Mercoledì, nel tardo pomeriggio, fermarono la macchina a un motel a est di Barstow, il Motel Essenziale.
E in effetti era proprio essenziale, pensò Karen. Non c’era traccia di ombra, a parte quella di un esile ginepro in mezzo alla ghiaia del cortile. Nel retro, vuota e pura come un turchese nella distesa bruna del deserto, spiccava una piccola piscina. La camera odorava di lillà artificiale e di aria condizionata.
Ricordò a se stessa che ora erano nuovamente a casa. Non a casa nel vero senso della parola, dato che quel deserto era forse uno dei luoghi più esotici che avesse mai visitato, ma in un mondo dove le verità le erano familiari; John F. Kennedy morto tanti anni prima, pistole in vendita nei grandi magazzini lungo le autostrade, e niente dolci paesini bohémien sull’oceano per gente come sua sorella. Il mondo vero.
Casa, quell’altro genere di casa, era ancora parecchio lontana.
Michael tirò fuori dalla valigia il costume da bagno e uscì nella luce accecante del pomeriggio, dirigendosi verso la piscina. — Prima a fare la doccia — disse Laura. Laura aveva guidato per tutto il tempo, fin da Los Angeles, e aveva un’aria stanca. Da Los Angeles, pensò Karen, e da un abisso di tempo. Avevano attraversato i mondi sull’autostrada deserta, fra cespugli e mulinelli di sabbia. Miracoli e omicidi e hotel nel deserto.
Mentre Laura faceva la doccia, lei lesse Time. Le notizie erano pessime come sempre. La diffusione dell’Aids era in aumento, e c’erano di nuovo guai nelle Filippine. Dopo un po’, Laura emerse dalla caverna piastrellata del bagno sfregandosi i capelli con un asciugamano. S’infilò una vecchia camicia a fiori, e il tessuto aderì alle curve del suo corpo ancora bagnato. Per un attimo Karen fu gelosa della giovinezza che sua sorella era riuscita in qualche modo a mantenere, al contrario di lei, che l’aveva vista svanire misteriosamente. Laura non si era mai sposata. Laura era nubile. Mentre io, pensò Karen, sono una cosa molto diversa. Io sono una mamma nubile.
— Non sanno che stiamo arrivando — disse Laura.
Mamma e papà, intendeva. — No — confermò Karen.
— Dovremmo chiamarli.
— Dovremmo?
— Non vorrei essere io a farlo — ammise Laura.
— Immagino che sia da un po’ che non parli con loro.
— Immagina che siano anni che non parlo con loro. Poi io sono la figlia ribelle, no? Una cattiva riuscita. E in ogni caso — aggiunse — la prenderanno meglio con te.
Ma Karen non aveva mai amato il telefono. Odiava i suoni che faceva, il clic e il ronzio dei dialoghi frammentari, di voci straniere che tenevano conversazioni straniere. Le interurbane erano le peggiori. C’era qualcosa di talmente solitario nelle chiamate interurbane… i numeri in più, che erano come i chilometri; gettoni di separazione. Digitò il prefisso. Michael stava ancora nuotando, là fuori, sotto il sole accecante.
In realtà, neanche Karen era mai stata molto costante nei rapporti con casa. Chiamava circa ogni due mesi, se non di meno. E in occasione delle festività. Ma soprattutto cercava di chiamare nei pomeriggi dei giorni feriali, quando gli scatti erano più costosi ma suo padre era più probabilmente al lavoro o fuori a bere. Era da parecchio tempo che non parlava direttamente a suo padre. Forse anni, si domandò, come Laura? Sì, forse sì. Forse era passato tanto tempo.
Immaginò il telefono che squillava nella casa di Polger Valley. I genitori avevano traslocato lì un anno dopo che lei era andata al college, ma se la ricordava chiaramente. Il telefono era in salotto. Un divano giallo pieno e massiccio, e il telefono su un tavolo di noce. E forse, i raggi del sole che si infiltravano tra la polvere e il ticchettio glaciale degli orologi. Karen intuiva che niente era cambiato fra quelle mura, che la casa di Polger Valley era diventata una specie di fortezza per i suoi genitori, e che vi sarebbero vissuti fino al giorno della loro morte.
Lo squillare cessò di colpo, e venne fuori la voce gracchiante di sua madre: — Pronto?
— Mamma?
Seguì un breve attimo di cauto silenzio. — Karen? — disse infine sua madre. — Sei tu? Va tutto bene?
— Sono con Laura — disse Karen.
Aveva fatto male, naturalmente, a dirlo così, senza preavviso. Sua madre non poté far altro che ripetere: — Laura?
— Io e Michael siamo con lei. È qui, proprio qui in questa stanza con me.
Seguì ancora il silenzio. — Non capisco.
— Be’, è un po’ difficile da spiegare, mamma. Siamo qui in California, nel deserto. Stiamo venendo a est.
— Venendo qui?
— Sì mamma.
La comunicazione sembrò interrompersi per un attimo.
— Mamma?
— Sì…
— Mamma, ci sono problemi? — La sua voce si era fatta improvvisamente forte e infantile persino alle sue stesse orecchie. — Ci metteremo un po’ di giorni guidando, sai… ci vuole tempo…
— C’è tuo padre.
— Lo so. Ma non c’è problema, non è vero? Non puoi parlargli?
— Be’ — rispose la donna con voce dubbiosa — ci proverò. Ma se c’è qualcosa che va male, bambina, lo sai che me lo dovresti dire.
— Non posso farlo adesso.
— Si tratta di Gavin?
— Non sono con Gavin.
— Ha telefonato qui, sai. Ti sta cercando.
Questo la sorprese. — Il problema non è Gavin.
— No — disse sua madre — lo immaginavo.
Karen rifletté su quell’eco di angoscia e di paura; era forse stato tutto inevitabile fin dall’inizio? Quella telefonata, quel ritorno a casa?
— Ti voglio bene — disse Karen.
Il telefono gracchiò. — Lo so che mi vuoi bene… lo so.
— Dillo a papà.
— Ci proverò.
— Ci vediamo presto, allora.
— Sì.
Il silenzio che seguì fu profondo e invalicabile.
Arizona, New Mexico, le Montagne Rocciose e una minaccia di neve prematura; poi le pianure autunnali. La stagione delle ferie era già finita, e di conseguenza non c’era molto traffico sulle ampie strade statali; soprattutto di camion. Tuttavia, era possibile immaginare di essere in vacanza. Noi siamo una famiglia, pensò Karen, e ora parliamo e ci comportiamo come una famiglia; cantiamo canzoni in macchina e mangiamo da Howard Johnson’s. Alle volte, cullata dal movimento dell’automobile, si sentiva completa; spensierata e felice.
Ma non durava mai molto.
Si fermarono per cenare a un ristorante della catena Trailways da qualche parte nell’Ohio. Non era proprio certa di dove si trovassero, a parte il fatto che avevano guidato attraverso vastissimi campi di grano per l’ultima ora e mezzo. Laura prese una copia di USA Today alla cassa e la portò al tavolo. La spiegò, così anche Karen poté vedere ciò che leggeva. Si trattava di un articolo in seconda pagina sulle statistiche degli omicidi a Detroit nell’anno 1988. Laura lo lesse due volte, con una smorfia così intensa che sembrava stesse per scoppiare in lacrime. Poi alzò gli occhi in direzione di Karen e disse: — Non è normale! — come se stessero discutendo. — Cristo, è orribile! E peggio, è così fottutamente inutile!
L’uomo al tavolo accanto sbirciò da sotto il suo cappellino da baseball, ammiccando. La cameriera, passando, non riempì le loro tazze di caffè.
Michael fissò sua zia, inespressivo.
E Karen pensò; allora è vero. Noi siamo quello che siamo e l’Uomo Grigio esiste, e può uccidere la gente, e mio figlio, il mio unico figlio, Michael, è in grave pericolo, e noi stiamo andando a casa. Dio mio, dopo tutti questi anni di silenzio, stiamo veramente tornando a casa.
Arrivarono in cima a un promontorio alberato, e Laura vide il paese. Era lì, lungo il fiume Monongahela, un altro di quei malandati e vecchi paesini industriali con gli antichi forni a carbone, le fonderie e gli altiforni che guastavano l’aria (ma non come una volta, quando l’industria prosperava); con le case di legno e le case a schiera, tutte costruite negli anni venti, o anche prima, quando le ferrovie stavano guadagnando a palate e c’era una grossa richiesta di acciaio e di carbone bituminoso.
La vista di Polger Valley da quell’altezza evocò in lei una tale ondata di ricordi che fermò la macchina sul ciglio della strada, stringendo forte il volante. Lei non era mai vissuta lì; se n’era andata di casa un mese prima che mamma e papà lasciassero Duquesne. Eppure era come tutti gli altri posti in cui avevano abitato; era come Duquesne, ed era come Burleigh; era come Pittsburgh, con le sue colline e le sue viuzze strette. Si voltò verso Karen, seduta accanto a lei con lo sguardo fisso da qualche parte al di là del fiume. — Guida tu — disse Laura. — Tu sai la strada.
Sua sorella scrollò le spalle.
Laura uscì dalla macchina e camminò fino alla porta del passeggero. Sentiva le gambe irrigidite dalla lunga guida. Era un pomeriggio freddo e nuvoloso, e ormai era quasi sera; gli esili aceri di collina erano sottili e spogli. La luce tremolante di qualche lampione giungeva dalle distanti, deserte vie industriali lungo il fiume.
Entrando in macchina lanciò uno sguardo a Michael, che era seduto dietro. Stava fissando anche lui la vallata, perso in qualche suo pensiero. Da quando avevano lasciato la California, era sempre stato cupo come in quel momento.
Laura abbassò il suo finestrino. — Fa freddo là dietro?
Michael si limitò a scrollare le spalle.
La settimana prima, in una camera d’albergo fuori Cleveland, Laura gli aveva chiesto perché fosse così silenzioso in quegli ultimi giorni. Karen era andata a comperare degli indumenti invernali; Michael era seduto sul letto, e guardava una partita di football senza volume. Le aveva lanciato uno sguardo rapido, infelice. — Lo sono?
— Lo sei. Ma non sei solo silenzioso, sei arrabbiato e silenzioso. Con chi ce l’hai, Michael?
Lui scrollò le spalle.
— Con me?
— Devo parlarne per forza?
— No; certo che no. Ma siamo tutti sulla stessa barca, e su questo non ci sono dubbi. Forse se ne parlassi ci renderesti la vita più facile.
Il ragazzo scrollò nuovamente le spalle. — Penso solo che sia stupido… insomma, tutto questo sarebbe dovuto accadere tempo fa.
— Tutto questo?
— Ciò che stiamo facendo. Dove stiamo andando. Ciò che stiamo cercando di scoprire. — Raddrizzò le spalle. — Voglio dire che voi sapevate che cosa eravate. Per tutta la vita l’avete saputo; tutti e tre. Eppure nessuno ha mai chiesto niente. Nessuno ha mai detto “da dove vengo?” O “che cosa sono?” Perché solo adesso?
Appoggiò la schiena alla parete e si strinse le ginocchia con le braccia.
— Siamo negligenti e ti abbiamo mandato all’aria la tua vita, è questo il punto? — chiese Laura.
— Forse. Forse non solo la mia vita.
— E allora, Michael, a chi avremmo dovuto domandare?
— A chi avete intenzione di domandarlo?
Va bene, pensò Laura. È un ragazzo intelligente, e non ha tutti i torti. Ma lui non capiva realmente la situazione. Aveva quindici anni, e per lui tutto era fin troppo ovvio. — Tu non sai come si stava a casa.
— Lo so, era dura. Ma…
— Michael, ascoltami. — Si sedette accanto a lui, e forse lui avvertì la serietà nella sua voce, poiché tacque nuovamente, non più accigliato ma interessato. — Io l’ho chiesto una volta — continuò Laura. — Avrò avuto cinque, o forse sei anni. Andai da papà, e gli mostrai quello che sapevo fare. Feci una piccola finestra per lui. Una finestra in un posto bellino, in quello che un bambino considera un posto carino, con una giornata soleggiata, e, sai, fiori, prati, e un cerbiatto lì in piedi. Volevo scoprire se lo sapeva fare anche lui. Penso che più che altro volevo sapere che cosa dovevo farci, con quello strano giochetto. A che cosa serviva.
— E lui non te l’ha detto? — chiese Michael.
— Non mi ricordo ciò che disse. Mi ricordo solo che glielo mostrai, e che volevo una spiegazione. E poi mi ricordo che mi ritrovai a letto, e che avevo dei lividi sul viso. Lividi sulle braccia. Cinque lividi molto chiari sopra il gomito destro, e sapevo che mi aveva afferrato in quel punto, che i lividi combaciavano con la forma e la posizione delle sue dita.
— Ti ha picchiata — disse Michael.
— Sì, sembra terribile ma… sì, è quella la parola giusta.
— È terribile — lo sdegno di Michael era palese e sentito. — Devi averlo odiato per questo.
— No, non l’ho odiato.
Michael fece una smorfia.
— Tu odi forse tuo padre? — chiese Laura. — Voglio dire; lui vi ha mollati. Ha mollato te e tua madre. È una cosa abbastanza grave. Tu lo odi per questo?
— No — rispose con tono più cauto. — Ma è diverso.
— Lo è veramente? Forse è solo una questione di grado.
— Lui non mi ha mai picchiato.
— E avrei dovuto odiare papà per questo? Be’ forse hai ragione… forse avrei dovuto odiarlo. Tim l’odiava, per lo meno alla fine. Michael, io ero troppo giovane. Quando hai cinque anni, non conosci quel tipo di odio. Perdoni. Non perché vuoi perdonare, ma perché non hai altra scelta. Lo capisci questo? A volte si perdona perché non c’è nient’altro da fare.
Era più di quanto avesse voluto dire.
Michael la fissò.
— Ma ora — disse — la scelta ce l’hai.
E non c’era niente che Laura potesse ribattere a quella constatazione… non riusciva a pensare a una risposta.
Parcheggiarono davanti alla casa poco prima che facesse buio.
Era una vecchia casa a schiera su una collina che scendeva sul fiume. Alle sue spalle, c’era una ripida discesa in mezzo ai boschi. La via si chiamava Montpellier, e terminava davanti a una collina di gesso.
Non era certo il miglior quartiere del paese; alcune case erano state riparate o ristrutturate; altre no. Una volta, pensò Laura, quella via sarebbe stata piena di gente che lavorava; polacchi e tedeschi; ma ora la maggior parte di quella gente era stata licenziata dalle fonderie, e mentre parcheggiavano, notò diversi visi neri che sbirciavano da dietro le finestre chiuse. In basso, dove Montpelier si incrociava con Riverside, c’era un bar grande e rumoroso. Riverside, una via commerciale, era piena di botteghe di usurai, che venivano sbarrate al calare delle prime tenebre.
Era strano che i loro genitori fossero rimasti lì così a lungo. Per tutta la mia vita, pensò, abbiamo traslocato ogni anno, ogni due anni. A volte perché papà veniva licenziato per il troppo bere, a volte per nessun motivo comprensibile. Qui, finalmente, si erano stabilizzati. Forse perché erano finalmente da soli; o magari perché papà era finalmente riuscito a guadagnare un certo prestigio alla fonderia locale.
Forse perché ce ne siamo andati noi.
Ma ora, pensò, siamo a casa.
Una lampadina gialla era accesa sulla veranda. Karen parcheggiò parallela al marciapiede, e Laura scaricò i bagagli dal baule. Michael prese una valigia. Osservò la casa con aria stanca. — Allora — disse — è questa?
La porta d’ingresso si aprì scricchiolando. Mamma fece un passo nella luce della veranda. Le mani di Laura tremavano; le serrò entrambe davanti a sé.
— Si — rispose al nipote. — È questa.
Sua madre e sua zia condivisero una stanza da letto al secondo piano, ma Michael aveva il terzo piano della vecchia casa tutto per sé.
Gli piaceva lassù. I nonni erano troppo anziani per salire le scale, e di conseguenza tutto era coperto da un buono strato di polvere intatta, e tutto era antico. Mobili che avevano portato in giro per tutta la loro vita, pensò Michael. Michael era abituato alla loro casa di Toronto, che era nuova, e piena di cose nuove, come se non fosse esistito nulla prima del 1985; il terzo piano della casa dei Fauve forniva un contrasto stupefacente.
Quella prima notte, sua nonna era salita una volta da lui, annaspando lungo le scale. Si era scusata per la confusione. — Tutto questo disordine — aveva detto con aria triste. — Quando è morta nonna Lucille, abbiamo messo qua sopra tutta la sua roba. Così, questa è la nostra famiglia, vedi Michael? Questa era la scrivania del tuo bisnonno. Quel vecchio letto era dei miei genitori…
Il letto era rimasto talmente tanto tempo in quella stanza, ed era talmente pesante, che le assi del pavimento si erano curvate sotto il suo peso. Sua madre aveva cambiato le lenzuola, ma il letto manteneva ugualmente un odore caratteristico, non spiacevole, di piuma antica e di fodera per materassi; di vite intere vissute fra quelle coperte. Dormendo lì, nelle ultime due o tre notti, Michael aveva desiderato di poter aprire delle finestre nel passato, oltre che attraverso i mondi; di poter frugare negli anni fuggiti, e magari scoprire il segreto della sua stranezza. Desiderò che quel vecchio letto potesse parlare.
Passava parecchio tempo lassù. Considerando la situazione in casa, preferiva tenersi in disparte. E in ogni caso, gli piaceva stare da solo. Da solo, poteva lasciare che i suoi pensieri spaziassero liberamente. Non c’era niente da temere lassù; nessun Uomo Grigio; solo quelle vecchie stanze con le loro finestre dai vetri ondulati che mostravano il cielo invernale; solo lo sgocciolio dell’acqua nei termosifoni. Sdraiato lì, sospeso fra la piuma e la storia, poteva permettersi di sentire (ma leggermente, e con molta cautela) l’impeto della forza segreta che aveva in sé; le ruote della possibilità che giravano dentro di lui; poteva immaginare un passo laterale fuori da Polger Valley e dal tempo stesso; poteva chiedersi se l’idea di sua zia Laura di tanti anni prima non fosse stata effettivamente sensata, che forse ci poteva essere un mondo migliore da qualche parte; un mondo veramente migliore che magari lui poteva raggiungere; magari era solo a un quarto di passo di distanza, lungo qualche asse nascosta… forse era una porta che poteva imparare ad aprire.
Ci pensò spesso.
Giù, le cose erano un po’ diverse. Era in quella casa da una settimana, e Michael non si era ancora abituato a tutto quel silenzio e a quel trattamento indegno.
Sua nonna insisteva nel voler cucinare. Ogni sera l’aiutava a portare i pesanti piatti di ceramica; pollo arrosto con il sughetto, roastbeef e patate, polpettone e piselli, uscivano fumando dalla piccola cucina. Jeanne Fauve era un po’ sovrappeso ma non proprio grassa; era quel genere di donna nervosa dal metabolismo veloce. Si muoveva continuamente, ma i suoi movimenti erano bruschi; nessun gesto ampio, solo una perenne agitazione. Le mani si muovevano come uccellini, e anche gli occhi guizzavano come quelli di un uccellino. I suoi capelli consistevano in tanti boccoli bianchi, tutti legati strettamente attorno al cranio. Quella donna gli piaceva abbastanza; e pensò che forse anche lui piaceva a lei. Quando Michael era distratto, lei lo fissava pensierosa. Ma se la guardava negli occhi, lei distoglieva lo sguardo.
Quella sera Michael l’aiutò a portare un arrosto dal forno alla tavola. Tutto era in perfetto ordine; la tovaglia di lino, i piatti in ceramica, l’argenteria annerita. Tutti ai loro posti tranne il nonno. Michael si sedette a capotavola. Aveva fame, e l’arrosto aveva un profumo fantastico, ma aveva imparato ad essere paziente. Si mise le mani in grembo; l’orologio sopra il caminetto ticchettò. Sua madre sussurrò qualcosa alla zia Laura.
Poi, finalmente, Willis Fauve giunse a lenti passi dal bagno, dov’era andato a lavarsi le mani. Willis non era molto grosso come uomo, pensò Michael, ma era una grossa presenza in quella stanza. I suoi avambracci erano massicci. Portava pantaloni di poliestere stretti sopra il pancione sporgente, e una camicia bianca inamidata aperta fino all’ultimo bottone. Aveva un viso piccolo, anche se la testa era grossa. Attorno ai pesanti occhiali bifocali i lineamenti del viso erano piuttosto duri. Portava i capelli tagliati a spazzola, e le sopracciglia folte lo facevano sembrare sempre imbronciato. In effetti, per la maggior parte del tempo lui era imbronciato. Certamente non sembrava mai felice.
A volte si vedeva a tavola ubriaco. Non in maniera fastidiosa o lampante, ma arrivava con passo malfermo e parlava un po’ più del solito; soprattutto si lamentava dei vicini. Si sedeva al capo del tavolo di faccia a Michael, e il suo fiato acre attraversava la tavolata. Willis Fauve era un bevitore di birra. La birra, diceva, era come il cibo. Aveva il suo valore nutritivo.
Quella sera Willis era appena appena ubriaco. Michael pensava a lui come “Willis” perché non riusciva proprio a chiamare quell’uomo “nonno”. L’idea che lui aveva dei nonni era quella che gli aveva insegnato la TV; uomini benevoli dai capelli grigi con i loro pantaloni a salopette. Ma Willis non era benevolo; non era neanche gentile. Aveva fatto capire in maniera piuttosto chiara che per lui quella visita era un’intrusione, e che non sarebbe stato contento finché non gli fosse stata resa la sua intimità. A volte, se aveva bevuto abbastanza, lo diceva anche.
Willis si sedette ansimando. Senza guardare nessuno, unì le mani in grembo e chiuse gli occhi. Michael avrebbe dovuto fare la stesa cosa, ma tenne invece gli occhi aperti. — Grazie, o Signore — intonò Willis Fauve — per questo cibo che hai avuto la bontà di farci trovare. Amen.
La nonna di Michael fece eco all’“Amen”. Willis iniziò a tagliare l’arrosto, Michael prese una porzione modesta.
Mentre mangiava, sentì che l’attenzione di suo nonno era concentrata su di lui. Tenne gli occhi sul piatto, facendo lavorare meccanicamente la forchetta e il coltello. Ma sentiva lo sguardo di Willis sempre incollato addosso. La nonna tentò di fare un po’ di conversazione, sulla spesa che aveva fatto, su quello che le aveva detto il parrucchiere, ma nessuno riusciva a pensare a qualcosa da aggiungere, e così il tentativo si spense presto. Michael aveva quasi finito di mangiare, e non vedeva l’ora che il pasto finisse quando suo nonno disse, a voce troppo alta: — Lo sai come la chiamo io quella maglietta?
La maglietta di Michael, intendeva. Michael indossava una maglietta dei Talking Heads che si era portato da Toronto. Consisteva in una grossa “T” nera, con un disegno grafico bianco e rosso sullo sfondo. Non era niente di eccezionale, ma Michael era moderatamente compiaciuto del modo in cui gli stava addosso.
Nessuno voleva rispondere alla domanda tranne lo stesso Willis. Con candore, Willis disse; — Io la chiamo una maglietta vaffanculo.
Michael fissò suo nonno, stupefatto.
— Io li vedo questi ragazzi — continuò Willis. — Io passo davanti alla scuola tutte le mattine. Io lo vedo, il modo in cui si vestono. E sapete perché si vestono così? È come alzare il dito medio. È un insulto. È “vaffanculo”. Loro lo dicono con i loro vestiti.
Michael aveva notato che Willis, che si lamentava sempre del linguaggio triviale alla TV, si lasciava spesso andare sotto quel punto di vista, quando era un po’ alticcio.
— Michael ha dimenticato di cambiarsi prima di cena — disse Karen.
Michael si voltò di scatto verso sua madre. Lei gli restituì lo sguardo, come un avvertimento: Non dire nulla… non ora.
— Una maglietta vaffanculo — ripeté Willis.
— Michael — disse Karen — vatti a cambiare. —Vedendo che Michael non si muoveva, insistette: — Per favore!
Michael si alzò in piedi con aria solenne.
Giunto alle scale, si fermò un attimo per dare uno sguardo al tavolo da pranzo, alla silenziosa tavolata di donne con il capo contritamente chinato, con Willis Fauve che lo fissava ancora, con una smorfia sul viso. Per un attimo, i loro sguardi si incrociarono.
Fu Willis che abbassò lo sguardo per primo. — Lo lasci vestire così? — disse alla figlia.
Michael salì le scale.
— Una maglietta vaffanculo — continuò Willis — al mio tavolo da pranzo.
Ma Michael aveva capito il significato della lamentela di Willis. Non è la maglietta, pensò. Tu lo sai, e io lo so. Non è della maglietta che hai paura.
In camera sua, Michael pensò a Willis e al silenzio di quella cena.
Dalla finestra del suo attico poteva vedere i tetti di Polger Valley, e più in là, il fiume e la fonderia. La fonderia dominava la vallata come un animale nero rannicchiato. Le ciminiere erano opache e inattive nel grigiore profondo dell’oscurità. Michael appoggiò le mani alla finestra. Il vetro era ghiacciato sotto le sue dita. Presto sarebbe venuta la neve, pensò.
Si tenne addosso la maglietta.
Naturalmente non si trattava della maglietta, ma del potere che aveva. Willis doveva averlo percepito. Michael pensò a quanto gli aveva detto Laura, e ad alcune cose che aveva intuito dai discorsi di sua madre. Capì che la maglietta era totalmente irrilevante, che Willis avrebbe potuto criticare con altrettanta facilità il suo taglio di capelli, le sue scarpe, o il modo in cui teneva la forchetta. Il vero significato del suo gesto era: ecco una nuova persona sotto il mio tetto; non la posso controllare, e la cosa non mi piace.
Michael lo capiva anche perché la casa di Toronto funzionava più o meno allo stesso modo, beninteso senza quella minaccia di violenza. Riconobbe in Willis l’ombra dei silenzi critici di sua madre. Lui era cresciuto in quel silenzio. Tra le parole non pronunciate. Quella di Willis non era una cosa nuova; era solo più forte e più spaventosa.
Si domandò se quello non fosse il modo in cui funzionavano tutte le famiglie, se le paure venissero tramandate di generazione in generazione, come il colore dei capelli o degli occhi. Forse era come una specie di maledizione, una cosa alla quale non si poteva sfuggire, che ci si portava dietro che lo si volesse o meno.
Eppure, pensò, alcune cose cambiano. Willis contava molto sulla sua abilità nello spaventare la gente, e funzionava; sua madre aveva paura di lui, e persino Laura ne aveva…
Ma non io, pensò Michael.
Non io.
Si sdraiò sul letto mentre cominciavano a calare le tenebre, e guardò la prima neve dell’inverno che picchiettava sulla finestra. Provò per un attimo il brivido della forza dentro di sé, e pensò; diavolo, io sono molto più in là di Willis Fauve. Non mi spaventa per niente.
Quando passò Karen per dargli la buona notte, Michael stava già dormicchiando. Cullato dal vecchio letto, sembrava quasi tornato bambino. Come era prevedibile, aveva ancora addosso la maglietta. Invece di svegliarlo, lei gli rimboccò le coperte e si riavvicinò alla porta in punta di piedi.
Michael si mosse quanto bastava per aprire un occhio, e disse una strana cosa, con un filo di voce, dal profondo dei suoi sogni.
— Non avere paura — disse.
— Non ne avrò — disse Karen. — Dormi, ora. — E accostò la porta.
Ma lei aveva paura.
Aveva paura dell’Uomo Grigio, e aveva paura di suo padre.
La profondità della sua paura la sorprendeva. Forse era ovvio, forse avrebbe dovuto aspettarsela. Dopo tutto, che cos’era cambiato? Be’, ora era adulta, si era sposata, e aveva vissuto da sola. Tutto ciò avrebbe dovuto cambiare un po’ le cose. Eppure non aveva cambiato niente, e forse anche questo era ovvio; forse le relazioni da genitore a figlio, da padre a figlia, erano permanenti, e senza tempo. Davanti a Willis lei era sempre una bambina; sventurata e sottomessa. Non era tanto quello che diceva, ma la forza con la quale lo diceva… l’assoluta certezza mascolina che riusciva a proiettare. Le sue parole erano come porte di un altoforno privato che Willis Fauve alimentava dentro di sé; attraverso le parole, lei ne sentiva il calore.
Il giorno dopo, quando Willis se ne fu andato al lavoro, Karen aiutò sua madre a fare il bucato. Nel pomeriggio portò la cesta di plastica piena di panni lavati fino al secondo piano, dove la stava aspettando Laura. Karen si sedette con sua sorella nella camera degli ospiti, piegando lenzuola. Erano ancora calde dall’asciugatrice della cantina, e l’ammorbidente aveva dato loro un delicato profumo di lavanda.
— Non stiamo arrivando da nessuna parte — disse Laura.
— Lo so — rispose Karen. Anche lei era spaventata da quell’immobilità. — È più dura di quanto pensassi.
— È dura perché non è cambiato nulla — Laura spiegò un lenzuolo sul letto. — Tutti sono più vecchi, ma non è cambiato proprio nulla. Dicono che non si può mai tornare a casa, ma ciò che mi spaventa è che invece si può, eccome… è fin troppo facile ricadere negli stessi errori.
— Errori? — disse Karen.
— Sai bene cosa voglio dire. Lui è un despota come sempre, qui. L’hai visto a cena, come urlava a Michael. E noi siamo rimaste lì impalate. L’abbiamo accettato. Nessuno sfida William Fauve; nossignore, non nel suo territorio.
— Be’, lo è, no? È il suo territorio.
— È stata anche la nostra casa per vent’anni, per Dio! Siamo vissuti sotto il suo tetto come prigionieri… solo Tim ha trovato qualcosa da ridire.
Ma guarda che cosa è successo a Tim, pensò Karen. Tim era scomparso nel grande mondo; per quello che si sapeva di lui, poteva anche essere morto. Forse era morto. O forse peggio. Forse l’aveva trovato l’Uomo Grigio.
Piegò quel pensiero traditore in un cassetto assieme ad alcune lenzuola. — Tim era più coraggioso di noi.
— Coraggioso o stupido. O forse gli piaceva semplicemente essere picchiato. Ma almeno lui reagiva.
Karen pensò dentro di sé che Tim era come un piccolo cane spaventato; più lo prendi a calci, più cerca di morderti… finché non riesce a spezzare la corda che lo tiene legato, e allora scappa via. Tim, dopo diciassette anni, era riuscito finalmente a spezzare la sua corda. — Non scopriremo nulla da papà — disse.
— Non abbiamo ancora cercato di scoprire nulla da nessuno — Laura lisciò il lenzuolo sul materasso e infilò i due vecchi cuscini nelle federe a fiori. — È alla mamma che dovremmo parlare.
— Non le piacerà.
— Se aspettiamo che le faccia piacere — disse Laura — possiamo anche aspettare una ventina d’anni.
Il che era innegabile.
— Ora — disse Laura. — Dovremmo parlarle ora.
Karen esitò, e poi rifletté sulla sua riluttanza. — E non ti spaventa affatto… ciò che potrebbe dire? Non hai pensato che cosa potrebbe significare… saperlo?
Laura camminò con lei fino alle scale. Ora erano tornate sorelle, questo era certo. Il tempo non era passato; erano ancora bambine. — Io ho più paura di quello che potrebbe accadere se non sappiamo — disse Laura.
Improvvisamente, la casa sembrò più fredda.
Mamma era in cucina che asciugava i piatti.
Com’è piena di ricordi questa casa, pensò Karen. Ma non tanto la casa, pensò, quanto l’arredamento, la disposizione degli oggetti. La cucina era identica alla cucina di tutte le altre case in cui avevano abitato. La carta da parati si stava spelando, e i pensili erano dipinti di un giallino insulso e scolorito. I canovacci erano appesi a un supporto di legno e i piatti erano ammucchiati in uno scolatoio Kresge’s bianco. Tazze appese a ganci, presine per le pentole a forma di galli incastrati dietro il tostapane, e un lavoro di uncinetto fatto a mano con un passaggio del Vecchio Testamento. Era pomeriggio inoltrato, e dalla finestra della cucina si vedeva lo squallido cortile coperto da un sottilissimo strato di neve farinosa, più in là le colline, e il cielo vuoto. Papà sarebbe tornato nel giro di un’ora o due… o anche più, se si fermava a bere qualcosa.
Fu Laura che trovò il coraggio di dire: — Mamma, dobbiamo parlarti.
Jeanne Fauve alzò lo sguardo. — Parlare di che cosa?
— Dei vecchi tempi.
La donna rimase immobile per qualche secondo, poi appoggiò il piatto che stava asciugando, e si voltò verso la figlia. La sua espressione era immobile, indecifrabile. — Aspetta qui — disse infine, e uscì dalla stanza.
Karen si sedette con sua sorella al tavolo della cucina, tracciando disegni con il dito sulla superficie di formica scheggiata. Quanti anni aveva quel tavolo? La sua stessa età? Dio mio, pensò; non abbiamo bisogno di scavare nel passato; il passato è tutto qui, attorno a noi.
La madre tornò con una scatola da scarpe sotto braccio. Si sedette anche lei e aprì il coperchio.
Era piena di fotografie.
— Questi sono i vecchi tempi — disse. — Tutte queste foto. — Svuotò la scatola sul tavolo.
Karen frugò nel mucchio. Le foto erano molto invecchiate; si ricordava le macchine fotografiche che aveva avuto sua madre; una Kodak Brownie, che aveva prodotto la maggior parte di quelle foto in bianco e nero ritoccate, e più avanti una grossa Polaroid di plastica, del tipo in cui la foto usciva da sola, e poi bisognava passarla con un fissatore dall’odore acido.
— Ecco — disse mamma. — La casa di Costantinopole… ve la ricordate?
Karen studiò bene la foto. Doveva averla scattata papà; era una foto di mamma vicino alla loro nuova macchina, una Rambler blu metallizzata parcheggiata davanti alla casa. Karen, Laura e Tim erano sullo sfondo, appoggiati con aria svogliata alla ringhiera del terrazzo. Che aria annoiata abbiamo, pensò Karen. Doveva essere stato un giorno di chiesa; erano tutti vestiti bene, mamma con il suo cappellino quadrato, con il ridicolo velo di maglia nera, e Karen e Laura con gli abitini bianchi inamidati. Tim indossava un vestito nero con il colletto. Lui aveva sempre odiato quei colletti. Gli spingevano la sua ciccia di bambino verso il mento, dando al suo viso un’aria porcina.
In un attimo di capogiro ricordò il suo sogno; la gola dietro la casa, la sera in cui erano entrati in un mondo macabro concepito da Tim. E non era solo un sogno. Era un ricordo. Era reale come quella fotografia.
Se avessimo portato la Kodak Brownie della mamma attraverso quella Porta, pensò, forse avremmo potuto avere una foto; una foto di quella strana città, una foto dell’Uomo Grigio.
Nella sua mente, l’Uomo Grigio disse: Il tuo figlio primogenito.
— Quelli erano bei tempi — stava dicendo sua madre. — Vostro padre aveva un lavoro fisso. E io amavo quella vecchia casa di Costantinopole più di ogni altro posto in cui ho vissuto da allora. Anche più di questo posto qui.
— E allora perché ve ne siete andati? — chiese Laura.
Laura era concentrata, attenta; Laura non si era fatta distrarre dalle fotografie.
— Be’, sapete — disse mamma — vi ricordate quello che vi dicevo quando eravate ragazzini? Noi siamo zingari, ci muoviamo sempre…
— Questo non è un motivo — disse Laura.
La donna esitò un attimo, poi tornò a concentrarsi completamente sulle fotografie. — Ecco l’appartamento nel West End. Karen, tu eri in quinta elementare quell’anno. Questo era il giorno del tuo compleanno; te lo ricordi? Qui è quando abbiamo traslocato a Bethel. Quello è Tim su un tram che va in centro. Qui siamo con nonna Lucille mentre facciamo un’escursione in barca attorno alla punta; credo che fosse il 1965, o o il ’66, l’anno che abbiamo avuto un sacco di lucciole. Oh, ed eccomi qua. Ero magra a quell’epoca. Sto salendo sull’Incline con vostro padre. Ecco…
Laura l’interruppe. — Non ci sono foto di quando eravamo bebé.
Jeanne Fauve tacque, con gli occhi fissi sul mucchio di fotografie.
Laura continuò: — È che mi sembra strano. Non ci sono foto di noi da piccoli. E poi, il modo in cui traslocavamo… Voglio dire; c’è stata Costantinopole Street, c’è statavBethel; c’è stata West End, c’è stata Duquesne. E avremmo potuto rimanere tranquillamente. Papà non beveva tanto a quei tempi. E poi mi ricordo le nostre partenze. Si preparavano lo valigie, e in nottata si partiva. Come se scappassimo via. Ma mi ricordo che lasciavi sempre l’affitto in una busta bianca attaccata all’interno della porta con il nastro adesivo. Quindi scappavamo, ma non per via del denaro.
Mamma rispose con tono solenne: — È per questo che siete venute? Per rimestare quei vecchi problemi?
— È così sbagliato volerci capire qualcosa?
— Forse. Forse c’era un buon motivo se facevamo così.
— Siamo tutti cresciuti, adesso — insistette Laura. — Abbiamo il diritto di saperlo.
— Se vi poteva essere d’aiuto — disse la madre con tono veemente — credete che non ve l’avrei detto? Era solo e sempre per proteggervi… per permettervi di condurre delle vite normali.
Vite normali, pensò Karen. Era passiva in quel momento; spettatrice di quello scambio fra sua madre e sua sorella, e pensava, una vita normale è ciò che ho sempre desiderato. Una vita normale è ciò che volevo per Michael.
— Ma noi non conduciamo una vita normale — esclamò Laura. — Ma potreste farlo!
— No, non possiamo. Forse per lo stesso motivo per il quale non potevate farlo voi. — Laura prese in mano una manciata di vecchie foto consunte. Sembravano, pensò Karen, tante foglie secche. — Lui è qui?
Mamma assunse un’espressione spaventata. — Chi?
— Sai bene chi. È qui? Guarda da dietro la spalla di qualcuno? Guarda da una finestra dall’altra parte della strada mentre papà dà la cera alla sua Rambler? È per questo che traslocavamo sempre? Perché ci ha trovati in Costantinopole Street, ci ha trovati in Bethel e ci ha trovati a Duquesne?
Karen ora stava trattenendo il fiato. Pensava a quello che aveva detto Michael a proposito dell’Uomo Grigio sulla spiaggia, e al modo in cui aveva spedito quella bambina fuori dal mondo con un semplice gesto. Con i suoi occhi.
Senza fiato, mamma disse: — Non dovresti neanche nominarlo. Potresti riportarlo indietro. Porta male.
— Non importa ormai — disse Laura con fermezza. — Lui non ha bisogno della fortuna.
— Che Dio ci assista — disse mamma. L’orologio della cucina ticchettava. Una raffica di vento fece tremare il vetro della finestra. Con un filo di voce, mamma aggiunse: — Vi ha trovati?
— Ha trovato Michael a Toronto — disse Laura. — Ci ha trovati tutti e tre in California. Non c’è motivo di credere che non ci possa trovare anche qui.
— È passato così tanto tempo… credevamo che voi foste al sicuro.
— Lo pensavate? E Tim? Tim è al sicuro?
— Io prego per lui — mamma abbassò il capo. — Prego per lui come ho pregato per voi tutti questi anni.
Laura sembrava esterrefatta. Aprì la bocca, la chiuse nuovamente.
Karen si ritrovò a parlare; — Dobbiamo sapere tutto quello che c’è da sapere — le parole erano venute fuori di getto. — Non solo per noi. Per Michael.
— Ci ha quasi rovinati — disse mamma a bassa voce. — Lo capite questo? Potrebbe rovinarci ancora… Non c’è niente che io sappia che vi possa aiutare.
— Per favore — disse Karen.
Sua madre sembrava infinitamente addolorata, e, in quel lungo momento, impossibilmente vecchia. Il grembiule di cotone stampato le pendeva goffamente dalle spalle. Fuori, il vento alzò un mulinello di neve.
— Non posso — disse infine. — Cercate di capire; non ne ho mai parlato a nessuno. È difficile. Forse più tardi. Devo pensarci…
Poi la porta d’ingresso si aprì e sbatté. Una corrente d’aria gelida spazzò il pavimento. Jeanne Fauve si alzò in piedi, aggiustandosi i capelli. — È vostro padre — disse, riammucchiando tutte le fotografie nella scatola da scarpe. — Devo preparare la cena.
La casa era silenziosa quella notte, ma Michael non riusciva a dormire.
Le finestre buie del terzo piano erano coperte di neve. La neve, pensò, si sarebbe sciolta. Era troppo presto per quel genere di tempo. Ma la temperatura era scesa e la neve era aumentata, abbattendosi sulle vie buie, riempiendo la valle nella quale il Polger incontrava il Monongahela.
Michael aveva passato la giornata esplorando il paese, camminando da nord a sud e poi da sud a nord.
Aveva comprato un paio di libri economici da un Kresge’s dall’aria triste, e si era fermato per un po’ di calore e una tazza di caffè a un McDonald’s in Riverside. Ma soprattutto aveva camminato. Una lunga e deprimente passeggiata pomeridiana, da una parte della valle all’altra. Il paese, aveva calcolato, era circa grande quanto Turquoise Beach, ma più vecchio, più sporco, e povero in un modo diverso. Michael aveva capito che molta della gente di Turquoise Beach aveva rinunciato volontariamente all’agiatezza, e che vivevano così per poter dipingere, o scrivere, o fare musica. A Polger Valley, invece, la povertà era un incidente imprevisto; un disastro tangibile quanto il deragliamento di un treno.
Si era arrampicato su una collina fino a vedere lo sporco paese nella sua interezza, l’ampio letto del fiume, la fonderia, l’autostrada grigia, e le nuvole che incombevano rotolando da nord-ovest come fossero state l’inverno stesso. Lì in piedi con il suo cappotto pesante, Michael sentì la forza premergli dentro; più forte, gli sembrava, di quanto non fosse mai stata. Era come una corrente che usciva dalle viscere della terra, dalle vecchie vene di carbone sepolte là sotto; era un fiume che gli scorreva nel corpo. Capì che non proveniva da lui, ma che lui era solo un veicolo; quella forza era qualcosa di amico, di eterno, di fondamentale. Non aveva fine; era illimitata per definizione. L’unico fattore limitante era Michael stesso.
Io posso andare in qualsiasi luogo che immagino, pensò. I luoghi che aveva visto erano posti veri, come lo era Turquoise Beach; ma erano accessibili solo se si riusciva ad arrivarci con i propri sogni.
Ci aveva pensato camminando verso casa. Quella sera tenne testa agli sguardi persistenti di Willis. E si portò a letto i suoi pensieri.
Raggomitolato nel calore di quel letto antico con la coperta tirata su fino al mento e il vento che spazzava la neve contro la finestra, Michael continuò a pensare.
Ciò che sogniamo, siamo, pensò.
Certe cose sarebbero state chiuse per lui, per sempre. C’erano mondi che non poteva raggiungere, mondi al di là della sua portata. Li poteva sentire, là fuori, nella tempesta delle possibilità, porte sottili che non riusciva ad aprire. Gli venne in mente quello che aveva detto Laura a proposito di Turquoise Beach: è il miglior posto che sono riuscita a trovare. Lei voleva il paradiso, ma non era realmente in grado di sognarlo… forse non ci credeva realmente.
Immaginò che Laura lo sapesse, che la sua traballante bohème fosse anche una testimonianza dei suoi stessi limiti.
Ma almeno lei ci aveva provato. Michael pensò a sua madre che non aveva neanche tentato, che faceva finta di non avere neanche quel potere… e forse adesso era anche vero. Forse lo aveva perso. Forse si atrofizzava, come un muscolo. Lei aveva passato la sua vita allineandosi alle rigide norme di Willis Fauve, cercando di condurre una vita “normale”. E questo, alla fin fine, era effimero almeno quanto il paradiso di Laura.
Un mondo migliore, pensò Michael.
Forse esisteva realmente una cosa simile.
Forse lui avrebbe potuto trovarlo.
Sentì il sonno che l’avvolgeva. Sentì anche il labirinto delle possibilità, i serpeggianti corridoi del tempo. Lui poteva camminare in quel labirinto, pensò, poteva scegliere una destinazione, sentirla, seguire l’intuizione che lo chiamava… qui e qui e qui.
Chiuse gli occhi, e sognò un luogo che non aveva mai visto prima.
Lo vide tutto assieme, da una grande altezza. Un luogo dove città vivacemente colorate si ergevano in mezzo alle pianure, un luogo pieno di spazi selvaggi, bisonti e foreste di sequoie, e città indaffarate dove si dividevano i fiumi. Pensò ai nomi. Vennero alla sua mente spontaneamente, ma con la sensazione di nomi reali, nomi di luoghi: Adirondack, Free New England, le Nazioni delle Pianure. Vide un velivolo dall’aria fragile che attraversava il cielo limpido; l’immagine s’ingrandì, e vide una moltitudine di gente che si muoveva in un mercato affollato, uccelli in gabbia che chiacchieravano, acrobati in una piazza pubblica, un uomo piumato che comprava spezie da una donna con una vestaglia cinese.
Poi girò la testa contro il cuscino, si sforzò di aprire gli occhi e vide solo il profilo scuro del suo attico, con la neve contro la finestra.
La visione era scomparsa.
Dormi, pensò Michael con ardente desiderio. Dormi adesso.
Rimase sdraiato al buio e ascoltò Willis che si aggirava per la casa, chiudendo e controllando le porte, forse versandosi un ultimo bicchiere prima di salire le scale fino al suo lungo sonno senza sogni.
Laura divideva la camera degli ospiti con sua sorella, ma quella sera, in uno dei due letti gemelli, non riusciva a dormire.
Si alzò a sedere, diede un’occhiata alla sagoma immobile di Karen, poi si mise una svestaglia sopra la camicia da notte e si spostò fino alla piccola scrivania in un angolo della stanza.
Era stata la loro scrivania per studiare; sua e di Karen, molti anni prima. Era tipico di sua madre tenerla lì per tutti quegli anni. Laura accese la lampada e sbatté le palpebre davanti al cerchio di luce bianca.
Il piano della scrivania era sgombro.
Frugò nell’ultimo, grosso cassetto, e ne estrasse due oggetti voluminosi. Uno era la scatola da scarpe con le fotografie di mamma. L’altro era un’immensa bibbia di famiglia rilegata in cuoio.
Ci sono verità sepolte, qui, pensò Laura assonnata.
Innanzitutto, esaminò le fotografie. Erano una trentina o una quarantina in tutto. Le mescolò e le aprì a ventaglio come carte, e poi le divise, svogliatamente, in ordine cronologico.
Ce n’era una molto vecchia, un’immagine spettrale di nonna Lucille con una bambina piccola, che doveva essere stata mamma, e due ragazzi più cresciuti, lo zio Duke e lo zio Charlie. Charlie era morto in Corea tutti quegli anni prima, e lo zio Duke era scomparso dopo un matrimonio andato male. Dalla foto, Laura non riuscì a dedurre che quelle persone potessero avere qualcosa di straordinario. Era semplicemente una foto di Lucille Cousins con i suoi tre figli davanti a una ringhiera, alle cascate del Niagara; la data dietro la foto era 1932. Una giornata soleggiata ma ventosa; lo si notava dai capelli di tutti. Sorrisi blandi e soleggiati. Questa gente, pensò Laura, aveva a che fare con l’occulto o il sovrannaturale quanto il bottone di una camicia. Forse era proprio da lei che sua madre aveva tratto la sua visione della normalità perfetta; da sua madre, da quella donna sorridente con il suo sguardo diretto e felice. Nonno Cousins era morto pochi anni dopo aver scattato quella fotografia. Nonna Lucille aveva cominciato a ricevere una pensione statale. E così, quella foto rappresentava l’Eden dal quale era stata espulsa sua madre.
La forza, pensò Laura, quel tratto speciale, doveva provenire da qualche altra parte.
Non aveva mai conosciuto nessuno della famiglia di papà, tranne la nonna Fauve, anch’essa vedova. Laura la ricordava come una donna enorme, ossessionata da un culto fondamentalista per corrispondenza che aveva scoperto via radio attraverso la WWVA di Wheeling. Ricamava piccoli quadri con passaggi strani e spaventosi del Vecchio Testamento; la sua libreria era stracolma di opuscoli e libretti con titoli quali Avvertimento dal Cielo oppure Vivere negli Ultimi Giorni. Laura, da bambina, aveva guardato molto bene sua nonna, fissandola in quei suoi occhi fermi… occhi spaventosi, a modo loro; ma non aveva mai visto la forza in quegli occhi; non aveva mai visto ciò che voleva vedere.
Papà non l’aveva. Mamma non l’aveva.
Allora noi siamo degli errori, pensò. Dei mutanti, dei mostri.
Eppure il potere era una cosa ereditaria… Michael l’aveva dimostrato.
Sfogliò rapidamente le altre fotografie. L’immagine di Tim fermò il suo interesse; Tim che cresceva in quelle foto come in un film muto. Aveva un’aria meno aggressiva di quella che ricordava. Ricordò come Tim faceva il bullo con le sue sorelle, anche sei era più giovane… c’era qualcosa nella sua voce, nel suo portamento; o forse era solo la cocciuta volontà di fare ciò che non doveva, di infrangere non una sola regola, ma tutte le regole. Tuttavia, nelle fotografie non era altro che un bambino. Il suo viso paffuto non sembrava spaventoso, ma spaventato; un bambino spaventato.
Vi erano poche foto di Tim adolescente, ma almeno da queste riusciva a percepire un po’ della solennità che covava in lui. Portava un giubbotto di pelle che neanche le minacce di Willis erano riuscite a strappargli di dosso. Laura sorrise e pensò; un giubbotto vaffanculo. Tim fissava la macchina fotografica con il mento sollevato e le labbra tese in una espressione arcigna. I suoi occhi stretti erano fissi.
Laura osservò l’immagine del fratello scomparso e pensò: quanto ne sai tu?
In lui, il potere era estremamente forte. Aveva continuato a esercitarlo anche dopo che Willis aveva iniziato a picchiarlo; anche se lo faceva in privato, con grande cautela. Laura si ricordava il modo in cui Tim se ne andava su per le colline, o lungo qualche strada solitaria. Lei sospettava che praticasse il suo talento nascosto proprio lì, ma non gliel’aveva mai chiesto. Lei non era mai stata una brava bambina come sua sorella maggiore, ma aveva sempre avuto un po’ di paura del suo potere, delle cose che avrebbe potuto vedere o evocare. Karen credeva in quello che le diceva Willis; Laura no, ma era piuttosto cauta; Tim…
Tim, pensò, ci odiava tutti.
Mise via le fotografie, e ripose nuovamente la scatola.
Aprì la bibbia. Era una bibbia di famiglia molto vecchia, e le ultime pagine erano divise in tre colonne, NASCITE, MATRIMONI, DECESSI. La bibbia era stata di nonna Lucille e le pagine erano piene dell’inchiostro di china della sua scrittura svolazzante. Che a un certo punto veniva sostituita da quella normalissima a biro di sua madre.
Laura si piegò sulle fragili pagine con il loro vago odore di polvere e di papiro. Nascite dall’inizio del secolo. Trovò mamma accanto a Duke e Charlie. Trovò sua cugina Mary Ellen, che era figlia di Duke e di una donna di nome Barbara, prima che Duke scappasse via. Vi erano anche dei rami misteriosi della famiglia, gente che non aveva mai conosciuto, nomi che non riusciva a ricordare.
Cercò il suo nome, o quello di Karen e Tim.
Ma quei nomi non c’erano.
Il matrimonio di Karen era stato registrato; A Gavin White, Toronto, Canada, 1970, ma non la sua nascita. Nessuno di loro appariva nel registro delle nascite.
Improvvisamente, Laura si sentì persa, senza fiato. Si sentì leggera come se avesse potuto galleggiare fuori dalla finestra, fino al cielo. Non siamo nati, pensò. E allora come facciamo ad esistere? Pensò alle favole che leggeva nel suo grande libro illustrate da bambina. Noi siamo dei trovatelli, pensò. Ci hanno lasciati i folletti. Si ricordò dei folletti delle illustrazioni. Visi nodosi e teste enormi, con nasi aguzzi e occhi luccicanti e sinistri. I folletti ci hanno lasciati qui, pensò, e ora i folletti ci rivogliono indietro.
Fu percorsa da un brivido, e si strinse la vestaglia attorno alla vita. Chiuse la bibbia, e la rimise nell’ultimo cassetto sotto alla scatola di fotografie. Stava per chiudere il cassetto quando notò qualcosa sul fondo, un ammasso di forme leggermente familiari, grigie e coperte di polvere.
Aprì il cassetto il massimo possibile, e frugò in fondo.
Tre oggetti. Li tirò fuori, sotto il cerchio di luce.
Un fermacarte, sbiadito e opaco.
Una piccola, patetica, semplice bambolina.
E uno specchietto economico in plastica rosa.
Mi ricordo, pensò in preda all’eccitazione, mi ricordo!
Tolse con il pollice lo strato di polvere dallo specchietto e si guardò. Il vecchio vetro era piegato e scheggiato. Come aveva amato quel vecchio oggetto… La più bella del reame. Chi l’aveva detto? Un altro ricordo dalle fiabe, pensò, un altro ricordo dai libri illustrati. Ripeté le parole a se stessa, a bassa voce: la più bella del reame.
Ahh… ma non lo sono.
I suoi stessi occhi la fissarono tristemente dalle profondità nascoste dello specchio.
La verità era che lei era invecchiata in quel tranquillo paesino della California. Era invecchiata quasi senza accorgersene, misteriosamente, e senza sforzo. Una volta ero bellissima, pensò. Ero bellissima ed ero giovane, e maledizione, volevo cambiare il mondo, o almeno trovarne uno migliore. Era stata presa da quell’esplosione breve e rovente di idealismo berkeleyano… tutte quelle cose che intendeva la gente quando parlava con nostalgia degli anni sessanta. Bruciava come un fuoco dentro di lei, e lei l’avrebbe seguito al di là delle barriere del mondo, e non l’avrebbe mai, mai lasciata.
Ma ora sono vecchia, pensò, e ho passato vent’anni a guardare le onde che vanno e vengono. Vent’anni di tè alla rosa, di poesia e di nebbia invernale; vent’anni dell’amore facile e occasionale di Emmett. Vent’anni di equilibrio stonato, si disse, e questo ritorno a casa non mi farà di certo ringiovanire.
Lo specchio la fece sentire molto triste. Ma quegli oggetti, quei giocattoli, erano pieni di significato. Non riusciva a ricordare esattamente la loro provenienza, ma procuravano una sensazione magica. La mattina li avrebbe mostrati a Karen.
Nel frattempo, li nascose di nuovo in fondo al cassetto, spense la luce, e andò a letto. Nel buio, poté sentire la neve che picchiettava contro la finestra, muovendosi come sabbia in una clessidra. Vent’anni, pensò. Vent’anni, mio Dio! Guardò la pallida luminescenza della luna finché non iniziò a svanire; poi si sfiorò il viso con una mano, e si rese conto, con stupore, che stava piangendo.
Quella lunga notte non era ancora finita quando Michael si svegliò, solo, nella vastità del grande letto del piano di sopra.
Prese il suo orologio dal comodino e lo guardò alla luce flebile di un lampione che penetrava dalle finestre polverose.
Le quattro del mattino. E si sentiva completamente e disperatamente sveglio, come fosse stato mezzogiorno.
Sospirò, si alzò in piedi, si mise le mutande e i Levi’s. Rimase in piedi per un po’ davanti alla finestra.
Basta neve, per quella notte. Si intravedevano delle stelle oltre i margini delle nubi che svanivano, sopra i vecchi lampioni nei vicoli e le finestre chiuse di quello squallido paese di carbonari. Il suo fiato creava isole di vapore sul vetro. La visione di un mondo migliore si era totalmente dissipata. Non riusciva neanche a ricordarne la sensazione. Non c’era magia in quel posto, pensò Michael, c’erano solo quelle strade vuote e fredde. Rabbrividì.
Voleva andare a casa.
Il guaio di svegliarsi alle quattro del mattino, pensò, è che ti sentì come un bambino. Vulnerabile. Come se potessi scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Cerano cose che non si era permesso di pensare fino a quel momento; che era stanco di essere inseguito, che era stanco di avere paura, che era stanco di dormire in strani letti in case che non erano sue.
Ma questi erano pensieri che poteva avere uno di dieci anni, e Michael si ricordò con fermezza che lui non aveva più dieci anni… solo che a volte si sentiva così.
— Merda — esclamò ad alta voce.
Scese a piedi nudi per le scale, oltrepassò le altre camere da letto, e arrivò al pianterreno. Accese la luce della cucina e si versò un bicchiere di latte. Le piastrelle del pavimento erano fredde.
Spinto da un impulso, tirò fuori il portafoglio dalla tasca destra dei suoi jeans.
Aprì la bustina delle carte di credito.
Era ancora lì… il numero che aveva copiato dall’agenda di sua madre, il numero di telefono di suo padre a Toronto. Uno scarabocchio frettoloso su un foglietto verde consumato.
C’era un telefono in cucina; un vecchio telefono nero sulla mensola accanto ai libri di cucina.
Michael guardò il foglietto e pensò, ma perché? Fare una chiamata interurbana, svegliarlo alle quattro del mattino — o svegliare la sua donna, per l’amor di Dio… — per poi dirgli che cosa? Ciao, pa’. Ho passato un paio di settimane in California. Be ’, una specie di California. Ho visto i funerali di Kenned alla tele, avresti dovuto esserci.
Giusto.
Ma il bambino di dieci anni dentro di lui insisteva. Casa.
Balle. Non c’era nessuna casa laggiù. Solo un appartamento vuoto, e suo padre che viveva in qualche posto che lui non aveva mai visto con una donna che lui non aveva mai conosciuto. Non è vero, disse il decenne. Tu puoi tornare. Tu puoi far sì che vada ancora bene come prima.
Balle, pensò Michael. Balle, balle, balle. Quando mai era andata tanto bene?
Mai tanto bene.
Ma anche non volendolo, stava formando il numero. Mezzo nudo in piedi in quella cucina, ascoltava il ticchettio delle linee interurbane… poi il debole segnale, come in sordina.
— Pronto? — la voce di suo padre; stanca e scocciata.
Michael aprì la bocca ma solo per scoprire che non aveva parole.
— Pronto? Ma che cos’è, uno scherzo?
Riattaccherà, pensò Michael. E forse sarà meglio così.
Ma invece sussurrò: — Papà?
Un lungo silenzio serpeggiò lungo le linee del Canada. — Michael? Sei tu?
Michael provò un attimo di panico completo e senza fondo; non c’era nulla da dire. Nulla che gli potesse dire.
— Ehi, Michael, sono contento che tu abbia chiamato. Ho passato dei brutti momenti, siamo stati in pena per te.
Michael interpretò quel “siamo” come una nota molto amara.
— Michael, ci sei?
— Sì — ammise.
— Dimmi da dove stai chiamando.
No, pensò Michael… sarebbe un errore.
— Be’ — disse suo padre. — Stai bene almeno? E tua madre sta bene?
— Sì, stiamo bene. Tutto bene.
— Ti ha dato almeno una giustificazione per trascinarti in giro a quel modo? Perché sai, dal mio punto di vista il suo componamento è molto strano.
Non sai neanche la metà di quello che è successo, pensò Michael. — Ho chiamato solo per sentire la tua voce — disse.
Ho chiamato perché voglio andare a casa. Voglio che ci sia una casa.
— Mi fa piacere. Ascolta, io capisco che tutto questo deve essere molto difficile da capire per te. Forse non ne abbiamo parlato abbastanza, noi due. E forse tu me ne fai una colpa. Per il divorzio e tutto il resto. Be’, mi sembra abbastanza giusto. Forse io mi merito una parte di quella colpa. Ma devi vederla anche dal mio punto di vista.
— Certo — disse Michael. Ma non era questo che voleva sentire. Quello che voleva sentire era tornate a casa, tu e tua madre, è tutto a posto, è tutto come prima. Un po’ di sicurezza per il bambino dentro di lui. Ma naturalmente era impossibile. Il divorzio non se ne sarebbe andato. L’Uomo Grigio non se ne sarebbe andato.
— Dimmi dove sei — insistette suo padre. — Diavolo, posso venire a prenderti.
Improvvisamente, il bambino di dieci anni si svegliò. Sì! Vienimi a prendere! Portami a casa! Dammi la sicurezza! — Papà… — disse.
Ma improvvisamente, subentrò un’altra voce, assonnata e femminile. — Gavin? Chi è?
Nessuna casa alla quale tornare, pensò Michael.
Il bambino di dieci anni era ammutolito dallo shock.
— Michael? Sei ancora lì? — disse suo padre.
— Mi ha fatto piacere parlarti — disse Michael. — Senti, magari ti chiamerò ancora.
— Michael…
Si costrinse a riattaccare.
Guardò il suo orologio.
4:15.
Michael capì che toccava a lui essere l’uomo della famiglia, e che questo significava proteggere e stare in guardia.
La routine quotidiana in casa Fauve era così concepita: Willis si svegliava presto, e Jeanne gli preparava un’abbondante colazione. Poi Willis partiva per la sua giornata o mezza giornata di lavoro alla fonderia, quindi Michael, sua madre e sua zia si avventuravano di sotto. Nessuno urlava ”Via libera!” o qualcosa di simile, ma la sensazione era esattamente quella; aspettavano lo sbattere della porta d’ingresso, e i passi di Willis sulla veranda. La sua vecchia Ford Ferlaiue usciva sferragliando dal garage, e la casa era sicura.
La nonna Jeanne insisteva sempre per cucinare. Le sue colazioni erano eroiche; cereali, pane tostato, uova, montagne di bacon, e Michael rifiutava sempre i bis. Quella mattina però lo lasciava mangiare come voleva senza protestare, e lui notò la maniera assente con la quale si muoveva dal tavolo ai fornelli, e gli strani sguardi che le lanciavano Laura e Karen. Qualcosa bolliva in pentola.
Era solo appena appena incuriosito. Sapeva perché la zia Laura li aveva portati lì, ed era grato che stesse, forse, iniziando a combinare qualcosa. Capiva che era necessario comprendere bene tutto fin dal principio, ma aveva già indovinato che questo non era tutto. Anzi, era solo il principio. Perché sarebbe rimasto ugualmente il problema dell’Uomo Grigio.
L’Uomo Grigio li poteva trovare quando voleva.
Mentre ci rifletteva su, Michael ingurgitò una grossa forchettata di uova strapazzate.
La mossa che avevano fatto andandosene da Turquoise Beach avrebbe seminato l’Uomo Grigio, ma non in maniera definitiva. Li aveva seguiti prima, e poteva seguirli anche lì. Era solo questione di tempo. E sua madre e sua zia erano preoccupate, quindi toccava a Michael stare in guardia.
Nonna Jeanne prese il suo piatto e lo sciacquò sotto il rubinetto. Sua madre gli mise una mano su una spalla. — Michael? Vorremmo parlare alla nonna Jeanne da sole.
Michael annuì e si alzò. La nonna non lo guardò; fissava la schiuma nel lavandino. La zia Laura fece un cenno solenne con il capo, telegrafandogli che si trattava di una cosa importante e che avrebbe fatto meglio a sgomberare il campo.
— Sto uscendo — disse.
— Copriti — sua madre gli arruffò i capelli con aria assente. — E stai vicino alla casa.
Non promise niente.
La temperatura fuori era sempre sotto lo zero, ma il vento era diminuito. C’era il sole, che scioglieva la neve sui marciapiedi. Il fiato di Michael creava nuvolette nella luce invernale.
Seguì la stessa strada che aveva percorso il giorno prima, lungo Riverside Avenue fino al limite meridionale del paese e poi su per la collina innevata finché non poté vedere tutta Polger Valley ai suoi piedi. In luoghi come quello, percepiva la forza con maggiore chiarezza.
In paese, in mezzo alla gente, veniva annullata da una dozzina di altre sensazioni. Lassù poteva invece sentire il suo canto, come una canzone tranquilla ma importante proveniente da una radio lontana. Come un motore che ronzava nelle profondità della terra.
Gli venne alla mente quanto tutto ciò avesse cambiato la sua vita. Non molto tempo prima le sue preoccupazioni principali erano state gli esami e il come divertirsi il sabato sera quando non si poteva guidare un’automobile. Ma era acqua passata; spazzata via. Eppure, pensò Michael, non è mai veramente stato così, o no? Tu lo sapevi, pensò. Tu lo sapevi anche prima che Emmett ti facesse fumare quel giorno a Turquoise Beach. Lo sapevi prima che se ne andasse papà. Sapevi di essere speciale, o in ogni caso diverso. Michael ora sentiva la forza dentro di sé, e credeva di averla sempre sentita, solo che non aveva saputo darle un nome. Ne era stato messo in soggezione, in soggezione dalla sua innominabile immensità, allo stesso modo in cui una persona potrebbe avere paura di cadere giù da un burrone se ci abitasse accanto… ma l’aveva anche amata, segretamente, senza parole.
Si ricordava di certe sere, quando tornava a casa dopo essere stato da un amico, in notti invernali molto più fredde di così, e rabbrividiva nel suo giubbotto, e c’erano le stelle, e un anello di ghiaccio circondava la luna, e lui era tutto solo in una qualche stradona di periferia. E sentiva il futuro che si apriva davanti a lui, vedeva la sua vita come un’ampia e pulita autostrada di possibilità. Eppure non c’era motivo, nessun motivo per credere che lui fosse qualcosa di particolare, o che la sua vita sarebbe stata speciale. Era solo una sensazione. Come se il tempo si schiudesse come un fiore solo per lui.
E si schiude ancora, pensò. Si ricordò del suo sogno della notte precedente, delle città, delle praterie e delle foreste che aveva visto. La visione gli era giunta da una grande distanza. Si domandò se fosse in grado di raggiungerla… se sarebbe mai stato capace di rievocarla. Forse era troppo lontana; forse era al di fuori della sua portata, mai più reale che nei suoi sogni.
Ma lui l’aveva visto, e a livello intuitivo sentiva che era un luogo reale. Forse poteva farsi strada fino a lì, qualche giorno, in qualche maniera. Forse era lì che era diretta la sua vita.
Forse.
Se fossero riusciti a trattare con l’Uomo Grigio.
Camminatore, aveva detto l’Uomo Grigio. Camminatore, stanatore, cacciatore, trovatore…
Mi aveva quasi portato con sé, pensò Michael. Il giorno prima che lasciassimo Toronto. Mi aveva ipnotizzato, o qualcosa di simile. Aveva fatto sì che lo seguissi attraverso qualche brutta porta fuori dal mondo.
Si ricordò di quel posto nel quale era quasi andato. Ne ricordò la sensazione, il suo sapore e il suo odore. E al contrario del mondo che aveva sognato la notte, non era affatto lontano… Michael era certo che sarebbe stato in grado di trovarlo, se avesse voluto.
Forse sarebbe stato necessario, un giorno. Forse gli avrebbe detto qualcosa.
Con aria furtiva alzò le mani davanti a sé.
Probabilmente non era una buona idea… così si disse. Ma era importante, pensò. Un pezzo del mosaico. Quello era il passo che Laura e sua madre non avrebbero mai fatto; quella era una sua responsabilità.
Fece un cerchio con le dita.
Attraverso il cerchio guardò Polger Valley, un’ostrica sotto un centimetro di neve.
Sentì il potere crescergli dentro… guardò ancora, guardò meglio.
Il paese cambiò.
Era evidentemente lo stesso paese. Un vecchio paese industriale sul fiume Monongahela. Forse, in un certo senso, era messo meglio. La fonderia era più grande, e una lunga fila di edifici neri come il carbone torreggiava sulla sponda del fiume. C’erano pontili complessi, con molto traffico di chiatte di legno, e il fiume pullulava di chiatte. Ma il paese era anche più sporco, e il cielo era nero; le case sulle colline erano delle baracche di lamiera e carta catramata. C’era la neve per terra, ma era grigia di cenere; gli alberi erano esili e spogli. Ai piedi della collina c’era un gran traffico, soprattutto di cavalli e carri; l’unico camion che passò aveva una forma squadrata e aveva un’aria antica. Michael sentì una ventata di un odore chimico sulfureo.
Strinse gli occhi per vedere la stazione di polizia e il municipio, edifici semplici di pietra grigia a circa mezzo chilometro giù per Riverside. Vide la bandiera che sventolava sopra il municipio e si rese conto che non era la bandiera americana, e che non era affatto una bandiera familiare; qualcosa di scuro con un simbolo triangolare al centro.
Un brutto posto, pensò Michael. Si sentiva nell’aria. Povertà e magia maligna.
Questa è la sua casa, pensò Michael; è qui che abita Camminatore. Forse non in questo paese, ma in questo mondo.
Rabbrividì e sbatté le palpebre, facendo scomparire la visione. Le mani gli ricaddero lungo i fianchi.
Forse avrebbe dovuto seguire Camminatore. Forse era la loro unica possibilità. Forse sarebbero arrivati a quel punto. Ma non ancora, pensò Michael. Si sentiva sporco, impolverato; anche quel breve contatto l’aveva infettato. Scese dalla collina verso Polger Valley, che improvvisamente sembrava pulitissima, e intanto pensava: non ancora, non siamo ancora pronti per questo… non siamo ancora abbastanza forti per questo.
Aveva percorso circa la metà di Riverside, passato Kresge’s e il negozio di ferramenta, quando Willis accostò la macchina accanto a lui.
— Ehi — disse Willis.
Michael rimase immobile sul marciapiede crepato, e guardò suo nonno con aria diffidente attraverso il finestrino abbassato della Ferlaine.
— Sali — disse Willis.
— Volevo camminare — disse Michael.
Ma Willis allungò una mano e aprì la portiera dalla parte del passeggero. Michael scrollò le spalle e salì.
L’automobile era sporca di cartacce di fast-food e di cicche di sigaretta, ma l’odore di alcool era solo appena avvertibile; quel giorno Willis era sobrio.
L’uomo guidò lentamente giù per Main street. Ogni tanto dava un’occhiata a Michael, e fece anche un paio di tentativi di conversazione. Gli chiese come andava a scuola. Abbastanza bene, disse Michael. E l’avrebbe messo nei pasticci il fatto di non frequentare così a lungo? No, se la sarebbe cavata. (Come se avesse avuto importanza.) — Il tuo vecchio se n’è andato? — chiese Willis.
Michael esitò un attimo, poi annuì.
— Bel gesto da stronzo — affermò Willis.
— Immagino avesse i suoi motivi.
— Ognuno ha i suoi maledettissimi motivi.
Svoltando in via Montpellier, Willis disse: — Guarda, io so da che cosa stai scappando.
Michael alzò lo sguardo, stupefatto.
— Facendo quello che fai — continuò Willis — puoi solo peggiorare la situazione.
— Non capisco di che cosa tu stia parlando.
— Io invece credo che tu lo sappia. Credo che tu sappia esattamente ciò che voglio dire. — Willis ora parlava con un filo di voce, che sembrava provenire dal profondo del suo stomaco. Scalò la marcia e rallentò, avvicinandosi alla casa.
— Timmy faceva sempre così — continuò. — Se ne andava su per le colline, o Dio sa dove. E io sapevo quello che faceva, proprio come so quello che fai tu. Ne sento l’odore — Willis svoltò nel vialetto fino al piccolo garage buio. Tirò il freno a mano, e lasciò morire il motore. — Io sento lo stesso odore addosso a te.
Michael fece per aprire la porta, ma Willis gli afferrò un polso. La sua presa era forte. Era vecchio, ma aveva muscoli forti e fibrosi.
— È per il tuo bene — disse. — Ascolta, così, tu lo fai venire. Lo capisci questo? Tu vai là fuori, apri una porticina nell’inferno, e lui salta fuori.
— Che cosa ne sai tu? — chiese Michael.
— Più di quanto immagini. Non mi dai molta fiducia, vero?
Michael avvertì che la grande rabbia di Willis stava crescendo. Si mosse verso lo sportello, ma la presa sul polso non cedette.
— Cristo — continuò Willis — tua madre non ti ha insegnato nulla? O forse sì; forse ti ha insegnato maledettamente troppo.
Michael ricordò quello che gli aveva detto Laura, di come Willis usava picchiarli. Si rese conto che era vero, che Willis poteva farlo, che ne era capace. Willis irradiava rabbia come un’abbagliante luce rossa.
— Ammettilo — disse Willis — tu eri su quelle colline ad aprire porte.
Il ragazzo scosse il capo. La bugia era stata automatica.
— Non raccontare palle proprio a me — disse Willis sempre più arrabbiato. — Io sono un buon cristiano, e so annusare il Diavolo anche al buio.
Quella frase riportò a Michael l’odore sulfureo del mondo di Camminatore. — Io non faccio certe cose — disse.
La stretta di Willis aumentò. — Non permetterò che tu attiri nuovamente quella creatura. Troppi anni… ho vissuto troppo maledettissimo tempo con quel problema — si piegò in avanti, avvicinando il suo viso a quello del nipote. La scarsa luce invernale lo faceva sembrare mostruoso. — Voglio che tu ammetta quello che stavi facendo. E poi voglio che tu prometta che non lo farai mai più.
— Io non ho…
— Balle — disse Willis, e alzò la destra per colpirlo.
Fu quel gesto a far arrabbiare Michael per davvero. Lo fece arrabbiare molto, perché immaginò che sua madre aveva già visto quella mano alzata, e anche Laura, e loro erano bambini, troppo piccoli per poter reagire. — Va bene! — esclamò. Willis esitò, e Michael continuò. — Io lo so fare. Sei contento adesso? Potrei uscire di qui lateralmente, e tu non mi vedresti neanche, mentre me ne vado! È questo che vuoi?
Willis gli strinse più forte il polso e gli afferrò i capelli con l’altra mano. La sua presa era dolorosa, e gli occhi di Michael lacrimarono.
— Non pensarci neanche — disse Willis.
La sua voce era come un rombo, come avesse avuto un macchinario sabbioso dentro il petto.
— Promettilo — disse Willis. — Prometti che non lo farai mai più.
Silenzio.
Willis gli tirò ancora i capelli. — Promettilo!
— Vai a farti fottere! — esclamò il ragazzo.
Willis rimase troppo scioccato per reagire.
Fra i denti, Michael disse: — Lo potrei fare proprio qui! Non ci hai mai pensato? Lo potrei fare adesso — ed era vero. Sentiva la forza dentro di sé, che cantava in tutta la sua potenza. Senza pensarci, disse: — Potrei farti sprofondare nel pavimento prima ancora che tu riesca a sbattere le e palpebre… è questo che vuoi?
Willis era senza parole.
— Lasciami andare — disse Michael.
Incredibilmente Willis obbedì.
Michael aprì la porta prima che l’altro ci ripensasse, e cadde sull’asfalto oleoso.
— Sei perso — disse Willis dall’oscurità dell’abitacolo. — Oh, ragazzo… tu sei dannato — ma non c’era più molta forza nelle sue parole.
Michael corse in casa.
— Non mi piace parlarne — disse mamma. — E non posso neanche dirvi tutto. Non so tutto. Ma credo di poter raccontare quello che so.
L’orologio della cucina ticchettò. Le due sorelle rimasero sedute a sorseggiare il loro caffè. Karen capì che il silenzio era la cosa migliore, e che sua madre stava fissando un punto al di là di quelle pareti, giù nel profondo della storia sepolta. È dura per tutti, pensò.
Nel suo intimo, Karen era spaventata. Le parole che sarebbero state pronunciate in quella stanza avrebbero potuto cambiare la sua vita. Da questo momento, pensò, il futuro è cupo e strano.
Karen bevve un altro sorso di caffè, in attesa. Oltre le finestre appannate un sole mattutino immobile inondava il cortile.
— Be’ — iniziò mamma — quando ho incontrato Willis ero una ragazza, e abitavo a Wheeling. Sapete, è stato talmente tanto tempo fa che assomiglia a una storia. Vostra nonna Lucille lavorava da un parrucchiere, e quell’anno io avevo trovato un posto di cassiera alla banca.
Si accasciò sulla sedia e sospirò.
— Ho incontrato Willis frequentando la chiesa.
“Si trattava di una chiesa dell’Assemblea di Dio, quella che forse al giorno d’oggi chiameremmo una chiesa fondamentalista. Per noi era semplicemente la chiesa. Willis era molto serio su questo argomento. Lui partecipava a tutte le funzioni. Io ci andavo di domenica, ma non facevo un granché, e non partecipavo molto alle riunioni. C’era un Gruppo Giovanile che si ritrovava nel seminterrato, e a volte ci andavo. Willis c’era sempre. Prima che trovasse il coraggio per chiedermi un appuntamento, ci vedemmo per quasi un anno a quelle riunioni. Forse vi sembrerà strano, ma a quei tempi le cose erano diverse. La gente non saltava semplicemente nel letto di un altro. C’era il corteggiamento, e c’erano gli appuntamenti. Ma nel giro di poco, iniziammo ad uscire sempre assieme. E alla fine, mi piacque abbastanza da sposarmelo.
“Da giovane era diverso. Non lo sto dicendo per scusarmi. Ma voglio che voi capiate bene. Era un uomo divertente. Raccontava barzellette. Ve lo immaginate? Gli piaceva ballare. Quando fummo sposati, un suo cugino gli trovò lavoro in una fonderia di Burleigh, e fu allora che ci spostammo da Wheeling.
“Penso fosse abbastanza dura per me andare lontano dalla mia famiglia, in uno strano paese, a vivere con un uomo, e questo tutto in una volta. Il solo fatto di essere sposata cambiava totalmente la mia vita. Willis non era sempre gentile o interessante quanto lo era stato quando uscivamo assieme da fidanzati. Ma in un certo senso me l’ero aspettata. Però faceva anche un sacco di straordinari, e certi giorni non lo vedevo affatto. Ammetto che a volte mi sentivo sola. Avevo alcune amicizie, ma non fu mai come a Wheeling… rimase sempre un luogo strano, per me.
“Volevamo dei figli. Più che altro li volevo io. Li volevo soprattutto perché la casa che avevamo affittato sembrava vuota. Non era una casa molto grande; Willis non prendeva molto di stipendio in quei primi anni. Ma quando mi ci trovavo tutta sola, mi sembrava grande. Fai le pulizie, magari ascolti un po’ la radio, e il tempo scivola via. Quindi era naturale pensare a dei bambini, alla loro compagnia, anche se si sarebbe trattato di un bebè. I nostri vicini avevano dei figli, e quella donna, Ellen Conklin, veniva da me il pomeriggio, beveva una tazza di caffè dopo l’altra, e si lamentava della sua vita. Aveva un diavoletto, mi sembra si chiamasse Emilia, che non la lasciava mai in pace. Era veramente una bambina cattiva. Eppure, io gliela invidiavo. Un sarebbe… stato qualcosa.
“Ma noi non ne avevamo.
“Aspettammo per cinque anni.
“Non sapevo che si poteva consultare un dottore, o qualcosa di simile. Credevo che bastasse aspettare, e che sarebbe successo o meno a seconda di quello che preferiva Dio. Anche lì frequentavamo una chiesa dell’Assemblea, e un giorno, in privato, ne parlai al pastore. Be’, diventò talmente rosso che riusciva a malapena a parlare. Era un giovane. «Se Dio vuole» mi disse, usò queste parole. «Pregate» mi disse.
“Così, pregai. Ma non accadde nulla.
“Non sapevo niente della maternità, di come funzionava, tranne che l’uomo e la donna si univano a letto, e così succedeva. Mi domandai se stavamo sbagliando qualcosa. Perché a quei tempi non ne parlava nessuno, di queste cose. Nessuno che io conoscessi ne parlava. Infine trovai il coraggio di dire a Ellen Conklin che non riuscivamo ad avere figli, e lei mi disse: «Diavolo, Jeanne, io credevo che voi lo faceste apposta!» E questa era nuova per me; che esisteva un modo per non fare bambini, apposta. Mi confondeva. perché qualcuno avrebbe voluto non averne? Il che, naturalmente, fece scoppiare a ridere Ellen Conklin.
“Mi consigliò di rivolgermi a un medico. Potevo essere io, mi disse, o poteva essere Willis. E forse si poteva fare qualcosa.
“Be’ andai dal dottore da sola. Willis non voleva venirci. Non voleva neanche sentirne parlare. Non era il genere di cosa della quale fosse disposto a parlare. Così ci andai da sola, e alla fin fine non ebbe importanza il fatto che Willis non fosse venuto, perché in effetti ero io. Ero io quella che non poteva avere bambini.”
Guardò Karen e Laura, spostando lo sguardo dall’una all’altra. — Sapete che cosa sto dicendo?
Karen tremava; non riusciva a parlare. Laura invece disse freddamente: — Siamo stati adottati? — e poi aggiunse: — Ho guardato nella bibbia di famiglia, mamma… so che non ci siamo, lì dentro.
Karen si sentì improvvisamente alla deriva, come una nave cui avessero mollato gli ormeggi.
— Non esattamente adottati — disse mamma. — Ma vi racconterò la storia. O per lo meno quello che ne so.
Erano una strana coppia, disse mamma. Erano quasi due anni che venivano in chiesa, ed erano immigranti.
Dei rifugiati politici, così pensava la gente. Profughi di quello che era rimasto dell’Europa dopo la guerra. Nessuno riusciva a stabilire con esattezza da quale Paese fossero fuggiti. Parlavano un buon inglese, ma con un accento strano; come un misto fra l’olandese e il francese. Si assomigliavano. Lui era alto e lei era bassa, ma avevano occhi molto simili.
Arrivarono in paese in un giorno qualsiasi, e si stabilirono in una baracca sulla strada d’accesso. Era ovvio che avevano attraversato un brutto periodo. Dissero di chiamarsi Williams, e così la gente pensava, be’, questi non avranno i documenti, saranno entrati clandestinamente… era possibile.
Ma non erano vagabondi. L’uomo si chiamava Ben, non conosceva nessun mestiere in particolare, ma aveva voglia di lavorare, e lavorava sodo. A volte lo si vedeva nel retro del negozio di ferramenta, che scopava per terra o riordinava la merce sugli scaffali. La gente diceva che non si lamentava mai. E aveva una famiglia.
Tre figli.
Il maggiore aveva quattro anni. Il più giovane era appena nato.
Vedo che avete capito dove voglio arrivare. Ma aspettate… non è finita.
Facevano abbastanza pena alla gente, per via del loro aspetto trasandato, un aspetto come… braccato. Nel periodo della Depressione li si sarebbe potuti scambiare per criminali o barboni, ma eravamo in tempi di prosperità, e loro non avevano niente dei criminali. E in quel periodo leggevamo tutte le storie orribili della guerra… fu quando venne fuori la verità sui campi di sterminio. Non erano ebrei, ma avrebbero potuto essere zingari, o polacchi, o chissà che cosa. Nessuno di noi capiva realmente quello che era successo laggiù, tranne che un sacco di persone innocenti erano state braccate e uccise.
Ben sembrava molto serio per quanto riguardava la chiesa. Tuttavia, non so ancora se ne fosse onestamente convinto, o se lo facesse solo per integrarsi nella comunità. A volte lo vedevo in chiesa, a due o tre panche di distanza, davanti a me, con l’innario in mano, ma non cantava veramente, solo seguiva le parole con la bocca. E aveva quell’aria completamente persa, come potremmo averla noi se per sbaglio andassimo a finire in una sinagoga o qualcosa di simile e non avessimo la possibilità di andarcene in maniera cortese. Credo che la cosa che preferiva fosse la processione. Quando suonava l’organo, chiudeva sempre gli occhi, e sorrideva. E metteva sempre denaro nel piattino. Per un uomo nella sua situazione, donava con grande generosità.
Non avrei mai immaginato che avrebbe abbandonato i suoi bambini. Sembrava che si trovasse abbastanza bene a Burleigh, e poi voleva bene a quei ragazzini. Si vedeva.
Ma questa è la parte della quale non so molto. Willis non ne ha mai parlato.
Tutto quello che so è che una sera accadde qualcosa nella loro baracca. Willis ricevette una telefonata e uscì con altra gente dalla chiesa. Quando tornò era mortalmente pallido, e tremava. Ma non me ne parlò mai. La gente disse che quella sera erano andate lì anche un paio di auto della polizia, e raccontarono delle storie, ma tutte diverse, quindi non lo so. Infine dissero che Ben e sua moglie se n’erano andati dal paese, o che forse Ben aveva ucciso sua moglie ed era scappato via… ma io non ci ho mai creduto.
Il pastore si prese cura dei tre bambini. C’era un orfanotrofio della contea, ma aveva una pessima reputazione. E i piccoli non erano registrati all’anagrafe; non avevano nessun certificato di nascita o di battesimo. Allora, da quelle parti, la gente era meno intransigente su certe cose. Be’, il pastore pensò a noi.
Ne parlò a Willis.
Non so quanto gli piacesse l’idea. Ma sapeva che volevo dei figli e che non ne potevo avere. Forse il pastore, o qualcuno dei diaconi, lo convinse. In ogni caso, lui acconsentì. E lo ritengo ancora un atto coraggioso.
Vi portò a casa, tutti e tre.
— Io non mi ricordo niente di tutto questo — disse Karen, stordita.
— Be’ — disse mamma — avevi solo quattro anni, ed eri anche immatura per la tua età. Non è così sorprendente. Laura portava ancora i pannolini, e Timmy era appena nato.
— Almeno così quadra — disse Laura. — Mette un po’ d’ordine nelle cose.
— Tu credi?
— Ci dev’essere un motivo se siamo come siamo.
— Non dovresti neanche parlare di questo — disse mamma.
— Ma lo stiamo facendo — ribatté Laura. — Non ne abbiamo forse parlato fino ad ora? Mamma, è per questo che siamo qui.
Karen osservò sua madre che si alzava in piedi e si avvicinava con passo nervoso al lavandino.
Con voce fioca, mamma disse: — Vostro padre ne era spaventato.
Si voltò verso la finestra.
— Ti ho vista farlo una volta. Te, Karen. Me lo ricordo. Non mi sembrò una cosa tanto brutta. Tu me la mostrasti. Ne eri orgogliosa. Facesti un cerchio nell’aria, e in quel cerchio apparve un bel posto; un lago, degli alberi, e degli uccelli in volo. Come in una foto da cartolina. Era carino, ed era quel genere di luogo che un bambino potrebbe disegnare con i pastelli. La cosa non mi spaventò, non al momento. Forse ne fui spaventata dopo, perché era un miracolo, sapete, ed era spaventoso pensare che cosa potesse implicare. Ma tu ne eri talmente orgogliosa… Forse qualcuno te l’aveva insegnato, prima che ti prendessimo noi. O forse lo sapevi e basta. Quando mi calmai ti dissi che era carino, ma che non dovevi farlo più, e che soprattutto non dovevi farlo vedere a papà… sapevo già come l’avrebbe presa.
Me lo ricordo! pensò Karen. Era tantissimo tempo prima, ma il ricordo era riemerso di colpo. La sensazione che le aveva dato fare quel cerchio, sentire la forza dentro di sé… ne era stata effettivamente molto orgogliosa.
Quanto tempo! si disse. Una volta ero giovane e potevo sentire quel canto dentro di me, anche se non lo volevo. Ora sono vuota. Svuotata, pensò, come una bottiglia.
— Era sempre papà — continuò mamma — che decideva quando dovevamo traslocare.
— L’Uomo Grigio — disse Laura.
Mamma annuì scuotendo ripetutamente il capo, dandole le spalle. — Lo puoi ben chiamare così. L’ho visto, una volta. Solo una volta. Prima che ce ne andassimo da Pittsburgh. Eravamo sul tram, io dovevo fare un po’ di spesa. Tu, Karen, eri a scuola. Ma Laura e Timmy erano con me. E lui salì sul tram. Timmy lo guardò fisso negli occhi… tutti e due sembravano riconoscerlo. E anch’io lo guardai.
“Sapevo che c’era qualcosa che non andava in lui. Mi fece pensare a qualcuno cui fosse stato fatto del male, in qualche maniera. Quando ero bambina, capitava di vedere dei veterani che erano stati avvelenati dal gas in Francia; lui mi ricordò quella gente. Muoveva la testa in maniera strana, e aveva strani occhi sotto quel vecchio cappello con la tesa piegata. Immaginai che potesse essere… sapete, un ritardato.
“Ma invece si sedette e fissò i bambini, e io vidi che anche loro lo fissavano, e poi lui sorrise, ed era un sorriso orribile, e i suoi occhi si illuminarono in una maniera terribile, affamata… e quando vidi che Tim gli sorrideva a sua volta, mi sentii debole, come ci si può sentire se si vede il proprio figlio che gioca con un serpente a sonagli, o qualcosa di simile. Afferrai i bambini, suonai il campanello, e scendemmo alla fermata dopo. Di corsa.”
— E dopo questo traslocammo? — chiese Laura.
— Lo raccontai a Willis… e sì, ci spostammo quasi subito dopo.
— Ogni volta che traslocavamo, era sempre per via dell’Uomo Grigio?
— Credo di sì. Soprattutto. Willis non ne ha mai parlato.
— E tu non gliel’hai mai chiesto?
— Quasi mai. E quando glielo chiedevo, non rispondeva.
Non ne abbiamo mai parlato, pensò Karen. Nessuno ne ha mai parlato.
— Mi chiedo se questo Ben Williams sia ancora vivo — disse Laura. — Forse c’è qualcuno a Burleigh che potrebbe saperlo… mamma, tu che cosa pensi?
— Sei sicura di voler rivangare tutto questo? — chiese mamma.
— Non credo che abbiamo molta scelta.
— Be’… dubito che possiate trovare qualcuno che vi aiuti. Ormai, la maggior parte della congregazione dell’Assemblea si deve essere sparpagliata. La fonderia è stata chiusa anni fa. Alcuni uomini sapevano che cosa accadde quella sera che voi tre foste portati via da quella baracca. Ma nessuno di loro sembrava disposto a parlarne. In un paese di pettegoli, quella era una cosa che la gente si tenne per sé. E poi, chi altro ci può essere?
— C’è papà — disse Karen.
Laura la fissò. Mamma si voltò, con un’espressione sorpresa.
— Tuo padre — iniziò mamma — non acconsentirebbe mai a…
In quel momento la porta d’ingresso sbatté, e Michael entrò in casa correndo.
Karen trovò il figlio che respirava affannosamente in camera sua, seduto a gambe incrociate sul letto. Quando lei entrò nella stanza, Michael alzò lo sguardo di scatto.
— Michael? — chiuse la porta alle sue spalle. — Michael, che cosa c’è?
— Willis — disse.
Era stato sulle colline a sud del paese, disse, e Willis l’aveva incontrato per strada e gli aveva dato un passaggio fino a casa. Non era ubriaco, ma era arrabbiato. Lo aveva accusato di stregoneria, o di evocare demoni, o qualcosa di simile… Willis aveva tentato di schiaffeggiarlo.
Karen fu percorsa da un improvviso brivido. — In che senso, ha tentato?
Mio figlio, pensò. Mio padre.
— Non gliel’ho permesso — disse Michael.
— Michael, non essere sciocco… se avesse voluto colpirti, lo avrebbe fatto.
— Io l’ho fermato.
Forse Willis era invecchiato, ma era ancora forte, ed era il doppio di Michael. — Come avrai mai fatto a fermare papà?
Ma Michael non rispose, e Karen, pensando a papà e Michael da soli in macchina, immaginò la risposta.
— Aspetta qui — disse.
Scese a pianterreno, ma papà non era ancora rientrato. Allora uscì, stringendosi nel maglione e buttando fuori nuvolette di fiato ghiacciato.
La porta del garage era aperta. Più che un garage era un ripostiglio, un capannone addossato di sghembo contro il lato settentrionale della casa. Con il passare delle stagioni si era tutto crepato e scrostato. Con quella luce invernale, l’interno era buio.
Si mosse cautamente attorno ai paraurti cromati e butterati della Ferlaine, lungo una parete piena di attrezzi da giardinaggio arrugginiti.
— Papà?
Nessuna risposta. Ma dentro all’automobile vide uno scintillio di luce. La brace della sigaretta di Willis, che si voltava verso di lei.
— Papà — disse — ho freddo.
Willis aprì la sicura della portiera destra con un gesto scocciato. — Che cosa vuoi?
— Parlare — disse Karen.
La portiera si aprì.
Tremando un poco, Karen si infilò in macchina. Willis si spinse dalla sua parte, con un braccio alzato sul quale appoggiò la testa, e l’altro appoggiato sul volante. L’abitacolo era pieno di fumo di sigarette. Sul cruscotto c’era un pacchetto di Camel schiacciato.
Karen lo guardò; guardò il suo viso. Le occorse una certa dose di coraggio solo per tenergli gli occhi addosso. Le era capitato raramente di fissare effettivamente suo padre; aveva imparato tanto tempo prima che era meglio non farlo. Nella sua memoria, lui non era tanto una presenza, una voce o un imperativo tuonante. Era una forza naturale, come i lampi e i tuoni; e non si può placare il tempo fissandolo.
Ma era anche un uomo vecchio in una vecchia macchina.
— Hai tentato di picchiare Michael — disse.
Willis buttò fuori il fumo e spense la cicca nel posacenere della portiera. — È corso da mamma, è così?
— Gliel’ho chiesto io.
— E non gli hai chiesto nient’altro a proposito?
— No… avrei dovuto?
— Forse. Per esempio forse avresti dovuto chiedergli che cosa faceva su quelle colline oggi pomeriggio.
Non c’era modo di evitare l’argomento, ormai. Si schiarì la gola e disse: — Papà, io so quello che fa.
Willis la fissò, esterrefatto, e poi scostò lo sguardo. Le sue grosse mani stringevano il volante. Dopo un po’ disse: — Credevo che tu fossi diversa. Ma non lo sei, non è vero? Sei uguale agli altri due.
Voleva urlare. No, voleva dire, io sono diversa, tu mi hai fatta diventare diversa! Io sono ciò che desideravi… Cristo, guardami! Invece allontanò quel pensiero con uno sforzo, e prese una grande boccata d’aria. — Io ho tentato di far crescere Michael come un ragazzo normale. Ci ho provato veramente. Ma non può rimanere per sempre ciò che non è.
— Be’, allora che cos’è? Ci hai mai pensato?
No, non ci aveva mai pensato, ma… — È per questo che siamo venuti. Per scoprire che cos’è Michael. E che cosa siamo noi.
Willis scosse il capo con amarezza. — Mi ha minacciato. Te l’ha detto, questo? Ha minacciato di buttarmi giù per un buco nell’inferno. E io…
Sembrò bloccarsi nel ricordare.
— Tu gli hai creduto? — disse Karen.
— Non avresti fatto altrettanto?
— Papà, tu l’hai spaventato.
— È come tuo fratello. Ha lo stesso scarso rispetto. Forse ancora meno. Eh già… hai fatto un gran bel lavoro con lui, non c’è che dire.
— Io non l’ho mai picchiato — disse lei.
— Be’, avresti dovuto farlo, invece.
No, pensò Karen. Ora sono una donna adulta. Lo so io. — Forse Tim aveva ragione — disse.
Willis la fissò.
Karen continuò: — Forse avremmo dovuto odiarti. Forse il problema è che non lo abbiamo mai fatto veramente. Tu ci picchiavi, e noi ti volevamo bene lo stesso. Era come voler bene a un sasso, ma noi lo facevamo. Laura ti voleva bene, anche se non lo vuole ammettere. E anche Tim, almeno quando era piccolo. Ma vuoi sapere una cosa? Se io avessi un vicino che tratta i suoi figli come tu trattavi noi, sai che cosa farei? Chiamerei la polizia.
Parlava e pensava nello stesso momento; era sorpresa dalle sue parole almeno quanto sembrava sorpreso Willis. — Sei venuta qui per dirmi questo? — chiese Willis.
— Sono venuta fin qui per salvare la vita di Michael!
Willis fece una smorfia.
— L’Uomo Grigio è quasi riuscito a prenderlo, papà — disse Karen. — E una bambina è stata uccisa.
Willis trasalì. — Gesù Cristo — scosse il capo. — Non mi hai mai detto…
Karen l’interruppe. — Chi era Ben Williams? Chi erano i nostri genitori? Papà, tu lo sai o no?
Ma Willis non rispose. La fissò, poi aprì lo scomparto del cruscotto e prese un altro pacchetto di Camel. Tolse il cellophane, e lo gettò nell’ombra ai suoi piedi. Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, accese un fiammifero, e inspirò profondamente. Trattenne dentro il fumo per un attimo, e poi, con un tono dimesso che Karen non riconobbe, disse: — Tua madre ti ha raccontato di questo?
Karen annuì.
— Be’, merda! — disse Willis.
— Ma non ci ha raccontato le parti importanti. Papà, noi dobbiamo saperlo.
Willis rimase in silenzio a lungo. Fumò la sigaretta fino al filtro. Karen stava per arrendersi e tornare in casa, quando improvvisamente Willis aprì la sua portiera. La luce interna della macchina si accese altrettanto improvvisamente, e il bagliore freddo inondò l’abitacolo. Willis uscì sull’asfalto.
Nella luce del garage, rimase in piedi ad aggiustarsi i jeans. — Vieni con me — disse.
La portò su fino alla camera da letto che divideva con la moglie.
Era un luogo privato; Karen non era entrata in quella stanza neanche per cambiare le lenzuola. Ma riconobbe il vecchio comò di quercia, le tende gialle di mussolina, il quadro con il veliero sulla parete. Possedevano quelle cose da sempre. Papà si piegò per aprire l’ultimo cassetto in basso del comò, rovistò un poco, e poi si rialzò con in mano una fotografia, antica e marroncina; una foto che non era stata inclusa nella scatola di mamma.
Karen la prese con una nascente sensazione di meraviglia. Era la foto di un pic-nic organizzato dalla chiesa. Uomini in maniche di camicia e cappello, donne con vestiti gonfi, tutti in fila per la macchina fotografica.
— È quello lì — disse Willis. — È il secondo nell’ultima fila. Quello è Ben Williams.
Karen osservò attentamente quell’immagine piccola e slavata del suo padre naturale. Era un uomo alto, con occhi grandi e meravigliati. La sua carnagione era pallida, e i capelli lunghi e arruffati. Teneva in mano una bibbia rilegata in cuoio, con aria assente.
— La donna al suo fianco — disse Willis in tono neutro — è sua moglie. Quella bionda lì; non la si vede tanto bene. I piccoli erano a giocare sull’erba.
I piccoli, pensò Karen. Io, Laura e Tim. Noi eravamo lì quel giorno… prima che tutto cambiasse.
Karen osservò gli occhi dell’uomo nella fotografia. — È morto?
— Si, è morto.
Karen ci pensò su.
— Raccontami — disse infine.
— Sei sicura di volerlo? — le chiese Willis.
Non ne era sicura affatto, ma annuì con il capo.
— Va bene, allora — disse Willis.
— Be’ — iniziò Willis — avevamo sempre saputo che erano dei tipi strani.
“Avevano quell’aspetto strano. Li scambiammo per rifugiati per via del loro accento, e tutto il resto. Il reverendo Dahlquist disse loro che c’era una chiesa ortodossa greca giù nel centro di Burleigh… pensava che forse sarebbe stata più adatta per loro. Ma loro dissero di no, dissero che la chiesa dell’Assemblea era quella che volevano. Erano persone socievoli, che si unirono alla congregazione e fecero di tutto per amalgamarsi. Così, dopo un po’, nessuno ci fece più molto caso.
“Non prima di quella notte.
(Karen, apri la finestra. Tua madre si arrabbia quando fumo qua dentro, ma adesso ne ho bisogno.)
“Devi capire, però, che io non assistetti all’inizio della faccenda. Quello che so l’ho sentito dal reverendo Dahlquist. Accadde che una sera la signora Williams arrivò alla parrocchia con i suoi tre bambini; era già buio da parecchio, ormai, e dovette bussare per cinque minuti buoni prima che il reverendo scendesse in camicia da notte e le aprisse la porta. Scusi, reverendo, gli disse. Per favore, mi può tenere i bambini al sicuro, solo per questa notte… per favore? Il reverendo Dahlquist gliene chiese il motivo, ma lei non volle rispondere. Il reverendo non era affatto contento di quella faccenda, ma mi disse in seguito che prese i bambini perché aveva paura per loro. Era chiaro che la signora Williams era terrorizzata. Immaginò che Ben fosse andato su tutte le furie, o che fosse ubriaco, o qualcosa di simile. Non che fosse una cosa che ci si aspettava da lui, ma in quel posto era un fatto abbastanza comune. Il reverendo diede ai bambini una piccola cena, e li mise a letto. A quel punto sarebbe potuto andare a letto anche lui, invece continuò a pensare al viso della signora Williams, alla sua aria spaventata, finché cominciò a preoccuparsi che le potesse accadere qualcosa e a pensare che se Ben era conciato come lui immaginava, avrebbe anche potuto farle del male. Così, telefonò ad alcuni uomini della congregazione, e ci suggerì di passare dai Williams a dare un’occhiata.
“Era tardi per andare in giro, ma Charlie Dagostino e Curt Bloedell arrivarono con la grossa Packard di Charlie, e mi presero su. In tre, ci recammo alla baracca, nell’oscurità. Curt Bloedell aveva un piccolo fucile da scoiattoli calibro 22, ma non credo che avesse veramente intenzione di usarlo. Infatti non lo usò, non sul serio, anche se forse avrebbe dovuto.
“Arrivammo dai Williams poco dopo la mezzanotte. Era tutto buio.
“Charlie disse che avremmo fatto meglio a tornarcene a casa. Era evidente che non c’era niente di strano. Anch’io ero d’accordo, ma Curt Bloedell volle invece bussare per accertarsi che fosse così; Curt amava mettere il naso negli affari degli altri. Discutemmo un poco, e infine Charlie disse va bene, per l’amor di Dio, bussiamo. Voglio tornarmene a casa e infilarmi a letto. E così, salimmo tutti e tre gli scalini di legno dell’ingresso.
“Non era una gran casa, anzi in verità si trattava proprio di una baracca, una di quelle che capita di vedere lungo la strada della contea. Con il tetto di carta catramata, e una stufa a carbone per l’inverno. Ma Ben l’aveva messa a posto facendo del suo meglio, e sua moglie aveva riempito con della terra dei vecchi copertoni di camion e vi aveva piantato convolvoli e lillà dalla prateria. Non avevamo paura, tranne per quello che avrebbe potuto dirci Ben se lo svegliavamo. Nessuno di noi prese la cosa troppo sul serio; Curt lasciò il fucile sul sedile della macchina.
“Ma prima che bussassimo, la porta si aprì.
“Ne uscì un uomo.
“Portava un trench grigio, e un cappello grigio. Sembrava uno straniero. In piedi, davanti all’ingresso della casa buia, aveva un sorriso strano.
“Forse hai già capito di chi sto parlando.
“Immagino che in quel momento avremmo dovuto essere spaventati, o almeno avremmo dovuto sospettare che era accaduto qualcosa. Ma invece, stranamente, non avemmo nessuna di queste reazioni. Lui ci guardò tutti e tre, uno per uno; prima me, poi Curt Bloedell, e poi Charlie Dagostino. Poi sorrise semplicemente, e disse “buonanotte” con un tono infantile. Se ne andò lungo la strada, e scomparve fra le ombre mentre noi lo guardavamo. Non gli chiedemmo chi fosse o che cosa ci facesse lì. Giuro che non so perché. Secondo me ci aveva stregati con qualche genere di incantesimo. Ma non potevo dirlo a Curt e Charlie, e neanche loro accennarono mai a niente di simile. Ma come l’uomo scomparve dalla nostra vista, tutti scuotemmo il capo e iniziammo ad avere la sensazione che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. E fu allora che cominciammo a essere spaventati. Curt Bloedell continuava a mormorare “Oh, Gesù, oh Gesù” e Charlie voleva solo risalire in macchina e scappare a casa. Ma io dissi che eravamo venuti per vedere come stavano i Williams, e che dovevamo farlo, e nel frattempo tutti e tre stavamo pensando che era molto strano che stessimo parlando ad alta voce davanti all’ingresso della casa e che nessuno ci sentisse; che cosa era successo? Allora io entrai, e cercai a tentoni l’interruttore della luce, perché sapevo che da poco avevano installato le linee elettriche anche laggiù, e così, almeno, avremmo potuto vederci. Trovai l’interruttore, e accesi.
“Insomma, erano morti.
“In effetti erano peggio che morti, perché alcune parti di loro erano disseminate per la baracca, e altre mancavano proprio. Sul pavimento c’erano delle valigie da pochi soldi e dei vestiti, come se si stessero preparando a partire quando era successo tutto. E c’erano alcuni giocattoli dei bambini sparpagliati per terra. E tanto sangue.
“Non posso descrivere la scena meglio di così. Ma era una cosa terribile.
“È terribile solo ricordarselo.
“Io uscii fuori e vomitai in mezzo ai fiori, Curt Bloedell corse alla Packard, prese il suo 22 e iniziò a sparare in aria. Credo che si sarebbe fatto male se Charlie e io non l’avessimo fermato. Piangeva come un bambino.
“E io continuavo a pensare, quei poveri piccoli!
“Avremmo telefonato alla polizia dalla baracca stessa se ci fosse stato il telefono, ma Ben non l’aveva mai fatto installare. Allora prendemmo la macchina e corremmo alla parrocchia (è un miracolo se nessuno ci rimase secco in quella corsa), dicemmo al reverendo Dahlquist quello che era accaduto, e lui chiamò la polizia.
“Mentre aspettavamo la polizia, decidemmo assieme che non avremmo parlato dei bambini.
“La custodia statale avrebbe significato un orfanotrofio, o Dio sa cosa, e noi pensammo che era meglio sbrigarcela noi della chiesa… magari in quel modo si poteva tenere un occhio sui ragazzini. E in più, il reverendo Dahlquist e la moglie di Charlie Dagostino avevano sentito della situazione di Jeanne…
“Immagino che ti abbia detto anche questo.
“Capisco.
“I poliziotti ci interrogarono, e dapprima furono un po’ sospettosi. Ma io e Curt e Charlie non avremmo mai potuto fare una cosa del genere, neanche con il 22, e non avevamo tracce di sangue addosso, né niente di simile. Raccontammo loro dell’uomo che avevamo visto e dell’aspetto che aveva la casa. Il reverendo Dahlquist raccontò loro che ci aveva mandati lì perché aveva paura che Ben si fosse ubriacato e stesse picchiando la moglie. Quanto alla polizia, forse perché non riuscivano proprio a capire che cosa fosse accaduto e perché, sembrò che non volessero indagare ulteriormente. Per loro non erano altro che due vagabondi morti in circostanze sospette; niente di più. E nessuno di noi tre ne parlò mai agli altri, dopo quella notte.
“Ma ancora oggi… ancora oggi mi capita a volte di sognarla.”
Karen non sapeva che cosa dire. Era troppo sconcertante, troppo orribile.
Willis continuò.
— Io non ci capisco niente. E non pretendo dir capirci niente. Ma so ciò che provai la prima volta che vidi Tim fare il suo giochettino. Era fuori in giardino, a Costantinopole Street, una sera d’estate, ed era circondato dalle lucciole. Voi due eravate in casa, Jeanne stava facendo il bagno, e io ero là fuori che curavo il piccolo. Stava inseguendo le lucciole. Correva per tutto il giardino ridendo e cercando di prenderle. E poi, all’improvviso, disegnò un cerchio nell’aria con la sua manina. Il cerchio era pieno della luce delle lucciole, e nella luce c’erano delle sagome. Visi e corpi, e delle cose con le ali. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, ma io pensai… ne ero certo… che era l’inferno stesso che Timmy aveva aperto. E non riuscivo a fare a meno di pensare all’uomo con il cappello grigio e al modo in cui guardava me, Charlie e Curt Bloedell, e poi il sangue e i pezzi di corpo nella baracca.
“Presi Timmy, e gliene diedi tante da farlo quasi svenire.”
Karen non disse nulla.
— Non mi ha certo fatto piacere — disse Willis con tono piatto. — Ma volevo che lui ne avesse paura. Se questo significava che doveva avere paura di me, che così fosse. Qualunque cosa avesse fatto, io sapevo dove portava. Portava a quella baracca… a quei corpi.
— Ma non funzionò — disse Karen a bassa voce.
— Tim mi ha sempre combattuto — Willis si grattò la faccia con la sua manona callosa. — Mi odiava. L’hai detto tu stessa.
— E quando traslocavamo — disse Karen — era per via dell’Uomo Grigio.
— Magari lo vedevo per la strada. O uno di voi lo nominava. O magari lo vedeva Jeanne. E allora scappavamo.
— Ma lui ci trovava sempre.
— Prima o poi.
— Avresti dovuto dircelo, prima che ce ne andassimo di casa — disse Karen.
— Io ho sempre pensato… sembrava che desse la caccia a Timmy. E a volte pensavo che era Tim che lo faceva venire. Lui non aveva paura di quell’uomo. Non so bene quello che accadeva… forse Tim aveva qualche genere di rapporto con lui. — Spense il mozzicone della sigaretta con la suola della scarpa. — Per anni ho creduto che quell’uomo fosse il Diavolo.
Karen capì che questo era senz’altro vero. Suo padre proveniva da una tradizione di fondamentalismo del genere capelli corti/camicia, ed era più che possibile che credesse in un diavolo con un vecchio cappello grigio. E considerando quanto aveva visto, non era poi un’idea così assurda.
— E lo credi ancora, questo? — chiese lei.
— Non so più che cosa credere.
Guardò suo padre mentre gettava uno sguardo cupo fuori dalla finestra. La luminosità pomeridiana era svanita. L’aria che entrava nella stanza era gelata. Guardandolo mentre fissava il radunarsi dell’oscurità, Karen disse: — Tu volevi che noi avessimo paura.
— Sì — rispose Willis con voce piatta.
— Perché tu avevi paura.
Ma lui non rispose.
Il giorno prima che partissero, Jeanne Fauve prese da parte sua figlia Laura e le sussurrò in un orecchio: — E adesso dove andrete?
Erano in piedi in salotto con il tappeto persiano consumato e l’incessante ticchettio dell’orologio sul caminetto. L’aria era secca e ferma. La stufa ronzava. Al piano di sopra, Michael e Karen stavano facendo le valigie.
— Non lo so — disse Laura. — Forse a Burleigh, per vedere che cosa riusciamo a scoprire.
— Io credo — disse sua madre — che se siete determinate ad andare a fondo, dovreste parlare a Tim.
— Sai dove si trova? — chiese Laura.
— Non proprio. Ma abbiamo ricevuto questa a Natale… forse vi può essere utile?
Jeanne estrasse la cartolina dalla tasca del suo grembiule trapuntato. Non era una cartolina natalizia, ma una normale cartolina illustrata, con una foto del Golden Gate Bridge visto dall’alto e gli edifici bianchi sulle colline più in là, come nel sogno di una città di qualche pittore.
Era l’unica notizia che aveva ricevuto da suo figlio negli ultimi dieci anni.
Laura la prese. La girò, e lesse il messaggio. Diceva solo Buon Natale, ma lei riconobbe, dopo tutti quegli anni, la calligrafia di Tim. Il messaggio era misterioso; non vi si leggeva né ironia né sincerità.
Ma c’era anche un indirizzo del mittente, oscuro e scritto in piccolo in cima alla cartolina. Qualche posto a San Francisco.
Laura alzò lo sguardo con aria cupa.
— Grazie — disse.
— State attente — disse sua madre.
Quell’ultima notte nella casa di Polger Valley, Karen rimase sveglia e scrisse il suo diario.
Folata di vento alla finestra, scricchiolio della penna sul foglio.
Penso a papà, scrisse.
La penna si fermò sulla pagina.
Scrisse: Lo porto dentro di me, e l’ho portato dentro di me per più tempo di quanto non immaginassi.
Lui è in buona fede, scrisse.
Ma poi cancellò tutto.
Scrisse: Noi crediamo di vivere in un luogo, o di conoscere una persona, o di avere un genitore, ma non è vero. Noi siamo queste cose. Sono loro che ci costruiscono. Noi siamo fatti di queste cose.
Io sono fatta di Willis, scrisse Karen. Lo vedo nello specchio più spesso di quanto non lo desideri. Sento la sua voce nella mia.
Si rese conto che le tremava la mano.
Scrisse, calcando forte la punta della biro: Penso anche a Michael.
Michael è fatto di me.
E in questa faccenda pericolosa che abbiamo intrapreso… caro Dio, scrisse, Non so se questo gli basterà.
Chiuse il diario, e stava per spegnere la piccola lampada della scrivania quando sentì la voce di Laura: — Aspetta.
Karen si voltò di scatto. — Mi hai fatto prendere uno spavento… non sapevo che eri sveglia.
— Non volevo interromperti.
Erano sole nella stanza, con la neve di mezzanotte ammassata sul davanzale e il leggero e distante ronzio della stufa. Karen portava una vestaglia trapuntata sopra la camicia da notte; Laura era infilata sotto le coperte.
— Che visita è stata — disse Laura.
Karen sorrise. — Un inferno di visita.
— Trovatelli — disse Laura.
— Zingari — disse Karen.
— Siamo noi. — Laura si alzò a sedere, stringendosi le ginocchia. — Hai guardato nell’ultimo cassetto?
Karen fece una smorfia. Non le erano mai piaciute tanto le sorprese. Ed era stanca. Ma aprì il grosso cassetto lentamente.
— Oh — disse. — Oh, mio Dio.
— Anche tu te li ricordi?
Karen prese la bambolina rosa e carnosa. Era piccola. Era nuda. La polvere aveva iniziato a infiltrarsi nei pori della plastica.
— Baby — disse. Guardò Laura con aria assorta. — Non era un sogno.
— Niente di tutto questo è mai stato un sogno. È questa la parte che spaventa, non è vero?
Karen le raccontò il sogno che l’aveva periodicamente visitata per quasi tutta la sua vita; la casa di Costantinopole e la porta aperta da Tim in quella fredda città industriale. Laura annuì. — È più o meno come me la ricordo io. Tim era sempre l’esploratore. Forse lo è ancora.
Karen rimise la bambola dove l’aveva trovata. C’era un che di spiacevole nella sensazione tattile della plastica. — Credi che riusciremo a trovarlo?
— Credo che dovremmo provarci.
— Credi che ci odi ancora?
— Credi che ci abbia mai veramente odiati?
— Non lo so — disse Karen. La domanda la preoccupava. — È passato tanto tempo…
Sbadigliò, pur non volendolo. — Ehi, ho sonno anch’io — disse Laura. — È ora dormire. Ci aspetta un lungo viaggio domani mattina.
Ma lasciarono la luce accesa per tutta la notte.
Willis aiutò Karen a portare l’ultima valigia alla macchina.
Jeanne li guardò dalla veranda, avvolta in un pesante cappotto di panno. Era una giornata fredda ma limpida; il cielo era di un profondo azzurro invernale. Si erano già salutati. Michael e Laura erano barricati in macchina, e il motore girava impazientemente.
Willis esitò un attimo prima di chiudere il portabagagli. I suoi occhi erano imperscrutabili, sotto le lenti bifocali.
Appoggiò una mano sulla spalla di Karen. — Capisci perché l’ho fatto?
Lei seppe subito che cosa intendeva con questo. La paura, pensò, quel mutismo prolungato… e le botte.
Annuì, a disagio.
— Ma questo non vale proprio un cazzo, giusto? — disse Willis. — Capire non migliora niente, giusto?
Lei lo fissò, con il suo giubbotto invernale a quadrettoni, il suo cappello da cacciatore, i capelli grigi tagliati a spazzola o le guance con la barbetta rada.
— No — disse tristemente. — Non cambia niente.
— Ti auguro buona fortuna — disse Willis.
— Grazie — rispose lei.
— Se potessi aiutarvi… — Ma non si muoveva. Stava lì in piedi, rigido. Le sue mani erano flosce e immobili.
Karen salì sul sedile davanti accanto a Laura, chiuse il finestrino, e non guardò indietro. Non voleva che papà la vedesse, perché stava piangendo. Come era successo? E che senso aveva?
Willis rimase lì impalato a lungo, guardando l’automobile che scompariva su per la strada.
Un vento gelido soffiava da nord e spazzava la valle del Polger, le sue guance erano rosse e bruciavano, ma Willis non ci fece caso. Osservò la macchina che scompariva dietro l’angolo di Riverside, e rimase lì anche dopo, con una mano sollevata a proteggersi gli occhi dal sole, fissando lo sguardo oltre le vecchie case a schiera, fino al lontano nastro marrone del Monongahela.
Fu sorpreso quando sentì le mani di Jeanne sulle sue braccia, che lo conducevano dolcemente su per la veranda.
— Vieni dentro a scaldarti — disse lei.
La sua voce era dolce. Ma l’aria gelida rimaneva, le stanze erano tutte troppo grandi, e le ombre erano affollate di voci e di tempo.