Robert Charles Wilson Vagabondi del sogno

PARTE PRIMA Il confine della Terra

1

Sola nel suo letto, Karen White ebbe un sogno familiare.

Certi sogni sono come capsule di vita, che sommate costituiscono qualcosa, e la definiscono. Il sogno di Karen era uno di questi. Come un secchio dal pozzo buio del suo passato, arrivò colmo.

Nel periodo più felice della sua vita, quel sogno ricorreva molto raramente; ma ora, con tutti i problemi che aveva, le capitava sempre più spesso.

Il sogno non cambiava mai. Avrebbe potuto essere completamente di sua invenzione come avrebbe potuto non esserlo affatto. Richiamava un periodo della sua esistenza nel quale l’illusione e la realtà erano più fluide, e le certezze poche… un periodo spaventoso.

Era già passata la mezzanotte ormai; Gavin se n’era andato per sempre, e Michael non era ancora tornato a casa. Sognò di nuovo.

Nel sogno Karen è ancora bambina, e si sveglia prima dell’alba nella sua camera da letto della vecchia casa di Costantinopole Street.

La stanza è buia. È una notte d’estate. La finestra è aperta, e una piacevole brezza giunge attraverso la zanzariera. Seguendo un impulso, o forse attirata da un rumore, si alza, attraversa la stanza a piedi nudi e tira le tende, che si aprono con un dolce fruscio.

L’aria è bella. Karen sbadiglia, sbatte le palpebre, e poi rimane a bocca aperta, esterrefatta: Laura e Timmy sono fuori in giardino.

Sono la sua sorellina e il suo fratellino minori. Karen ha nove anni; due più di Laura e quattro più di Tim, e si considera già grande. Come sono infantili, pensa, guardandoli camminare a piedi nudi sotto la luna in mezzo a quell’erba alta punteggiata di soffioni. Ma è tardi. È passata mezzanotte, anche se non è ancora spuntata l’alba. Che cosa ci fanno là fuori a quell’ora terribile?

Mentre li osserva, loro la vedono alla finestra. Laura, la più impulsiva, la indica con un dito, e Karen si sente improvvisamente al centro dell’attenzione, come sotto a un riflettore.

Tim, che ha compiuto cinque anni in dicembre, le fa cenno di andarsene con una mano. Vattene, sembra dire con quel gesto. Tu non capisci. Torna a dormire. Nota l’espressione di disgusto sulla sua faccina rotonda, ed è tentata di lasciar perdere… in fondo, qualsiasi cosa stiano facendo, vuole veramente esserne partecipe?

Ma anche Laura sta facendo dei gesti. Sorride. — Ehi — la chiama con voce roca, quasi sussurrando, e il sussurro sale fino alla finestra aperta. — Ehi, Karen! Dai, sbrigati, Karen!

Spaventata, ma anche leggermente incuriosita, Karen scende dalle scale buie in punta di piedi. Mamma e papà dormono; esistenze pesanti nell’oscurità profonda della loro camera da letto, la cui porta è socchiusa; sente la loro presenza nella stessa misura in cui li vede. Papà sta russando; individua il profilo delle sue spalle, e gli occhiali abbandonati sul comodino. Il suo russare è elaborato e mascolino.

Si arrabbierà tantissimo se ci scopre, pensa Karen. Decide di sgridare suo fratello e sua sorella. Specialmente Tim; è lui che combina sempre guai. C’è una brutta vena in lui, dice papà. Ha cinque anni, e legge già con voracità. Divora i giornalini sull’espositore dello spaccio perché papà non glieli lascia comprare o portare a casa. L’uomo dello spaccio urla sempre quando lo scopre a leggere a quel modo. Ma Tim, ovviamente, non ci fa caso.

C’è Tim dietro a tutto questo, pensa Karen.

La casa di Costantinopole Street ha un piccolissimo giardino che confina con una gola. È una vecchia casa a schiera di Pittsburgh su una via scoscesa. Dall’ingresso filtra un poco di luce. Oltre il cancello del retro, con i suoi arabeschi di ferro arrugginiti, le lucciole danzano sull’invitante bordo della gola. È buio, e dovrebbe essere un luogo spaventoso; in effetti lo è, ma Tim e Laura stanno già scostando il vecchio appendiabiti contorto che tiene chiuso il cancello con il suo intrico di fil di ferro.

È stato ben detto loro di non andare nella gola!

Senza fiato, sentendosi vulnerabile nella sua camicia da notte, Karen raggiunge i fratellini. Pretende una spiegazione, e li vuole riportare a letto. Tu sei la maggiore, le ha detto papà, la responsabilità è tua. Sei tu che li devi accudire. Ma Laura mette il dito davanti alle labbra, e si produce in un sorriso furtivo, mentre Tim forza il cancello.

Uno per uno, in fila indiana, attraversano la stradina e si infilano in un sentiero umido, che conduce nel buio del bosco. Procedono seguendo la luce della luna e il loro istinto. Karen cerca di indovinare il percorso, senza perdere d’occhio la pallida sagoma di Laura che marcia davanti a lei. Camminando, si rende conto di essere a piedi nudi. Sente il terreno freddo, umido e compatto, sotto ai suoi piedi. Le foglie appiccicaticce degli alberi le sfiorano il viso. La casa è sempre più lontana, con tutto il suo calore e la sua sicurezza, finché non scompare totalmente dalla vista alle loro spalle.

— Eccoci — dice infine Tim, con un tono stranamente autoritario nella voce acuta. Sono in una piccola radura del bosco, una specie di piazzale coperto di erbacce in mezzo agli olmi. Si fermano, e aspettano.

L’attesa non ha nulla di strano. C’è una certa elettricità nell’aria, e il terreno sembra quasi emettere un ronzio. Karen ora vede le stelle, un poco spente dal bagliore delle luci della città, ma ugualmente luminose e scintillanti. Nel sottobosco, si avvertono leggeri movimenti. Procioni, pensa. Un piccolo insetto le si arrampica su un piede.

— Fallo ora — sussurra Laura. — Ora, Tim.

Tim si volta verso di lei. In quella luce ha un’aria talmente adulta che sembra un vecchio saggio. Annuisce con il capo.

Alza una mano.

Per un attimo Karen pensa che stia giocando a fare il direttore d’orchestra; il gesto è quello, drammatico ma un po’ infantile. Scuote il capo e lo guarda meglio.

Ma non sta facendo il direttore d’orchestra.

La sua mano irradia luce.

Con fare solenne, disegna nell’aria una grande “U” capovolta. Un arco, con le due gambe piantate solidamente nel terreno e l’apice all’altezza massima raggiungibile da un bambino di cinque anni. La sua mano si muove lentamente, e il suo viso è contratto in una smorfia di concentrazione spaventosa. Sarebbe una scena comica, se non stesse avvenendo un miracolo. Quando l’arco è completo, l’aria al suo interno sembra incresparsi.

Tim fa un passo indietro, asciugandosi la fronte.

La luce fredda svanisce, ma la “U” capovolta rimane, uno spicchio di oscurità ancor più profonda.

— Te l’avevo detto — dice Tim a Laura, senza degnare Karen neanche di un’occhiata. La sua voce di bambino ha un tono spietato: — Chiedimi scusa.

— Scusa — dice Laura. Ma non è contrita. Il suo tono la tradisce; è affascinata. — E possiamo attraversarlo? Sul serio?

— No! — esclama improvvisamente Karen. La sua voce è potente nell’oscurità. Sa di che cosa si tratta; sa che cosa direbbe papà. Non si fa, non si fa e non si fa. — Che nessuno si avvicini!

Sente l’odore del suo stesso panico.

Tim la guarda con disprezzo. — Tu non dovresti neanche essere qui.

Questo la fa arrabbiare. — Tornate a letto!

Lei ha nove anni. Lui ne ha cinque. Lui la ignora. — Vattene a letto tu — le dice.

La freddezza della sua voce la stupisce.

Laura li osserva. Laura è la sorella più piccola e, ormai Karen l’ha capito, anche la più carina. Laura ha gli occhi grandi e le labbra piene dei bambini.

Karen, a nove anni, e ancora un po’ tirata, leggermente stretta in viso. Mamma dice che è il viso di una che si preoccupa troppo.

La mia preoccupona; così la chiama.

— Andremo tutti — interviene Laura con tono deciso. — Solo un pochino — e la sua manina si chiude sul braccio della sorella. — Non lontano.

E prima che Karen possa fermarli, prima ancora che riesca a pensarci, hanno già attraversato l’arco tutti e tre.

Non è facile capire che cosa sia accaduto, per lei. Un attimo prima si trovavano nel profondo del bosco, e ora sono in qualche luogo buio e duro. Sotto ai suoi piedi c’è un pavimento di ciottoli, e l’eco del suo respiro rimbalza come fra due muri. Un vicolo. Sbatte le palpebre, atterrita. Vede dei bidoni di metallo stracolmi di spazzatura. Un topo (si tratta chiaramente di un topo, e non di un procione) si aggira in mezzo ai rifiuti, annusando qua e là. In fondo al vicolo, le luci della strada creano ombre lunghe e inquietanti.

— L’oceano — ricorda Laura a Tim. — Hai detto che avremmo potuto vedere l’oceano.

— Da questa parte — dice suo fratello.

Il cuore di Karen batte contro le sue costole. È una pazzia, pensa. Quale oceano? Non esiste oceano. Noi viviamo a Pittsburgh, in Pennsylvania! Ricorda vividamente una parte di geografia imparata a scuola. Le uniche masse d’acqua che lambiscono Pittsburgh sono i fiumi Allegheny e Monongahela, che si uniscono per creare il potente Ohio. Una volta ha fatto anche una gita in barca. Si ricorda i vecchi ponti di travi d’acciaio e la soggezione che le avevano ispirato. Non c’è nessun oceano, lì.

Ma svoltano l’angolo, seguono la strada, che lei non riconosce, e Karen riconosce nell’aria l’odore piccante del sale, assieme a qualcosa di più aspro: ozono. E delle grida distanti, che potrebbero essere quelle dei gabbiani in amore.

La strada stessa è talmente strana che lei si sente come se dovesse ricordarla. Anche gli edifici sono strani; strutture a due o tre piani, con quell’aspetto tratteggiato delle case delle fiabe che ha visto nei suoi libri di favole, con i comignoli di mattoni che si stagliano contro il cielo nuvoloso. (Ma non c’erano le stelle, prima?) Il vento è fresco, anzi peggio, è freddo, e lei indossa solo la camicia da notte. Il suo tallone nudo scivola su una vecchia lisca di pesce abbandonata sui ciottoli scuri. Afferra il braccio di Laura.

Salgono su una collina.

Improvvisamente, la città si estende sotto di loro.

La confusione di Karen diviene completa: questa non è Pittsburgh!

Non è Pittsburgh, ma è sempre una città molto grande. Per lo più è caratterizzata da un tipo di architettura un po’ pretenziosa, dalle vie strette e sinuose punteggiate di fabbriche e fonderie, che sono gli unici edifici illuminati, con le finestre alte e sbarrate che riversano all’esterno la luce rossa e gialla delle fornaci. Più in la, dopo un avvallamento, la città pare più moderna; Karen riesce a distinguere dei palazzi che assomigliano a quelli del centro (di Pittsburgh), solo che questi sembrano fatti di ossidiana nera oppure di lastroni tozzi e scoloriti. Sulla cima di uno di questi edifici è ancorato un dirigibile.

Ma più meraviglioso di tutto ciò, ecco il mare.

Dal punto in cui si trovano, la strada conduce ai moli. Ci sono file infinite di magazzini di legno. All’interno, dalle finestre cavernose, Karen vede gente che si muove. In un certo senso, è rassicurante vedere che ci sono delle persone. Suggerisce qualche genere di normalità. Se dovesse gridare aiuto, qualcuno la potrebbe sentire. Oltre i magazzini, un lungo pontile illuminato si insinua nell’acqua oleosa. Vi sono ormeggiate alcune navi; certe hanno alberi di legno, altre no. Una in particolare è immensa, come una petroliera.

La stranezza della scena inizia a farle un certo effetto. Ha la netta sensazione di essere arrivata, in un modo o nell’altro, in un luogo molto lontano da casa. Si è persa… si sono persi tutti. Pensa all’arco che ha disegnato Timmy nell’aria buia del bosco, la loro unica porta… sono in grado di ritrovarla? O è svanita?

— Va bene — dice. — L’abbiamo visto. Eccolo lì. Ora dobbiamo tornare a casa.

— Ha paura — dice Timmy a Laura. — Te l’avevo detto.

Ma Laura la guarda con comprensione. — No… Karen ha ragione. Dobbiamo tornare — rabbrividisce. — Fa freddo.

— Fa sempre freddo qua.

Karen non si ferma a pensare che cosa voglia dire. — Andiamo — dice.

Timmy emette un elaborato sospiro, ma decide di cooperare, trovandosi in minoranza. Tornano sui loro passi. La viuzza stretta, vista da questa direzione, sembra completamente nuova. Dentro Karen, la molla del panico si carica sempre di più… e se si fossero persi veramente?

Ma no, pensa, ecco il vicolo, laggiù. Stringe Laura più forte, come non volesse perderla. Afferra anche la mano di Timmy, che resiste per un attimo, ma poi cede.

La fiducia di papà non era riposta male. Lei è in grado di proteggerli.

Ma mentre si avvicinano all’imbocco del vicolo, un uomo spunta dall’ombra.

Li sta guardando fisso. È piuttosto alto, e indossa un vestito e un cappello, entrambi grigi. Sembra un tipo normale, come quelli che vanno a lavorare in tram la mattina. Ma c’è qualcosa nell’intensità del suo sguardo, nel modo in cui sorride, che amplifica la paura di Karen. Una ventata solleva il suo soprabito, e alcuni fiocchi di neve passano vorticando nell’aria.

— Salve — dice. — Come va?

Rimangono impalati, esterrefatti. La voce dell’uomo produce un’eco nella via deserta.

Sempre sorridendo, si avvicina con cautela di alcuni passi. Karen scorge qualcosa di familiare in quel volto, in quei lineamenti, in quegli occhi grandi… qualcosa che non riesce a collocare.

— Dobbiamo tornare — dice Timmy, per la prima volta con un filo d’incertezza nella voce.

L’uomo annuisce. — Lo so. Tutti devono tornare a casa prima o poi, non è vero? Ma guardate; ho dei regali per voi.

Infila una mano nel cappotto. Timmy aspetta, circospetto ma non spaventato. Conosce già quest’uomo, pensa Karen; è già stato qua.

Lo sconosciuto estrae dalle profondità delle sue tasche un fermacarte di vetro, di quelli che si scuotono e dentro nevica. Lo porge a Tim.

Il bambino rimane impalato a fissarlo.

— I regni della Terra — dice l’uomo.

Tim prende la sfera di vetro e la tiene in mano con aria solenne.

Il soprabito è magico, insondabile. Sorridendo, l’uomo infila nuovamente la mano ed estrae, esclamando “voilà!”, un piccolo specchietto di plastica rosa, del genere economico che si può comprare in drogheria. Lo porge a Laura.

— Avanti — le dice. — È un regalo per conoscerti meglio.

Una parte di Karen vuole strillare no. Ma Laura, con una smorfia, accetta il dono e l’osserva.

— La più bella del reame — dice l’uomo, sorridendo.

Karen si fa piccola piccola, sapendo che ora tocca a lei.

Lo sconosciuto la guarda direttamente negli occhi. Assomiglia agli uomini dei programmi televisivi, come Elliot Ness nella serie Gli Intoccabili; rozzo ma affascinante. Il suo sorriso è molto convincente. Ma i suoi occhi grigi sono freddi come la neve e vuoti come la strada.

Infila nuovamente una mano nel cappotto.

Questa volta, ne toglie una piccola bambola.

Un bambolina di plastica, nuda, circa delle dimensioni di un pollice. Non è un granché, ma lei stranamente ne è attratta. La colpisce soprattutto l’espressione del viso, grezzamente scolpita. Sembra chiedere aiuto.

Sopraffatta, afferra la bambola e se la infila in tasca.

— Il tuo figlio primogenito — dice l’uomo con voce dolce.

Le parole fanno scattare degli allarmi silenziosi dentro di lei. È come se si fosse risvegliata da un sogno. — Andiamo — dice, prendendo finalmente in mano la situazione. Stringe più forte le braccine carnose di Timmy e Laura. — Ora! — grida. — Correte, su!

Superano di corsa l’uomo grigio e si infilano nel vicolo.

L’oscurità nasconde la porta. Lei la trova grazie a una specie di sesto senso. Al di là, può già annusare il calore umido della gola.

L’oltrepassa, spingendo Tim e Laura davanti a lei. Dall’altra parte, il cielo sta iniziando a mostrare l’alba. — Dobbiamo sbrigarci — dice. — Su per la collina. Su!

Non è più il caso di disobbedire. Ormai il giorno imminente ha la priorità. I due bambini più piccoli corrono avanti.

Karen si ferma un attimo per guardarsi indietro. La porta, la porta di Tim, sta iniziando a scomparire. Svanisce; i bordi diventano indistinti, ma per un lungo momento lei può vedere ancora dall’altra parte, può vedere quella città portuale fredda e puzzolente di pesce, l’imbocco del vicolo, e l’uomo grigio che la fissa. Non accenna neanche a seguirli. Il suo sorriso è mellifluo.

L’immagine si dissolve sempre di più.

Lui alza la mano, e saluta.

La porta scoppia come una bolla di sapone, e Karen corre verso casa.

A quel punto il sogno finì. Karen si svegliò tremando, e guardò la sveglia.

12:45, annunciava il quadro digitale luminoso.

Era la terza notte di fila, ormai. Il sogno non era mai venuto così spesso, o così intensamente. Doveva significare qualcosa, pensò; ma cosa?

No, i sogni non significano nulla.

Allungò le braccia, avvicinandosi alla parte del letto di Gavin. Ma il letto, naturalmente, era vuoto.

Era quasi un mese, ormai, che era vuoto.

Si sentì stupida, e si vergognò di se stessa. Si vergognò di quel desiderio fugace che il suo corpo aveva tradito. Erano tempi duri, pensò, ma la vita andava avanti, e non era certo il momento di perdere la testa. A bassa voce, recitò la filastrocca che si era inventata:

È solo un sogno.

I sogni non significano nulla.

E anche se non è un sogno, è successo tanto tempo fa.

Un quarto all’una, e Michael non era ancora tornato a casa. Lo avrebbe sentito entrare dalla porta; lo sentiva sempre. Be’, ma in fondo era venerdì sera, e non gli aveva dato un orario particolare. In passato non era stato necessario. Mike aveva solo quindici anni, aveva nuovi amici, e solo ultimamente aveva iniziato a mostrare un certo interesse per le ragazze. La sua fioritura era positiva, e Karen l’aveva incoraggiata… era una buona distrazione dal divorzio. Ma ora iniziava a domandarsi se non fosse un po’ eccessiva, come distrazione.

— Preoccupona! — si disse ad alta voce.

Si alzò dal letto e s’infilò la vestaglia.

Tanto di dormire non se ne parlava, almeno finché Mike non tornava. Infilò i piedi nelle pantofole e li posò sul pavimento nudo. Gavin aveva insistito molto per il parquet. Lui era così; tutto falsa austerità e abete lucidato. Karen pensò che forse avrebbe preferito la moquette. Le piaceva quella sensazione sotto ai piedi. Ammorbidiva tutti gli angoli duri… ed era calda.

Nella casa nuova, si disse con fermezza, avremo la moquette. Da una maledettissima parete all’altra.

Il trasloco era inevitabile. Riceveva degli alimenti da Gavin, ma bastavano a malapena a coprire le spese. Comunque fosse andata la causa di divorzio, lei e Michael avrebbero avuto bisogno di una nuova casa. Aveva già iniziato a impacchettare le cose, anche se un po’ a casaccio; la camera da letto era piena di scatole di cartone. Odiava quelle scatole, la loro massa ingombrante lungo la parete, come per angosciarla, per ricordarle come la sua vita poteva spezzarsi così velocemente e completamente.

A pianterreno, si scaldò del latte e si preparò una cioccolata calda. Versò dell’altro latte nel pentolino e lo mise a scaldare; magari Michael ne avrebbe voluta una tazza.

Accese una lampada e il televisore nell’austera sala di pino.

Non c’era un granché alla TV a quell’ora. Il comico David Letterman che opprimeva qualche ospite, e una serie di vecchi telefilm. Si sdraiò sul divano con il telecomando in mano e cercò il canale che trasmetteva un notiziario ventiquattr’ore su ventiquattro.

In Medio Oriente avevano fatto esplodere un autobus, lo sciopero dei servizi civili era alla sua seconda settimana, un uragano minacciava la costa sud-est… in altre parole, tutto procedeva come sempre. Tolse l’audio, ma lasciò l’immagine, il cui bagliore le dava la confortante sensazione di un’altra presenza nella stanza. Diede un’occhiata all’orologio del videoregistratore.

1:05.

Strinse la cintura della vestaglia e prese il suo diario e una penna dal cassetto del tavolo. Da quando Gavin se n’era andato aveva deciso di tenere un diario, una specie di promemoria; così aveva qualcuno a cui parlare, anche se si trattava solo di se stessa.

Ancora il sogno, scrisse.

Mordicchiò il cappuccio già segnato della Bic, e fece una smorfia.

È insignificante, scrisse. O almeno così voglio credere. Ma ricorre troppo spesso.

Sto cercando di pensare a che cosa accadeva realmente in quei giorni. La vecchia casa di Costantinopole. Era il 1959, forse il 1960. Non ho dei ricordi veri e propri, a meno che il sogno non sia un ricordo. Ma ho ben presente la casa. La camera da letto mia e di Laura, quella di Timmy, quella di mamma e papà, con la grossa scrivania di legno e il tappeto afgano di nonna Fauve. Le scale, l’orologio sopra il camino, e il grosso televisore RCA Victor.

Esitò per un attimo, poi continuò: La bambola.

Una memoria, si chiese, o uno strascico del sogno?

— Baby — sussurrò. La bambola si chiamava Baby.

Ricordo papà che guarda Baby. — Dove l’hai presa questa, Karen?

I suoi occhi grandi, e la barbetta rada sulle guance.

— Me l’ha data un uomo — gli dissi.

— Che uomo? Dove?

Non riuscivo mai a mentirgli. Gli raccontai di Timmy, della gola, della porta, della città buia.

Era più arrabbiato di quanto non lo avessi mai visto. Attesi che mi colpisse, ma invece corse nella camera di Timmy.

Timmy urlava…

Si ricordò di come si era accucciata nel suo letto, coccolando Baby. Papà aveva picchiato Tim con la cintura, e Tim aveva urlato. Ma il ricordo era incompleto, nebuloso; più cercava di ricordare, più i ricordi scivolavano via. Al diavolo, pensò.

Non molto tempo dopo avevano traslocato da Costantinopole Street. Da lì erano andati a… ci pensò su… all’appartamento nel West End. Giusto. Poi un anno a Duquesne, e poi un’altra dozzina di luoghi.

— Noi siamo come zingari — le aveva detto una volta sua madre. — Non ci fermiamo mai a lungo in un posto.

Karen mise da parte il diario, depressa come non mai.

1:15, diceva l’orologio.

All’1:23 sentì la chiave che si infilava nella porta d’ingresso. Prese in mano la tazza, cercando di assumere un’aria indifferente. La cioccolata era ormai gelida.

La porta si aprì, e apparve Michael.

— È tardi — disse Karen con tono tranquillo.

— Lo so — Michael si scrollò di dosso il suo giubbotto di pelle consunto, e lo appese. I suoi capelli scuri erano spettinati, e aveva le occhiaie. — Mi spiace, Ma’. Non credevo che saresti rimasta sveglia.

— È solo che non riuscivo a dormire. Vuoi un po’ di cioccolata?

— È meglio che me ne vada a letto.

— Una sola tazza — disse Karen, stupita della disperazione nella sua stessa voce; aveva così tanto bisogno di compagnia? — Ti aiuta a dormire.

Stancamente, suo figlio sorrise. — Va bene. Certo.

Si sedettero in cucina, leggermente a disagio sulle sedie di plastica nera dall’alta spalliera. Da una parete di porte scorrevoli in vetro si scorgeva il buio del giardino. Karen sentì le ombre del suo sogno che si muovevano come una creatura separata dentro di lei. Si alzò in piedi, tirò le tende, e tornò a sedersi, stringendo forte la tazza con entrambe le mani. Le sue dita erano fredde.

Michael aveva appoggiato i piedi su un’altra sedia. Era un bel ragazzo, pensò Karen; una bellezza fragile. I capelli scuri lo facevano sembrare più pallido; era magro, e sembrava più giovane della sua età. L’attrezzatura, da “duro” (giubbotto, magliettina stretta e jeans sbiaditi) non gli si addiceva affatto.

Karen si schiarì la gola. — Sei stato al cinema?

Michael annuì.

— Con Amy?

— Sì. Dan e Val ci hanno dato un passaggio in centro.

— Com’era il film?

— Bo, non era male. Sai, del genere inseguimenti in automobile — fece un sorriso forzato. — Boom. Crash.

— Non sembrerebbe un granché. — Tirò a indovinare: — Hai dei problemi con Amy?

— No, con Amy va tutto bene.

— È che mi sembri un po’ giù, tutto qua.

— Non per via di Amy.

— Per cosa, allora?

Dall’altra parte del tavolo, Michael la fissò. Era il suo sguardo serio. — Vuoi saperlo?

— Se me lo vuoi dire.

Appoggiò la schiena e si infilò le mani nelle tasche. — Ho visto ancora quel tipo.

Le parole caddero come pietre nell’aria ferma della cucina. Il frigorifero si zittì con un sussulto. Fuori, cantavano i grilli.

Era settembre ormai, e l’autunno si avvicinava.

— Stavamo tornando a casa in macchina — iniziò Mike con tono piatto — quando abbiamo svoltato su via Spadina, lui era lì, in piedi, davanti a un ristorante cinese. Il ristorante era chiuso, ed era un punto buio. Lui stava lì, in piedi. Come se stesse aspettando, capisci? E poi mi ha visto. Eravamo in quattro in macchina, ma lui guardava solo me — spostò la tazza della cioccolata, e appoggiò le mani sul tavolo. — Mi ha salutato.

Karen non voleva chiederlo, ma la domanda era come un impulso automatico. — Chi? Chi ti ha salutato?

Michael fissò lo sguardo nell’oscurità. — Lo sai, mamma.

L’Uomo Grigio.

2

Quella mattina, Michael non fece colazione.

— Dritto a scuola — gli aveva detto Karen. — E poi dritto a casa. D’accordo? Non voglio stare a preoccuparmi per te.

— Dritto a casa — le aveva risposto Michael, casualmente, ma con una certa serietà sotto sotto che forse nascondeva anche un po’ di paura.

Ma era una buona cosa, no?

Almeno sarebbe stato più attento.

Karen rimase alla finestra con la tenda aperta a guardare suo figlio che camminava lungo quella strada deserta di periferia finché non lo perse di vista, all’incrocio fra Forsythe e Webster, dove l’acero dei McBrides stava perdendo le prime foglie.

Il postino infilò una lettera nella fessura della porta. Era di Laura.

Karen se la portò in centro, sul sedile anteriore della sua piccola Honda Civic, fino al ristorante dove doveva incontrarsi con Gavin. Quando si rese conto che, come prevedibile, Gavin era in ritardo, tirò fuori la lettera dalla borsa e se la rigirò fra le mani un paio di volte. La busta era di una specie di carta spessa e simile a stoffa, come una pergamena; Pindirizzo del mittente era a una casella postale di Santa Monica, in California.

California. Le piaceva come parola. Irradiava calore, sicurezza e sole. Lì in quel ristorante di Toronto erano vestiti tutti in grigio autunnale o marrone autunnale; gente elegante del centro, sparpagliata come foglie fra quegli specchi e quelle mattonelle. Ogni volta che si apriva la porta, l’aria gelida le pungeva le braccia.

Aprì la busta lentamente, con un movimento esitante che era allo stesso tempo impaziente e riluttante.

“Cara Karen”, iniziava la lettera.

Occhielli ampi e inchiostro scuro. Mentre leggeva, le parole presero il contralto ruvido della voce di Laura.

Ho ricevuto la tua lettera e ci ho rimuginato sopra. So che non sono affari miei, ma dato che me lo chiedi, eccoti alcuni miei pensieri.

Innanzitutto, mi dispiace veramente per te e Gavin. Non so se ti sarà di consolazione, ma io penso che hai ragione al cento per cento (anche se, come mi hai detto, il divorzio non è stata un’idea tua.) Noi zingari non siamo tagliati per la vita da piccoli borghesi.

Mi rendo conto che deve essere stato un colpo per te. E poi, naturalmente, c’è Michael. Quindici anni… Mio Dio, ma come è mai possibile? Mi piacerebbe molto incontrare il mio unico nipote. È così carino come in fotografia? (Non dirgli che ho detto così.) Lo dò per scontato. È un rubacuori. Si sta adattando?

Io sono convinta che dovremmo essere più che parenti da cartolina natalizia. Sarebbe bello potervi vedere ancora entrambi.

Sì, sorellona. È un’allusione.

Ascoltami, Karen; alla radio suonano vecchie canzoni, e mi vieni in mente tu. “Getta il tuo destino al vento”: ti ricordi? Come consiglio, è meglio di quello che ti immagini.

Sto parlando sul serio. Alla zia Laura farebbe piacere la vostra compagnia.

Vi posso ospitare per una settimana, per un mese, o per tutto il tempo che volete. Con preavviso o senza.

Se non puoi dire sì, di’ almeno forse. Chiedi, e ti darò le indicazioni, ma RSVP.


Era firmata con il corsivo esagerato e inconfondibile di Laura. Nonostante la sua apprensione, leggendola riuscì a sorridere.

P. S., era scritto sotto l’ultima piega della lettera.

L’epoca dei miracoli non è ancora finita.

Il suo sorriso svanì. Alzò lo sguardo, e vide Gavin in piedi dall’altra parte del tavolo. Gavin la fissò per un attimo con aria altezzosa e poi disse: — Hai un’aspetto veramente schifoso.

Karen sospirò. A quanto pareva, in quei giorni gli piaceva esordire in quel modo. — Be’ — disse — tu invece no. Hai un aspetto impeccabile. — Ed era vero.

Gavin si preoccupava molto del modo di vestire. Leggeva con attenzione le pagine della moda su Esquire con la stessa solennità con la quale un generale pianifica una campagna militare. Era alto, e aveva un bel fisico, che aveva sviluppato alla palestra dirimpetto al suo ufficio. Odorava di deodorante Brut. — A parte gli scherzi — disse, sedendosi e guardandola negli occhi. — Stai dormendo bene? Hai l’aria stanca.

— Be’, lo sono… diavolo, sì, sono stanca.

— Non volevo offenderti.

— No — disse. — Lo so. — Era solo quel suo modo di parlare… truce, pensò con disperazione. Ma la cosa importante, ora, era che Michael era in pericolo. — Siamo qui per parlare.

Per parlare. Sembrava un’idea così infausta, che invece ordinarono il pranzo. Erano in un ristorante che conosceva Gavin, vicino al suo ufficio. Lui si trovava nel suo elemento. Ordinò un’insalata di mare e una birra leggera. Karen prese un piatto di formaggio magro e della frutta. Gavin parlò un po’ del suo lavoro, e Karen gli raccontò come stava andando Michael a scuola. Stavano parlando, pensò Karen, e questo era già un buon inizio, ma non parlando veramente; non menzionò neanche l’Uomo Grigio.

Una volta, parlare con Gavin era facile per lei. Si erano incontrati all’università di Penn State, dove Karen era un anno indietro nel corso di lettere. Gavin era un giovanotto insoddisfatto; non un ribelle accidentale come andava di moda a quei tempi, ma solo un ragazzo alla ricerca di un modo per dare significato alla sua vita. Era canadese,e aveva deciso di tornare a casa finita la scuola, e di studiare legge. La legge, diceva, era un modo per entrare nelle vite della gente. Era lì che si poteva esercitare un certo potere, che si poteva creare la differenza, cambiare le cose in meglio. Vogliamo tutti cambiare il mondo, pensava Karen, ricordandosi il ritornello della canzone dei Beatles che ora veniva usata come pubblicità per le scarpe Nike. Forse la Nike era uno dei clienti di Gavin.

Il divorzio non era ancora risolto. Nel linguaggio di Gavin, erano “separati”. “Separati” significava che lui l’aveva lasciata nel maggio precedente per andare a vivere con la sua amante nell’appartamento di lei davanti al lago. Per Karen era stato uno shock; la separazione, l’amante, tutto. Gavin recitava con la stessa impeccabilità con la quale vestiva; lei non aveva mai sospettato nulla. Lui gliel’aveva semplicemente detto, una mattina a colazione. Le cose fra noi due non vanno molto bene. Lo so io, come lo sai tu. Molto freddo. Io me ne vado… Si, so dove andare… Si, c’è un’altra donna.

Karen odiava questa situazione. Odiava tutto. Odiava la sua infedeltà, e odiava il fatto che avesse già definito il suo ruolo: la moglie gelosa. Be’, al diavolo, si era detta. Io posso essere fredda quanto lui.

Così, aveva cercato di andare avanti con allegria; nessuna lite, nessuna scenata. Ma ora si chiedeva se non fosse stata semplicemente un’altra resa da parte sua. Gavin, l’avvocato, vedeva la vita come un gioco, uno sport duro giocato sul serio, e quello che aveva ottenuto con Karen era una specie di scacco matto. E questo perché lei nascondeva i suoi sentimenti, e di conseguenza lui non era costretto ad affrontarli.

Era stata giocata e superata in astuzia.

Ma non più. Ora c’erano troppe cose in ballo. Si era preparata una lista prima di uscire di casa: “Domande da fare”. Gavin premeva per iniziare le procedure legali, ma lei sapeva che non doveva concedergli nulla finché non vedeva il suo avvocato; finché non ne trovava uno. Tuttavia, voleva sottoporre alla sua attenzione la gestione della casa.

Voleva traslocare. Doveva traslocare. Non solo le suggeriva ricordi amari, ma c’era anche il problema dell’Uomo Grigio. Si sentiva sola e vulnerabile in quella grande casa di periferia; si sentiva circondata, assediata. Per il bene di Michael, era fondamentale che se ne andassero… e si chiese se non sarebbe stato meglio lasciare addirittura la città. Il punto era che lei non aveva alcuna fonte di reddito indipendente. La settimana prima era andata da un agente di collocamento, e quando lui le aveva chiesto un curriculum, Karen era stata costretta ad ammettere che non lavorava da quando era nato suo figlio. L’uomo l’aveva informata che le sue possibilità erano alquanto limitate.

Quello che le passava Gavin era poco, e lei non voleva chiedergli ancora denaro. Dopo il divorzio, probabilmente le avrebbe pagato gli alimenti. Ma questo sarebbe avvenuto nel futuro.

Quindi, aveva elaborato un piano. Avrebbero venduto la casa. Con la sua parte, Karen avrebbe potuto affittare un appartamento in qualche posto, e iscriversi a un corso professionale, come programmatore di computer, o qualcosa di simile. E gli alimenti, quando infine sarebbero arrivati, avrebbero mantenuto sia lei sia Michael.

Le era sembrata un’ottima idea, quando l’aveva pensata a casa; ma ora, al ristorante, non ne era più tanto convinta. Gavin si era imbarcato in una storia sulla ditta, politica d’ufficio, e non la finiva più. Il cameriere scappò via con il suo formaggio mangiato a metà, e lo sostituì con una tazza di caffè. Karen si rese conto, presa dal panico, che il pranzo era quasi finito, che il tempo era esaurito, e che il coraggio le era venuto meno. — La casa — disse improvvisamente.

Gavin sorseggio il suo caffè e si appoggio una nocca sul mento, pensieroso. — Che cos’ha?

Espose il suo progetto in fretta, balbettando. Lui ascoltò, con una smorfia. Non le piaceva quella smorfia. Era il suo sguardo paziente; il suo sguardo preoccupato; quello sguardo che lei si immaginava allenasse per i suoi clienti. La pensò come la sua espressione sì, ma… ; sì, ma ti costerà più di quanto non credi. Sì, ma dovremo andare in tribunale.

— È una buona idea — disse quando lei ebbe finito — ma è poco pratica.

Sembrava così sicuro di sé; la sua disinvoltura era schiacciante. Karen farfugliò qualcosa a proposito della proprietà comune, delle leggi sul divorzio… non era casa sua; non del tutto.

— Ma neanche tua — finì il suo caffè. — Te l’ho spiegato anni fa, Karen. Quella casa è intestata a mia madre, perché si possano scaricare le tasse. L’ha comprata dalle proprietà di papà. Davanti alla legge, noi non siamo altro che inquilini. Quella casa non appartiene a nessuno di noi due.

Aveva una vaga memoria di tutto ciò. — Ma tu avevi detto che si trattava solo di un cavillo legale.

— Tuttavia…

Karen si sedette in posizione eretta, stupita del suo stesso dispiacere, dalla profondità della frustrazione che si faceva strada dentro di lei. — Non dirmi che è impossibile. Potremmo pur fare qualcosa… — ma questo era un po’ troppo simile a una supplica. — Gavin… io ho fatto i miei progetti…

— Non dipende da me — disse lui. — È che le cose stanno così. Ma tu hai sempre avuto dei problemi in questo campo, vero? Avere a che fare con la realtà non è certo la tua specialità.

La tazza si rovesciò nella sua mano. Il caffè si versò sulla tovaglia, e la tazza cadde sul piattino. Si scostò dal tavolo zuppo.

— Per l’amor di Dio — disse Gavin a denti stretti.

Non aveva mai amato le scenate.

Se ne andò via in macchina, stordita.

Una volta a casa, si sentì febbricitante. Si versò da bere, e andò a sedersi con il suo diario. Si sentiva la mente attiva ma vuota; come un motore che gira in un’automobile ferma. Inaugurò una pagina nuova e scrisse:

“Cara Laura.”

Era come se scrivesse automaticamente, senza volerlo. Una cospirazione fra la penna e le sue dita. Si sorprese continuando:

Accettiamo il tuo invito. Michael e io saremo lì quando riceverai questa lettera. Staremo a quell’albergo di Santa Monica, lo stesso dell’altra volta. Se non c’è posto, lascerò un messaggio lì.

Con amore…


Strappò il foglio e lo firmò. Poi lo mise in una busta, dove scrisse l’indirizzo e aggiunse ESPRESSO URGENTE, dopo averla caricata di francobolli.

L’avrebbe spedita più tardi; o forse no. Be’, pensò, probabilmente no. Era un’idea stupida, impulsiva. Era solo arrabbiata per Gavin.

Accartocciò la busta. Poi, esclamando “Al diavolo!”, la lisciò nuovamente e se l’infilò in borsa.

Fuori, iniziava a fare buio.

Guardò il suo orologio.

Le sei passate. Michael era in ritardo.

Michael uscì da scuola alle quattro e un quarto, e iniziò a camminare verso casa, da solo.

Era riuscito ad evitare Dan e Valerie scendendo negli spogliatoi. Non voleva compagnia, e non voleva neanche uno strappo. Gli andava di stare solo.

Si domandò, non per la prima volta, se la solitudine non potesse essere la sua condizione naturale.

Viveva a sei lunghi isolati dalla scuola, e la via più breve per tornare a casa era giù per due viali residenziali serpeggianti, e poi attraverso un terreno che apparteneva a una compagnia elettrica, irto di pilastri dell’alta tensione, che cantavano con il loro demenziale e acuto ronzio ogni qualvolta la temperatura si abbassava. Era solo settembre, ma l’autunno incalzava seriamente. Notò che quel giorno il ronzio non c’era. Solo silenzio, e il rumore dei suoi passi sull’erba estiva, già marroncina.

Quel luogo gli piaceva; isolato, con i suoi alberi, i suoi campi, e le sue alte torri d’acciaio. Sulla sinistra c’erano delle casette in costruzione, le travi come costole nude; sulla destra, un piccolo boschetto di vecchi aceri. E al centro, c’era quel prato; un terreno da pascolo leggermente scosceso che appariva spelacchiato ai piedi dei piloni della luce. Camminandoci in mezzo, si sentiva sospeso fra due mondi; la scuola e la casa, la città e la campagna.

Il reale e l’irreale.

Sprofondò le mani nelle tasche della giacca e si riposò per un minuto, appoggiandosi a un cancello. Fra gli alberi, una cicala iniziò a cantare. Il vento, che era già un vento autunnale, gli scompigliò i capelli.

Si sentiva triste, e non ne capiva il motivo.

La tristezza era collegata a sua madre e collegata al divorzio; una parola che Michael aveva appena introdotto nel suo vocabolario. Senza dubbio, però, era collegata anche all’Uomo Grigio.

Ma la cosa peggiore, pensò, era che non aveva nessuno con cui parlarne. Specialmente non con sua madre, e specialmente non in quei giorni. Certe cose semplicemente non si potevano dire. Tutto andava bene, finché qualcuno non tirava fuori la parola sbagliata (letteralmente una parola, come “divorzio” ad esempio) che veniva seguita da un silenzio glaciale, che ti faceva capire che quella cosa terribile, quell’oscenità, non andava mai più menzionata. Non poteva dire la parola “divorzio” a sua madre; era un tabù, una non-parola.

Alla Tv, pensò, sarebbe stato più facile. Lei gli avrebbe chiesto come si sentiva, lui avrebbe ammesso qualcosa; senso di colpa, sofferenza, non importava che cosa, e magari avrebbe pianto un po’; ci sarebbe stato quello sfogo. E poi i titoli di coda. Tuttavia, lì fuori nel mondo vero, la realtà era diversa.

E non era solo il divorzio. Per Michael non era un grande problema accettare quell’idea; metà dei suoi amici avevano i genitori divorziati. Gli risultava molto più problematico accettare il fatto che suo padre vivesse con qualcun altro; una donna, una sconosciuta. Che aveva lasciato la sua famiglia per questo. Era difficile immaginare la vita di suo padre che procedeva serpeggiando come un fiume, abbandonando nel suo corso lui e sua madre, come fossero stati un punto stagnante, o un’isola troppo cresciuta. Michael non era arrabbiato, o per lo meno non lo era ancora, ma era confuso. Non sapeva come doveva reagire.

Doveva odiarlo perché se n’era andato?

Non gli sembrava possibile.

Doveva odiare sua madre per averlo fatto andar via?

Ma questo non era un pensiero ammissibile.

Forse non importava. Forse la cosa non lo riguardava. Questo era possibile. Aveva, e Dio sapeva quanto, altri problemi.

Ma ricordò quel momento, la settimana precedente, quando era entrato di soppiatto nella camera da letto di sua madre, aveva aperto il primo cassetto della sua scrivania, e aveva copiato il numero di telefono scritto sull’ultima pagina della sua rubrica… il numero della nuova casa di suo padre, l’appartamento sul lago che Michael non aveva mai visto.

Uno strano gesto, per uno al quale la cosa non interessava.

Ma il “divorzio” non era l’unica parola innominabile a casa sua. Ben più profonda e inquietante era la faccenda dell’Uomo Grigio.

Michael lo chiamava l’Uomo Grigio. Aveva trovato quel nome quando aveva sei anni, quando l’Uomo Grigio aveva iniziato ad apparire nei suoi sogni. Grigio per via degli abiti color grigio ardesia che indossava sempre, e grigio anche perché sembrava irradiare una sorta di grigiore, come un’aura, un’aura grigia. Persino la sua pelle era esangue e gessosa. Michael aveva capito molto presto che parlare di quei sogni disturbava sua madre, che qualsiasi altro incubo avrebbe suscitato un abbraccio o il permesso di dormire con la luce accesa, ma che l’Uomo Grigio avrebbe suscitato solo sguardi spaventati e dinieghi altrettanto spaventati. No, non esiste affatto. E smettila di chiedermelo.

Ma era una menzogna. Lui esisteva eccome. Lì fuori nel mondo, nel mondo vero, esisteva un vero Uomo Grigio.

Michael l’aveva visto per la prima volta quando aveva dieci anni. Stavano facendo una gita in macchina, e si erano fermati a un distributore lungo l’autostrada da qualche parte nell’Alberta. Una giornata calda, i finestrini abbassati, nient’altro che spazio vuoto e cielo azzurro attorno alla stazione di servizio; un tipo anziano che fa il benzinaio, e nell’ombra del negozio di souvenir, una figura scura in mezzo al disordine e alla polvere. L’Uomo Grigio. L’Uomo Grigio guardava da sotto il cappello dalla tesa piegata con uno sguardo fisso e attento che Michael aveva ricordato fin troppo bene dai suoi sogni.

Terrorizzato, si era rivolto a sua madre, ma anche lei aveva visto l’Uomo Grigio in quello stesso istante, e anche lei era terrorizzata. L’aveva capito dal modo in cui respirava, aspirando piccole boccate d’aria. Papà stava pagando il benzinaio, e la sua attenzione era concentrata sulla carta di credito che passava sotto lo stampigliatore fra le mani del vecchio, in un mondo a parte. Michael aveva aperto la bocca per parlare, ma sua madre gli aveva appoggiato una mano sul braccio, avvertendolo, come in un messaggio: Tuo padre non può capire. Ed era vero. Lo sapeva, senza neanche doverci pensare. Si trattava di qualcosa che divideva con sua madre, e solo con sua madre. Questa paura. Questo mistero.

L’Uomo Grigio non si era mosso. Era rimasto lì a guardare. Il suo viso era rilassato. Nei suoi occhi si leggeva una pazienza profonda e spaventosa. Li guardava mentre Gavin accendeva la macchina, li guardava mentre si allontanavano sull’autostrada. Aspetterò, promettevano i suoi occhi. Tornerò. E Michael l’aveva fissato a sua volta, seduto sul sedile posteriore, finché l’Uomo Grigio e la stazione di servizio erano scomparsi nel bagliore del sole.

L’orizzonte l’aveva fatto sentire nuovamente al sicuro. L’Uomo Grigio perso in un oceano di spazio. Era stato come risvegliarsi nuovamente.

Sapeva bene che non doveva fare domande in proposito. Ma ciò che lo preoccupava maggiormente era l’aver visto sua madre così spaventata. La sua paura era durata per tutta la giornata; la distanza non l’aveva rassicurata affatto. Quindi, lui era rimasto prudentemente in silenzio. Non voleva peggiorare le cose. — Sei maledettamente silenzioso oggi, figliuolo — gli aveva detto suo padre. — Sei sicuro di sentirti bene?

— Sì.

No.

Era confuso. Come si sentiva realmente?

Spaventato, ovviamente.

Ma c’era anche qualcos’altro. Lo ricordava a tutti quegli anni di distanza, lì in quel campo della compagnia elettrica. Lo sentiva ancora.

Curiosità? Come parola era troppo debole. Più come… “fascino”.

La parola si librò nella fredda aria settembrina come un uccello scuro.

Sbigottito, Michael si voltò.

Per un attimo, la parola sembrò appnniarsi e poi tornare a fuoco.

Avrei dovuto essere al sicuro qui, pensò. Quel prato era nel suo territorio. Non era certo un luogo adatto all’Uomo Grigio, che era un tipo da agguati, da vicoli, da ombra. Eppure era lì, a pochi metri di distanza, con il cappello con la tesa abbassata per ripararsi dal sole; lo stesso uomo che Michael aveva visto nella stazione di servizio dell’Alberta cinque anni prima, non visibilmente invecchiato, ma (sembrava quasi un battuta) forse un po’ più grigio.

Michael fece un passo indietro, e sentì il cancello che premeva contro la sua spina dorsale.

L’Uomo Grigio parlò. — Non devi aver paura. — La sua voce era ruvida, vecchia, ma allo stesso tempo profonda e suadente. Sorrise, e il suo viso angoloso sembrò meno terrificante. I suoi occhi, che risultavano piccoli fra le sopracciglia e gli zigomi sporgenti, rimasero fissi su di lui. Una leggera cicatrice partiva dall’arcata sopraccigliare, passava accanto all’orecchio e scompariva nell’ombra del cappello. — Voglio solo parlarti.

Michael represse la sua voglia disperata di correre. Con gli animali, dicevano, non bisogna mai mostrarsi impauriti. Ma la cosa funzionava anche con gli incubi?

— Stai andando a casa? — domandò l’Uomo Grigio. — A casa da tua madre?

Michael esitò.

— Tua madre non parla molto — disse l’Uomo Grigio — non è vero?

Michael allargò le mani e infilò le dita nella rete del cancello, per mantenersi in equilibrio. Si sentiva debole e confuso. Le sue gambe erano tremule e distanti.

L’Uomo Grigio gli si avvicinò. L’Uomo Grigio era alto e calmo. L’Uomo Grigio gli mise una mano sulla spalla.

— Cammina un po’ con me — disse l’Uomo Grigio.

L’attenzione di Michael era assorbita completamente dalla voce dell’Uomo Grigio, dal flusso e dalla cadenza delle sue parole; non era cosciente della strada che stavano percorrendo, o dei luoghi che passavano. Quando pensò di guardarsi attorno, il prato della compagnia elettrica era già molto lontano, alle loro spalle.

— Sento che sei diverso — disse l’Uomo Grigio. — Tu non sei come le altre persone. — La mano sulla spalla di Michael era ferma, paterna.

Quelle parole riportarono un pizzico di paura. — Per colpa tua — disse Michael con tono di accusa. — Tu…

— Non per colpa mia. Ma è un buon inizio. Come mi chiami di solito?

— L’Uomo Grigio.

Era sciocco. Era una cosa molto infantile da dire ad alta voce nell’aria fredda di settembre. Ma la risata dell’Uomo Grigio era indulgente, divertita.

— Ho un nome. Be’, io ho un sacco di nomi. A volte… — abbassò di un poco il tono di voce. — A volte mi chiamano Camminatore.

— Camminatore — ripeté Michael.

— Camminatore. Stanatore. Trovatore. Custode.

Come una canzone, pensò Michael assentemente.

— Ciò che importa è che io so delle cose su di te. Quelle cose delle quali tua madre non vuole parlare.

Senza volerlo, Michael domandò: — Quali cose?

— Oh, molte cose. Come ti senti solo. Come ti senti diverso. Come ti svegli alle volte… alle volte ti svegli di notte, e stavi sognando, e hai paura, hai paura perché sai che sarebbe molto facile svegliarsi dentro il sogno. Come se i sogni fossero veri, un luogo dove tu puoi andare, un luogo dove forse sei già stato.

E Michael annuì, per nulla stupito, stranamente, dal fatto che l’Uomo Grigio sapesse tutte quelle cose su di lui. Gli sembrava di aver superato la paura e la sorpresa, per entrare in un regno molto più strano. Il regno del sonnambulismo, pensò.

Passarono accanto a case buie e ad alberi esili e silenziosi. Non c’era vento. Non riconosceva il quartiere; per un attimo si domandò fin dove avessero camminato. Sicuramente, non erano vicini a casa. Non c’era nessun quartiere come quello dalle parti di casa sua.

— Noi non andiamo nei luoghi ovvi — disse l’Uomo Grigio, e Michael si sentì incluso in quel “noi”; una confraternita, una cosa riservata a pochi. — Noi non camminiamo dove camminano gli altri. Questo lo sai già. Dentro di te, nel profondo di te stesso… tu questo lo sai.

Non ne aveva mai parlato. E non ci aveva quasi mai neanche pensato.

Eppure, era vero.

— Potresti camminare fuori dal mondo, se tu lo volessi. — L’Uomo Grigio si fermò, si piegò in avanti e guardò Michael negli occhi. — Il mondo ha degli angoli che le altre persone non possono vedere. Recessi, porte e direzioni. Puoi fare un passo laterale e non essere mai più visto. Così.

L’Uomo Grigio si mosse in una direzione che Michael riuscì appena a percepire. Non esattamente via, ma in qualche modo… oltre.

E Michael fece un tentativo per seguirlo.

— Questo — disse l’Uomo Grigio, che ora sorrideva. — Questo. Questo.

Un passo, e un altro passo.

Michael sentì una scarica di elettricità che fluiva dentro di lui; una formicolante sensazione di potere. Gli faceva girare la testa. Angoli, pensò. Angoli, recessi e porte. Una porta nell’aria.

Ora poteva vedere dove si trovava l’Uomo Grigio; una strada acciottolata scoscesa, un orizzonte di cielo di un azzurro plumbeo e alcune vecchie ciminiere. Un leggero odore di pesce e di sale nell’aria. Non riusciva a sentire la voce dell’Uomo Grigio, ma vedeva che lo chiamava a sé, con un sottile ma inconfondibile movimento della mano esangue. Da questa parte. Da questa parte. Solo un passo, pensò Michael. Quel miracolo silenzioso. Era solo a un passo…

Michael!

La voce veniva da lontano. Ma distolse la sua attenzione.

— Michael!

Più vicina, ora. Con riluttanza, con la sensazione di un’opportunità perduta, o con grande esitazione, voltò le spalle all’Uomo Grigio, alla strada acciottolata, al cielo azzurro e freddo.

Il cielo che aveva davanti adesso era scuro. A ovest, poche stelle brillavano sopra le nubi azzurre. Era in un quartiere che riconosceva; case vecchie e un negozio di alimentari all’angolo, a un paio di chilometri da casa e da scuola.

Sulla strada, c’era la Civic di sua madre. Lo sportello si aprì e apparve lei, come incorniciata, terrorizzata e senza fiato, che lo chiamava. Il suo gesto era come quello dell’Uomo Grigio. Si domandò quanto avesse visto sua madre.

Si voltò per guardare l’Uomo Grigio, ma l’Uomo Grigio era scomparso… niente cielo azzurro, niente strada acciottolata, solo una siepe spelacchiata e il marciapiede crepato.

Strano, pensò. Strano. Era così vicino…

Sua madre lo tirò in macchina. Stava tremando, ma non era arrabbiata. Scuotendo il capo, ancora frastornato, Michael si allacciò la cintura di sicurezza con un gesto automatico mentre sua madre partiva a tutto gas.

— Partiamo — disse a denti stretti. — Partiamo stanotte.

— Partiamo?

— Andiamo in California.

3

Karen si fermò a casa quanto bastava per caricare un paio di valigie, guidò verso nord fino all’aeroporto, e lasciò la macchina nel garage. Dio solo sapeva quando sarebbe tornata a prendersela. In ogni caso, legalmente, la macchina apparteneva a Gavin. Che se ne preoccupasse lui.

Riuscì a comperare due biglietti di sola andata su un volo economico per Los Angeles che partiva un paio d’ore prima dell’alba. Passarono la notte nella sala d’attesa, Michael disteso su una panca. Sembrava stordito e assonnato, sdraiato sullo scomodo vinile. Karen si strinse con le braccia mentre lo guardava. L’aria condizionata era implacabile.

Dopo mezzanotte, si ricordò della lettera nella sua borsa, quella che aveva scritto a Laura. Si alzò in piedi, coprì suo figlio che dormiva con il cappotto, e si diresse verso il gabinetto. Allo specchio, il suo viso era smunto e smagrito, con gli zigomi sporgenti sotto la pelle pallida. Era il viso di una sconosciuta, di un fuggiasco.

Dettò la lettera per telefono ad un’agenzia telegrafica. Forse il telegramma avrebbe attraversato il continente prima di loro.

Quando fu ora di imbarcarsi, dovette svegliare Michael. Aveva gli occhi pesanti, e si era appoggiato istintivamente a lei. Era da parecchio tempo che non lo faceva.

Non voleva pensare a fin dove aveva dovuto guidare per trovarlo, o allo sguardo perso che aveva, in piedi su quel marciapiede crepato, con un piede fuori dal mondo… o alla sagoma che aveva visto più in là; alta, e con un sorriso paziente.

Michael dormì per tutto il lungo viaggio aereo. Si svegliò solo una volta, poco prima dell’alba. Sua madre stava dormendo; quasi tutto l’aereo stava dormendo. Un’hostess dall’aria assonnata passò nel corridoio fra i sedili, gli sorrise automaticamente e proseguì. Il rombo dell’aereo gli riempiva la testa.

Guardò giù dal finestrino, e vide il deserto. Immaginò che fosse il deserto. Era spazzato dalla luce del mattino, senza un’ombra; un mondo selvaggio misterioso e ondulato. Non aveva sentieri, era strano e vuoto. Un altro mondo. Canyon e crepacci. Un arido fondale marino triassico. Pieno di recessi nascosti, pensò Michael, di strani angoli.

Potresti camminare fuori dal mondo, se tu lo volessi.

Ed era vero.

Angoli, pensò Michael. Angoli, recessi e porte.

4

Più tardi, quando Karen spiegò perché era venuta, sua sorella Laura disse: — Ti posso portare in un posto. In un luogo sicuro. È dove abito io.

Karen si era voltata nuovamente verso la finestra della camera d’albergo. Una fettina di spiaggia, palme arruffate, il mormorio costante del traffico. — Intendi dire… non qui — disse.

— Non qui. No. Ma non lontano.

Andare in California era come entrare in un ricordo.

Ci aveva passato una settimana nel 1969. Era stato un brutto periodo; aveva litigato con sua sorella e si erano lasciate in malo modo. I tempi cambiano, Karen ricordò a se stessa. Ma le strade non erano cambiate, e l’albergo di Santa Monica neanche, o per lo meno non in maniera rilevante. Michael, stordito, sedeva accanto a lei, in un miasma di vinile e di puzza di sigaro, mentre il taxi si faceva strada lungo le autostrade ampie e grigie che si allontanavano dall’aeroporto. Senza volerlo, le vennero in mente strane nozioni apprese nel corso di una vita di assuefazione alle riviste e ai rotocalchi. Fatto: le palme non sono alberi della California del sud. Fatto: senza la continua irrigazione, quegli interminabili viali residenziali con le loro case bianche sarebbero stati aridi come la città di Beirut. Ma più di ogni altra cosa, la stupiva la qualità del sole, il suo angolo d’incidenza; un tipo di luminosità che non si vedeva mai a est. Non era più luminosa, ma più chiara, più opalescente; creava delle ombre dure, che si dissolvevano, in lontananza, in un pallido grigiore.

E poi, naturalmente, c’era l’oceano. Si ricordava dell’oceano, della sua vastità, di come riempiva l’orizzonte. Uscì dal taxi sotto quello strano sole, e si meravigliò per un attimo della distanza che avevano percorso.

Rimasero soli nell’albergo per alcuni giorni. Michael parlava poco. Sembrava capire il motivo della loro partenza, del loro viaggio improvviso, ma Karen immaginò che dovesse essere un po’ disorientato; certamente lei lo era. Un mattino le domandò perché la zia Laura non fosse andata a prenderli, e Karen gli spiegò della casella postale: non sarà ancora andata a ritirare la posta. E così, aspettarono nella loro stanza, ordinando da mangiare al servizio camere e lasciando un messaggio all’accettazione quando andavano a fare una passeggiata sulla spiaggia. Karen pensò che doveva essere diventata molto canadese negli anni che aveva passato a Toronto, poiché la gente che vedeva lungo la spiaggia cosparsa di rifiuti le sembrava piuttosto strana. Un uomo sui pattini a rotelle con una maglietta tagliata all’altezza del petto l’aveva fatta cadere giù dal marciapiede, e mentre lei sedeva, sconcertata, nella sabbia, lui le aveva lanciato qualche imprecazione da sopra la spalla. Ma grazie a Dio, non era riuscita a capire che cosa le avesse detto.

Io sono una straniera in questo luogo, pensò. Non gli appartengo. Non ho nessun futuro, qui.

Era felice che Michael non avesse visto la scena. Si era allontanato per comperare degli hotdog a un chiosco. Mangiarono in silenzio, guardando l’oceano. Michael era sempre stato un ragazzo tranquillo, pensò Karen, ma quel suo nuovo silenzio era preoccupante. Sembrava che si stesse reggendo forte, preparandosi al prossimo inevitabile disastro. Ma anche lei simpatizzava con quell’intuizione che i loro guai non fossero finiti, poiché anche lei aveva la stessa sensazione.

Quando tornarono all’albergo, Laura li stava aspettando nell’atrio.

Karen la vide per prima. Per un attimo, ebbe il privilegio di vedere senza essere vista. Si ritrovò a desiderare di prolungare quel momento, di fare a meno di annunciarsi. Guardando sua sorella, provò una strana sensazione di doppia visione, come se il tempo fosse tornato indietro su se stesso.

Ovviamente, Laura era invecchiata. Ma i due decenni che erano passati dal 1969 erano stati buoni con lei. Era leggermente abbronzata, molto californiana, e portava i capelli corti, alla maschietta. Aveva un buon fisico. Indossava un prendisole bianco, una vistosa fascia sulla testa legata dietro la nuca, e degli allegri braccialetti ai polsi. Mentre si girava, i braccialetti tintinnarono.

I loro sguardi s’incontrarono, e per un attimo fuggente Karen pensò: Anch’io avrei potuto essere così. Mi assomiglia, pensò ancora, ma è più ariosa, più leggera. Karen si era sempre considerata solida, terrena; sua sorella invece sembrava delicata come il vento.

È forse invidia questa? Si domandò. Sono forse gelosa?

— Zia Laura — esclamò Michael, vedendo lo scintillio negli sguardi delle due donne che si incrociavano.

Laura attraversò l’atrio piastrellato con un sorriso radioso, e li abbracciò entrambi.

Fecero colazione alla tavola calda dell’albergo. Laura si divorò un’insalata enorme. — È lo smog — disse. — Non ci sono abituata, e ha degli effetti strani sul mio appetito.

Michael la guardò incuriosito. — Credevo che tu vivessi qui.

Laura e Karen si scambiarono un’occhiata.

— Non qui — disse Laura. — Non esattamente.

Karen lasciò Michael nella camera d’albergo a far le valigie (e a vedere la fine di una partita di baseball dei Dodgers alla Tv) mentre lei e Laura facevano una breve passeggiata sul lungomare.

— Non lo so — disse. Le sembrava tutto così strano e improvviso; sua sorella, quei vecchi ricordi e quelle barriere ancora più vecchie. Provò una sorta di panico; l’urgenza di fare un passo indietro, di riconsiderare tutto. — Ti sono grata per l’invito. Ed è per questo, naturalmente, che siamo venuti qui. Per vederti… per fare una visita. Ma sono preoccupata per Michael.

— Non lo sa? — chiese Laura.

L’abbiamo sempre fatto, non è vero? pensò Karen. Abbiamo sempre parlato per ellissi, e lo facciamo ancora. — Non c’è mai stato motivo perché lui lo sapesse.

Trovarono una panchina che dava su quella spiaggia piena di catrame. Al largo, una petroliera che si avvicinava al porto si stagliava contro il bagliore dell’orizzonte.

— Io non sono come te — continuò Karen. — E ancor meno come Tim. Io non l’ho mai voluto… non ho mai voluto essere in grado di fare quello che facciamo. Non l’ho chiesto io, e non l’ho mai desiderato.

— Nessuno di noi l’ha chiesto. Ma stai forse cercando di dirmi che Michael non ne sa niente?

— Perché? Perché avrei dovuto alimentare la cosa in lui? Se può vivere senza saperlo, perché renderlo cosciente?

— Perché è dentro di lui — disse Laura con tono calmo. — Fa parte di lui. Tu devi sentirlo.

Forse poteva. Forse lo sentiva fin dall’inizio, fin dalla sua nascita, e anche prima della sua nascita; sentiva che era diverso, allo stesso modo in cui era diversa lei, e che anche Michael aveva la stessa spaventosa capacità di camminare da un mondo all’altro. Forse chiusa, come il bocciolo di un fiore, ma ugualmente reale e potente.

Ma era un fatto che non voleva prendere in considerazione. — Ho lavorato sodo, sai, per dargli una vita normale — disse. — Forse tu non sai che cosa significa questo. Immagino che non ti sia mai interessata una cosa del genere. Ma una vita normale… era la miglior cosa che potessi dargli. Lo capisci questo? Io non voglio gettare via tutto.

Laura le appoggiò una mano sul braccio. Il gesto era tranquillizzante, e per un attimo sembrò che la sorella maggiore fosse lei, e non Karen. — Non colpevolizzarti. È lui che ha spinto un po’ troppo la cosa. Non sto parlando di Michael, ma di… come lo chiamate? L’Uomo Grigio.

Quel nome era come un peso.

— Stai con me — disse Laura. — Almeno per un po’. È da troppo tempo che non ci vediamo. E io voglio conoscere mio nipote, e voglio che siate entrambi al sicuro.

— È veramente molto lontano?

— Possiamo andarci in macchina.

— E com’è?

— Come qui. Molto simile a qui. Ma più carino.

— Va bene — disse Karen tristemente. — Sì.

Pagarono l’albergo, e caricarono i bagagli nell’auto di Laura, una macchina che Michael non riusciva a identificare, probabilmente straniera. Era piccola e quadrata, e sul cappuccio del serbatoio c’era scritto “Durant”. Il portabagagli inghiottì tutte le loro valigie senza alcuno sforzo.

Si misero in viaggio un’ora prima che iniziasse il mutamento.

Era un lungo viaggio. Percorsero l’autostrada di San Diego in direzione sud, attraversando squallidi quartieri di baracche prefabbricate, foreste di palme disseccate, cespugliosi terreni petroliferi e sottopassaggi di cemento crepato pieni di scritte in spagnolo. Laura non parlava molto, e sembrava essere concentrata sulla guida. Stava iniziando a fare buio, c’era traffico da ore di punta, e avevano abbassato le tendine per ripararsi dal sole che tramontava. Michael sentì la tensione che saliva all’interno dell’abitacolo chiuso.

Capì che stava accadendo qualcosa di importante. Stavano andando dalla zia Laura a farle una visita, per stare un po’ da lei; questo era chiaro… ma non c’era solo questo. L’ansietà di sua madre era palese. Sedeva accanto alla zia con la schiena rigida e la testa quasi sempre protesa in avanti. E poteva vedere che anche zia Laura si stava concentrando, tendendo i muscoli.

Lasciarono l’autostrada per svoltare a ovest, verso l’oceano, attraverso una serie di colline coperte di arbusti marroncini. Anche lì, nelle aride depressioni, c’erano delle abitazioni. E cartelli che pubblicizzavano case modello. Chi vorrebbe mai vivere qui? Si domandò Michael. Perché? Che cosa c’era lì, che attirava tanta gente?

E poi furono in vista dell’oceano, un grigiore piatto. Chioschi trasandati e piccoli stabilimenti, aria salata e l’odore rancido dell’olio combustibile.

Il mutamento iniziò mentre il sole tramontava.

Dapprima, Michael pensò che fosse un gioco di luce. Il sole sembrava avvolgere l’automobile attraverso i finestrini sulla destra. Era quasi accecante, allo stesso modo in cui accieca un raggio riflesso su una superficie d’acqua calda e immobile. Ma c’era dell’altro. Sentì un’ondata di qualcosa dentro di sé; qualcosa in grado di disorientarlo, come se lo avessero bendato e fatto girare una dozzina di volte su se stesso. Per una frazione di secondo, Michael ebbe la sensazione di cadere, e che la macchina stesse piombando nel vuoto assoluto. Sbatté le palpebre due volte, e trattenne il fiato. Poi le gomme morsero nuovamente l’asfalto, le sospensioni ballonzolarono un po’ e quindi si stabilizzarono. La luminosità era svanita.

Ma il ricordo rimaneva. Era una sensazione familiare. Quando l’aveva provata prima d’allora? Poco tempo prima, pensò. A Toronto… con l’Uomo Grigio.

Così, pensò Michael; un passo al di fuori e oltre, attraverso le porte segrete del mondo. Guardò all’esterno con improvviso stupore. E adesso dove siamo?

Ma il mondo, quella strada, sembrava uguale. O quasi uguale. Forse era la sua immaginazione, ma gli pareva che un po’ di quell’aria trasandata fosse scomparsa. I negozi erano un po’ più puliti, un po’ più luminosi. L’aria, ne era quasi certo, sembrava più fresca, e il tramonto era più brillante, anche se meno vistoso.

Incrociò lo sguardo di Laura nello specchietto retrovisore.

Lei lo fissò e annuì con aria solenne, come per dire Sì, l’ho fatto io. Sì, è tutto vero.

Si schiarì la gola e disse: — Dove stiamo andando?

— A casa mia — disse Laura con tono tranquillo. — Te l’avevo detto. — Un cartello annunciava la distanza in miglia da un paese di nome Turquoise Beach. — Ci siamo… è qui che abito.

5

Karen non era mai stata molto capace di far fronte all’inaspettato. Di conseguenza, era molto cauta nel valutare il luogo in cui li aveva portati Laura. Turquoise Beach. Un nome che non aveva mai visto in nessuna mappa, anche se immaginava che bastava andare a una stazione di servizio (del luogo) e comperare una mappa con Turquoise Beach segnata. Assieme ad altri posti strani.

Arrivarono con il buio, ma il paese, per quello che lei poté vedere, sembrava un innocuo paesino di mare, con edifici in stile vittoriano e negozi più moderni con le decorazioni a stucco in rilievo. C’era un che di bohémien nelle tende di perline davanti agli ingressi e nei luminosi vetri colorati dei piani superiori. Percorsero un affollato lungomare, con caffè e ristoranti, tutti aperti davanti alla notte tiepida. Sulla vetrina di un piccolo negozio stava scritto CONCHIGLIE DI TUTTI I GENERI. Accanto ce n’era un altro che offriva ANTICHITÁ, LAMPADE A OLIO, VETRI ANTICHI. SVENDITA!

E la gente per la strada era quasi altrettanto caratteristica. Erano tutti vestiti in un modo che Karen considerò piuttosto zingaresco; jeans Levi’s sbiaditi, camicie trapuntate in colori vivaci. Videro anche una donna con delle piume infilate nelle lunghe trecce dei suoi capelli neri.

Superato il centro, trovarono un intrico di viette scure e di casette silenziose; un miscuglio di case vittoriane in mattoni e ariose case in legno, non diverse da quelle del centro. Laura, canticchiando fra sé, svoltò a ovest, verso l’oceano, e parcheggiò su un tratto di ghiaia accanto a una casa di legno a tre piani. — Noi abbiamo gli ultimi due piani — disse, scendendo dalla macchina.

Karen uscì all’aria fresca della notte, e si sentì improvvisamente sola in quel nuovo mondo, ricordando a se stessa che si trattava veramente di un nuovo mondo. Gavin esisteva in quel luogo? Se chiamava il loro vecchio numero di Toronto, avrebbe risposto?

E il Canada esisteva, o erano stati ridisegnati tutti i confini?

Strano. L’idea la faceva rabbrividire. Ascoltò il dolce sciaquio del mare sul bagnasciuga, prosaico e reale. E le stelle, pensò. Le stelle erano sempre le stesse.

Laura le si parò davanti con due valigie in mano. — Dammene pure una — disse lesta Karen. Ma un uomo barbuto la precedette, uscendo dalla porta di legno dell’ingresso e prendendo in mano una valigia. — Tu devi essere Karen — disse.

— Questo è Emmett — disse Laura. — Emmett vive al piano di sotto, ed è molto servizievole. — Emmett sorrise un po’ timidamente.

La sta corteggiando, pensò Karen. C’era sempre qualcuno che la corteggiava. Laura aveva sempre esercitato un certo fascino sugli uomini. Laura ci sapeva fare.

Al contrario, Karen aveva sposato il primo uomo che aveva mostrato un certo interesse per lei… e che l’aveva lasciata per andare a vivere con la sua amante sul lago. — Salve, Emmett — disse.

Michael apparve da dietro la macchina con la sua pesante valigia. Saggiamente, Emmett non si offrì di aiutarlo. — Lascia che ti mostri le scale — disse invece. — Mike… giusto?

Michael lo seguì all’interno della casa.

— È simpatico — disse Karen.

— Allora? Approvi?

— La mia prima impressione è positiva.

Laura sorrise. — Emmett e io siamo tipi abbastanza solitari. Ma qualcosina c’è stato. Ci sono… — fece ondeggiare la mano un paio di volte. — delle possibilità.

— Hai il caffè? — chiese Karen con aria speranzosa.

— Del Costa Rica, e appena macinato.

— Io ne voglio una grande tazza. E poi una doccia. — E poi un letto, pensò fra sé. Qualcosa di morbido con lenzuola pulite.

— Si può fare. Te l’avevo detto che si stava bene qui.

E Karen capì che stavano iniziando nuovamente ad essere sorelle. Dopo tutti quegli anni. In quello strano luogo.

Prima di andare a letto, sedettero per circa un ora attorno al vecchio tavolo della cucina di Laura. Le due donne chiacchieravano del più e del meno, sorseggiando caffè da tazze di porcellana; Michael le guardava con crescente impazienza. Si sentiva escluso; non tanto dalla conversazione, quanto da ciò che non veniva detto. Fra loro, pensò, lo sanno. Loro capiscono.

Quando non ne poté più, si alzò in piedi. La giornata era stata lunga, e gli ronzava il cervello. Ma sentiva il bisogno di dire qualcosa, di far rendere loro conto che era accaduto qualcosa. Si trattava di un tabù; ma ora il mondo era diverso, e lui si sentì salire le parole come da un pozzo.

— Dovreste spiegarmi qualcosa — disse. Seguì un improvviso silenzio. — Voglio dire; io non sono cieco. Non so dove ci troviamo, ma so che non si può arrivare qui dall’albergo. Non usando le strade normali. — Strade, pensò; angoli e porte. — Io l’ho sentito — disse. — Mi dovreste una spiegazione.

Sua madre distolse lo sguardo, si appoggiò le mani in grembo e rimase a guardarsele, senza proferire una parola. Michael provò un improvviso rimorso. Ma sua zia Laura non era né arrabbiata né sorpresa. Lo guardò fisso negli occhi dalla sua sedia accanto alla finestra.

— Presto saprai — disse con tono tranquillo. — Te lo prometto. Va bene?

La gratitudine che provò lo prese alla sprovvista; era veramente intensa. — Va bene — disse. Perché il fatto era che sua zia diceva sul serio… Lo sentiva.

— Ma ora, a letto — disse Laura. — Penso che sia una buona idea per tutti noi. Riesci a trovare la tua stanza?

Su per le scale, e poi a destra.

Stanco come era, Michael rimase sveglio per un certo tempo, al buio, nel suo nuovo letto, ascoltando i suoni della notte e il tranquillo pulsare delle onde. La casa era silenziosa. Per un lungo periodo, non si udirono voci provenire dalla cucina.

6

Straniera in quel nuovo mondo, Karen decise che la cosa più saggia da fare sarebbe stata iniziare a conoscere la zona circostante.

Trovò una vecchia carta stradale della Texaco in un cassetto ricolmo della cucina di Laura. Sulla mappa, Turquoise Beach era un puntino nero sulla costa in mezzo fra Pueblo de Los Angeles e San Diego. Pueblo de Los Angeles le suonava un po’ strano, ma tutto il resto, sebbene non conoscesse molto bene la California, sembrava più o meno al suo posto. Oltre il confine, dopo San Diego, c’era una città messicana, Ciudad Zaragoza. Era giusta? San Francisco era familiare e rassicurante, ma che dire di grosse città come Alvarado, Sutter, Porzinucola? E poi non riusciva a trovare Hollywood; non sarebbe dovuta essere segnata? Eppure, le cose familiari erano più di quelle strane.

Mi ci abituerò, pensò. Con il tempo mi renderò conto di dove mi trovo. Come per abbracciare il futuro, Karen si ripassò mentalmente la pianta dell’appartamento di sua sorella. Due stanze da letto al piano di sopra e un divano nell’altra camera al piano di sotto. Una grossa sala centrale con parquet lucidato e ampie finestre sul mare. Libri in edizione economica su scaffali fatti in casa e vivaci tende che si muovevano con la brezza diurna da ovest. Su una parete della sala Laura aveva appeso un poster del quadro di Edward Hopper che raffigurava un caffè solitario di Pittsburgh.

La spiaggia non era affollata, e una mattina Karen la percorse per un paio di chilometri. Le spiagge non erano suscettibili ai cambiamenti. I sassi, l’acqua e la sabbia non l’avrebbero impressionata. Il litorale era un misto di pietra nera e pozze d’acqua formate dalla marea, il che non era molto indicato per prendere un’abbronzatura, ma l’ideale per passeggiare alla ricerca di conchiglie o sassolini. Karen provò una certa istintiva simpatia per la gente che vide in quella giornata annuvolata, personaggi che camminavano lungo il bagnasciuga con espressioni serie e maglioni fatti a mano. A un certo punto arrivò a un promontorio pieno di alghe marine sul quale si poté sedere e guardare il paese, con il suo silenzioso intrico di stradine. Identificò l’alta casa di Laura in mezzo alle altre. Casa, pensò, o cercò di pensare. Ma quella parola era solo ipotetica. La saggiò sulla sua lingua, e si chiese se avrebbe mai più avuto un senso per lei.

Una folata di vento dal mare la investì, facendola rabbrividire. Iniziò la lunga camminata per tornare indietro.

Il giorno dopo, Laura la portò in città in macchina per colazione.

Michael aveva detto che sarebbe rimasto volentieri a casa con Emmett. Si stavano lanciando una vecchia palla da baseball sulla spiaggia; Emmett aveva sorriso, annuendo. Emmett era un musicista, le aveva detto Laura, ma era affidabile; sì, avrebbe fatto in modo che Michael mangiasse qualcosa.

Di giorno, Turquoise Beach sembrava ancor più allegramente senza pretese. Laura le spiegò che era un paese abbastanza bohémien. Le case più vecchie, le disse, risalivano agli anni venti. A Turquoise Beach, dal 1923 e per tutto il periodo della depressione economica, c’erano state delle ditte di cibi in scatola che avevano avuto un certo successo, e i baroni dello scatolame si erano costruiti quelle case in stile vittoriano sulle colline che davano sul mare. Quando l’industria dello scatolame aveva chiuso, negli anni Cinquanta, anche Turquoise Beach era andata vicino alla chiusura. Ma invece era riuscita a cavarsela come piccolissimo centro turistico, sebbene troppo lontano dalla città per attrarre un gran numero di visitatori. Era un anacronismo in estinzione, che piano piano era diventata rifugio di eremiti letterati e simili personalità eccentriche.

A metà degli anni sessanta era esplosa come bohéme marittima zingaresca. Aldous Huxley aveva passato i suoi ultimi giorni in una grande casa di mattoni rossi su via Cabrillo, e si diceva che il poeta Gary Snyder avesse trascorso lì diversi inverni. Poi, negli anni settanta, erano arrivati molti piccoli artigiani, e così Turquoise Beach, nel suo piccolo, aveva ripreso a prosperare. La maggior parte degli abitanti erano ormai gente perfettamente integrata e piccolo-borghese che lavorava alla base aerospaziale sull’autostrada. Ma la vecchia atmosfera era rimasta.

Laura parcheggiò sulla via principale, che si chiamava Caracol Street, e Karen seguì sua sorella in un caffè ristorante con sedie pieghevoli e piccoli tavolini anche all’esterno, sul marciapiede. Era già l’una passata, e non c’era più molta gente a mangiare. Un paio di volte, Laura sorrise e fece un cenno a qualcuno che passava per strada. Ma per la maggior parte del tempo rimasero a parlare tra loro; era un posto dove potevano parlare.

— Ti piace finora? — chiese Laura.

Karen si domandò che cosa rispondere. Non era una decisione che poteva prendere subito. Non ancora. — Ne voglio sapere di più — disse.

— Del paese, del mondo, di che cosa?

— Credo… credo del mondo.

— Bella domanda. Da dove posso iniziare?

— Da qualunque parte — disse Karen. — Con qualsiasi cosa. — Ma voleva veramente saperlo? — Esiste il Canada?

— Sì.

— E l’Unione Sovietica?

— Sì… ma i confini sono leggermente diversi.

— Ci sono state guerre?

— Sì.

— Le stesse guerre?

— Non proprio.

— Ci sono bombe atomiche?

— Molto poche. Sono queste le cose che vuoi sapere? — Laura appoggiò il suo tovagliolo e assunse un’aria pensierosa. — Geopolitica. Be’, vediamo. La conferenza di Yalta si è risolta in maniera un pochino differente. Nel 1948 il trattato di Beirut ha messo al bando la proliferazione delle armi nucleari, e il bando viene applicato senza riserve. La Polonia è membro della Comunità Europea. La Turchia è un paese musulmano, ma l’Iran no. Uh…

Karen scosse il capo. — Non importa. Quello che mi stai dicendo è che si tratta di un mondo più pacifico?

— Credo che questa sia la differenza più basilare. Si, è un mondo più pacifico. E be’, non so esattamente il perché. Non c’è nessun processo, nessun meccanismo ovvio che evita le guerre. Le guerre ci sono ugualmente. La seconda guerra mondiale è avvenuta… anche se con un olocausto molto più limitato, e il Giappone è stato abbastanza saggio da non mettercisi in mezzo. Tuttavia, la guerra in Europa è stata sanguinosa; molti americani sono morti nelle trincee. E ci sono state tutte le altre atrocità, a parte Hiroshima. Ma ne è scaturita una certa pace. Nessuno cerca nemici, nessuno vuole nemici. Non c’è stata l’era McCarthy. L’America prosperava in quei giorni, e forse era anche soddisfatta di sé, ma non era isterica.

— Non ci sono più i cattivi? — disse Karen, con un tono leggermente più scettico del voluto.

— Ce ne sono parecchi. C’è razzismo, c’è l’intolleranza religiosa, c’è il conformismo. C’è chi muore di fame. Ma quello che cambia è la scala degli avvenimenti. È solo leggermente diminuita. Si può dire che è un mondo più gentile. Non esiste la CIA, non esistono consulenti militari nei paesi del terzo mondo e il livello di criminalità è piuttosto basso, anche se se ne lamentano tutti — sorrise. — E il tempo è bello.

Karen cercò di pensare a tutte le cose che la spaventavano nella sua vita di tutti i giorni. — Il dolore — disse. — Le malattie. La morte.

— Be’, non siamo in paradiso, ma si può andare in ospedale senza dover ipotecare la casa.

— La droga? — Il grande incubo dei genitori.

— Le droghe esistono — disse sua sorella. — Ma non ho mai sentito parlare di un vero e proprio problema al di fuori dei peggiori quartieri urbani. E non ci sono neanche molti alcolizzati. Non c’è una grande richiesta di cocaina o anfetamine. Sai, la vita qui è un po’ più lenta. Ma si possono comprare piccoli quantitativi di marijuana. Legalmente.

— Un bel posto dove scappare — disse Karen.

— Se è questo che stai facendo, non è certo una cosa di cui vergognarsi. A volte bisogna scappare via.

Tu dovresti saperlo bene, pensò Karen, vergognandosene subito dopo. — Be’, non è male, naturalmente — disse. — Sei felice qui?

Sua sorella non rispose immediatamente. Karen capì che aveva fatto una domanda importante, una di quelle pericolose. Di colpo, Laura tornò a essere la sua sorellina, e a Karen vennero alla mente vecchi pensieri irrisolti; Avrei dovuto proteggerla… Avrei dovuto…

— Sono felice — disse Laura lentamente — quanto riesco a immaginare di poterlo essere. E non tornerei indietro. Non per restare. Adesso è questa la mia casa.

Casa. Ancora quella parola.

— Allora mi sbagliavo, anni fa. — disse Karen.

Laura allungò una mano sul tavolo, facendo tintinnare i braccialetti.— Non è questo che intendevo.

Ma la consapevolezza di quella vecchia discussione aleggiava a mezz’aria fra loro. Karen si voltò verso la strada, sperando di scrollare quell’improvvisa malinconia. Sempre che non fosse stata qualcosa di peggio della malinconia. Ma quella strada, Caracol Street, in quella strana città e in quel mondo particolare, le sembrò totalmente sconosciuta. Un brivido la percorse e un pensiero attraversò la sua mente; Non avresti dovuto venire qui. È stata una brutta cosa venire qui. La voce di papà le riecheggiava nel cervello.

Pensò a Laura vent’anni prima, in quell’hotel di Santa Monica.

7

Era il 1969, un anno sbalorditivo. Karen stava studiando per la laurea in inglese a Penn State, e tornava a casa per il weekend solo ogni due settimane. Tim andava male alle superiori, e Laura era al suo secondo semestre all’università di Berkeley e, a sentire ciò che le aveva detto sua madre, si trovava in guai seri.

Karen era tornata a casa per le vacanze pasquali. Quell’anno, “casa” era l’abitazione di Polger Valley; una vecchia città di acciaierie nella Mon Valley, con i suoi antichi mulini rimessi all’opera per la guerra in Vietnam. Papà aveva trovato impiego in fonderia, mentre la mamma lavorava a mezza giornata dal parrucchiere. Karen era riuscita a pagarsi da sola quasi tutta la quota per studiare a Penn, con solo un piccolo aiuto da parte dei genitori. Tuttavia, il college di Laura aveva inciso in maniera notevole sul bilancio familiare,e l’educazione di Tim era ancora in dubbio; era un ragazzo brillante, ma si rifiutava di trovarsi un lavoro. La chiamata alle armi era una minaccia costante, ma lui diceva che avrebbe trovato il modo di non passare agli esami fisici, oppure sarebbe fuggito in Canada… e forse l’avrebbe anche fatto, anche se, secondo Karen, diceva queste cose soprattutto per fare arrabbiare papà. In ogni caso, Tim usciva di casa correndo e andava a condolersi con i suoi amici dai capelli lunghi. Tim, che portava una bandiera americana cucita al contrario sul suo giubbotto di jeans, era come un parafulmine, per quanto riguardava i pasticci.

Quel fine settimana, papà era accigliato e Timmy era fuori. Lo scenario era familiare.

Dopo cena, sua madre la prese da parte. Ultimamente, Karen vedeva i suoi genitori sotto una nuova prospettiva; loro erano adulti, e lei era adulta. Avrebbe dovuto poter parlare loro in maniera adulta.

In teoria, almeno. Nella pratica, era molto più difficile. Ma cercava di essere obiettiva.

— Abbiamo ricevuto una lettera da Laura — le disse sua madre.

Parlava a bassa voce. Non voleva che papà la sentisse. Papà stava guardando la televisione nella cameretta che chiamavano “la tana”, una piccola stanza accanto al soggiorno. Karen e sua madre erano sedute in cucina. La cucina, così pensava Karen, era la stanza più rassicurante di tutta la casa, e di conseguenza era la migliore per le cattive notizie. Karen focalizzò il momento nella sua mente; piatti ammucchiati sullo scolatoio, sua madre in un grembiule a fiori, con la busta stretta in una mano. — Laura non è più a Berkeley.

Karen sbatté le palpebre. Non è più a Berkeley? — Be’, dov’è allora? Sta tornando a casa?

Mamma scosse il capo e le diede la lettera.

Era molto breve. Spiegava che Laura aveva abbandonato i corsi universitari e che si era trasferita da alcuni amici, e che “forse non mi sentirete tanto spesso,” e che “voglio trovarmi un posto per me, dove posso vivere a modo mio.” Come mittente, sulla busta, c’era un indirizzo di Los Angeles.

— Non l’ho detto a papà — disse la madre. — Sai come è fatto.

Si sarebbe arrabbiato parecchio, pensò Karen. La sua nuova obiettività le permetteva di capire che papà era spesso arrabbiato con i suoi figli. Non se ne era ancora chiesta il motivo.

Fu allora che sua madre fece qualcosa di stupefacente. Infilò una mano nella tasca del grembiule, estrasse due banconote da cento dollari e le spinse attraverso il tavolo, verso Karen.

Karen fissò il denaro, sbalordita.

— Prendili — le disse sua madre. — Sarebbero i soldi per la casa, ma non importa. Prendili e vai là. Trovala e cerca di farla ragionare.

Ma ho gli esami, pensò Karen. Devo studiare. Non posso perdere tutto quel tempo.

Ma non riuscì a dire niente di tutto questo.

Invece, sentendosi leggermente in soggezione, prese il denaro e se l’infilò nella tasca dei Levi’s. Erano una presenza scomoda.

— Sei sempre stata la più ragionevole — le disse sua madre.

Prenotò i biglietti e una camera d’albergo attraverso un’agenzia turistica. Il viaggio la spaventava; non si era mai allontanata tanto in vita sua. — Si tratta di una vacanza? — le avevano domandato in agenzia. — Non lo so — aveva risposto Karen. — Credo di sì.

Affittò una macchina all’aeroporto di Los Angeles, e seguì scrupolosamente la rotta che si era preparata sulla cartina per raggiungere l’albergo. Lì fece una doccia, e poi si recò all’indirizzo che Laura aveva scritto sulla busta.

Quando vide la casa, rimase un po’ sconcertata. Si trattava di un prefabbricato ai piedi di una strada che si arrampicava fra due pareti di tufo. I muri grezzi erano stati dipinti di un color giallo canarino, e la vernice si stava scrostando. Una motocicletta era parcheggiata davanti alla casa.

Bussò. Una breve attesa, poi la porta si aprì. Si trovò davanti un uomo alto e molto magro. Indossava una felpa e un paio di jeans stretti e consunti. Aveva la barba.

— Ehi — disse, con aria confusa. — Tu assomigli a Laura.

— Sono sua sorella. — Gli occhi di Karen iniziarono ad adattarsi all’oscurità. La stanza era un disastro. Un materasso per terra, una pipa ad acqua, ammassi di abiti… — Posso parlarle?

— A Laura? Laura non è qui. È da un paio di giorni che non la vedo. — E poi, con naturalezza: — Vuoi entrare?

Karen scosse il capo. Prese un blocchetto e una penna dalla sua borsa e scrisse l’indirizzo del suo albergo. — Può darle questo?

L’uomo scrollò le spalle. — Karen, vero?

Karen si bloccò mentre scendeva gli scalini di cemento. — Mi conosce?

— Mi ha parlato di te.

Quindi, non c’era niente da fare tranne che aspettare. L’attesa la faceva sentire colpevole, passiva. Avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma che cosa? Assumere un investigatore? Un’idea ridicola. E inoltre non se lo poteva permettere. Così, decise di aspettare la telefonata e di seppellirsi nei testi che si era portata con sé. Faulkner e Sir Walter Scott. I libri le si confusero nella mente, in una bizzarra doppia esposizione, con tutte quelle strane famiglie con lo spettro del passato. Quando infine il telefono squillò, un giorno prima che il suo biglietto scadesse, sobbalzò come se le avessero dato uno schiaffo. Afferrò la cornetta e disse: — Laura?

— Non serve a niente che tu venga qui, lo sai? — una voce piccola e distante. — Voglio dire; lo apprezzo, ma è inutile.

Strinse la cornetta con tutta la sua forza. — Voglio vederti.

— Mi fa piacere. Ma non so se sarà possibile.

— Oggi — disse Karen. — Parto domani mattina.

Seguì un lungo silenzio, fra il ticchettìo e i sussurri della compagnia telefonica.

— Va bene — disse infine Laura con un sospiro. — Sei in qualche albergo?

Le ripeté l’indirizzo.

— Ci vediamo più tardi.

Seguì un clic, e poi un ronzio fisso.

Karen rimase leggermente scioccata quando vide sua sorella, anche se ovviamente se lo sarebbe dovuto aspettare: Laura sembrava una hippy.

“Hippy” era una parola che Karen aveva sentito soprattutto dai notiziari della televisione. Gente trasandata che partecipava a marce di protesta. Drogati. A Penn State si era tenuta lontana da quel genere di cose. Aveva una discreta cerchia di amicizie, ma erano quasi tutte ragazze del suo corso di inglese, e quasi tutte di tendenza conservatrice. Aveva visto girare degli spinelli in alcune feste dell’associazione studentesse universitarie, passati di mano in mano come candele votive, ma la cosa non si spingeva più in là di così. Erano tutti contro la guerra, tutti politicamente progressisti, ma mai coinvolti più di tanto. Erano, in effetti, segretamente orgogliosi di avere la testa a posto.

Come me, pensò Karen. Lei era quella ragionevole. E aveva amici ragionevoli.

Laura indossava dei jeans antichissimi e una maglietta tinta con una varietà accecante di colori. I suoi capelli erano tutti intrecciati, e sulle unghie aveva dipinto qualcosa di simile ai segni dello zodiaco.

Karen si sentì stranamente presa in contropiede da tutto ciò, da quella sfacciata dichiarazione di eccentricità. Forse sarebbe stata in grado di convincere sua sorella ad abbandonare una cattiva idea, o un piano stupido; ma quel guardaroba era qualcosa di troppo concreto. È per questo che si vestono così, pensò, per dar fastidio alla gente normale.

Laura entrò nella stanza e si accasciò su una poltrona. — Io credo — disse — che tu sia qui perché ti ha mandata mamma. Giusto? “Vai a cercare Laura, e cerca di farla ragionare.” — Laura imitò il largo accento della Mon Valley di sua madre.

Karen rimase colpita. — Si, è la mamma che mi ha dato i soldi.

— Allora credi che abbia ragione? Credi che io sia pazza?

— Non c’è bisogno che tu ti metta sulla difensiva. Io non lo posso sapere. Sei pazza?

— Sì. È una condizione comune.

— Vuoi che ti convinca a desistere?

— No. Certamente no.

— Hai un’aria stanca — disse Karen.

— Lo sono. Sto cercando di organizzarmi. Hai letto la lettera? — aggiunse poi con maggiore cautela. — Me ne sto andando via.

— Via dove?

— Probabilmente preferiresti che non te lo dicessi.

Karen pensò che probabilmente era vero.

— Hai un’aria abbastanza selvaggia — aggiunse, disperatamente.

— Lo immagino — Laura le lancio un’occhiata, e Karen notò qualcosa di più dolce nel suo viso. — Mi spiace per tutti questi misteri. Vuoi che ti spieghi tutto? Se sei venuta per una spiegazione…

Una spiegazione sarebbe stata meglio di niente. — Ma facciamo due passi — disse Karen. — Non ne posso più di questa stanza.

Presero due bottiglie di Coca Cola, e si incamminarono lungo la spiaggia.

— Sono venuta a Berkeley — iniziò Laura — soprattutto per via di tutte quelle cose che sentivo dire sulla California. Sembra stupido, non è vero? Be’, lo è stato. Stupido e ingenuo. Ma era importante per me. Sapere che da qualche parte nel mondo c’era qualcuno che usava la parola “freak” senza usarla come sinonimo di “mostro”. Era Tim che parlava sempre di noi a quel modo. Te lo ricordi? «Siamo dei freak», diceva. «Dovremmo abituarci a questo».

— Tim ha sempre avuto una vena crudele — disse Karen. — Non aveva nessun motivo per dire così. E in ogni caso, è successo tanto tempo fa.

— Quando eravamo alle superiori. Ma il punto è che aveva ragione.

Karen si voltò verso l’oceano. — Tu non credi questo.

— Lo credo sì. E anche tu lo credi. — Toccò il braccio di Karen. — Mi dispiace. So quanto detesti tutto ciò, ma ne dobbiamo parlare. Abbiamo passato già troppo tempo senza parlarne. Siamo diversi e lo siamo stati fin dal giorno della nostra nascita. E per questo che papà ci odia così tanto. È per questo che ci picchiava ogni volta che ci pescava a fare quello che sappiamo fare.

La costernazione di Karen era immensa. Cercò di appellarsi all’obiettività che aveva coltivato a scuola. Nel suo corso di psicologia tutto questo sarebbe stato molto semplice. Ma parole come “papà” o “diverso” aleggiavano lì, intorno a loro, in un modo che la metteva a disagio, e non osava ispezionarle troppo a fondo. — Quei vecchi sogni — balbettò — quei vecchi giochi…

— Non erano sogni. Non erano giochi — Laura sospirò, ed esitò un po’, forse pensando a come procedere. Poi continuò, con tono paziente. — Quando ti dicono per un certo periodo di tempo, con una certa insistenza, e fin dalla tenera età che una cosa è negativa, e innominabile, e sporca, tu inevitabilmente finisci per crederlo. E non puoi fare a meno di crederlo. Anch’io lo credevo. Ma sono stata abbastanza fortunata da andare al di là di tutto questo.

(Ma tu non l’hai mai creduto, pensò Karen. Tu eri come Tim. La ribellione era una cosa facile per te.)

— A Berkeley — continuò Laura — tutti si facevano gli acidi…

— LSD? — Karen era terrorizzata.

— Non credere a quello che scrivono i giornali. Oddio, non che sia vero neanche tutto quello che dice Leary, ma mi ha insegnato alcune cose. Ho potuto uscire da me stessa, e guardare me stessa dall’esterno per la prima volta — s’infervorò nel suo racconto. — Quel senso di possibilità… io credo che sia questo ciò che noi siamo veramente, io te e Tim. Noi possiamo vedere cose che il resto della gente non può vedere.

— Possibilità — ripeté Karen con tono cupo. Ma tutto questo sfuggiva totalmente al suo controllo…

— Mondi — continuò Laura. — Non è forse questo che tutti stanno cercando? Un mondo migliore? Sai, una volta andavamo giù all’Haight con agli amici. E c’era questa stessa sensazione. Un mondo migliore è possibile. E sai che cosa è l’Haight adesso? Un ghetto pieno di giovani eroinomani. Sta morendo tutto quanto; è morto. Se ne sono andati tutti; nel deserto, a Sonora, o nell’Oregon. La visione stessa è morta. Così io sono venuta qui con della gente, e volevamo mettere su una comunità, per vivere assieme in maniera più creativa… abbiamo usato proprio queste parole. Hai visto la casa? Un buco. E Jamie è tornata dai suoi genitori, e Christine è incinta, e Donald è in Canada per evitare il servizio militare, e Jerry ha preso il brutto vizio di bucarsi. E così il sogno muore, giusto?

Karen era atterrita. Droghe, buchi e comuni. Le sembrava squallido.

— Ma non deve morire per forza — disse Laura. — Io posseggo quest’abilità. Quest’abilità pazzesca di camminare via dal pianeta spostandomi lateralmente. E sono convinta che esiste un mondo migliore là fuori. In quel groviglio di possibilità. Non un sogno, e neanche uno di quei luoghi infernali che apriva sempre Tim. Io intendo un luogo giusto. Un luogo dove la gente si interessa al prossimo, e dove la stupidità non ci inchioda tutti quanti.

Karen unì le mani in grembo. — Credo che mamma avesse ragione. Credo che tu sia veramente pazza.

— Ma dai, Karen, non fare così. Se c’è qualcuno qui che vive in un mondo di sogni, sei proprio tu. Ti ricordi quella notte nella vecchia casa di Costantinopole Street? Quando scendemmo giù nella gola, e Timmy aprì una porta su quella vecchia città di mare con le vie acciottolate? Il freddo che faceva, e quell’uomo…

— Abbiamo inventato tutto — disse Karen, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto. Sulla spiaggia, una coppietta le guardò.

Karen fissò il terreno.

— Be’, io me lo ricordo — disse Laura con tono tranquillo. — Mi ricordo le botte che prese Timmy per questo. Seguito da me. E poi da te. Tu più di tutti. Perché tu eri la maggiore, la nostra protettrice. È quello che volevano che tu fossi. Karen dovrebbe essere la più responsabile. Karen…

Smettila!

— Non riesci proprio ad ammetterlo, vero?

— No — rispose Karen.

— No. Perché ammetterlo significherebbe ammettere tante altre cose. Che il mondo è più strano di quel che sembra. Che papà non ha sempre ragione. Che quando papà ti picchia non significa che ti vuole bene. Forse significa l’opposto. E forse questa è la cosa peggiore di tutte.

Karen si alzò in piedi. Aveva della sabbia sul vestito. Mentre se la spazzolava via, si sentì affettata e ridicola. Le tremavano le mani.

— Vai a casa? — le chiese Laura.

— Non prendermi in giro!

— No… oh, Karen, mi dispiace. Ma non è necessario che tu vada.

— Ho gli esami.

— Non c’è bisogno che tu faccia gli esami.

— Cosa?

— Vieni con me. Potremmo farlo assieme. Attraversare i confini.

Dice sul serio, pensò Karen. Mio Dio, dice sul serio.

Afferrò la cinghia della sua borsa. — Io non ho mai voluto un mondo migliore. Non ne ho bisogno! Non lo capisci questo? Tutto ciò che voglio è essere normale.

Quella mattina ripartì per la Pennsylvania, e per vent’anni non rivide più la sua sorella selvaggia.

Sedeva al caffè di Caracol Street con quel ricordo opprimente che non riusciva a scacciare. Ma la Laura che la guardava ora dall’altra parte del tavolo era invecchiata; non pentita, ma certamente meno selvaggia. — Avevi ragione — ammise Karen — su un sacco di cose.

— Credo che ognuna di noi due credesse che l’altra stava scappando via.

— Forse era proprio così.

— Forse è ancora così. — Karen fece una smorfia. — Ci sono tante domande che non ci siamo mai poste — continuò Laura — che non ci siamo mai permesse di porci. Perché possiamo fare ciò che possiamo fare? Siamo degli scherzi della natura, degli errori genetici? O qualcos’altro? E poi c’è Tim. Io non ho sue notizie da quando se n’è andato da casa nel ’72, e tu?

— No. Non l’ha sentito nessuno, in famiglia — ma quello era un argomento pericoloso. — Non credo che importi ciò che siamo. Il passato è il passato.

Laura scosse il capo. — Importa eccome.

Lasciò giù una banconota e degli spiccioli per il pranzo, e si fecero strada fra i tavolini. Il sole brillava su Caracol Street, illuminandola da ovest. Laura si coprì gli occhi con una mano e disse: — Importerà a Michael.

8

Michael aveva deciso che Emmett era un tipo niente male.

Emmett suonava la chitarra acustica in una banda di folk latino chiamata Rio Negro, e faceva anche dei numeri da solo nei locali di Turquoise Beach. Il suo appartamento, che era sotto quello della zia Laura, sembrava un negozio di strumenti musicali. Aveva strumenti a corda di tutti i generi, appesi o semplicemente appoggiati alle pareti. Spiegò a Michael che differenza c’era fra una chitarra da flamenco, una chitarra classica e una chitarra acustica; gli mostrò un Dobro, un mandolino a F, e un vecchio banjo Vega a manico lungo, il “modello Pete Seeger”. Michael vagava in quell’ammasso, immerso nello stupore. — Ho preso qualche lezione più o meno un anno fa… conosco qualche accordo.

— Ah sì? — disse Emmett. — Be’, se la vuoi provare, laggiù c’è una vecchia Gibson. Non ha un grande aspetto, ma suona abbastanza bene.

Michael prese in mano la chitarra con riverenza.

Materiale da svendita, pensò, ma le meccaniche erano buone e le corde sembravano nuove. Arpeggiò un sol, un mi minore, un do. Si sentiva le dita intirizzite, ma gli accordi risuonarono.

Emmett raccattò la sua chitarra, una Martin dodici corde. — Ho chitarre fatte a mano, e ho chitarre straniere, ma alla fine torno sempre a questa vecchia Martin. Non è un granché intonata, ma ha un suono che mi piace troppo. — Si sedette su un panca con dietro le veneziane e il mare, e suonò un paio di pezzi complessissimi che fecero sentire Michael un dilettante senza speranze. Emmett sorrise attraverso la sua barba. — Vuoi suonare qualcosa?

Michael disse che forse sarebbe stato capace di seguirlo in qualche pezzo folk. Union Maid, o Guantanamera, o qualcosa del genere. — Coraggio, allora — aveva detto Emmett, e Michael aveva tentato sportivamente di stargli dietro mentre si lanciava in The Bells of Rhymney. Aveva una voce ruvida, forte e baritonale, e Michael rimase impressionato dalla sincerità con la quale cantò la vecchia canzone di protesta di Seegers “Non c’è forse un futuro, gridano le campane brunite di Merthyr…?” Lo fece rabbrividire.

Suonarono una mezza dozzina di pezzi, finché le dita di Michael non furono livide. Emmett fece un ampio sorriso. — Non male — disse. Infilò una mano nella tasca della camicia e tirò fuori qualcosa che Michael identificò come uno spinello. L’accese, aspirò, e lo porse a Michael.

Michael riuscì a mantenersi freddo. — Forse è meglio se non lo dici a mia madre.

— Del fumo?

Michael annuì.

— Disapprova?

— Disapproverebbe.

— Va bene allora — disse Emmett. — Rimarrà un nostro segreto.

Michael tirò con cautela. Aveva fumato un paio di volte, nella cantina di Dan, durante i fine settimana. Riuscì a non tossire, ma il fumo dolce e pungente lo attraversò come il vento. Sentì subito la testa leggera.

Fece il gesto di restituire la vecchia chitarra, ma Emmett lo fermò. — Tienila — disse.

Michael stralunò gli occhi. — Non è un’eredità. Finché la suoni, tienila. Se ti stanchi di suonarla, me la riprenderò.

Michael si cullò la chitarra in grembo. La luce pomeridiana si rifletteva sulla vernice. Non era poi così male come voleva far credere Emmett. Il dolore alle dita era passato, quindi il ragazzo impugnò lo strumento e fece un paio di accordi di un vecchio pezzo di Paul McCartney, Yesterday.

Emmett annuì con interesse. — È carina. L’hai inventata tu?

— Cosa? Non l’hai mai sentita?

— Avrei dovuto?

— I Beatles — disse Michael. — Sai, Lennon e McCartney. Sergeant Pepper, Abbey Road?

— Mai sentiti — disse Emmett allegramente. — Suonano alla tua scuola?

E così, Michael fu costretto nuovamente a ricordarsi che aveva fatto un lungo viaggio in macchina con sua zia Laura.

Era facile dimenticarselo. Non era come trovarsi in un paese straniero. Tutti parlavano inglese, e tutti guidavano sulla parte destra della strada. Tuttavia, pensò, quello era un paese straniero. Il concetto gli era familiare, grazie ai libri di fantascienza che aveva letto, un mondo parallelo.

Facile a dirsi. Meno facile averci a che fare. Aveva giocato a palla con Emmett sulla spiaggia, aveva guardato la TV, in pratica in quegli ultimi giorni si era comportato come se tutto fosse stato normale. Capiva che era questo che sua madre voleva da lui, e per il momento, almeno per un po’, era disposto a darglielo. E l’illusione funzionava; per diverse ore riusciva effettivamente a dimenticarsi quanto era successo in macchina, o prima ancora, a casa, con l’Uomo Grigio.

Ma poi la sua mente tornava indietro, e si ricordava che in realtà era uno straniero in quel luogo. E allora si affollavano le domande. Era ovvio che Laura possedeva quell’abilità, di uscire dal mondo lateralmente, e di conseguenza la possedeva anche sua madre, e forse poteva anche spingersi un po’ più in là; forse la possedeva anche lui.

E allora, che cos’erano? Una famiglia di mostri? Stregoni? Alieni spaziali?

L’erba gli aveva asciugato la gola, rendendogli la voce roca. — Credi che mia madre abbia qualcosa di strano? — disse.

Emmett sembrò imbarazzato dalla domanda. — Troppo presto per dirlo, amico. Tu che cosa ne pensi?

Michael scosse il capo. Non aveva importanza. — E Laura?

— Le voglio bene — disse Emmett cautamente. — È questo che vuoi sapere?

— No, no… voglio dire; che cosa penseresti se ti dicessi che è una strega?

— Direi che è meglio che moderi il tuo vocabolario. E che forse rivoglio la mia chitarra.

— Non intendevo questo. Intendevo… roba come poteri magici, e così via.

— Magia? — Emmett sembrava divertito. — Tua madre ha ragione, ragazzo. Forse dovresti star lontano da questa roba.

Così, Michael se ne andò a passeggiare sulla spiaggia, da solo.

Si portò dietro la chitarra di Emmett. La sua chitarra, adesso. La portava con cautela, cosciente del fatto che l’erba aveva influito leggermente sul suo equilibrio. Si fece strada fra le rocce per quello che gli sembrò un periodo infinito, ma quando si guardò alle spalle la casa era ancora perfettamente in vista. Si appollaiò su un blocco d’argilla dal quale poteva vedere la casa, così avrebbe saputo quando tornava sua madre ma senza essere necessariamente visto. Suonò alcuni accordi a vuoto. Evidentemente la roba di Emmett era piuttosto forte. Marijuana da mondo parallelo. Chiuse gli occhi e si sdraiò sulla superficie piatta della roccia, lasciando che il sole pomeridiano l’inondasse.

Io sono ciò che è mia madre. Io sono ciò che è la zia Laura.

Logica inconfutabile. Tuttavia, quel “ciò che è” rimaneva inspiegato.

Avvertì una specie di formicolio alle estremità, come un tremare delle dita. Premette le palme sulla superficie calda e sabbiosa della roccia. Argilla calda e catrame di spiaggia. Sono aggrappato, pensò. Mi sto ancorando qua.

Un’illusione, naturalmente. La solidità delle cose. La loro realtà. Che cos’era un mondo se ci si poteva uscire in macchina? Si rese conto che era una vecchia paura, e che una volta andava a letto con quella paura, la paura di sognare e di ritrovarsi accidentalmente fuori dal pianeta.

Non era mai successo. Non accidentalmente. Ma forse lo poteva fare di proposito.

Era una possibilità che non aveva mai osato considerare. Il solo fatto di farlo ora, sia pure nell’intimità della sua mente, lo faceva rabbrividire. Lo strano formicolio nelle sue mani aumentò; se fosse stato un suono, pensò, sarebbe stato un gemito acutissimo.

— Fallo — sussurrò.

Nessuno lo poteva ascoltare, tranne il mare e quel cielo increspato di nubi.

L’erba di Emmett aveva spazzato via le sue inibizioni. Lasciati trasportare, pensò. Perché no? Perché non ora, perché non qui?

— Fallo.

Si alzò a sedere, e allungò le braccia davanti a sé. Era cosciente del rumore del mare che si frangeva sugli scogli, e di un gabbiano distante che girava in circolo nel cielo per poi scendere in picchiata. Unì dapprima i due pollici, poi i due indici, formando un cerchio di mare e cielo fra le sue mani. Come uno schermo televisivo privato, pensò. Il formicolio si trasformò in una sensazione simile a un’ondata di elettricità. Quattro miliardi di volt correvano urlando nella sua spina dorsale, per concentrarsi ora tutti in quel cerchio di aria. Era una sensazione sconvolgente.

Allora, che cosa c’è alla tele?

Strinse gli occhi.

Immaginati che ci sia una tempesta, lì. Un vortice, un mulinello, e il mulinello è la somma di tutte le possibilità; porte e angoli che si aprono da questo luogo in centomila direzioni. Scegline uno da quella moltitudine. Sentilo. Seguilo.

Chiuse gli occhi, e li riaprì.

Teneva nelle mani un mondo verde e rosso.

Avrebbe potuto essere la stessa costa, Ma nel panorama che vedeva attraverso la cornice delle sue dita non c’era mare. Il verde era il verde delle alghe, di un ammasso in putrefazione che occupava uno spazio vastissimo, che svaniva solo all’orizzonte. Il rosso era il rosso degli ossidi e della polvere, della spiaggia priva di vita. Spostò le sue mani in direzione del paese, e vide un cratere, come uno stadio di baseball. Alcune figure si muovevano fra il pietrisco bruciacchiato attorno al cratere; figure con ruote, e con corpi simili a gru di acciaio luccicante. Macchine.

Le macchine cantavano a se stesse.

Cambiamento, pensò Michael, irritato.

Sfogliò di nuovo il libro delle possibilità.

Un mondo migliore, questa volta. Un mondo che sembrava venisse dalla copertina di un vecchio numero di Popular Science; veicoli alati, palazzi a cupola, moli di ossidiana che si insinuavano nell’acqua. C’era un porto pieno di barche con le vele di un bianco accecante. A diversi metri di distanza vide una bandiera; rossa con un simbolo nero: una foglia e un martello.

Michael stava sudando, ma era come ipnotizzato.

Cambiamento, si disse.

Una spiaggia deserta questa volta; né barche né uomini; solo alcune giovani foche che giocavano nelle pozze della marea. Le foche sollevarono i musi, come se avessero avvertito la sua presenza.

Cambiamento.

Neve che cadeva su strutture di metallo a spirale, nere e cupe…

Cambiamento.

…uomini in pelliccia che accendevano un fuoco…

Cambiamento.

…un mare pieno di navi grandi come intere città…

Cambiamento.

Smise quando fu completamente esausto.

Si accasciò sulla rassicurante piattezza della roccia.

Gli girava la testa.

Ci sono veramente, là fuori, pensò. Tutti quei luoghi, e milioni di altri.

E non si trattava solo di vederli. Ci sarebbe potuto andare. Avrebbe potuto attraversare la più impenetrabile delle barriere.

Capì che aveva un sacco di cose da imparare. Aveva sparato la sua attenzione in una dozzina di direzioni diverse, e forse questo non era buono. E per di più, non poteva certo spinellarsi ogni volta che voleva fare questo… e sapeva che voleva farlo ancora. Almeno aveva provato una cosa a se stesso; qualsiasi cosa potessero fare loro, la poteva fare anche lui.

È una cosa di famiglia, pensò.

Niente più segreti.

Si voltò verso la casa, e vide la macchina della zia Laura che si fermava. Ne uscì sua madre, che lo stava già cercando con gli occhi, con quell’aria ansiosa che assumeva molto spesso in quei giorni.

Ma le cose erano cambiate.

Michael si alzò in piedi, prese la malconcia chitarra di Emmett per il manico, spazzolò via la sabbia da dietro i suoi pantaloni, e si incamminò verso casa.

9

Michael rimase silenzioso, quella sera a cena. Anche sua madre era silenziosa, mentre faceva smorfie nell’ampia scodella orientale che le aveva piazzato davanti la zia Laura. Solo Laura parlava, mentre affettava lo zenzero o curava la sua pentola cinese wok.

Parlò del suo lavoro. Faceva la ceramista, e aveva un forno nel deposito dietro la casa, dove lavorava terracotta e porcellana che vendeva a caro prezzo ai negozi di souvenir lungo l’autostrada. Stava pensando a un nuovo tema floreale; qualcosa di semplice. Classico. Oh, e il cavolo cinese era fresco oggi. — Ha tutto un odore così buono, — disse la madre di Michael con aria distratta. — E il tempo, non era meraviglioso? — Lo era. — E così via.

Ma ogni tanto Laura guardava Michael con aria pensierosa. Lui se ne rese conto e iniziò ad acquistare una certa coscienza di sé. Capiva che il talento segreto di sua zia era abbastanza forte e palese, se si sapeva che cosa cercare: una specie di aura, o di emanazione. Michael si domandò se non avesse acquisito anche lui lo stesso aspetto.

Ma nessuno disse nulla.

Si svegliò il mattino dopo, ansioso di mettersi nuovamente alla prova. Sedette impaziente per tutto il rituale della colazione, guardò un po’ di televisione e indurì i suoi calli con la nuova chitarra. Voleva sgusciar via senza dare nell’occhio. Ma la situazione era un po’ tesa, con la zia e la mamma che giravano per casa in circoli continui. Stava quasi per arrendersi quando un paio d’ore prima dell’ora di pranzo sua madre annunciò che sarebbe andata lei a fare la spesa; era il minimo che potesse fare, disse, e se ne andò con la macchina della zia Laura, una lista delle compere, e una manciata di quelle assurde banconote di stato che a Turquoise Beach passavano per denaro. Michael salutò la Durant, poi s’incamminò con aria indifferente verso il retro della casa, con l’intenzione di passare accanto al laboratorio di ceramica per poi arrivare alla spiaggia. Ma quando aggirò la baracca del laboratorio, vide Laura che l’aspettava accanto al cancelletto di canne. Era troppo tardi per tornare indietro.

La zia Laura gli piaceva. Era solo un paio di anni più giovane di sua madre, ma sembravano molti di più. Lo metteva a suo agio. Era quasi sempre contenta. E questo era un grosso contrasto. In quei pochi giorni che avevano passato lì, Michael aveva cominciato a capire quanto fosse infelice sua madre in seguito al divorzio. La loro casa di Toronto era stata un profondo pozzo di silenzio. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che si erano sorrisi veramente? Un sacco di tempo.

La zia Laura invece sorrideva. Sorrideva anche adesso, in piedi accanto al cancelletto malandato con i suoi Levi’s e la sua maglietta. Aveva un paio di occhiali da sole rotondi, del tipo che Michael considerava occhiali alla John Lennon.

— Passeggiata? — gli chiese. Il tono della domanda era mezzo divertito e mezzo serio.

Michael era imbarazzato. — Più o meno.

— Sai — disse lei — credo che dovremmo parlare un po’.

— Mi piacerebbe — disse lui. — Qualche volta. Certo, ma…

— Parlare di te, Michael — disse. — Di ciò che sei in grado di fare. Di quello che stavi facendo sulla spiaggia ieri.

Non poté far altro che fissarla.

Laura aveva tirato a indovinare sulla lunga passeggiata di suo nipote del giorno precedente; basandosi su alcuni indizi, in particolare il suo aspetto, e su alcuni commenti di Emmett. A giudicare dalla sua espressione, aveva indovinato in pieno.

Ma la cosa più stupefacente, pensò Laura, era che non era mai accaduto prima di allora.

Guardò il nipote con la massima obiettività. Era un esemplare ragionevolmente rappresentativo del genere maschio adolescente. Un po’ sparuto con la sua felpa blu, i jeans slavati, i capelli corti e le scarpe da ginnastica Nike macchiate di sabbia. Stava cominciando ad abbronzarsi, e una leggera acne giovanile era in via di scomparsa. Aveva occhi scuri, e a volte furtivi, in un modo che le ricordava Karen. Anche Karen aveva quella stessa abitudine di evitare le verità scomode, ma in Michael era meno pronunciata.

Un tratto di famiglia, pensò.

Mio nipote, pensò. Il figlio di Karen. L’unica generazione che abbiamo prodotto… a meno che Tim non fosse in giro a mettere al mondo stregoni.

Passeggiò con lui lungo le viuzze silenziose dietro casa. Turquoise Beach era un paese di giardinieri, e le piaceva molto tutto quel verde tropicale che si riversava fuori dai giardini e dai pergolati: bouganville, aloe, edera. In mattinate come quella, l’aria era carica di profumi selvatici.

Sarebbe veramente dura lasciare questo luogo, pensò.

Ma non avevano ancora raggiunto quel punto.

— Tua madre non ti ha mai parlato di come andavano le cose a casa nostra? — disse. — Di tua nonna e tuo nonno, e di com’era la vita con loro?

Ovviamente, Michael non si era ancora adattato all’idea di quell’intervista. Scosse il capo. — Non molto. — Il che significava, pensò Laura, probabilmente mai.

Radunò i suoi pensieri. Come comunicare quello che intendeva dire in un modo che avesse senso per un ragazzo di quindici anni? Troppe antiche sofferenze. Era difficile trarne una buona storia. — Eravamo in tre — disse — io, tua madre e Tim. E poi tuo nonno e tua nonna. Ci muovevamo molto, ma papà aveva la sua targhetta d’ottone che attaccava ovunque ci spostavamo, “I Fauves”. Mi è sempre sembrato il nome di un qualche animale esotico. E a volte pensavo che eravamo proprio così; una specie separata.

Lo sguardo di Michael era circospetto ma interessato.

— Mamma e papà erano quelli che si possono definire gente normale. Gente da Mon Valley, o da fiume Ohio. Lo sento ancora, nel modo in cui parla tua madre… e anche in me, alle volte. Papà ha lavorato in diversi posti. Nelle fonderie, soprattutto, quando l’industria dell’acciaio era ancora fiorente. Era un saldatore, e sapeva usare il tornio. Ma beveva molto, e lo licenziavano spesso. Abitammo per un paio d’anni a Duquesne, e poi in diversi posti nei dintorni di Pittsburgh. Era un po’ difficile vivere con lui; conduceva una vita triste e amara. Infieriva parecchio su noi ragazzini — prese fiato, e vide che Michael la stava ancora ascoltando. — Forse per me era più facile. Io ero carina, ed ero quella di mezzo. Tim era il maschio. Quindi da lui ci si aspettavano certe cose. E Karen… be’, tua madre era la più grande, e forse era nella situazione peggiore. Ogni volta che io e Tim facevamo qualcosa che non andava, era lei quella che le prendeva.

— Dev’essere stata dura… — disse Michael.

— Essere quello che siamo? — era ovvio che intendeva questo. Il punto cruciale. Ma anche adesso, era difficile parlarne. Non avrebbe mai potuto dire certe cose, neanche a uno come Emmett. — Più dura di quanto non ti immagini. Quando eravamo piccoli facevamo dei giochi. Li chiamavamo “fare finestre” o “fare porte”. Eravamo consci, forse solo a livello istintivo, del fatto che era una cosa da tenere segreta. Allora lo facevamo di notte, o al buio, o fuori nella gola, dietro la vecchia casa di Costantinopole Street. E a volte… a volte ci scoprivano.

La sua voce era scesa a un sussurro. Michael le camminava accanto, con lo sguardo fisso sui lacci delle scarpe.

— Papà diceva che era la peggior cosa che una persona potesse fare. Il peggior peccato. Era un peccato talmente grave che non era neanche scritto nella Bibbia, tranne che nel punto in cui diceva di permettere a una strega di vivere. Era una cosa brutta e ci avrebbe messo nei guai… o ci avrebbe uccisi.

— Diceva così?

— In tutti i modi. Spessissimo. E a volte ce lo diceva anche con le botte.

Michael tornò a studiare il marciapiede.

Laura continuò: — Noi naturalmente lo prendevamo sul serio; ma per me, e ancora di più per Tim, la tentazione era sempre presente. Ci veniva naturale. Eravamo abili nel farlo. E così, certe volte, quando eravamo sicuri di non essere scoperti, lo facevamo; aprivamo finestre e porte. Lo facevamo, e poi pregavamo Dio affinché ci perdonasse. Ma Karen aveva preso veramente sul serio tutto questo. Credevamo tutti a papà, ma Karen gli credeva con una terribile, spaventosa intensità… credo che ne fosso accecata. Credo che, sotto un certo punto di vista, gli creda ancora.

Camminarono lungo la strada ombrosa fino a un angolo, e svoltarono a destra. Passarono ancora un paio di quelle case alte e vecchie, e si ritrovarono in uno spiazzo roccioso pieno di sassi e di erbacce. Un cavalletto giallo e nero con la scritta ATTENZIONE STRADA INTERROTTA segnava la fine dell’asfalto. Più in là c’era un promontorio erboso, e alla fine uno strapiombo sul mare di una ventina di metri. Sotto, l’acqua schiumava candida contro gli scogli.

Laura si sedette e si abbracciò le ginocchia. Michael si appoggiò a una roccia, e fissò la distesa d’acqua.

— Non sei abituato a pensare a tua madre in questo modo — disse lei.

— Credo di no. — Ci vuole un po’ per abituarcisi.

Sembrava molto pensieroso. Lei lasciò scorrere il silenzio. Quel posto le piaceva, e ci stava bene.

Michael prese un filo d’erba e lo divise a metà per il lungo. — Ed è tutto qui? — chiese.

— In che senso?

— Io non ho mai sentito parlare di nessuno che fosse in grado di fare una cosa simile. E tu? Voglio dire che non è come la percezione extrasensoriale o la stregoneria, sulle quali si può leggere qualcosa in un libro di biblioteca. Noi siamo nati tutti così, giusto? Ma perché? Da dove arriva?

Laura scrollò le spalle. — Non l’abbiamo mai scoperto.

— Vuoi dire — ribatté Michael — che non l’avete mai chiesto.

— Non c’è mai stato nessuno al quale lo potessimo chiedere. Non a mamma e papà, questo era sicuro. Loro non possedevano il talento. Bastava guardarli, e sapevi che loro non l’avevano. I loro genitori? Una volta ho conosciuto la nonna Fauve. Viveva in una vecchia casa a Wheeling con tre gatti e un dobermann incatenato alla baracca degli attrezzi. Era una signora anziana normalissima. E inoltre, credo che lo saremmo venuti a sapere se i nostri genitori discendevano da gente come noi. C’è un modo particolare di sottintendere le cose… e nessuno di loro parlava in quel modo.

— Allora è un mistero.

— Sì — acconsentì Laura. — È un mistero.

— Credi che riusciremo mai a svelarlo?

La domanda le toccò un nervo. Inarcò la schiena, e si voltò verso il vento del mare. Il vento saliva dalla scogliera come un fiume; tutti gli anni, ad agosto, la gente veniva lì a far volare gli aquiloni. Ma il tempo era cambiato. Ora faceva troppo freddo.

Si voltò verso suo nipote e disse: — Forse saremo costretti a farlo.

Prima di tornare a casa, Laura gli disse: — Mostrami che cosa sai fare.

Dapprima, Michael fu riluttante. Era una cosa intima, una cosa che aveva appena scoperto. Ma poi pensò a ciò che gli aveva detto, che era molto di più di quanto non gli avesse mai detto sua madre, e pensò che in un certo senso glielo doveva.

Ma forse non riusciva a farlo. Forse aveva perso l’abilità. Forse doveva essere «fumato» per farlo… forse era troppo nervoso.

Tese le braccia in avanti e unì gli indici e i pollici come aveva fatto il giorno prima. Non accadde nulla. Disperatamente, Michael cercò dentro di sé quella scintilla di elettricità che era riuscito a evocare giù sulla spiaggia. Si ricordò la sensazione, il modo in cui sembrava venire non da lui ma attraverso di lui, succhiata dalla terra; quella strana tensione elettrica di granito, di calcare, di fondale marino, di magma e di tettonica. E così, ricordandosela, iniziò infine a sentirla nuovamente; dapprima debolissima, come un formicolio, poi qualcosa di più intenso. , pensò, e aprì fra le sue mani un vortice di possibilità.

Le mostrò il mondo devastato e senza oceano che aveva scoperto il giorno prima. Le mostrò il mondo vuoto; oggi le foche erano tutte radunate più in là lungo il litorale, e cadeva una pioggia grigia. E le mostrò luoghi che non aveva mai visto prima, luoghi completamente diversi da Turquoise Beach; mondi deserti, un oceano mai interrotto dalla terra, un cielo di alte nubi color lavanda… e ancora. In un angolo della sua mente aveva la vaga coscienza di Laura appena fuori dal suo campo visivo, che sbirciava da dietro la sua spalla. Le sue esclamazioni di stupore, che percepiva appena, lo rendevano felice. Anche lei lo vede, pensò. Non era un’allucinazione, e non era pazzo, e non era solo. Ormai eccitatissimo, passò attraverso una dozzina di cambiamenti a raffica, finché un senso di fatica, una specie di stanchezza interna, non lo costrinse a fermarsi.

Si accasciò contro un masso. Gli pulsava il cervello. Prese una grande e soddisfacente boccata d’aria e disse: — Com’era? Andava bene?

Laura lo fissò come da molto lontano. La sua voce uscì debole e gracchiante: — Non sono mai riuscita a fare tanto…

La discussione fra le due sorelle scoppiò di sera, anche se la tensione era stata viva per tutta la giornata.

Era la loro terza settimana in quella casa. Parte della tensione di Karen derivava indubbiamente dallo stress di vivere gomito a gomito con Laura, che in fondo era ancora quasi una sconosciuta per lei. In più, era ancora in quel periodo di adattamento che segue inevitabilmente qualunque cambiamento improvviso.

Ma questa era solo una parte. C’era un’altra cosa che la disturbava più profondamente. Il mondo in cui abitava Laura le sembrava, stranamente, troppo familiare. Proprio quando Karen iniziava a sentirsi a casa sua, inciampava in qualche incongruenza che le faceva girare la testa. Il giorno prima, ad esempio. Era in coda al negozio di alimentari, e aveva sentito una commessa che diceva al cassiere che John F. Kennedy era morto: in pensione, nel New England, a 72 anni. Un infarto, aveva detto. — Be’, ammiravo quell’uomo, anche se era un cattolico.

MORTO L’EX PRESIDENTE JOHN FITZGERALD KENNEDY, scrivevano i titoli del L.A. Times. I funerali erano previsti per la domenica. Le autorità si sarebbero radunate a Washington. Il presidente Bartlett esprimeva il suo cordoglio, e così via.

Tutti quegli anni prima, pensò Karen, per chi aveva pianto?

Si può veramente eliminare una pallottola? Solo desiderandolo?

Era rimasta stordita per diverse ore, rimuginandoci sopra.

Ma non era solo quello. C’era anche l’atmosfera del paese stesso, Turquoise Beach, con la sua vita facile che sembrava piacere tanto a Laura. A Karen piaceva molto meno. Era di un edonismo senza scopi, e non era certa di volere che Michael vi rimanesse esposto ancora molto a lungo. Michael aveva preso in simpatia Emmett, il ragazzo del piano di sotto di Laura; Emmett, che suonava la chitarra per vivere, e che Karen aveva notato giù sulla spiaggia a fumare erba, la sera.

Tutto ciò contribuiva allo stress di Karen. Ma fu Laura ad iniziare la discussione, insistendo sul voler parlare di Michael.

Michael era andato a letto. Laura stava finendo di lavare i piatti. Karen si era messa la camicia da notte e la vestaglia, ma non riusciva a dormire, e quindi sedeva in cucina, sotto la fluorescenza fredda delle luci sul soffitto, ascoltando il rumore dei piatti bagnati che si urtavano fra di loro nel lavandino.

Laura declinò la sua offerta di asciugare le stoviglie e disse: — Sai, credo che dovresti veramente parlargli.

— Michael sta bene — rispose Karen. — Si è adattato bene in questi ultimi giorni.

— Non credo che certe banalità siano ancora utili ormai, vero? Capisci cosa voglio dire…

— Il talento — disse Karen. — Deve per forza incentrarsi tutto su questo?

— Questa volta sì. Non hai mai pensato a come deve essere disorientante e confusa questa faccenda per lui? Non solo Turquoise Beach, ma anche tutto quel casino che c’è stato prima che partiste… l’Uomo Grigio. Che cosa dovrebbe pensare di questo?

Preferirei, pensò Karen, che non ci pensasse affatto. Sapeva che sarebbe stato ridicolo dire una cosa simile, ma sarebbe stato molto più semplice se… — Sarebbe molto più semplice — disse — se potessimo limitarci a condurre una vita normale, qui.

— Normale! — sua sorella lasciò cadere una brocca di plastica nel lavandino. — Tu tieni a quella parola come fosse una specie di reliquia religiosa! Voglio dire, io ti capisco… ma Cristo, Karen non sono sicura che tu e io possiamo permetterci di aspirare ad essere “normali”!

— Per il bene di Michael!

— È proprio di questo che sto parlando. È un ragazzino sveglio, è curioso, e credo che si meriti tutte le spiegazioni che siamo in grado di dargli.

Karen rimase in silenzio per un po’. — Speravo di tenerlo al di fuori di tutto questo — disse infine.

— Sei un po’ in ritardo.

Laura si asciugò le mani e si sedette al piccolo tavolo quadrato.

— Michael è un ragazzo brillante e curioso. Dovrebbe parlare con te di queste cose, non con me.

Karen alzò lo sguardo di scatto. — Ha parlato con te?

— Sì.

— Che cosa gli hai detto?

— La verità.

Karen rimase a bocca aperta. — Tutto? Voglio dire, anche quello che succedeva a casa, con Tim, e papà, e tutto quanto?

— Tutto quanto.

Era mortificata. Era avvenuto tutto alle sue spalle. — Non è ancora pronto! Ha solo quindici anni! — Era come una cospirazione. — Cristo, Laura, è mio figlio! Avrò pure il diritto di prenderle io, certe decisioni!

— È tuo figlio, e mi dispiace se ho interferito. Ma è anche un ragazzo molto confuso che ha un disperato bisogno di risposte. Sarebbe dovuto venire da te… ma non l’ha fatto. Ha sentito che non ci sarebbe riuscito.

— E allora è venuto da te? Ma perché? — Si sentiva ferita. — Perché fai parte di questa utopia hippy? E che cosa gli hai detto? Che va tutto bene, basta che indossi un po’ più spesso i jeans stretti e slavati?

Laura si alzò in piedi e tornò al lavandino, fissando la finestra, completamente buia. Karen poteva vedere il suo viso riflesso nel vetro, con le labbra serrate.

— Questo è il meglio che sono riuscita a ottenere — disse Laura. — Lo capisci questo? Io credo… io credo che, di qualunque cosa si tratti, il nostro talento è in qualche modo legato all’immaginazione. L’abilità di vedere cose che non ci sono, o almeno di vederne la forma, il contorno. Io volevo trovare il miglior posto che potevo, un posto dove vivere, un posto sano. Volevo farlo esistere con i miei sogni. E questo è il meglio che sono riuscita ad ottenere — scrollò le spalle. — Forse non sono riuscita a ottenere un granché.

— Io non volevo dire questo…

— Forse Michael potrebbe fare di meglio. Non ci hai mai pensato a questo?

— Michael? — ripeté Karen, presa in contropiede.

— È abbastanza ovvio. Prova a guardarlo, qualche volta. Intendo guardarlo veramente. — Laura si voltò nuovamente verso di lei. Le sue dita stringevano il bordo del lavandino. — Io credo che abbia più talento di noi… forse ha anche più di Tim.

Ma non era il genere di cosa sulla quale Karen volesse riflettere.

Era già un male che Michael avesse dovuto sapere tutto. Era già un male che lei l’avesse portato lì. Era già un male che Laura l’avesse trascinato in quella vecchia disgrazia familiare. Era un male, ma in fondo poteva anche essere comprensibile. In fin dei conti ne faceva parte, e forse lei avrebbe dovuto parlargliene.

Ma non aveva voluto ammettere con se stessa che anche Michael potesse avere il talento.

Non si era permessa di crederlo. Era un grande tabù. L’ultima volta che aveva considerato quell’idea (il ricordo tornò vivido nella sua mente) era stato quando era incinta. Michael allora non era ancora Michael, era solo una presenza dentro di lei; uno strano peso, una vita che si schiudeva dentro il suo ventre. Sdraiata nel suo letto, di notte, sentendolo scalciare, si era permessa il pensiero: E se fosse come me? Immaginò che fosse come avere una di quelle malattie genetiche, come quella di Woody Guthrie. Aveva guastato la sua vita, e avrebbe potuto guastare anche quella di suo figlio.

Sarebbe stata in grado di sopportare una cosa simile?

Si era addossata a Gavin, che dormiva profondamente, finché il suo calore non le aveva invaso il corpo. A quel punto, cadendo in un sonno tormentato, aveva deciso che non avrebbe neanche considerato quella possibilità. Il loro figlio sarebbe stato normale. Lei lo avrebbe reso normale. Avrebbe desiderato la sua normalità, avrebbe pregato per la sua normalità; la loro sarebbe stata una casa normale. Certamente questo era sufficiente?


E così, naturalmente, Laura aveva ragione. Aveva trasformato quella parola, “normale”, in un’icona. Era un dono, e lei aveva tentato di dare quel dono a Michael. Aveva provato, e, be’ era anche ovvio, aveva fallito.

Alzò il capo, e fissò la sorella. — Stai dicendo che sono io quella che è scappata via… che si e nascosta.

— Una volta lo credevo. Ma ora non credo di poterne essere così sicura. Credo che siamo scappate via tutte e due, ognuna a modo suo. Michael è diverso — aggiunse.

— Che cosa intendi? — chiese Karen, leggermente spaventata.

— Non ha mai imparato ad averne paura. Ha fatto delle domande alle quali né io né tu possiamo rispondere. Abbiamo ereditato tutto questo? È un miracolo, o è qualcosa che possiamo capire?

Karen scosse il capo. — Non ci sono risposte.

— Non possiamo esserne certe. Non le abbiamo mai cercate veramente.

— E come avremmo dovuto fare?

— Karen, non lo so. Ma io credo che dovremmo cominciare da casa, con mamma e papà. E probabilmente dovremmo anche parlarne a Tim.

— Ma è assurdo.

— Lo è?

— Qui siamo al sicuro.

— Lo siamo? — ribatté Laura.

— Che cosa vuoi dire?

Parlò con tono attento e misurato. — L’Uomo Grigio. Questa è un’altra cosa della quale non abbiamo mai parlato. Ma è lo stesso uomo, non è vero? Lo stesso uomo che vedemmo quella sera nella gola, con Tim, tanti anni fa.

Karen fu improvvisamente proiettata nel suo sogno, nelle strade buie di quell’altra città di mare, con i ciottoli freddi sotto i suoi piedi nudi, e l’Uomo Grigio — era proprio lui — che offriva loro dei doni dalle cavernose profondità delle sue tasche. E anche Laura lo ricordava, e di conseguenza non era un sogno. Si trattava di un ricordo, e solo il suo disperato desiderio di non crederci l’aveva convinta del contrario. — Non può trovarci qui — disse.

— Non sai quanto mi piacerebbe crederlo. Solo che non so se sia vero o meno. Il fatto è che noi non lo sappiamo. Non è proprio questo il punto? Non ne sappiamo abbastanza per proteggere noi stessi.

— Ma hai detto tu che qui saremmo stati al sicuro!

— Più al sicuro del luogo in cui vivevate. Ma non so ancora per quanto.

— Non voglio tornare a casa — sussurrò Karen. — Non voglio tirare fuori nuovamente tutto quel casino.

Laura strizzò lo straccio dei piatti e lo appese ad asciugare. Si avvicinò a Karen, e le appoggiò le mani sulle spalle. Il contatto era fresco, rilassante. — Neanch’io — disse. — Tu non sai quanto io desideri non tornare a casa. Non lo farei per me stessa, e se vuoi sapere la verità, non lo farei neanche per te. Ma credo che invece dobbiamo farlo; per Michael.


Quella notte, Laura dormì al piano di sotto, con Emmett. La loro relazione andava e veniva, solitamente a discrezione di Laura. Emmett era quasi patologicamente indifferente per quanto riguardava le relazioni. Se Laura voleva essere la sua donna, gli stava bene. Se aveva qualcos’altro da fare, o qualcun altro da vedere, be’, riusciva a vivere anche così.

Non era una atteggiamento malsano; e per di più rispecchiava abbastanza l’approccio della stessa Laura, ma certamente peccava di qualcosa dal punto di vista della passione.

Ma quella sera, lei aveva bisogno del suo calore. Stava sdraiata accanto a lui nel suo letto, un vecchio letto malandato con le colonnine che aveva recuperato in un negozio di anticaglie a Pueblo de Los Angeles, accoccolata nell’incredibile materasso di piumino. Avevano fatto l’amore, e ora la stanza da letto era buia o fresca; una nicchia confortevole. A volte le piaceva immaginare il letto di Emmett come una barca a vela alla deriva in mezzo al mare, con le assi che scricchiolavano. Pensava che era un buon modo per addormentarsi.

Emmett si alzò a sedere, accese una canna e gliela passò. Lei tirò, ma solo un pochino. Aveva paura di andare in paranoia. Ma così andava bene, perché avrebbe smussato gli angoli delle cose. Quella sera voleva tranquillità, calma e rilassamento.

Al di fuori delle tende di bambù c’era l’oscurità, e il suono delle onde. La grande mano di Emmett si mosse adagio, accarezzandole una spalla. Il lenzuolo di Emmett era leggero e fresco come la pioggià. Emmett fece un gran tiro, e lei vide la brace dello spinello che brillava nell’oscurità.

— Che cosa penseresti se io me ne andassi? — chiese, quasi senza volerlo.

Emmett, i cui tempi di reazione erano piuttosto lenti anche quando non era fumato, ci pensò su. Dopo un po’ disse: — Dove te ne vai? E per quanto tempo?

Accarezzò i peli irsuti del suo petto. — Non posso dirti dove. Forse per un po’.

— Tanto tempo?

— Potrebbe anche essere. Che cosa diresti?

— Ti chiederei — disse Emmett con aria pensierosa — se intendi tornare o no.

— Tornerò quasi sicuramente — disse — Stai sfuggendo alla domanda.

— La sai già, la risposta. — Si sedette a gambe incrociate, e lei ammirò il modo in cui un raggio di luce lunare giocava sulle sue anche nude. Carne pallida, come montagne distanti. — Mi mancheresti fino al tuo ritorno — disse.

Avrebbe dovuto farle piacere. Stranamente, non fu così.

Era arrabbiata con Emmett, e anche con se stessa. Che cosa voleva realmente che le dicesse? “Non posso vivere senza di te?” “Rimani o mi sparo un colpo?” Aveva coltivato un certo tipo di relazione, e non poteva certo lamentarsi se lui cooperava.

Eppure (ora la sua irritazione stava raggiungendo il culmine), non si trattava solo di Emmett. Si trattava di tutto; di Turquoise Beach, e della sua vita lì. La visita di Karen aveva risvegliato troppi vecchi ricordi. Laura era arrivata subito dopo la sconvolgente spirale psichedelica di Berkeley alla fine degli anni sessanta, e Turquoise Beach le era sembrata come una colonia distante, un avamposto più dolce dello stesso impero frastornante.

Eppure… eppure in quei giorni era stata carica di energia, ossessionata dall’idea di andare oltre, più avanti, più in profondità. Da allora, anche se in maniera impercettibile, un centimetro per volta, la sua vita era rallentata. La rivelazione finale, quella che chiamavano la “luce bianca” nelle loro sedute universitarie a base di LSD, rimaneva sempre al di fuori della sua portata. E così il fervore era sceso. E la vita era diventata semplicemente piacevole.

La sua relazione occasionale con Emmett era piacevole. Sarebbe sempre stata piacevole. Ma Karen, e questo Laura non se l’era aspettato, aveva portato un esempio di moralità. Karen era arrivata lì con il suo conformismo coercitivo, la sua eccessiva considerazione per la “normalità”, con tutte le sue vecchie paure intatte; eppure Laura aveva visto il modo in cui si preoccupava per suo figlio; in maniera profonda, inesprimibile, con tutto il cuore, e aveva capito che le sue passioni, al confronto, erano insignificanti, e che la sua idea dell’amore era limitata ed egoistica. Karen amava Michael in un modo che andava veramente oltre, più avanti, e più in profondità.

Sentì un’ondata di vertigine causata dalla fortissima erba di Emmett. Ebbe l’impressione che il letto roteasse all’indietro. La notte aveva preso improvvisamente il sopravvento, come un muro.

L’amore, pensò, è una cosa molto pericolosa.

Emmett si stiracchiò, prossimo ad addormentarsi. Girò la testa sul cuscino. — Sai — disse con voce distante — Mike aveva ragione, forse sei veramente un po’ strana.

Ma il tempo passò; una settimana, dieci giorni, e Laura iniziò a pensare che si era preoccupata per nulla, che era stata irragionevolmente paranoica… questo fino alla sera in cui Michael arrivò a casa terreo in viso, dicendo che aveva visto l’Uomo Grigio sulla spiaggia.

10

— Chi è? — Michael non poteva trattenere ancora quella domanda. — Da dove arriva?

Ma sua madre e sua zia si limitarono a scambiarsi uno sguardo furtivo, come per ricordarsi vicendevolmente una colpa reciproca, un contratto le cui clausole erano infine scadute.


Si era arrampicato nuovamente sulla scogliera, nello stesso punto in cui aveva parlato con sua zia un paio di settimane prima.

Michael capiva perché le piaceva quel posto. Ci si voltava in una direzione, e si poteva vedere Turquoise Beach incastonata nelle colline in blocchi razionali e puliti. Bastava invece voltarsi dall’altra parte per vedere l’oceano, con la schiuma delle onde che rifletteva il bagliore del sole. L’altezza faceva sembrare tutto molto lontano, immobile e molto stilizzato.

Quel giorno anche l’aria era ferma. Si piazzò in modo da poter vedere la parte più sabbiosa della spiaggia, verso nord, dove alcune persone si erano sdraiate sui loro asciugamani per catturare quello sprazzo di sole di tardo ottobre. Michael fissò le sagome distanti di quei corpi color sabbia mentre strimpellava motivi inconsulti sulla Gibson. Ora le sue dita erano un po’ più sciolte, grazie alla pratica giornaliera. Suonò alcuni pezzi dei Beatles, e pensò divertito a quanto sarebbe rimasto colpito Emmett. Ehi! Pensò, se rimaniamo qui, diventerò un autore di musica; mi chiamerò Lennon McCartney.

In quelle ultime settimane, si stava esercitando anche nell’altro suo talento. Laura gli aveva insegnato molto. Gli aveva mostrato l’importanza della disciplina, del controllo.

— Potenzialmente hai un grande talento — gli aveva detto — ma devi imparare a concentrarlo, a mirarlo. È come la differenza fra andare dove si desidera ed essere sballonzolati qui e là in una tempesta. Devi sapere dove stai andando, e devi sapere come tornare indietro.

Lei era con lui, quando fece una porta per la prima volta. In un angolo di spiaggia, fra due grossi massi, Michael aveva aperto un passaggio, tenendolo aperto finché l’avevano varcato entrambi. Erano passati da Turquoise Beach al mondo deserto che aveva visto attraverso la finestra delle sue dita, con le orde di foche che si muovevano lungo la spiaggia in masse scure. Si era trovato sotto il sole brillante con Laura alle spalle, e le foche avevano tutte alzato immediatamente il muso per guardarli, dondolando le teste con aperta curiosità. Michael aveva subito capito che nessuno aveva mai dato la caccia a quegli animali… sapeva senza neanche pensarlo che in quel pianeta l’Uomo non esisteva.

Laura poi gli aveva mostrato la via del ritorno, si era congratulata con lui, e gli aveva detto di non farlo più.

Lui ne fu stupito. — Perché?

— Perché non è un gioco — gli aveva detto. — Perché potrebbe essere pericoloso. E poi c’è anche un altro motivo. Non lo so per certo, ma credo che potrebbe attirare l’attenzione… a volte mi chiedo se non sia una specie di richiamo.

Perché, pensò Michael, al contrario delle foche, a noi stanno dando la caccia. Laura non l’aveva detto, ma era questo che intendeva. Qualcuno gli stava dando la caccia.

In piedi sul promontorio, da solo, fece una piccola finestra con le dita. Certamente quello non avrebbe attirato l’attenzione… Guardò la spiaggia distante fra le sue dita, avvertì un primo formicolio di energia dentro di sé… e poi si fermò. C’era qualcosa di familiare laggiù…

Poi, nel cerchio delle sue dita, Michael vide l’Uomo Grigio.

Il suo stupore fu immenso. Lasciò cadere le mani sui fianchi, strofinandosele sui jeans come se avesse toccato qualcosa d’infetto. Fece qualche passo indietro molto lentamente, e si accucciò, nascondendosi dietro all’erba alta e al dislivello del promontorio.

Poi si fece nuovamente avanti, sudando. L’Uomo Grigio, Camminatore, era ancora lì sulla spiaggia, in mezzo ai bagnanti con il suo cappotto grigio e il suo cappello, come in una brutta allucinazione. Incredibilmente, nessuno ci faceva caso. Era invisibile, pensò Michael. Una magia. Camminatore lo poteva fare; rendersi invisibile in una folla. Niente gli sembrava impossibile oramai.

E ora l’Uomo Grigio lo fissava da lontano.

Michael si sentì esposto, vulnerabile. Mi vede. Si rese conto che Laura aveva ragione, che l’Uomo Grigio era attirato dalla sua energia. O forse era attirato a prescindere dal fatto che si esercitasse o meno. Era risucchiato dalle porte nascoste del mondo; si poteva scappare da lui, ma non si poteva sfuggirgli definitivamente. Lui ci vede, pensò Michael.

Si alzò in piedi. A quel punto non c’era più motivo per non farlo.

Ormai si era stabilita una comunicazione, un contatto. Fissò l’Uomo Grigio attraverso la spiaggia sabbiosa, e fu come se l’altro si allargasse, fino ad occupare per intero il suo campo visivo. Michael immaginò di sentire la voce dell’Uomo Grigio nella sua testa, dolcemente insinuante.

Tu meriti una spiegazione, disse l’Uomo Grigio. Io posso dartela.

No, pensò Michael. Nessun baratto. Gli stavano dando la caccia. Questo lo sapeva ormai. Sarebbe stato pazzo ad accettare qualunque genere di offerta… era pazzo a stare lì in piedi, ipnotizzato.

Ma la voce era irresistibile.

Io ti conosco, Michael.

Sentì che c’era una verità in quelle parole.

Io ti conosco meglio di loro.

Il Camminatore si avvicinò alla scogliera. I suoi movimenti erano cauti, delicati. I suoi occhi erano fissi su quelli di Michael. Anche a quella distanza, Michael ne avvertiva la pressione.

Vieni con me, disse l’Uomo Grigio.

Dove? Si domandò Michael. Dove vuole portarmi?

La risposta fu immediata. Chiuse gli occhi, e nel buio delle sue palpebre vide un’antica città industriale, con strade acciottolate, edifici alti e neri, un cancello di pietra che recava incise le immagini di un occhio e di una piramide. Be’, che diavolo, pensò Michael, io ci posso andare, se voglio. Era fiero delle sue nuove abilità. Io lo posso trovare, quel posto.

Possiamo andarci assieme.

Non era molto distante…

Ma venne distratto da un barlume di colore sulla spiaggia. Una bambina corse su dal bagnasciuga, con un costumino intero di un giallo brillante. Corse verso l’Uomo Grigio. Lo vedeva, pensò Michael. Si trattava di un elemento che la sua magia aveva trascurato. Gli corse incontro, si accasciò a terra, e lo fissò; fissò quell’uomo misterioso, quell’Uomo Invisibile, o per lo meno quell’uomo che non era vestito da spiaggia.

L’incantesimo si ruppe quando l’attenzione di Michael si spostò. Annaspò, rendendosi conto che si era trovato sull’orlo di una terribile capitolazione.

Sentì l’irritazione dell’Uomo Grigio che saliva dalla spiaggia come una brutale ondata di calore. Con un movimento quasi casuale, Camminatore fece un gesto con la mano verso la bambina, e la bambina cadde all’indietro fuori dal tempo. Un movimento che Michael riuscì a malapena a percepire, come un tuffo nel caos delle possibilità. La bambina era scomparsa dalla spiaggia senza un rumore.

Michael rimase un attimo interdetto, scioccato da quanto aveva visto. Era stato un omicidio eseguito con la stessa freddezza con la quale si uccide una mosca.

Fissò nuovamente l’Uomo Grigio, e poi si voltò per correre via lungo la discesa erbosa del promontorio, oltrepassando le vecchie case bianche e i loro giardini invernali, con la chitarra di Emmett che risuonava sbattendo contro il suo fianco in bizzarre stonature.

In lontananza, sentì la voce di una donna che chiamava.


Sua madre sembrò rimanere paralizzata dalla notizia. Sua zia agì con maggiore tempestività. Chiuse la porta a chiave e disse a Michael di fare le valigie. — Dirò a Emmett di chiudere giù da basso — e se ne andò verso la camera da letto.

— Zia Laura?

Laura si fermò, voltandosi.

— Chi è? — chiese Michael.

Lei fece una smorfia. — Non lo sappiamo veramente. Credo… credo che faremo meglio a scoprirlo.

— Partiamo in mattinata?

— Sì.

— Dove andiamo?

Sua madre ruppe il silenzio; i suoi occhi erano cerchiati, e la sua voce debole.

— Andiamo lontano — disse. — A casa.

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