stesso. Ed è per questo che non potevano rinchiuderlo.

“E quindi qualcosa hai fatto — continuò Laura. — Tu l’hai amato, e questo non è poco. Forse è l’unica cosa che conta. Tu l’hai amato, e tu l’hai reso forte.”

Forse, pensò Karen. Ma…

Ma ora si stava addormentando, lasciandosi dietro il fienile, l’aria fresca, e la sagoma della trave con la vecchia carrucola per il fieno che si stagliava davanti al cielo stellato. Si coprì le spalle con la coperta di lana presa a prestito, e lasciò che i suoi pensieri vagassero.

Mi piacerebbe crederci, pensò, a quello che ha detto Laura. Era una bella idea, quella del mondo come un luogo in crescita, o almeno con la possibilità di un miglioramento continuo. Ma era altrettanto probabile che ci fosse una specie di legge naturale che conservava la sofferenza. Il dolore non scompare, ma si trasforma in un altro tipo di dolore.

Se aveva salvato Michael dalla paura, forse l’aveva fatto assumendola tutta lei. Certamente ora aveva paura. E non era solo la paura più ovvia, ma un circolo di paure: quelle di madre, per il fatto che suo figlio fosse in pericolo, e altre che andavano oltre, compresa quella finale e inevitabile, e cioè che Michael l’aveva ormai scavalcata, che lei l’aveva perso, che adesso era praticamente un adulto, una creatura separata, e che i loro ultimi legami di sangue e d’affetto erano stati spezzati da tutta quella violenza. Che non c’era più nulla che lei potesse fare per aiutarlo.

Ma il fatto di non interessarsene più… non sarebbe forse stata la cosa peggiore di tutte?

Ma in quel luogo curioso, nell’America di Michael, avevano trovato un momento di pace, e lei si permise finalmente di dormire, cullata dal rumore del vento e dal fruscio delle piume di una civetta che aveva fatto il nido fra le travi del tetto.

Michael si svegliò al mattino con la guancia premuta contro la paglia e un debole raggio di sole che filtrava dalle fessure delle pareti, e per un momento il suo unico pensiero fu che si trovava lì, in quel mondo che aveva iniziato a immaginare nella vecchia casa a schiera di Polger Valley. Un luogo sicuro. E quel senso di sicurezza era talmente piacevole che vi si avvolse come in una coperta e quasi si riaddormentò.

E poi ricordò.

Ricordò Camminatore; ricordò le prigioni di pietra dura del Novus Ordo.

Si alzò a sedere e pensò. Come scappiamo? Dove scappiamo?

Le uniche domande rimaste.

Non dubitava che li avrebbero inseguiti, se già non li stavano inseguendo, e che il loro periodo di grazia si sarebbe limitato al massimo a qualche giorno. “Vi uccideranno” aveva detto Tim, e Michael ci credeva in maniera assoluta.

Ma non voleva andarsene prima del necessario. Questa era solo una piccola zona rurale di quel mondo che aveva immaginato a Polger Valley, ma era vero, tangibile, vasto, complesso e indefinibilmente familiare. Si sentiva a casa sua.

“Casa” era diventata una parola piuttosto logora, e Michael era riluttante a usarla anche nei suoi pensieri più intimi, eppure era una parola che gli tornava sempre alla mente. Casa, un luogo dove vivere; un luogo dove costruirsi un futuro.

Forse.

Forse.

Forse, prima o poi. Forse anche presto…

Ma raccolse il suo cappellino da baseball e la sua maglietta di ricambio, e s’incamminò verso l’autostrada seguito da Karen e Laura, in una mattinata fresca in cui la brina ghiacciata cadeva dalle vigne di casaba avvinghiate ai vecchi muri di pietra. Non pensava ad altro che a una giornata tiepida e a un passaggio fino alle città di mercato del nord. la sua mente era vuota ma serena nella chiara luce del sole, quando improvvisamente un’ondata di elettricità riempì l’aria, e davanti a lui uno spazio della dimensione di un uomo sembrò scurirsi e prendere forma.

L’Uomo Grigio; Camminatore, inevitabile come il tempo e reale come le pietre, era lì in piedi che li fissava, con un’espressione in qualche modo più vecchia e più arrabbiata, e gli occhi grandi e infantili mentre allungava le mani per afferrare Michael.

31

Allora, corse.

Prese per mano sua madre e sua zia, e assieme scomparvero, correndo per i corridoi segreti del plenum alla massima velocità che poteva permettersi.

Luce bianca, oscurità scintillante, e quel movimento incessante… tutto ciò che poteva fare Karen era seguire.

Sentiva Michael un passo avanti a lei e Laura un passo indietro, come anelli di una catena, e l’Uomo Grigio alle loro spalle, come un oscuro presentimento, l’ombra di una nuvola carica di pioggia.

Non riusciva a calcolare la distanza che avevano percorso. Non c’erano parametri per quel genere di distanza. Il mondo, quei mondi, erano diventati come un vapore, un paesaggio mischiato troppo diffuso perché l’occhio potesse comprenderlo. Si sentiva disorientata, scorporata, persa in una via di mezzo indefinita, una nebbia di localizzazione. Si sentiva tendere fino al punto di rottura.

Chiuse gli occhi e si aggrappò a tutta la forza che aveva.

Ma era stremante. Non era solo uno sforzo di Michael, ma anche suo e di Laura. Ed era particolarmente stremante, perché era un talento che non aveva esercitato dai tempi dell’infanzia; senza l’aiuto di Michael non sarebbe stata in grado di usarlo per niente. Sentiva una fatica che andava oltre la fatica fisica, come un esaurimento delle possibilità… la tirava giù come un’ancora.

Era come quella volta nel grande magazzino, pensò, quando aveva rincorso la carrozzina di Michael. Era quello stesso tuffarsi nell’ignoto senza pensarci due volte, giù per corridoi e dietro angoli che non aveva mai osato immaginare, sfondando porte proibite. Ma questa volta era Michael che correva, con la sua abilità o la sua intuizione. Ogni tanto si fermavano quanto bastava per dare un’occhiata a un paesaggio di qualche luogo reale o assurdo; un boschetto di alberi o una strada affollata; e lei pensava: Troverà un posto… un luogo dove l’Uomo Grigio non ci seguirà…

Ma l’Uomo Grigio era alle loro spalle, e non mollava. Lo sentiva, e Karen stava diventando più stanca ogni minuto che passava. Peggio, iniziò a sospettare (ed era un’idea spaventosa) che in qualche modo li stessero conducendo dove volevano loro; che la fuga di Michael fosse ormai disperata, che quei mondi sempre più bui e appena visibili non fossero del tutto scelti da lui.

È troppo per un ragazzo, pensò.

Stringendo la sua mano come fosse l’unica cosa reale in mezzo a quel caos, pensò: Oh, Michael, mi dispiace…

La fatica la intontiva, e la distanza era troppa per poterla reggere.

Alzò la testa disperata, e vide la luna fredda che veleggiava in un cielo nero, a mondi e mondi di distanza da casa.

E poi incespicò.

Cadde. Era prosaico. Sulle prime, fu tanto imbarazzata quanto spaventata. La sua mano scivolò da quella di Michael, e si sentì tagliata fuori, improvvisamente sola. Ma poi Michael era con lei, e le diceva di alzarsi. Laura la stava sollevando.

Io conosco questo posto! pensò Karen.

Era scivolata sull’acciottolato del vicolo. Era una notte buia, invernale, con una vecchia luna grigia in un cielo nero e funesto. Oltre l’imbocco del vicolo vide le case in stile Tudor con il ghiaccio che colava dalle grondaie. Un vento crudele giungeva dal mare.

Qui fa sempre freddo, aveva detto Tim.

Era uno dei suoi posti, una città industriale sul mare, e lei c’era già stata… una volta nella sua infanzia, e molte volte nei suoi sogni.

Poteva appartenere al Novus Ordo, come a un mondo simile e basta. Ma era lì che aveva incontrato per la prima volta l’Uomo Grigio, e sentiva che lì i suoi poteri dovevano essere considerevoli. Era lì che Camminatore aveva cominciato ad articolare quei complessi incantesimi che li avevano quasi intrappolati, se non fosse stato per Michael.

Di conseguenza, era un luogo pericoloso.

Michael le tirava la mano. — Presto — le diceva. Ma lei non ce la faceva. La caduta le aveva tolto le ultime energie. Guardò il figlio disperata, e capì che non c’era bisogno di dare spiegazioni; lui l’aveva già sentito toccandola. I suoi occhi si allargarono e poi si restrinsero.

— Andate senza di me — riuscì a dire.

Laura le mise un braccio attorno alle spalle. — Starò qui anche io. Michael, vai avanti tu. Forse riesci a distrarre la sua attenzione…

— Corri — disse Karen. — Non importa, corri.

Ma era ormai troppo tardi, perché l’Uomo Grigio era lì con loro. Potevano scorgere la sua sagoma all’imbocco del vicolo, con il vento del mare che premeva alle sue spalle.

Per un lungo attimo, nessuno si mosse.

— Vai — sibilò Karen. Le girava la testa. La loro impotenza, il silenzio di Michael. Era come guardarlo mentre stava in piedi davanti a un treno, in corsa con lo sguardo perso nel vuoto. E lei non poteva fare niente… niente per salvarlo. — Vai, Michael — disse ancora, ma era inutile, perché l’Uomo Grigio stava già allungando le mani, e lei poteva vedere lo stupido, implacabile calcolo nei suoi occhi, e la sua mano, mentre si avvicinava, sembrava risplendere di oscura elettricità, di strani lampi ultravioletti.

Michael mantenne la sua posizione.

Voleva correre. No, non era esatto. Non era una semplice volontà di correre. Era un impulso talmente profondo che superava la paura, era un impellente bisogno di correre… eppure, senza neanche pensarci, già sapeva che se ci avesse provato le sue gambe non gli avrebbero risposto, e i suoi muscoli si sarebbero contratti e irrigiditi.

Guardò l’Uomo Grigio, e sentì un terrore sempre più acuto, come una nota altissima non udibile dall’orecchio umano, che si irradiava in tutto il suo corpo.

Tuttavia, mantenne la sua posizione.

Perché sua madre era lì, e Laura era lì… e perché non c’era nessun posto dove scappare. Aveva esaurito le possibilità. Qualche ingarbugliamente finale di magia vincolante lo aveva condotto in quel luogo, ed era lì che si sarebbe combattuta la battaglia… se di battaglia si poteva parlare.

Michael, lucido nonostante il vortice della sua paura, registrò l’assoluta sicurezza negli occhi di Camminatore. Gli venne in mente la bambina sulla spiaggia, gettata nel caos come uno straccio.

Ma mentre Camminatore faceva un altro passo verso di lui, pensò: Ma io non sono quella bambina… io sono molto più potente.

Non l’aveva forse già dimostrato? Non era forse riuscito a sfuggire alle magie imprigionanti del Novus Ordo?

Ma questa era un’altra cosa. L’Uomo Grigio era un killer, un distruttore; la distruzione faceva parte della sua natura. Michael non possedeva quell’abilità.

Camminatore fece un altro passo avanti, come un terribile e mortale motore. Era come un quadro vivente; Karen che si sforzava di alzarsi, Laura con la schiena premuta contro il muro freddo di mattoni del vicolo. Le luci gialle lampeggiavano e sibilavano; la luna era brillante e perfettamente immobile.

Michael si ricordò quello che aveva detto quella volta a Willis: Potrei farti sprofondare attraverso il pavimento… potrei farlo veramente. Ma poteva veramente? Poteva farlo con l’Uomo Grigio? No… probabilmente no… ma decise di provarci, e chiamò a raccolta il leggero formicolio di quella forza, pensando che doveva farlo.

Era un tentativo, e non successe nulla. L’Uomo Grigio sorrise.

Un’ultima magia, pensò Camminatore. Un ultimo trucco.

Ce n’era uno che gli avevano insegnato gli stregoni, un trucco che non aveva mai avuto bisogno di usare. E, probabilmente, non ne aveva bisogno neanche adesso. Solo che, sotto un certo punto di vista, quel ragazzo serbava una quantità sconosciuta di potere, e poteva essere veicolo di forze inattese. Quindi, magia.

Camminatore sorrise e riaggiustò il suo viso.

Più che un vero e proprio cambiamento fisico si trattava di una questione di suggestione, un vincolo magico. Il cambiamento fu sottile ma netto, e lui ne registrò l’effetto negli occhi di Michael: lo stupore e l’improvviso terrore.

Con il suo nuovo volto, l’Uomo Grigio si avvicinò ulteriormente. Il suo sorriso era largo e autentico. Si sentiva a un passo dalla completezza. Presto avrebbe recuperato ciò che aveva perso. Presto sarebbe stato intero.

Fissò Michael, e provò qualcosa di simile all’amore.

— Sono venuto per te — disse.

Michael assistette alla trasformazione senza capirla. Tutti i suoi circuiti erano in sovraccarico, e riusciva solo a registrare quella figura, che era stata l’Uomo Grigio… ma che ora era suo padre, Gavin White, l’unico padre di Michael, che allungava le mani e ripeteva quelle parole; “Sono venuto per te”.

Sono venuto per te.

Sì, per favore, portami a casa.

Papà, sono stanco.

Ma non era papà.

Era un fantasma, un mostro. Era l’Uomo Grigio.

L’Uomo Grigio allungò una mano, e Michael sentì la maschera che scivolava via, e scorse il viso di Camminatore come una vecchia pittura sotto la patina scheggiata di quell’immagine. Alzò una mano per difendersi, o perlomeno per respingerlo, ma lo shock della trasfigurazione era stato profondo, e la forza era scivolata via. Si sentiva vuoto come un calice.

Camminatore si avvicinò per abbracciarlo, e il calice si colmò di paura.

Karen, che guardava la scena, pensò: non l’avrai.

Solo quello, solo un pensiero, appena articolato. Ma risuonò nella sua mente. Ormai vedeva tutto al rallentatore, come un macabro balletto; Laura accucciata da una parte con un’espressione di orrore disperato, Michael stordito e immobile, l’Uomo Grigio che si avvicinava di centimetri e di millimetri, con una lenta traiettoria, come qualche cosa di mortale che cadeva dal cielo. E Karen, sola nella luce sterile di un lampione, pensò. Tu sei la maggiore. Tu hai una responsabilità.

Su questo, papà aveva ragione. In quell’unica cosa, aveva assolutamente ragione. Era suo dovere; era il ruolo che le spettava. Era il compito che si era assunta nel grande magazzino affollato quel Natale di mille anni prima. Ed era anche la sua debolezza; era il motivo per il quale la avevano sedotta. Pensò a Baby, la bambola che le aveva donato quell’assassino. Il figlio primogenito. Era la debolezza che avevano usato per intrappolarla, mostrandole immagini sfuggenti di Michael negli oscuri corridoi fortificati del Novus Ordo. Ma forse non era solo una debolezza.

Forse era anche un tipo di forza.

Guardò l’Uomo Grigio. Si stava avvicinando a Michael, e Michael aveva alzato una mano, ma qualcosa era successo fra loro due, perché Michael aveva sgranato gli occhi di colpo, esterrefatto. Lei non poteva vedere la maschera che aveva adottato Camminatore; si trattava di una magia privata e particolare. Ma avvertì il cambiamento in Michael, il suo improvviso indebolimento. Lo vide nel sorriso ampio e carico di bramosia di Camminatore.

Non l’avrai, pensò di nuovo.

Forse lo disse anche ad alta voce, perché Camminatore si voltò un poco verso di lei, e la sua avanzata rallentò. Si stava sempre avvicinando a Michael, ma ora guardava Karen.

E c’era uno strano sguardo nei suoi occhi, pensò Karen; non quello sguardo freddo e assassino che si era aspettata, ma qualcosa di spontaneo, di più antico e di più profondo. Un misto di curiosità e di sorpresa, come se la stesse valutando: Che cos’hai da offrirmi?

Come se lei gli avesse portato un dono.

Michael allora scosse il capo, come se si fosse spezzato un breve incantesimo. Senza pensarci, Karen fece due rapidi passi avanti, e allungò le mani per abbracciare Camminatore; almeno l’avrebbe rallentato.

Tu non credi che io possa farlo. Oh, ma posso eccome.

Fu un gesto troppo sicuro e rapido per accompagnarlo a parole. Semplicemente, fece per prendere Camminatore come lui stava facendo con Michael… fece per prenderlo, e lo afferrò, in una maniera che non era in grado di definire.

Ma era anche un abbraccio vero, fisico. Poteva sentire il suo odore, che era freddo come quel vicolo. Era un odore da vicolo, vuoto e buio, che ricordava chiazze d’olio, muri ammuffiti, ed edifici abbandonati nel profondo di una notte invernale. Karen ebbe l’improvvisa, curiosa sensazione di stringere un guscio vuoto, che se avesse stretto abbastanza forte si sarebbe sbriciolato fra le sue mani.

Vide Michael che si allontanava fino a toccare il muro con la schiena. Scuoteva il capo, intontito.

E Karen sentì che l’Uomo Grigio tremava… chiamando a sé tutta la sua energia, e tornando a dirigerla.

Karen chiuse gli occhi.

Fu improvvisamente consapevole di ciò che Michael chiamava gli angoli e le porte del mondo… un ventaglio di possibilità che c’era e non c’era, allo stesso tempo, e nei quali ci si poteva muovere. E senti anche i mondi del caos, i mondi non creati e quelli morti.

Camminatore strinse a sua volta le braccia attorno a lei. Ora era un vero e proprio abbraccio. Un abbraccio corrisposto.

Sentì in lontananza la voce di Michael.

— Mamma? — disse.

In quel momento, capì che cosa voleva farle Camminatore, e che cosa doveva invece fargli lei.

Si allontanò finché solo le loro mani si toccarono, e una calda ondata di elettricità scorreva fra loro. Camminatore accennò un sorriso. Lei sentì la forza fulminante del suo disprezzo.

E pensò: Anch’io conosco quei posti.

— Tu non l’avrai — disse.

Per un attimo, Camminatore esitò.

Lei lo fissò nel profondo dei suoi occhi vuoti e grigi.

Una leggera spinta, pensò, e quest’apertura… un buco nel mondo, esattamente dietro di lui, e lo schiumare e il sibilare del caos totale. Sentì il gelo che ne emanava, ancora più freddo di quello del vicolo.

Si proiettò in avanti, addosso a lui, con tutta la sua forza. Lui cadde all’indietro… e l’immagine fu vivida e incisa, come in un sogno; un sogno in cui l’Uomo Grigio, Camminatore, il suo zio malato, cadeva fuori dal tempo. E l’espressione finale del suo viso… non di paura, o di stupore, ma di qualcosa che, in quel momento invalutabile, Karen percepì come… gratitudine?… come se gli avesse donato qualcosa, o gli avesse restituito qualche cosa di grandissimo valore che gli avevano rubato.

Sbatté le palpebre, e boccheggiò, cadendo dietro di lui.

Oh, quel freddo! Il caos e la pazza entropia e quel nulla casuale e morto… quello era il buco che aveva aperto per l’Uomo Grigio, e non poteva fare a meno di caderci anche lei…

Ma improvvisamente, sentì delle mani che la tiravano indietro, mani calde… e la porta si richiuse… e non ci fu nient’altro che quel vicolo, in quella particolare notte d’inverno, con quella luna cinerea, e Michael e Laura che piangevano con lei.

32

Il cardinale Palestrina salì a bordo della nave spagnola Estrella Vespertina nel pomeriggio avanzato di una giornata invernale. La nave era diretta a Genova con un carico di juta e di cotone grezzo e qualche commerciante viaggiatore. Il cielo era freddo e nuvoloso, ma lui rimase sul ponte di poppa dell’enorme nave di ferro e osservò il porto di Philadelphia che si allontanava, chiedendosi che conseguenze avrebbero potuto avere gli avvenimenti ai quali aveva assistito.

Per lui, niente di negativo. Aveva fatto il suo lavoro meglio che poteva, anche se alla fine gli eventi erano andati oltre la sua portata. Aveva provato la sua fedeltà alla Curia, e ora forse gli avrebbero permesso di tornare ai suoi studi. Ammesso che, pensò Palestrina, la guerra ci permetta certi lussi.

Ah, la guerra. Ma in quel momento le notizie non erano poi tanto brutte. La flotta persiana era stata respinta alle Baleari, e la testa di ponte turca era isolata in Sardegna. E per il momento, l’aviazione europea era in grado di fronteggiare gli attacchi.

Quindi forse la perdita dell’arma segreta di Neumann non era poi tanto tragica come sembrava. La traballante alleanza fra Roma e il Novus Ordo non era certo stata rafforzata da quell’insuccesso… ma in ogni caso si sarebbe trattato di un’alleanza temporanea, condannata già dal principio per le sue contraddizioni interne. Il cardinale dubitava fortemente che il destino dell’Europa fosse ormai segnato.

In quanto a ciò che era stato perso… Quella poteva essere al massimo una congettura.

Prima che il Nuovo Mondo scomparisse dalla vista, scesero le prime tenebre. Il commissario di bordo si avvicinò allora a Palestrina, e in un inglese affettato lo invitò ad andare sotto coperta. — Farà sempre più freddo, Sua Eminenza!

Ma Palestrina scosse il capo. — Andrò giù fra poco. Non si preoccupi. Non mi lascerò morire qui sopra. Mi rendo conto che sarebbe piuttosto inopportuno come gesto.

Il commissario di bordo sorrise nervosamente, e si allontanò.

C’erano le luci della nave e le luci distanti della terraferma, del continente, che assomigliava a un mondo separato. Come gli altri mondi di Neumann, pensò Palestrina; luci che scintillavano al di là di un golfo inimmaginabile… e il pensiero lo rattristò, riempiendolo di una malinconia non voluta. Si permise di immaginare che cosa sarebbe scaturito dal Progetto Plenum se non fosse stato diretto esclusivamente alla creazione di un’arma; quali meraviglie e terrori avrebbero potuto trovare in quell’infinità. E pensò ancora al mondo che aveva sognato, un mondo dove l’Uomo non era mai caduto in disgrazia, dove faceva caldo, dove il Giardino cresceva, dove c’era innocenza, e non persone come Neumann, nessun serpente con il suo dolce frutto velenoso, e dove non c’era la morte. Avremmo potuto trovarlo, pensò Palestrina, toccarlo, muoverci al suo interno… che Dio ci aiuti, se solo per un attimo…

Ma la Estrella Vespertina proseguiva imperterrita verse est, e nel giro di poco le luci costiere scomparvero sotto l’orizzonte. Il cardinale Palestrina chiuse gli occhi e scese sottocoperta, dove i mercanti di juta sedevano, a bere retzina e a giocare a carte sul tavolaccio di legno. Quando lui entrò, alzarono lo sguardo e lo fissarono con aria infelice, come se la sua sobrietà rovinasse la loro allegria, come se ricordasse loro vecchi peccati.

33

— Cosa faresti se ti dicessi che me ne vado? — disse Laura.

Emmett, che si era quasi addormentato, si appoggiò sul gomito e sbatté le palpebre. Alle sue spalle, la luminosità della luna filtrava attraverso un velo di canne di bambù; l’oceano sospirava e schiumava.

Le coprì le spalle con il lenzuolo per proteggerla dalla notte. — Ti ricorderei che sei appena tornata.

Laura fece appello al suo coraggio. — Intendo se me ne andassi per sempre.

Emmett la fissò a lungo, poi scrollò le spalle.

Era stato piacevole ritrovarsi, avevano fatto l’amore nel migliore dei modi e lei si era ricordata quanto gli era mancato quell’uomo. Ma quelle erano domande importanti, domande che non si era mai permessa di rivolgere; come se avessero firmato un contratto; non parleremo mai di queste cose.

Nell’oscurità, i suoi occhi erano molto grandi.

— E se ti chiedessi di venire con me? — disse ancora.

— Ti domanderei dove.

— In nessun luogo che conosci. In un luogo strano. Ma non un brutto posto. Credo che te la caveresti abbastanza bene.

— Che cosa misteriosa — disse Emmett.

— Ma dico sul serio — insistette Laura.

Emmett ci rifletté. — Sembrerebbe proprio di sì.

— È difficile spiegarlo.

— Stregoneria — disse Emmett.

— Qualcosa di simile.

— Veramente?

— Veramente.

— Dovrei fidarmi completamente di te.

— Sì; è troppo complicato da spiegare.

— Non lo so.

— Be’, ti capisco — disse Laura. — È dura.

— Ho bisogno di un po’ di tempo per pensarci.

Laura chiuse gli occhi. — Io parto domani.

— Dici sul serio?

— Sul serio.

— Non è facile rispondere a una domanda simile.

— Lo so.

— Tu che cosa diresti se ti chiedessi una cosa simile?

Ma lei ci aveva già pensato a lungo. — Direi di sì.

Emmett sembrò sorpreso. — Io ho da fare qua — disse.

— Lo so.

— Non è quel genere di cosa che si fa così a cuor leggero; prendere e andarsene così.

— Capisco — fece Laura.

— Ehi, tu sai benissimo com’è.

— Già. Credo di sì.

Si voltò dall’altra parte.

L’indomani, in mattinata, lui l’aiutò con le sue due grosse valigie, che contenevano tutte le cose del mondo che lei voleva tenersi, e gliele portò giù dalle scale fino alla macchina, la piccola Durant parcheggiata sulla ghiaia. Era una giornata fresca, e l’aria era piena di sale e di iodio. Emmett non parlò molto, e Laura aveva deciso di non insistere. Anche perché non sapeva che cosa dire.

Aprì il portabagagli, ed Emmett infilò dentro le sue valigie. Poi lo richiuse, facendolo sbattere.

Laura aprì la portiera e scivolò dietro il volante. Emmett le chiuse la porta. Lei abbassò il finestrino e lo guardò. — Brutta giornata per viaggiare — disse Emmett. — Sembra che pioverà.

— Forse dove vado io non piove.

— Un luogo soleggiato?

— Credo di sì — disse lei, sentendosi triste, ma non volendo farglielo notare. — È decisamente possibile.

— Be’ — disse Emmett — che diavolo. Neanch’io vado pazzo per la pioggia.

Laura alzò lo sguardo. Emmett stava sorridendo. — C’è posto per un paio di chitarre lì dentro?

Karen telefonò a Toronto da una camera d’albergo di Santa Monica.

La voce di Gavin la sorprese. Era stanca e incerta. Forse più vecchia. Forse le cose non andavano per il meglio nell’appartamento sul lago.

— Credo che sia esagerato sperare che tu sia tornata in te — disse Gavin.

— Non come intendi tu… No.

— Karen, se torni a casa sarà molto meglio per la questione dell’affidamento. Scappando via ti stai solo facendo del male da sola.

— Questo fra poco non sarà più un problema — disse.

— Cristo — disse Gavin — come mi piacerebbe capirti.

— Non credo che sia più possibile ormai.

— E allora perché mi hai chiamato? Per farmi star male?

Si sentì ferita. Telegrafico, ma aspro. Era il sapore delle cose com’erano state. — Forse solo per sentire la tua voce. Forse per dirti addio.

— Non essere tanto sicura di non sentirmi più. Sono perfettamente in grado di assumere degli investigatori privati. Magari l’ho già fatto.

— Non credo che abbia importanza.

— Michael è con te?

— Sì.

— Ti stai assumendo una responsabilità… stai distruggendo il suo futuro.

Ma a questo non credeva più. Gavin aveva perso la sua capacità d’intimidazione. C’era qualcosa di familiare nella maniera in cui parlava, qualcosa nella sua voce che le sembrò di riconoscere… e si rese improvvisamente conto che si trattava di papà; che era la voce di Willis Fauve che riecheggiava in Gavin. Ma era contraffatta, inefficace…. si era ormai lasciata alle spalle tutte quelle voci.

— Tu credi nella ruota? — gli chiese.

— Credo… che cosa?

— Le cose cambiano — disse — ma migliorano? Esiste questa possibilità? Una ruota può rotolare in salita?

— Tu sei pazza — disse Gavin.

— Be’, forse.

— Ti potrei citare in giudizio, lo sai questo? Ti stai mettendo in un mare di guai. Ti…

Ma quella era storia ormai.

Alzò lo sguardo, e vide Michael che l’osservava.

Michael sapeva che c’era suo padre al telefono.

Karen lo guardò, esitò un attimo, poi gli offrì la cornetta. — Vuoi parlargli?

Michael ci pensò su.

Casa, si disse.

L’appartamento sul lago.

Due luoghi diversi.

Michael scosse il capo. — Digli…

— Che cosa?

— Digli che lo ringrazio, ma sto bene. Digli che sto badando a me stesso. Digli… — una lunga pausa, poi Michael accennò un sorriso. — Digli che magari un giorno di questi lo vado a trovare.

Karen annuì con aria solenne. — Nient’altro?

— Salutamelo.

34

La piccola Durant andava a benzina, che non era un carburante molto comune da quelle parti, ma proseguirono finché poterono lungo un’autostrada segnalata come Camino del Mar, e quando il serbatoio fu asciutto, vendettero la macchina a un rottamaio per una manciata di denaro del Commonwealth, quanto bastava per campare per un po’. La città in fondo alla strada, aveva detto il rottamaio, era Ciudad San Francisco, e lì si trovava lavoro… ce la si poteva cavare con l’inglese se non si conosceva il nahuatl o lo spagnolo. Michael disse che non era una cattiva idea, ma che alla fin fine probabilmente si sarebbero diretti a est.

— A ognuno la sua — disse il rottamaio mentre apriva il cofano della Durant e osservava il motore con paziente perplessità. — Personalmente, io odio la neve.

Michael ed Emmett suonavano buffi, goffi duetti di chitarra negli ultimi sedili dell’autobus diretto a nord. Karen ascoltò un poco la musica, e poi il rombo dei pneumatici sull’asfalto.

Era quasi buio ormai, e gli ultimi bagliori di luce si dissipavano su quella strada ventosa, su quella costa riparata. Abeti alti, le ombre delle montagne, e un cielo ampio e pulito come il rintocco di una campana. Non solo quel posto, ma anche tutto il resto. Cerchi di condurre una vita decente, e magari di migliorare un pochino il mondo. E poi scopri quanto sono potenti le cose malvagie, e quanto tu sia debole in confronto. E allora credi di essere condannato a ripercorrere la stessa strada, a fare gli stessi errori che hanno fatto tutti negli ultimi centomila anni… e vivi con questo, che tu lo ammetta o meno, ma vivi con quella sconfitta dentro di te, come un nocciolo nero di infelicità.

Ma forse (ed ecco che tornava ancora quel nuovo pensiero), forse non era vero. Se fosse stato vero lei non sarebbe stata lì. Forse la ruota può rotolare in salita.

L’aria era fresca lungo la montuosa strada sopra l’oceano. Si strinse nel suo maglione. Laura dormiva, l’autobus era silenzioso. Karen pensò ai suoi veri genitori, che erano morti per mano di Camminatore. Erano sfuggiti alle strette celle del Novus Ordo e avevano trovato un paese chiamato Burleigh; Laura aveva scoperto Turquoise Beach… e Michael aveva trovato quel posto, questo radioso, confortevole mondo di frontiera. Una porta, pensò, che era stata aperta dalla speranza nella paura, dall’immaginazione nel fallimento. E forse quella era l’unica porta veramente importante.

La strada curvò verso destra, con un leggero sussulto dell’autobus, e Karen osservò l’oceano, che si chiamava ancora Pacifico, e chiuse gli occhi. Dormì finalmente senza sognare, mentre l’autobus correva verso l’alba tra le pieghe della notte.

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