L’archveult Xexamedes, mentre stava scavando delle radici di genziana nel Bosco Mannaro, cominciò a sentire un gran caldo per lo sforzo prolungato. Toltosi il mantello, si rimise al lavoro ma, lo scintillio azzurro delle pietre venne notato da Herark il Nunzio e da Shrue. Avvicinatisi di soppiatto, di colpo balzarono fuori per fronteggiare l’essere. Quindi, dopo avergli lanciato un paio di cappi attorno al collo flessibile, lo immobilizzarono in modo che non potesse recare alcun danno.
Dopo molti sforzi, tutta una serie di minacce, nonché parecchie contorsioni e divincolamenti, i Maghi trascinarono Xexamedes al castello di Ildefonse, dove convennero molti altri Maghi della zona tutti ugualmente agitati ed emozionati.
In passato, Ildefonse era stato precettore dei Maghi e, proprio in virtù di questa vecchia carica, assunse ora il compito di dirigere la riunione. Come prima cosa, chiese all’archveult quale fosse il suo nome.
«Io sono Xexamedes, e tu lo sai bene, vecchio Ildefonse!».
«È vero», disse Ildefonse, «ora ti riconosco, nonostante che l’ultima visione che io abbia avuto di te sia quella della tua… schiena, quando ti costringemmo a fuggire a Jangk. Sei consapevole del fatto che, rimettendo piede qui, sei incorso in una sicura condanna a morte?».
«Non sono incorso in alcuna condanna, Ildefonse, e questo perché non sono più un archveult di Jangk. Mi sono trasferito sulla Terra, e quindi dichiaro di essere tornato completamente alla condizione di uomo. Comunque, pure i miei simili non nutrono nei miei riguardi molta considerazione».
«Benissimo» sentenziò Ildefonse. «Tuttavia il bando è, ora come allora, molto chiaro ed in vigore. Ma adesso, dove abiti?» Questa domanda era del tutto casuale, per cui Xexamedes rispose in modo piuttosto vago.
«Vado e vengo: e mi piace assaporare l’aria della Terra che è tanto diversa dai vapori chimici che vi sono su Jangk».
Ma Ildefonse non si lasciò andare ad altri discorsi, e gli chiese: «Che cosa hai portato con te; e, per essere precisi, quante Pietre Ioun in particolare?».
«Preferirei parlare di altre cose», rispose Xexamedes. «Ora come ora, desidero essere accolto fra di voi e, in qualità di vostro futuro compagno, giudico che questi cappi siano oltremodo umilianti e disdicevoli».
A questo punto l’iroso Hurtiancz gridò: «Facciamola finita con questa insolenza! Parlaci delle Pietre Ioun!».
«In effetti ho portato con me qualcuno di questi gingilli», disse Xexamedes, con la maggior dignità possibile.
«E dove sono?».
Rivolgendosi ad Ildefonse, Xexamedes chiese: «Prima che risponda, posso sapere quali sono le vostre intenzioni?».
Ildefonse si accarezzò la barba bianca e alzò gli occhi verso un candeliere con aria meditabonda. «Il tuo destino dipende da molte cose. Il mio consiglio spassionato è quello di consegnare le Pietre Ioun che sono in tuo possesso».
«Sono nascoste sotto il pavimento della mia casa», si decise a dire finalmente Xexamedes, con tono offeso.
«E questa casa dove si trova?».
«Sul confine più lontano del Bosco Mannaro».
Rhialto il Meraviglioso balzò in piedi. «Aspettatemi tutti qui. Andrò di persona a controllare se quanto afferma costui risponde al vero».
Gilgad l’Incantatore, fece un ampio gesto con le braccia e disse a sua volta: «State calmi! Io conosco tutta la zona perfettamente, per cui andrò io».
A questo punto Ildefonse ritenne opportuno intervenire e disse con tono privo di qualsiasi emozione: «Stabilisco che venga costituita una Commissione formata da Rhialto, Gilgad, Hurtiancz, Mune il Mago, Kilgas, Ao degli Opali e Barbanikos. Tutti insieme si recheranno in questa casa, e porteranno qui tutto il materiale introdotto di contrabbando che troveranno. Per ora la seduta è aggiornata sino al loro ritorno».
Tutta la roba di Xaxemedes venne sistemata, ad un certo punto, su un mobile situato nella grande sala di Ildefonse. Tra le altre cose c’erano anche trentadue Pietre Ioun che erano costituite da delle sfere ovoidali, ognuna delle quali aveva la dimensione di una piccola prugna, e mostravano dei luccichii all’interno color del fuoco. Una rete era sistemata su di loro per impedire che potessero sollevarsi e volar via come delle bolle colorate.
«Ora abbiamo una base dalla quale partire per effettuare ulteriori indagini», disse Ildefonse. «Dicci Xexamedes, da dove provengono esattamente questi oggetti mirabolanti?».
Xexamedes drizzò le alte piume nere in segno di sorpresa, autentica o meno che fosse. Era ancora avvinto dai cappi: Haze delle Acque Stanche teneva una delle due corde, mentre Barbanikos teneva l’altra in modo che Xexamedes non fosse in grado di toccare nessuno dei due. E Xexamedes domandò: «E l’invincibile Morreion non vi ha detto quello che sapeva?».
Ildefonse aggrottò la fronte, sconcertato. «Morreion? Quel nome mi era quasi completamente passato di mente… A quali avvenimenti è collegato?».
Herark il Nunzio, che conosceva le tradizioni di venti eoni, disse: «Quando gli archveult vennero sconfitti, fu stipulato un patto. In cambio della vita, si impegnarono a rendere nota la fonte delle Pietre Ioun. Fu proprio il Nobile Morreion che ebbe l’incarico di recarsi ad apprendere questo segreto ma, da quel momento, non se ne è saputo più nulla».
«Gli venne rivelata ogni cosa», affermò Xexamedes. «Se volete venirne a conoscenza anche voi, ebbene… trovate Morreion!».
Ildefonse chiese ancora: «Come mai non ha più fatto ritorno?».
«Non ve lo posso dire. C’è qualcun altro che voglia conoscere l’origine di quelle pietre? Sarò ben lieto di mostrare ancora una volta tutta la procedura».
Per un breve momento nessuno parlò. Poi Ildefonse disse: «Che ne pensi, Gilgad? Mi sembra che Xexamedes abbia fatto una proposta interessante».
Nel rispondere, Gilgad si passò la lingua sulle labbra scure: «Prima di tutto voglio una descrizione verbale della procedura».
«Certamente», rispose Xexamedes. «Permettimi solo di consultare un documento». Quindi si avviò verso il mobile dove era situata la sua roba e, nel fare questo, fece urtare l’uno contro l’altro Haze e Barbanikos: quindi, con un balzo, si voltò indietro. A questo punto, approfittando del fatto che le corde che lo tenevano avvinto si erano allentate, afferrò Barbanikos e fece traspirare un impulso galvanico. Una marea di scintille si sprigionò dalle orecchie di Barbanikos, che spiccò un salto per aria ricadendo quindi al suolo svenuto. Xexamedes strappò la fune dalle mani di Haze e, prima che qualcuno potesse impedirglielo, fuggì di gran carriera dalla sala.
«Prendetelo», urlò Ildefonse. «Non fatevelo scappare».
I Maghi si dettero all’inseguimento dell’archveult che si stava allontanando rapidissimo. Xexamedes corse attraverso le colline di Scaum, fin oltre il Bosco Mannaro, ed i Maghi gli tennero dietro come i cani sulle tracce di una volpe. Una volta entrato nel Bosco Mannaro, Xexamedes tornò sui suoi passi, ma i Maghi, sospettando un inganno, non si fecero fuorviare.
Lasciato il bosco, Xexamedes si avvicinò alla casa di Rhialto, e qui si nascose vicino alla voliera, dove però trovò le donne-uccello che si misero a starnazzare, mentre Funk, il vecchio servo di Rhialto, usciva fuori zoppicando per vedere cosa stava succedendo.
Gilgad vide Xexamedes, e scagliò il suo Sforzo Elettrico Immediato… fu un bagliore apocalittico che, non solo investì Xexamedes, ma distrusse completamente la voliera di Rhialto, ne distrusse il decrepito cartello, e fece saltellare il vecchio Funk per tutto il prato su crepitanti fiammelle azzurre.
Una foglia di tiglio fissata da una spina, pendeva dalla porta principale della casa di Rhialto. Doveva essere stato uno scherzo del vento, pensò Rhialto, che la gettò a terra. Ma il suo nuovo servo, Puiras, la raccolse e, con voce spezzata e appena intellegibile, lesse:
«Perché mai parla di Morreion?» si domandò Rhialto. Prese quindi la foglia e si mise ad esaminare i minuscoli caratteri d’argento. «Dev’essere un’assicurazione gratuita», borbottò. Lasciò quindi cadere a terra nuovamente la fogna in argomento, e diede a Puiras alcune disposizioni: «A mezzogiorno prepara il pasto per i Piccoli… pappa e tè saranno più che sufficienti. Al tramonto invece da loro il patè di mughetti. Poi pulisci il pavimento della sala grande, ma non usare la sabbia perché riga la patina lucida. Quindi ripulisci il prato meridionale dalle macerie. Per far questo puoi usare l’eolo, ma stai bene attento a soffiare solo nella canna gialla perché quella nera fa venire le tempeste, e mi sembra che di danni finora ne abbiamo già avuti più che a sufficienza. Infine pensa alla voliera: cerca di recuperare tutto quello che è possibile. Se poi dovessi trovare dei cadaveri, sistemali. Sono stato chiaro?».
Puiras, un uomo alto e magro, con gli zigomi pronunciati e i capelli lisci e neri, assentì gravemente. «C’è solo un fatto. Quando avrò finito tutte queste cose, c’è qualcos’altro che dovrò fare ancora?».
Rhialto, mentre si infilava i guanti tessuti in oro, lanciò un’occhiata in tralice al suo nuovo servo. Quello che aveva testé detto era dovuto a stupidità, ad un eccesso di zelo, o era del sarcasmo bello e buono? Ma l’immobilità del viso di Puiras non offriva alcun indizio. Con molta calma, Rhialto disse: «Dopo che avrai terminato di fare tutto quello che ti ho ordinato, potrai fare ciò che vuoi. Stai però attento a non toccare in alcun modo le macchine magiche: e, se ci tieni alla vita, non andare a frugare tra le cartelle, i libri ed il manuale. Quando sarà il momento, forse ti insegnerò alcune cose: ma, fino ad allora, sii prudente». «Lo sarò».
Rhialto si aggiustò il cappello di raso nero a sei piani, ed indossò il mantello con quel gesto ampio che gli aveva valso l’epiteto de «Il Meraviglioso». Quindi concluse: «Vado a trovare Ildefonse. Quando avrò oltrepassato la porta esterna, metti la Maledizione del Confine e non toglierla per nessun motivo fino a quando non te lo dirò io. Per il tramonto penso di essere di ritorno: forse anche prima se tutto andrà bene. Aspettami».
Senza cercare di capire il borbottio di Puiras, Rhialto si incamminò verso la Porta Nord, cercando di non guardare i resti di quella che era stata la sua bellissima voliera. Aveva però appena varcata la porta, che Puiras attivò la Maledizione del Confine, il che lo costrinse ad un rapido salto in avanti. Quindi Rhialto si raddrizzò il cappello: la poca abilità di Puiras era un altro dei demoni che derivavano dall’archveult Xexamedes, oltre la voliera distrutta e la morte del vecchio Funk. In qualche modo doveva trovare un indennizzo!
Ildefonse viveva in un castello posto sopra il fiume Scaum: si trattava di un immenso edificio costellato da una miriade di torrette, terrazze, padiglioni e chioschi. Quando Ildefonse era stato precettore, durante le ultime ere del quarantatreesimo Eone, il castello era pieno di attività. Ora però, di tutto quell’enorme edificio, ne veniva utilizzata soltanto una parte, mentre il resto era preda della polvere, dei fantasmi, dei gufi e delle civette.
Ildefonse si recò al portale di bronzo a ricevere Rhialto. «Mio esimio collega, sei splendido come è tua abitudine! E persino in un’occasione come è quella di oggi! Mi fai vergognare di me stesso!».
Quindi Ildefonse fece un passo indietro per poter rimirare meglio il bel volto austero di Rhialto, il suo stupendo mantello azzurro, nonché i calzoni di velluto rosa ed i lucidi stivali che indossava. Ildefonse, per qualche suo recondito motivo, si era presentato sotto l’aspetto di un allegro sapiente dalla testa rasata, con il volto ricoperto di rughe sul quale brillavano due occhi di colore azzurro, ed era adornato perdipiù da una lunga e candida barba bianca… caratteristica questa che, probabilmente, la sua vanità gli impediva di abbandonare.
«Orsù, entra», disse Ildefonse. «Come è tuo solito, sei sempre l’ultimo ad arrivare, e questo lo dobbiamo alle tue inclinazioni teatrali».
Si recarono quindi nella sala grande. Già vi si trovavano quattordici Maghi e, per l’esattezza; si trattava di Zilifant, Herark il Nunzio, Hurtiancz, Perdustin, Vermoulian dei Sogni, Ao degli Opali, Haze delle Acque Stanche, Kilgas, Eshmiel, Gilgad, Shrue, Byzant il Necrope e Barbanikos. E c’era anche Mune il Mago. Ildefonse allora annunciò agli astanti: «È giunto l’ultimo membro della nostra Associazione: Rhialto il Meraviglioso, nella cui casa è avvenuto il fatto che ci ha riunito qui».
Rhialto si tolse il cappello per salutare i colleghi. Mentre alcuni ricambiavano il saluto, altri, quali appunto Byzant il Necrope, Gilgad, Kilgas e Mune il Mago, si limitarono a lanciare al suo indirizzo qualche occhiata gelida.
Ildefonse, preso Rhialto per un braccio, lo condusse presso la tavola. Dopo aver accettato un calice colmo di vino, Rhialto lo controllò attentamente con il suo amuleto.
Lamentandosi per quella mancanza di fiducia, Ildefonse protestò sardonicamente: «Il mio vino è integro: ti risulta per caso di essere stato qualche volta avvelenato alla mia tavola?».
«In effetti, no. Però non si eran mai verificate circostanze simili a quelle di oggi».
Ildefonse ebbe un cenno di stupore. «Mi sembra che le circostanze di cui parli siano assolutamente favorevoli. Infatti abbiamo sconfitto il nemico, e le sue Pietre Ioun sono adesso in nostre mani».
«Questo è vero», rispose Rhialto. «Ma non dovete dimenticarvi dei danni che ho dovuto patire. Pretendo quindi a titolo d’indennizzo dei beni equivalenti, e ben so che i miei nemici sarebbero ben lieti di privarmene».
«Ma davvero?» fece Ildefonse in tono di riprovazione. «E come procede la sostituzione del tuo cartello indicatore? I Minuscoli lavorano con zelo?».
«Il lavoro procede», rispose Rhialto. «Hanno però dei gusti non certo di poco conto! Pensa che il loro sovrintendente ha preteso per questa sola settimana, ben due once di miele, un bicchiere di elisir e una porzione e mezza di spirito di malto, oltre a gallette, olio ed una razione al giorno del mio miglior pasticcio di mughetto».
«Diventano sempre più amanti degli agi», disse Ildefonse in chiaro tono di riprovazione. «E chi è che ne deve pagare il prezzo? Noi: sì, proprio noi. Purtroppo così va il mondo», e, così dicendo, si voltò per riempire nuovamente il bicchiere del grosso Hurtiancz.
«Ho svolto delle indagini», disse Hurtiancz in tono pensoso, «ed ho potuto appurare che Xexamedes circolava tra di noi già da parecchi anni. Sembra che si trattasse di un rinnegato, parimenti sgradito su Jangk che sulla Terra».
«Ed è assai probabile che lo sia tuttora», concordò Ildefonse. «Infatti, c’è per caso qualcuno che abbia trovato il suo cadavere? Nessuno. Inoltre Haze sostiene che per gli archveult l’elettricità è quello che l’acqua è per i pesci».
«È proprio così». Confermò Haze delle Acque Stanche, un piccolo ometto dagli occhi brillanti.
«Comunque il danno alle mie proprietà diventa sempre più privo di un responsabile!» Gridò Rhialto. «Esigo un indennizzo prima che si proceda a qualsiasi altro tipo di accordo».
Hurtiancz intervenne aggrottando la fronte. «Non riesco a capire cosa vuoi dire».
«È molto semplice». Disse Rhialto. «Io ho subito dei gravi danni, e quindi è necessario ristabilire l’equilibrio. È per questo motivo che intendo rivendicare il possesso delle Pietre Ioun».
«Non sei l’unico a rivendicarle», disse Hurtiancz.
Haze delle Acque Stanche fece una risatina sardonica: «Rivendica pure quello che ti pare».
Mune il Mago si intromise: «L’archveult è appena morto, e noi ci mettiamo subito a litigare?»
Eshmiel disse a sua volta: «Ma pensate che sia morto davvero? Guardate qui», e, così dicendo, mostrò una foglia di tiglio. «L’ho trovata nel mio kurtivan azzurro. Sopra c’è scritto: NULLA MINACCIA MORREION».
«Anch’io ho trovato una foglia uguale a quella», disse Haze.
«Anch’io», fece a sua volta Hurtiancz.
«Come vola il tempo!» osservò Ildefonse pensierosamente. «Quelli che erano tempi gloriosi: quando mettemmo in fuga gli archveult come una masnada di pipistrelli giganteschi. Povero Morreion! Mi sono chiesto spesso quale possa essere stata la sua sorte».
Eshmiel si mise a guardare la foglia che aveva in mano. «NULLA MINACCIA MORREION, ci viene detto. Se così fosse, questa notizia sarebbe del tutto superflua, oppure eccessivamente premurosa».
«A me sembra molto chiaro», affermò Gilgad. «Morreion partì per scoprire quale fosse l’origine delle Pietre Ioun. Ora deve averla scoperta, per cui nulla più lo minaccia».
«Può essere una delle interpretazioni», concesse Ildefonse in tono cattedrattico. «È anche vero però, che qui sotto c’è molto di più di quanto non appaia a prima vista».
«Non mi sembra che ora sia il caso di preoccuparcene», interloquì a questo punto Rhialto. «Tuttavia, per quanto concerne quelle Pietre Ioun che sono attualmente in nostro possesso, io ne rivendico formalmente il possesso quale risarcimento dei danni che ho dovuto subire per la causa comune».
«Questa richiesta ha una sua qual certa plausibilità anche se speciosa», disse Gilgad. «In pratica però, ognuno di noi deve ricavare dei benefici in proporzione diretta a quello che è stato il suo contributo. E badate bene che non dico questo solo perché è stato il mio Sforzo Elettrico Immediato che ha distrutto l’archveult».
Ao degli Opali intervenne bruscamente. «Ecco un’altra tesi caviliosa che deve essere respinta immediatamente: infatti è proprio in funzione di quell’energia provvidenziale che Xexamedes è riuscito a fuggire!».
La discussione si protrasse ancora per un’ora. Alla fine venne messa ai voti una proposta di Ildefonse, e venne approvata con quindici voti favorevoli ed uno solo contrario. Tutti gli oggetti già di proprietà dell’archeveult Xexamedes dovevano essere esaminati ed inventariati. Quindi ogni Mago avrebbe fatto un suo proprio elenco disponendoli in ordine di preferenza e Ildefonse avrebbe raccolto e confrontato le varie Uste. In caso di più richieste coincidenti, per l’assegnazione si sarebbe tirato a sorte. In particolare, a Rhialto, quale indennizzo per i danni che aveva patito, sarebbe stata concessa una scelta autonoma dopo la Quinta Scelta Globale, mentre a Gilgad veniva concesso lo stesso privilegio ma solo dopo la decima scelta.
Rhialto protestò: «A che mi serve la quinta scelta? Sapete benissimo che l’archveult, oltre alle Pietre, non possedeva altro che oggetti di poco conto e queste radici, erbe ed elisir».
La sua protesta comunque non sortì alcun effetto. Ildefonse distribuì alcuni fogli di carta, ed ogni Mago vi segnò sopra le cose che desiderava. Quindi Ildefonse, dopo aver esaminato tutte le liste, disse: «Sembra che tutti i presenti, come prima cosa, desiderino le Pietre Ioun».
Tutti guardarono le Pietre che brillavano, scintillando di un debole fuoco chiaro.
«Dato che le cose stanno così», stabilì Ildefonse, «sarà la sorte a decidere».
Prese quindi un vaso di coccio e sedici dischi d’avorio. «Ora, ognuno di voi apponga il suo simbolo su un disco e lo metta all’interno del vaso. In questo modo», e, così dicendo, Ildefonse dopo aver tracciato un segno su di un disco, lo lasciò cadere all’interno del contenitore. «Quando ognuno di voi avrà provveduto, chiamerò un servo il quale estrarrà dal vaso un unico disco…».
«Un momento», lo interruppe Byzant. «Mi sembra di percepire la presenza di qualche entità maligna qui vicino».
Ildefonse rivolse una gelida occhiata al troppo sensibile Necrope: «A quale entità maligna in particolare ti riferisci, di grazia?».
«Mi sembra di captare qualcosa di anormale: qualcosa di totalmente estraneo e di alieno che si sta aggirando qui in mezzo a noi. Qui c’è qualcosa assolutamente fuori di posto».
«C’è qualcuno qui in mezzo a noi che si sta muovendo protetto dall’invisibilità!», esclamò Mune il Mago. «Ildefonse, stai attento alle Pietre!».
Dopo aver rivolto uno sguardo in quella direzione, Ildefonse guardò attentamente la vecchia sala piena di ombre e tracciò un segno magico indicando un angolo remoto: «Spettro, sei qui?».
Si udì un sussurro flebile ed indistinto: «Sono qui».
«Rispondi: chi è che si aggira invisibile tra di noi?».
«Echi stagnanti del passato. Scorgo dei volti: sono quelli dei meno-che-morti, gli spettri degli spettri morti… Brillano e scrutano, guardano ancora e se ne vanno».
«E esseri viventi?».
«Niente sangue forte, niente carne vibrante, nessun cuore che batte».
«Sta attento, e indaga». Ildefonse si rivolse di nuovo a Byzant il Necrope: «E adesso?».
«Sento uno strano profumo».
«Allora, cosa suggerisci?».
Byzant parlò a voce bassa, per rimarcare la raffinata delicatezza dei suoi concetti. «Fra tutti i presenti, io sono l’unico la cui percettività sia sensibile alle Pietre Ioun. Perciò devono essere affidate alla mia custodia».
«Si tiri a sorte!», esclamò Hurtiancz. «Il piano di Byzant è destinato a fallire».
«State in guardia!», gridò Byzant poi, lanciata un’occhiata torva a Hurtiancz, si portò in fondo al gruppo.
Ildefonse chiamò una delle sue ancelle. «Non aver paura. Devi solo introdurre una mano nel vaso, mescolare scrupolosamente i dischetti, e poi estrarne uno. Quindi lo poserai sul tavolo. Hai capito bene?».
«Sì, Nobile Mago».
«Fai quello che ti ho detto».
La ragazza si avvicinò al vaso e stese la mano. Ma, proprio in quel momento, Rhialto mise in essere un Incantesimo di Stasi Temporale che si era preparato ad usare in previsione di una simile situazione di emergenza.
Il tempo si fermò per tutti, fatta eccezione per Rhialto. Questi girò lo sguardo per la sala, sui Maghi immobilizzati, sulla ragazza che stava con la mano protesa verso il vaso, e su Ildefonse che le stava guardando il gomito.
Poi, con tutta tranquillità, Rhialto si avvicinò alle Pietre Ioun. Ora poteva prenderle ma, un’azione del genere, avrebbe sicuramente suscitato una generale indignazione, e tutti i Maghi avrebbero fatto causa comune contro di lui. Doveva quindi pensare ad un sistema meno provocatorio. Ad un tratto trasalì per un lieve rumore che proveniva da un angolo della sala, dato che nell’aria immobile per l’incantesimo non si sarebbe dovuto udire alcun suono.
«Chi è che si muove?», chiese Rhialto.
«Sono io che mi muovo», rispose la voce flebile dello spettro.
«Il tempo si è fermato. Quindi tu non ti devi muovere, non devi parlare, non devi vedere nulla e, soprattutto, non devi sapere nulla».
«Tempo… non-tempo… sono la stessa, identica cosa per me. Io sono a conoscenza di ogni istante, e di tutto quello che si verifica».
Rhialto, scrollò le spalle e si rivolse all’urna. Estrasse i dischetti e, con sommo stupore, si accorse che su ognuno di essi c’era scritto il nome Ildefonse.
«Ah», esclamò Rhialto, «quell’astuto briccone aveva ben scelto il momento per porre in atto la sua frode. Ma le ciambelle non escono sempre col buco! Quando questa storia sarà finita, noi due faremo una conoscenza ben più approfondita». Quindi Rhialto cancellò il nome tracciato da Ildefonse e vi sostituì il proprio. Poi rimise tutti i dischetti nel vaso.
A questo punto, dopo essersi rimesso nella posizione che aveva al momento dell’incantesimo, revocò lo stesso.
Piano piano, il rumore cominciò a pervadere nuovamente la sala. La ragazza infilò la mano nel vaso, rimescolò i dischetti, poi ne estrasse uno che posò sul tavolo. Rhialto si curvò sullo stesso, e altrettanto fece Ildefonse: la scritta sotto i loro occhi tremolò e quindi cambiò.
Ildefonse la sollevò e, con voce sbalordita, lesse: «Gilgad!»
Rhialto lanciò un’occhiata furibonda a Gilgad, il quale lo ricambiò con uno sguardo indifferente. Anche Gilgad aveva usato l’Incantesimo di Stasi Temporale, solo che aveva aspettato il momento in cui il dischetto si era trovato sul tavolo.
Ildefonse disse con voce atona: «È tutto: puoi andare». Allora la ragazza uscì e Ildefonse rovesciò tutti i dischetti sul tavolo. La scritta su ognuno di loro era giusta: infatti, ciascuno portava il nome di uno dei Maghi presenti. Ildefonse si accarezzò la barba bianca e disse: «Sembra che Gilgad si sia assicurato le Pietre Ioun».
In quel momento Gilgad si avvicinò al tavolo e lanciò un grido altissimo: «Che cosa è accaduto alle Pietre?» Sollevò quindi la rete che ondeggiava sotto il peso del contenuto. La trasparenza era scomparsa e gli oggetti contenuti al suo interno rilucevano di un normalissimo brillio di vetri. Gilgad ne prese una e la scagliò sul pavimento dove si frantumò in un’infinità di schegge. «Queste non sono le Pietre Ioun! È stato perpetrato un inganno!».
«È vero», disse a sua volta Ildefonse. «Questo balza evidente».
«Esigo le mie Pietre!», gridò Gilgad. «Datemele subito, oppure scaglierò un Incantesimo d’Angoscia a tutti i presenti».
«Un momento», brontolò Hurtiancz. «Non scagliare alcun Incantesimo. Piuttosto, Ildefonse: chiama il tuo spettro. Potremo così scoprire cosa è successo».
Ildefonse si accerezzò la barba con fare indeciso, quindi puntò un dito verso un angolo lontano della sala. «Spettro, ci sei?», chiese.
«Ci sono».
«Cos’è accaduto, mentre tiravamo fuori i dischi dal vaso?».
«C’è stato del trambusto. Alcuni si sono mossi, mentre altri sono rimasti fermi. Quando poi il dischetto è stato posato sul tavolo, uno strano essere è passato nella sala, ha afferrato le Pietre e se ne è andato».
«Che genere di essere?».
«Aveva la pelle coperta da scaglie azzurre, dalla testa gli spuntavano delle penne nere, ed aveva ancora l’anima di un uomo».
«Un archveult!», concluse Hurtiancz. «Ho il sospetto che si trattasse di Xexamedes».
Gilgad disse a sua volta. «E allora, dove sono finite le mie Pietre? Dove sono le mie Pietre magiche? Come potrò entrare in possesso di ciò che mi appartiene? Dovrò dunque essere privato dei miei averi più preziosi?».
«Smettila di frignare!», urlò Shrue. «A questo punto penso che debbano essere distribuiti gli oggetti rimasti. Quindi, Ildefonse, vedi di consultare gli elenchi».
Ildefonse prese i fogli e disse: «Poiché Gilgad aveva vinto la prima scelta, il suo elenco dovrà essere scartato. Come seconda scelta…»
A questo punto fu subito interrotto dalle rimostranze di Gilgad. «Protesto fermamente contro questa intollerabile ingiustizia! A me non è spettata altro che una manciata di pezzi di vetro!».
Ma Ildefonse scrollò le spalle. «Devi prendertela con l’archveult che ti ha derubato… e senza considerare poi che l’estrazione è stata accompagnata da certe irregolarità temporali che mi pare non sia il caso di esaminare più approfonditamente…».
Gilgad sollevò le braccia al cielo mentre il suo viso si contraeva lungo tutta una gamma di emozioni diverse. Gli altri Maghi lo guardarono impassibili.
«Procedi, Ildefonse», disse Vermoulian dei Sogni.
Ildefonse sparpagliò i fogli. «Sembra che, nel gruppo, soltanto Rhialto abbia indicato come seconda scelta questo congegno dalla forma strana, che sembra essere un Recordium Preterito di Houlart. Perciò glielo accordo, e colloco l’elenco di Rhialto insieme a quello di Gilgad. Perdustin, Barbanikos, Ao degli Opali ed io stesso abbiamo espresso il desiderio di questo Casco delle Sessanta Direzioni, e perciò dobbiamo provvedere all’estrazione a sorte. Il vaso, quattro dischetti…».
«In questo caso», disse Perdustin, «fai entrare subito l’ancella. Lei metterà la mano sulla bocca del vaso; noi inseriremo i dischetti tra le sue dita; in tal modo ci garantiremo contro un’eventuale alterazione delle leggi del caso».
Ildefonse si tirò i baffi candidi, ma Perdustin la spuntò. In questo modo si procedette alle successive estrazioni a sorte.
Poi venne per Rhialto il turno di compiere una libera scelta.
«Ebbene, Rhialto», disse Ildefonse. «Che cosa scegli?».
Rhialto sentì il risentimento ribollirgli in gola. «Come indennizzo per le mie diciassette squisite donne-uccello, il mio cartello indicatore vecchio di diecimila anni, posso avere questo pacchetto di Polvere Stupefacente?».
Ildefonse parlò in tono suadente. «Le interazioni umane, stimolate da squilibri, non raggiungono mai un equilibrio. Anche nella transazione più favorevole, una parte in causa — se ne renda conto o no — deve sempre avere la peggio».
«È un’affermazione per me ignota», disse Rhialto, in tono più ragionevole. «Tuttavia…».
Zilifant lanciò all’improvviso un grido di sbalordimento. «Guardate!» Indicò la grande mensola del camino: li, mimetizzata tra gli intarsi, pendeva una foglia di tiglio. Ildefonse la staccò con dita tremanti. I caratteri argentei dicevano:
«Ancor più sconcertante», borbottò Hurtiancz. «Xexamedes insiste nell’assicurarci che Morreion sta bene: è veramente enigmatico!».
«Bisogna ricordare», osservò il sempre cauto Haze, «che Xexamedes è un rinnegato, e nemico di tutti».
Herark il Nunzio alzò un indice laccato di nero, «Io ho l’abitudine di far sì che ogni problema proclami il suo contraio. Il primo messaggio: “NULLA MINACCIA MORREION” diventa “QUALCOSA NON MINACCIA MORREION”; ma anche “IL NULLA MINACCIA MORREION”.
«Parole, prolissità!» sbottò Hurtiancz, pratico come sempre.
«Calma, calma!» disse Zilifant. «Herark è notoriamente molto profondo! “NULLA” potrebbe essere inteso come una delicata allusione alla morte; un elegante eufemismo, per così dire».
«Xexamedes era famoso per il suo squisito buon gusto?» chiese Hurtiancz con pesante sarcasmo. «Non credo, come me, quando intendeva “morte”, diceva “morte”».
«È esattamente ciò che intendo io!» esclamò Herark. «Mi domando: Che cos’è questo “nulla” che minaccia Morreion? Shrue, cosa e dove è “Nulla”?».
Shrue aggobbì le esili spalle. «Non si trova fra le terre demoniache».
«Vermoulian, nel tuo palazzo pellegrino, ti sei spinto molto lontano. Dove o cosa è “Nulla”?».
Vermoulian dei Sogni confessò la sua perplessità: «Non ho mai scoperto un tal luogo».
«Mune il Mago: Cosa o dove è “Nulla”?».
«Da qualche parte», rispose Mune il Mago in tono meditabondo, «ho visto un riferimento a “Nulla”, ma non riesco a ricordare il nesso».
«La parola chiave è “riferimento”» dichiarò Herark. «Ildefonse, abbi la bontà di consultare la Grande Glossa».
Ildefonse scelse il un volume da uno scaffale, aprì la pesante copertina. «“Nulla”. Vari riferimenti… una descrizione metafisica… un luogo? “Nulla: la nonregione al di la della fine del cosmo”».
Hurtiancz propose: «Per maggior sicurezza, peché non consultate la voce “Morreion”?».
Con una certa riluttanza, Ildefonse trovò la voce, lesse: «“Morreion: Eroe leggendario del Quarantatreesimo Eone, che vinse gli archveult e li costrinse a rifugiarsi, atterriti, a Jangk. Essi lo condussero allora lontano fin dove può giungere la mente, ai campi splendenti dove essi si procurano le pietre IOUN. I suoi colleghi di un tempo, che gli avevano assicurato la loro protezione, non pensarono più a lui, e non si sa cosa avvenne in seguito” Un’affermazione preconcetta ed inesatta, ma tuttavia interessante».
Vermoulian dei Sogni si alzò in piedi: «Ho progettato un lungo viaggio con il mio palazzo; in tal caso m’incaricherò io di cercare Morreion».
Gilgad fece udire un ringhio di furore e di delusione. «Tu pensi di esplorare i “campi splendenti”? Sono io che ho acquisito tale diritto, non tu!».
Vermoulian, un uomo imponente, guizzante come una foca, con un volto pallido e imperscrutabile, dichiarò: «Il mio unico scopo è salvare l’eroe Morreion. Per me, le pietre IOUN sono soltanto un contorno trascurabile».
Ildefonse parlò: «Ben detto! Ma potrai operare più efficacemente con alcuni colleghi fidati; magari con me solo».
«Esattamente!» asserì Rhialto. «Ma è necessaria una terza persona di provate risorse, in caso di pericolo. Anch’io condividerò le vostre peripezie: altrimenti, dovrei pensare male di me stesso».
Hurtiancz parlò con fervore truculento: «Non sono mai stato il tipo che si tira indietro! Potete contare su di me!».
«La presenza di un Necrope è indispensabile», affermò Byzant. «Perciò, io devo accompagnare il gruppo».
Vermoulian dichiarò che avrebbe preferito viaggiare da solo, ma nessuno volle dargli ascolto. Alla fine, Vermoulian capitolò, con un’espressione stizzita sul volto di solito compiaciuto. «Parto immediatamente. Se qualcuno di voi non sarà al palazzo tra un’ora, saprò che ha cambiato idea».
«Andiamo, andiamo!» lo rimproverò Ildefonse. «Ho bisogno di tre ore e mezzo solo per impartire istruzioni al mio personale! Abbiamo bisogno di più tempo».
«Il messaggio affermava: “Nulla è imminente’’», disse Vermoulian. «È necessario affrettarci!».
«Dobbiamo prendere la parola nel suo contesto», fece Ildefonse. «Morreion conosce da molti eoni la sua situazione attuale; la parola “imminente” può designare un periodo di cinquecento anni».
Sgarbatamente, Vermoulian accettò di rinviare la partenza fino al mattino successivo.
L’antico Sole tramontò dietro le colline di Scaum; sottili nubi nere erano librate nella luce marrone. Rhialto giunse al portale esterno della sua tenuta. Fece il segnale ed attese, fiducioso, che Puiras togliesse la maledizione del confine.
Dalla dimora non giunse alcun segno di reazione.
Rhialto fece un altro segnale, pestando spazientito i piedi. Dalla vicina foresta di chiomati alberi kang, giunse il gemito di un orro, che fece rizzare i capelli sulla nuca di Rhialto. Fece lampeggiare ancora una volta i raggi dalle dita: dov’era Puiras? Le tegole di giada bianca del tetto spiccavano pallide nel crepuscolo. Non vedeva neppure una luce. Nella foresta, l’orro gemette ancora e, con voce lamentosa, invocò conforto. Rhialto tese un ramo verso il confine, per controllare, e scoprì che non c’era la maledizione: non c’era protezione di sorta.
Gettando via il ramo, si avviò a grandi passi verso la sua dimora. Sembrava tutto in ordine, sebbene Puiras fosse introvabile. Se anche aveva frugato la sala, non aveva lasciato tracce. Scuotendo il capo in un gesto di deprecazione, Rhialto andò ad esaminare il cartello indicatore, che veniva riparato dai suoi Minuscoli. Il sovrintendente salì in volo, a dorso di zanzara, per fare rapporto: a quanto sembra, Puiras aveva trascurato di consegnare le vettovaglie serali. Rhialto provvide e aggiunse, a proprie spese, un’oncia di anguilla in gelatina.
Con un bicchierino di Rovina Azzurra accanto, Rhialto esaminò i complessi tubi di bronzo che aveva portato dal castello di Ildefonse: il cosiddetto Recordium Preterito. Cercò di seguire il tracciato dei tubi, ma si snodavano in modo da confonderlo. Delicatamente, premette una delle valvole, ed evocò dalla tromba un sussurro sibilante. Ne toccò un’altra, e udì un lontano canto gutturale. Il suono non usciva dalla tromba, ma dal vialetto, e dopo un attimo Puiras varcò la porta. Rivolse un sogghigno vacuo a Rhialto e si diresse vacillando verso il suo alloggio.
Rhialto chiamò bruscamente: «Puiras!».
Il servitore si voltò con un sussulto: «Che c’è?».
«Hai bevuto troppo: perciò sei ubriaco».
Puiras azzardò un ghigno saputo. «La tua perspicacia è acuta, il tuo linguaggio preciso. Non ho nulla da obiettare alle tue osservazioni».
Rhialto disse: «Non so che farmene di un servitore irresponsabile o beone. Perciò sei licenziato».
«No!» gridò Puiras con voce rauca, e sottolineò l’affermazione con un rutto. «Mi hanno detto che avrei avuto un buon posto se non avessi rubato più del vecchio Funk e avessi lodato le tue nobili arie. Ebbene! Questa sera ho rubato moderatamente, e da parte mia la mancanza d’insulti è una gran lode. Dunque, dov’è il buon posto, e che cos’è un buon posto, senza una passeggiata fino al villaggio?».
«Puiras, tu sei pericolosamente ubriaco», disse Rhialto. «Sei veramente uno spettacolo disgustoso!».
«Niente complimenti!» ruggì Puiras. «Non possiamo essere tutti maghi eleganti con abiti lussuosi!».
Indignato, Rhialto si alzò in piedi. «Basta! Vattene nel tuo alloggio prima che t’infligga un tormento!».
«Ci stavo appunto andando, quando tu mi hai richiamato», rispose imbronciato Puiras.
Rhialto ritenne che non sarebbe stato degno di lui replicare. Puiras si allontanò vacillando e borbottando sottovoce.
Posato sul terreno, il meraviglioso palazzo pellegrino di Vermoulian, con le sue logge, i giardini geometrici ed il padiglione d’ingresso, occupava un’area ottagonale di circa tre acri. Il piano del palazzo vero e proprio era una stella a quattro punte, con una guglia di cristallo ad ogni vertice, ed una più alta al centro, dove Vermoulian aveva il suo appartamento privato. Una balaustrata di marmo racchiudeva il padiglione anteriore. Al centro, una fontana lanciava cento zampilli d’acqua; ai lati crescevano cedri con fiori argentei ed argentei frutti. I quadrangoli a destra e a sinistra erano giardini geometrici; l’area dietro l’edificio era piantata ad erbe aromatiche ed insalate per la cucina del palazzo.
Gli ospiti di Vermoulian occupavano appartamenti situati nelle ali; sotto la guglia centrale c’erano i vari saloni, le stanze per il mattino ed il pomeriggio, la biblioteca, Ja sala da musica, la sala da pranzo ufficiale ed il salotto.
Un’ora dopo il levar del Sole, i maghi cominciarono ad arrivare; Gilgad fu il primo a giungere e Ildefonse l’ultimo. Vermoulian, che aveva recuperato la sua disinvoltura, accolse ogni mago con affabilità scrupolosamente misurata. Dopo aver ispezionato i rispettivi appartamenti, i maghi si radunarono nel gran salone. Vermoulian si rivolse a loro: «È un immenso piacere, per me, ospitare una così illustre compagnia! Il nostro scopo: salvare l’eroe Morreion! Tutti i presenti sono intelligenti e impegnati… ma vi rendete conto che dobbiamo recarci in regioni lontane?» Vermoulian volse lo sguardo placido da un viso all’altro. «Siete tutti disposti ad affrontare la noia, la scomodità e il pericolo? Tutto ciò potrebbe accadere, e se qualcuno ha dubbi o persegue scopi secondari, come la ricerca delle pietre IOUN, è tempo che faccia ritorno alla sua dimora, o castello, o grotta, o fortezza. C’è qualcuno che la pensa così? No? Si parte».
Vermoulian s’inchinò agli ospiti che ora sembravano irrequieti. Salì sul belvedere di comando, e gettò sul castello un incantesimo di galleggiamento; il castello s’innalzò, fluttuò sulla brezza del mattino come una nube turrita. Vermoulian consultò l’Almanacco Celeste e prese nota di certi simboli; li tracciò sulla ruota di corniola del timone, e lo fece girare; i segni turbinarono nell’interflusso, per tracciare una rotta nell’universo. Vermoulian accese un cero e l’accostò all’incenso della velocità; il palazzo partì, lasciandosi indietro l’antica Terra ed il Sole agonizzante.
Rhialto stava accanto alla balaustrata di marmo; Ildefonse lo raggiunse; insieme, i due guardarono la Terra che rimpiccioliva e diventava una falce rosea. Ildefonse parlò in tono malinconico: «Quando s’intraprende un viaggio come questo, dove l’evento è sconosciuto, affiorano lunghi pensieri spontanei. Immagino che tu abbia sistemato i tuoi affari».
«La mia casa non è ancora riparata», disse Rhialto. «Puiras si è dimostrato un incapace; quando è ubriaco canta ed esegue scherzi grotteschi; quando è sobrio, è tetro come una sanguisuga su un cadavere. Questa mattina l’ho retrocesso al rango di Minuscolo».
Ildefonse annuì distrattamente: «Sono preoccupato per quelli che temo possano essere gli scopi segreti dei nostri colleghi, per quanto essi siano degne persone».
«Alludi ai “campi splendenti” di pietre IOUN?» chiese delicatamente Rhialto.
«Infatti. Come ha dichiarato categoricamente Vermoulian, noi andiamo a salvare Morreion. Le pietre IOUN potrebbero costituire soltanto una distrazione. Anche se ne venisse scoperto un quantitativo, sospetto che sarebbe interesse di molti operare una distribuzione estremamente selettiva, nonostante le lagnanze del venale Gilgad».
«Questo punto di vista ha molti meriti», ammise Rhialto. «È bene stabilire un’intesa preliminare su una questione tanto controversa. Naturalmente, a Vermoulian deve essere concessa la sua parte».
«È superfluo dirlo».
In quel momento, Vermoulian scese verso il padiglione, e venne abbordato da Mune il Mago, Hurtiancz ed altri. Mune fece una domanda circa la destinazione. «Diventa importante la questione degli assoluti. Vermoulian, come puoi sapere che questa direzione ci porterà da Morreion?».
«Una domanda ben formulata», disse Vermoulian. «Per rispondere, devo ricordare una condizione intrinseca dell’universo. Noi partiamo in una qualunque direzione che sembri conveniente; ognuna conduce allo stesso luogo: la fine dell’universo».
«Interessante!» commentò Zilifant. «In questo caso, dobbiamo inevitabilmente trovare Morreion: una prospettiva incoraggiante!».
Gilgad non era del tutto soddisfatto. «Ed i “campi splendenti” di cui parla la Grande Glossa? Dove sono situati?».
«È una questione d’importanza secondaria, o addirittura terziaria», gli ricordò Ildefonse. «Dobbiamo pensare soltanto all’eroe Morreion».
«La tua sollecitudine è in ritardo di parecchi eoni», disse stizzito Gilgad. «Morreion potrebbe essersi spazientito».
«Sono intervenute altre circostanze», notò Ildefonse, aggrottando irritato la fronte. «Senza dubbio, Morreion comprenderà la situazione».
Zilifant osservò: «Il comportamento di Xexamedes diventa ancora più sconcertante! Essendo un archveult rinnegato, non ha ragioni evidenti per favorire Morreion, gli archveult o noi».
«Il mistero verrà chiarito a tempo debito», disse Herark il Nunzio.
Il viaggio proseguì. Il palazzo veleggiava tra le stelle, sotto e sopra nubi di gas fiammeggiante, attraverso abissi di profondo spazio nero. I maghi meditavano sotto i pergolati, si scambiavano opionioni nei salotti davanti a calici di liquore, oziavano sulle panchine di marmo del padiglione, si appoggiavano alla balaustrata per guardare le galassie che passavano sotto di loro. Le colazioni erano servite negli appartamenti; i pranzi venivano solitamente apparecchiati all’aperto, nel padiglione; le cene erano sontuose e formali e si protraevano sino a notte avanzata. Per ravvivare le serate, Vermoulian evocava le donne più belle, spiritose ed affascinanti di tutte le epoche passate, nei loro costumi bizzarri e splendidi. Esse giudicavano il palazzo pellegrino non meno straordinario del fatto della loro presenza a bordo. Alcune credevano di sognare; altre pensavano di essere morte; certune, le più sofisticate, indovinavano la verità. Per facilitare le relazioni sociali, Vermoulian dava loro la conoscenza della lingua contemporanea, e spesso le serate erano piuttosto allegre. Rhialto s’innamorò di una certa Mersei, proveniente dalla terra di Mith, da molto tempo sprofondata tra le acque dell’Oceano Shan. Il fascino di Mersei stava nel corpo snello, nel viso pallido e serio, dietro il quale si potevano sentire ma non vedere i pensieri. Rhialto la circondava di ogni galanteria, ma lei non reagiva, e si limitava a guardarlo in silenzio, con disinteresse; e alla fine Rhialto si chiese s’era un po’ tarda, o se per caso era più sottile di lui. In ogni caso, si sentiva a disagio, e non si rammaricò quando Vermoulian rimandò nell’oblio quel particolare gruppo di donne.
Avanzavano tra nubi e costellazioni, oltre galassie vorticose e fiumi di stelle; attraverso una regione dove gli astri presentavano un dolce, bizzarro colore violetto, sospesi fra nubi di gas verdepallido, attraverso una desolazione dove non si vedeva nulla, eccettuate alcune lontanissime nubi luminose. Poi giunsero in una nuova regione, dove fulgide giganti bianche sembravano dominare vortici di gas rosei, azzurri e bianchi, ed i maghi si schierarono lungo la balaustrata per ammirare lo spettacolo.
Finalmente le stelle si diradarono; i grandi fiumi d’astri si persero in lontananza. Lo spazio apparve più tenebroso e pesante e venne il momento in cui tutte le stelle furono dietro di loro, e davanti a loro vi fu soltanto il buio. Vermoulian annunciò, con aria grave: «Siamo ormai vicini alla fine dell’Universo! Dobbiamo procedere con cautela. Davanti a noi c’è il “Nulla”».
«E dov’è dunque Morreion?» chiese Hurtiancz. «Sicuramente non lo troveremo a vagare nello spazio vuoto».
«Lo spazio non è ancora vuoto», affermò Vermoulian. «Qui, là e tutto intorno vi sono stelle morte e gusci vaganti di astri; in un certo senso, stiamo attraversando l’immondezzaio dell’universo, dove vengono le stelle morte ad attendere un destino finale; e osservate, laggiù, avanti, un’unica stella, l’ultima dell’universo. Dobbiamo avvicinarci con cautela; più oltre c’è il “Nulla”».
«Il “Nulla” non è ancora visibile», osservò Ao degli Opali.
«Guarda più attentamente!» disse Vermoulian. «Vedi quel lontano muro tenebroso? Quello è il “Nulla”».
«Ancora una volta», disse Perdustin, «si presenta l’interrogativo. Dov’è Morreion? Nel castello d’Ildefonse, quando formulavamo congetture, la fine dell’universo sembrava un luogo ben definito. Ora che siamo qui, troviamo una considerevole ampiezza di scelta».
Gilgad borbottò, quasi tra sé: «Questa spedizione è una farsa. Io non vedo “campi”, né splendenti né altro».
Vermoulian disse: «La stella solitaria sembrerebbe un oggetto adatto per una prima indagine. Ci avviciniamo a velocità precipitosa: devo rallentare l’incenso».
I maghi rimasero accanto alla balaustrata ad osservare la stella lontana che diventava più fulgente. Vermoulian li chiamò dal belvedere, per annunciare che c’era un pianeta solitario, in orbita intorno all’astro.
«Quindi esiste una possibilità», affermò Mune il Mago, «che possiamo trovare Morreion proprio su quel pianeta».
Il palazzo scese verso la stella isolata ed il pianeta solitario divenne un disco che aveva il colore delle ali delle falene. Più oltre, chiaramente visibile nella fioca luce solare, stava il minaccioso muro nero. Hurtiancz disse: «Ora l’avvertimento di Xexamedes diviene chiaro… presumendo, naturalmente, che Morreion dimori in questo luogo così triste ed isolato».
Il mondo ingrandì gradualmente e mise in mostra un paesaggio squallido e consunto. Alcune colline erose si levavano dalle pianure; alcuni stagni luccicavano cupamente nella luce del sole. Le uniche caratteristiche degne di nota erano le rovine di città un tempo vastissime; pochi edifici avevano sfidato i guasti del tempo quanto bastava per mostrare le linee architettoniche tozze e distorte.
Il palazzo scese sopra una delle rovine; una schiera di piccoli roditori simili a donnole balzò via tra gli arbusti: non si scorgevano altri segni di vita. Il palazzo proseguì verso Ovest, girando intorno al pianeta. Dopo un po’, Vermoulian chiamò dal belvedere: «Notate quel tumulo; indica un antico viale».
Apparvero altri tumuli, ad intervalli di tre miglia: erano monticelli di pietre scrupolosamente connesse, alti quanto un uomo: segnavano una strada che girava intorno al pianeta.
Al successivo cumulo di rovine, Vermoulian, osservando un’area pianeggiante, fece posare il palazzo, in modo che fosse possibile esplorare l’antica città e l’ammasso di strutture superstiti.
I maghi si sparsero qua e la, per svolgere meglio le loro ricerche. Gilgad si diresse verso la piazza desolata, Perdustin e Zilifant verso l’anfiteatro civico, Hurtiancz entrò in un vicino ammasso di blocchi d’arenaria. Ildefonse, Rhialto, Mune il Mago e Herark il Nunzio vagabondarono a caso, fino a quando una rauca cantilena l’indusse ad arrestarsi.
«Strano!» esclamò Herark. «Sembra la voce di Hurtiancz, il più dignitoso degli uomini!».
Il gruppo entrò in un varco tra le rovine, che sfociava in una vasta camera, protetta da massicci blocchi di roccia dal filtrare della sabbia. La luce s’insinuava da crepe ed aperture; al centro stava una fila di sei lunghe lastre. In fondo sedeva Hurtiancz: osservava con aria imperturbabile l’entrata dei maghi. Sulla lastra davanti a lui c’era un globo di vetro marrone scuro, o di pietra invetriata. Dietro di lui, uno scaffale conteneva altri recipienti simili.
«Si direbbe», fece Ildefonse, «che Hurtiancz abbia scoperto il sito dell’antica taverna».
«Hurtiancz!» esclamò Rhialto. «Abbiamo sentito il tuo canto e siamo venuti a vedere. Cos’hai scoperto?».
Hurtiancz tossì e sputò sul terreno. «Hurtiancz!» gridò Rhialto. «Mi senti? Oppure hai bevuto una dose troppo abbondante di questo antico liquore per essere ragionevole?».
Hurtiancz rispose con voce chiara: «In un certo senso, ho bevuto troppo; in un altro, troppo poco».
Mune il Mago prese la bottiglia di vetro marrone e fiutò il contenuto. «Astringente, acido, erbaceo». Assaggiò il liquido. «Molto rinfrescante».
Ildefonse e Herark il Nunzio presero ognuno un globo di vetro bruno dallo scaffale e tolsero il tappo. Vennero imitati da Rhialto e Mune il Mago.
Mentre beveva, Ildefonse divenne loquace, e poco dopo prese a formulare ipotesi sull’antica città: «Come da un solo osso l’esperto paleontologo deduce uno scheletro intero, così da un solo manufatto lo studioso qualificato ricostruisce ogni aspetto della razza che l’ha creato. Mentre assaporo questo liquore ed esamino questa bottiglia, chiedo a me stesso: Che cosa indicano le dimensioni, le strutture, i colori ed i sapori? Nessun atto intelligente è privo di significato simbolico».
Hurtiancz, bevendo, diventò burbero e imbronciato. Dichiarò, in tono inflessibile: «È un argomento di scarsa importanza».
Ildefonse non si lasciò scoraggiare. «In questo il pragmatico Hurtiancz ed io, uomo di molte parti, non siamo d’accordo. Io stavo per svolgere ulteriormente la mia argomentazione; ed anzi lo farò, stimolato da questo elisir d’una razza estinta. Perciò affermo che, nello stile degli esempi citati, un cultore delle scienze naturali, esaminando un solo atomo, potrebbe asseverare la struttura e la storia dell’intero universo!».
«Bah!» borbottò Hurtiancz. «Per la stessa ragione, un uomo sensibile, ascoltando una sola parola, potrebbe riconoscere che il tutto è un egregio assurdo».
Ildefonse, assorto nelle sue teorie, non gli prestò ascolto. Herark ne approfittò per affermare che secondo la sua opinione erano necessari non uno, ma almeno due o meglio ancora tre oggetti di ogni data classe, per pervenire alla comprensione. «Cito la disciplina della matematica, in cui una serie non può venire determinata da meno di tre termini».
«Concedo volentieri allo scienziato i suoi tre atomi», disse Ildefonse. «Anche se, nel senso più stretto, due di essi sono in eccedenza».
Rhialto, alzandosi dalla sua lastra, andò a curiosare in un’apertura ingombra di rifiuti, e scoprì un passaggio che scendeva sottoterra, con ampi gradini. Si fece precedere da un’illuminazione e scese. Il passaggio svoltò, svoltò di nuovo, poi sfociò in una grande camera pavimentata di pietra bruna. Nelle pareti c’erano numerose nicchie, grandi abbastanza perché un uomo potesse starvi disteso; scrutando in una di esse Rhialto scoprì uno scheletro dalla struttura bizzarra, così fragile che il peso dello sguardo del mago lo fece disgregare e cadere in polvere.
Rhialto si massaggiò il mento. Guardò in una seconda nicchia, e scoprì un altro scheletro. Indietreggiò e si soffermò riflettendo per un momento o due. Poi risalì la scala, mentre il ritmo monotono della voce di Ildefonse diventava sempre più forte: «… nello stesso modo, alla domanda: Perché l’universo finisce qui e non un miglio più oltre? Tra tutte le domande, perché? è la meno pertinente. Presume infatti la risposta e, per giunta, presume l’esistenza di una risposta sensata». Ildefonse s’interruppe per ristorarsi, e Rhialto ne approfittò per riferire ciò che aveva scoperto nella camera sottostante.
«Sembra una cripta», affermò «Vi sono nicchie nelle pareti, ed ognuna di esse contiene la fantasima di un cadavere».
«Davvero, davvero!» borbottò Hurtiancz. Sollevò la bottiglia di vetro marrone e subito la posò.
«Forse ci sbagliamo, presumendo che questo luogo fosse una taverna», continuò Rhialto. «Ritengo che il liquido contenuto nelle bottiglie, anziché una bevanda, sia un fluido usato per l’imbalsamazione».
Ildefonse non si lasciò scuotere tanto facilmente: «Espongo ora la verità fondamentale ed elementare: Che cosa È. Avete qui udito la proposizione basilare della magia. Quale mago chiede Perché? Egli chiede: Come? Perché conduce alla stoltezza: ogni risposta genera almeno un altro interrogativo, nel modo seguente:
«Domanda: Perché Rhialto porta un cappello nero con nappe d’oro ed una piuma scarlatta?
«Risposta: Perché egli spera di migliorare il proprio aspetto. «Domanda: Perché desidera migliorare il proprio sembiante?
«Risposta: Perché aspira all’ammirazione ed all’invidia dei suoi simili.
«Domanda: Perché aspira all’ammirazione?
«Risposta: Perché, essendo un uomo, è un animale sociale.
«Domanda: Perché l’Uomo è un animale sociale?
«E così le domande e le risposte continuano all’infinito. Di conseguenza…».
Hurtiancz si alzò in piedi di scatto. Levò la bottiglia di vetro marrone sopra la testa e la scagliò sul pavimento. «Basta con queste inanità insopportabili! Affermo che tale loquacità supera i limiti del fastidio e sconfina nella turpitudine».
«È un’affermazione interessante», fece Herark. «Ildefonse, che hai da dire in proposito?».
«Sarei incline a punire Hurtiancz per la sua grossolanità», rispose Ildefonse. «Ma ora sta simulando una stupidità porcina per sottrarsi alla mia mira».
«Falsità assoluta!» ruggì Hurtiancz. «Io non simulo nulla!».
Ildefonse scrollò le spalle. «Nonostante tutte le sue deficienze come polemista e come mago, Hurtiancz è almeno sincero».
Hurtiancz dominò il furore e disse: «Chi potrebbe superare la tua volubilità? Come mago, comunque io supero le tue capacità confusionarie come Rhialto il Meraviglioso supera la tua reumatica decrepitezza».
Ildefonse s’incollerì a sua volta. «Una prova!» Alzò la mano; i blocchi massicci si dispersero in tutte le direzioni. I maghi si ritrovarono sul pavimento vuoto, sotto il bagliore della luce solare. «Che ne dici?».
«Banale», rispose Hurtiancz. «Eguaglia questo!» Alzò entrambe le mani; da ogni dito scaturì uno zampillo di fumo vivido, in dieci colori diversi.
«Il grazioso trucco di un ciarlatano», dichiarò Ildefonse. «Guarda, ora! Pronuncio una parola: “Tetto!”» La parola, lasciando le sue labbra, esitò nell’aria, sotto forma di simbolo, poi si estese in un ampio cerchio, appoggiandosi al tetto di una delle strane strutture ancora in piedi. Il simbolo scomparve; il tetto s’illuminò di un arancione vivo e si fuse, generando mille simboli identici alla parola lanciata da Ildefonse. I simboli sfrecciarono nel cielo, si arrestarono, scomparvero. Dall’alto, come un tuono gigantesco, venne la voce di Ildefonse: «TETTO!».
«Non è gran cosa», dichiarò Hurtiancz. «Ora…».
«Ascoltate!» disse Mune il Mago. «Interrompete questo litigio da ubriachi. Guardate la!».
Dall’edificio che Ildefonse aveva privato del tetto uscì un uomo.
L’uomo sì fermò sulla soglia. Era alto, imponente. Una lunga barba bianca gli scendeva sul petto; i capelli canuti gli coprivano le orecchie; gli occhi neri scintillavano. Indossava un elegante caffettano intessuto a motivi rossoscuri, marroni, neri e azzurri. Avanzò, e si poté vedere che era seguito da una nube di oggetti splendenti. Gilgad, che era ritornato dalla piazza, lanciò immediatamente un grido: «Le pietre IOUN!».
L’uomo continuò ad avanzare. Il suo volto aveva un’espressione calma, indagatrice. Ildefonse mormorò: «È Morreion! Non c’è dubbio. La statura, il portamento… sono inconfondibili!».
«È Morreion», riconobbe Rhialto. «Ma perché è così calmo, come se ogni settimana ricevesse visitatori che gli portano via il tetto, come se il “Nulla” incombesse su qualcun altro?».
«Può darsi che le sue percezioni si siano un po’ offuscate», suggerì Herark. «Notate: non mostra alcun segno di riconoscerci».
Morreion avanzò lentamente, e le pietre IOUN turbinavano nella sua scia. I maghi si radunarono davanti alla scalinata marmorea del palazzo. Vermoulian si fece avanti ed alzò la mano. «Salute a te, Morreion! Siamo venuti a toglierti da questo isolamento intollerabile!».
Morreion passò lo sguardo da un volto all’altro. Emise un suono gutturale, poi un gracidio raschiante, come se provasse organi di cui aveva da tempo dimenticato l’uso.
Ildefonse si presentò: «Morreion, mio camerata! Sono io, Ildefonse; ricordi i vecchi tempi di Kammerbrand? Parla, dunque!».
«Io odo», gracchiò Morreion. «Io parlo, ma non ricordo».
Vermoulian indicò la scalinata marmorea. «Sali a bordo, se vuoi; lasceremo subito questo mondo squallido».
Morreion non si mosse. Esaminò il palazzo con un cipiglio irritato. «Hai piazzato la tua capanna volante sull’area dove io asciugo le mie matasse».
Ildefonse indicò il muro nero, che attraverso la foschia atmosferica appariva solo come un’ombra gigantesca. «Il “Nulla” incombe qui vicino. Sta per avvolgere questo mondo, e allora tu non esisterai più; insomma, sarai morto».
«Non comprendo chiaramente ciò che intendi dire», fece Morreion. «Se volete scusarmi, devo andare ad occuparmi delle mie faccende».
«Una breve domanda, prima che tu te ne vada», disse Gilgad. «Dove si possono trovare le pietre IOUN?».
Morreion lo guardò senza capire. Finalmente rivolse l’attenzione alle pietre, che turbinarono con un moto più rapido. In confronto, quelle dell’archveult Xexamedes erano apatiche e spente. Queste danzavano e piroettavano, e scintillavano di colori diversi. Vicino alla testa di Morreion si muovevano le pietre color lavanda e verdepallido, come se si ritenessero più amate e privilegiate delle altre. Più distanti c’erano le pietre che brillavano di rosa e di verde; poi quelle di un ardente puro incarnatino, poi le pietre di carminio regale, poi quelle rosse e azzurre e infine, alla periferia, un gran numero di pietre che scintillavano d’intense luci blu.
Mentre Morreion rifletteva, i maghi notarono una stranezza: alcune delle pietre color lavanda persero il loro fulgore e divennero fioche come quelle di Xexamedes.
Morreion annuì, lentamente. «Curioso! Ci sono tante cose che ho dimenticato, a quanto pare… Non sono vissuto sempre qui», disse, in tono sorpreso. «Un tempo, c’era un altro luogo. Il ricordo è fievole e remoto».
Vermoulian disse: «Quel luogo è la Terra! È là che noi ti condurremo».
Sorridendo, Morreion scosse il capo. «Sto per incominciare un viaggio importante».
«È un viaggio assolutamente necessario?» chiese Mune il Mago. «Abbiamo a disposizione un tempo limitato, e soprattutto, non vogliamo essere assorbiti dal “Nulla”».
«Devo provvedere ai miei tumuli», disse Morreion, in tono mite ma deciso.
Per un momento vi fu silenzio. Poi Ildefonse chiese: «Che scopo hanno i tumuli?».
Morreion usò il tono tranquillo di chi si rivolge ad un bambino: «Indicano la strada più agevole intorno al mio mondo. Senza tumuli, ci si può smarrire».
«Ma ricorda: quei punti di riferimento non sono più necessari», disse Ao degli Opali. «Tu tornerai alla Terra con noi!».
Morreion non seppe trattenere una risatina di fronte all’ottusa insistenza dei visitatori. «Chi baderebbe alle mie proprietà? Come potrei viaggiare se i miei tumuli crollassero, se i miei telai si rompessero, se i miei forni si sgretolassero, se le altre mie iniziative si disgregassero, e tutto per la mancanza di una cura metodica?».
Vermoulian disse, con voce blanda: «Vieni almeno a bordo del palazzo per partecipare al nostro banchetto serale».
«Sarà un piacere», rispose Morreion. Salì la gradinata di marmo, e guardò interessato il padiglione. «Affascinante. Dovrò tener presente qualcosa di simile, per la corte anteriore della mia nuova dimora».
«Non ci sarà abbastanza tempo», gli disse Rhialto.
«“Tempo”?» Morreion aggrottò la fronte come se quella parola gli giungesse nuova. Altre pietre color lavanda impallidirono all’improvviso. «Il tempo, davvero! Ma il tempo è necessario per fare un lavoro adeguato. Questa veste, per esempio». Additò il caffettano dai motivi sgargianti. «La tessitura ha richiesto quattro anni. Prima, ho radunato animali da pelliccia per dieci anni; poi, per altri due anni, ho sbiancato e tinto e filato. I miei tumuli sono stati eretti con una pietra alla volta, ogni volta che compivo il giro del mondo. La passione di vagare si è un po’ attenuata, ma talora compio ancora il viaggio, per ricostruire quando è necessario, e per osservare i cambiamenti che si sono prodotti nel paesaggio».
Rhialto additò il sole. «Riconosci la natura di quell’oggetto?».
Morreion aggrottò la fronte. «Io lo chiamo “il sole”… anche se non ricordo perché ho scelto questo particolare termine».
«Vi sono molti soli come questo», disse Rhialto. «Intorno ad uno di essi orbita quel mondo antico e straordinario che ti ha dato i natali. Ricordi la Terra?».
Morreion scrutò dubbioso il cielo. «Non ho veduto nessuno degli altri soli di cui parli. La notte, il mio cielo è buio; non c’è altra luce, in tutto il mondo, che il bagliore dei miei fuochi. È un mondo veramente pacifico… Mi sembra di ricordare tempi più avventurosi». L’ultima pietra color lavanda ed alcune pietre verdi persero il colore. Per un momento, gli occhi di Morreion divennero intenti. Andò ad esaminare le ninfe acquatiche addomesticate che guizzavano nella fontana centrale. «E cosa sarebbero queste piccole creature lucenti? Sono affascinanti».
«Sono molto fragili, e servono soltanto per bellezza», disse Vermoulian. «Vieni, Morreion, il mio lacché ti aiuterà a prepararti per il banchetto».
«Sei molto gentile», fece Morreion.
I maghi attesero il loro ospite nel grande salone. Ognuno aveva una sua idea della situazione. Rhialto disse: «È meglio che facciamo decollare subito il palazzo e che ce ne andiamo. Morreion si agiterà per un po’; ma quando saprà tutto, se ne farà sicuramente una ragione».
Il prudente Perdustin era dubbioso. «C’è un grande potere in quell’uomo! Un tempo, la sua magia destava meraviglia e venerazione: e se, per ripicca, ci facesse del male?».
Gilgad appoggiava l’opinione di Perdustin. «Avete notato tutti le pietre IOUN di Morreion. Dove se l’è procurate? Possibile che la fonte sia questo mondo?».
«Tale possibilità non dovrebbe essere scartata automaticamente», ammise Ildefonse. «Domani, quando gli descriveremo l’imminenza del “Nulla”, Morreion partirà certo senza risentimenti».
La cosa restò li. I maghi presero a discutere altri aspetti di quel mondo squallido.
Herark il Nunzio, che era un esperto paragnostico, tentò d’indovinare la natura della razza che aveva lasciato quelle rovine sparse in tutto il pianeta, ma non ottenne successi notevoli. «Si sono estinti da troppo tempo; la loro influenza è svanita. Mi sembra di discernere esseri dalle sottili gambe bianche e dai grandi occhi verdi… Odo il mormorio della loro nusica; un tintinnio, un rintocco, al suono piuttosto lamentoso dei flauti… Non percepisco alcuna magia. Dubito che avrebbero saputo riconoscere le pietre IOUN, se n’esistono su questo pianeta».
«E dove avrebbero origine, allora?» domandò Gilgad.
«I “campi splendenti” non si vedono da nessuna parte», osservò Haze delle Acque Stanche.
Morreion entrò nella sala. Il suo aspetto aveva subito una trasformazione teatrale. La gran barba bianca era stata tagliata; la criniera canuta era scorciata e pettinata in uno stile più elegante. Al posto dello sgargiante caffettano indossava una veste di seta avorio con una fusciacca azzurra ed un paio di babbucce scarlatte. Morreion, adesso, appariva come un uomo alto e magro, attento e vigile. Gli scintillanti occhi neri dominavano il volto scarno, dal mento volitivo, la fronte massiccia, le linee regolari della bocca. L’apatia e la noia dei molti eoni non si scorgevano affatto; si muoveva con scioltezza, e dietro di lui, sfreccianti e turbinanti, brulicavano le pietre IOUN.
Morreion salutò i maghi con un cenno del capo, e rivolse l’attenzione all’arredamento del salone. «Magnifico e lussuoso! Ma sarò costretto ad usare il quarzo al posto di questo splendido marmo, e si trova poco argento. I Sahar saccheggiarono tutti i giacimenti superficiali. Quando ho bisogno di metalli, devo scavare gallerie a grandi profondità».
«Hai condotto un’esistenza molto operosa», dichiarò Ildefonse. «E chi erano i Sahar?».
«La razza che con le sue rovine ha deturpato il paesaggio. Un popolo frivolo e irresponsabile, anche se devo ammettere che i loro enigmi poetici mi sembrano divertenti».
«E i Sahar esistono ancora?».
«Oh, no! Si estinsero molte ere addietro. Ma lasciarono numerosi documenti incisi nel bronzo, ed io ho avuto occasione di tradurli».
«Un lavoro tedioso, sicuramente!» esclamò Zilifant. «Come hai realizzato un’impresa tanto complicata?».
«Mediante il processo d’eliminazione», spiegò Morreion. «Paragonai le iscrizioni con una serie di lingue immaginarie, ed infine trovai una corrispondenza. Come hai detto, è un’impresa che ha richiesto molto tempo; tuttavia, mi sono divertito parecchio grazie alle cronache dei Sahar. Voglio orchestrare le loro baldorie musicali. Ma questo è un compito per il futuro. Forse dopo che avrò completato il palazzo che ho in progetto».
Ildefonse parlò in tono grave: «Morreion, è necessario esporti alcuni fatti importanti. Tu affermi di non aver studiato i cieli?».
«Non in modo estensivo», ammise Morreion. «C’è poco da vedere, se si eccettua il sole, e in condizioni favorevoli un grande muro di tenebra impenetrabile».
«Quel muro di tenebra», fece Ildefonse, «è il “Nulla”, verso cui il tuo mondo va inesorabilmente alla deriva. Ogni ulteriore attività, qui, è inutile».
Gli occhi neri di Morreion scintillarono di dubbi e di sospetti. «Puoi provare tale affermazione?».
«Certamente. Anzi, siamo venuti qui dalla Terra per salvarti».
Morreion aggrottò la fronte. Alcune pietre verdi persero improvvisamente colore. «Perché avete tardato tanto?».
Ao degli Opali proruppe in una risata nervosa che sembrava un raglio, e si affrettò a soffocarla. Ildefonse gli lanciò un’occhiata furibonda.
«Solo recentemente siamo stati informati della situazione in cui ti trovavi», spiegò Rhialto. «In quell’istante abbiamo convinto Vermoulian a condurci qui con il suo palazzo pellegrino».
Il volto blando di Vermoulian si corrugò per l’irritazione. «“Convinto” non è esatto!» dichiarò. «Stavo già per partire quando gli altri hanno insistito per accompagnarmi. Ed ora, se volete scusarci per qualche istante, io e Morreion dovremmo discutere alcune cose importanti».
«Calma, calma!» esclamò Gilgad. «Anch’io sono ansioso di conoscere l’origine delle pietre».
Ildefonse disse: «Formulerò la domanda in presenza di tutti. Morreion, dove ti sei procurato le tue pietre IOUN?».
Morreion si voltò a guardare le pietre. «Per essere sincero, è tutto un po’ vago. Mi sembra di ricordare un’immensa superficie splendente… Ma perché me lo domandi? Non hanno una grande utilità. Sono assediato da tante idee. Mi pare di aver avuto dei nemici, una volta, e falsi amici: devo sforzarmi di ricordare».
Ildefonse disse: «Ora sei fra i tuoi amici fedeli, i maghi della Terra. E se non m’inganno, il nobile Vermoulian sta per offrirci il pasto più sontuoso che noi si possa ricordare!».
Morreion disse, con un sorriso acido: «Dovete credere che la mia sia l’esistenza di un selvaggio. Non è così! Ho studiato la cucina dei Sahar, e l’ho perfezionata! Il lichene che copre le pianure può essere preparato almeno in centosessanta modi diversi. Le zolle sottostanti ospitano vermi succulenti. Nonostante la sua squallida monotonia, questo è un mondo ricco. Se ciò che dici è vero, mi dispiacerà partire».
«Non si può ignorare la verità», fece Ildefonse. «Le pietre IOUN, a quanto suppongo, provengono dalla parte settentrionale di questo mondo?».
«Non credo».
«Dall’area meridionale, allora?».
«Io visito raramente quelle terre: il lichene è raro, i vermi sono troppo duri».
Risuonò un colpo di gong; Vermoulian fece accomodare la compagnia in sala da pranzo, dove il grande tavolo scintillava d’argenteria e di cristalli. I maghi sedettero sotto i cinque lampadari; per deferenza verso l’ospite che era vissuto così a lungo in solitudine, Vermoulian si astenne dal chiamare le bellissime donne delle ere passate.
Morreion mangiava con cautela, assaggiando tutte le vivande che gli venivano poste davanti, e confrontandole con i vari tipi di licheni che costituivano il suo nutrimento abituale. «Avevo quasi dimenticato l’esistenza di questi cibi», disse alla fine. «Rammento, vagamente, altri banchetti come questo… tanto, tanto tempo fa… Dove sono andati gli anni? Qual è il sogno?» Mentre rifletteva, alcune delle pietre verdi e rosee perdettero colore. Morreion sospirò. «Vi sono tante cose da imparare, tante cose da ricordare. Certe facce suscitano vaghe memorie: le ho conosciute tutte, prima d’ora?».
«Ricorderai a tempo debito», disse il diabolista Shrue. «E ora, se siamo certi che le pietre IOUN non si trovano su questo pianeta…».
«Ma non ne siamo sicuri!» insorse Gilgad. «Dobbiamo cercare; dobbiamo esplorare; nessuno sforzo sarà troppo arduo…».
«La prima che verrà trovata, ovviamente, servirà a soddisfare la mia richiesta», dichiarò Rhialto. «Questo deve essere stabilito chiaramente».
Gilgad protese la faccia volpina. «Che assurdità è questa? Le tue rivendicazioni sono state soddisfatte mediante una scelta degli oggetti appartenuti all’archveult Xexamedes!».
Morreion trasalì e si voltò di scatto. «L’archveult Xexamedes? Conosco questo nome… Come? Dove? Molto tempo fa, conoscevo un archveult Xexamedes; era mio nemico, o così sembra… Ah, le idee che mi turbinano nella mente!» Le pietre rosa e verdi avevano perduto tutte il colore. Morreion gemette e si portò le mani alla testa. «Prima che arrivaste voi, la mia esistenza era serena; voi mi avete portato dubbi e interrogativi».
«Dubbi e interrogativi sono la sorte comune di tutti gli uomini», disse Ildefonse. «Non esclusi i maghi. Sei pronto a lasciare il Pianeta dei Sahar?».
Morreion restò seduto a fissare un calice di vino. «Devo prendere i miei libri. Sono tutto ciò che desidero portare con me».
Morreion condusse i maghi nel suo dominio. Gli edifici che erano sembrati miracolosamente superstiti erano stati in realtà costruiti da Morreion, seguendo l’uno o l’altro stile dell’architettura dei Sahar. Mostrò i suoi tre telai; il primo per i tessuti fini, lini e sete; il secondo, su cui lavorava stoffe operate; il terzo, su cui tesseva i tappeti pesanti. Lo stesso edificio ospitava vasche, tinture, sbiancanti e mordenti. Un altro edificio conteneva il calderone per il vetro, ed i forni in cui Morreion cuoceva vasi, piatti, lampade e tegole di argilla. «I Sahar avevano saccheggiato tutti i minerali del pianeta. Io scavo solo quelli che considero indispensabili, e non sono molti».
Morreion condusse il gruppo nella sua biblioteca, dove c’erano molti originali dei Sahar, e libri che egli stesso aveva scritto e miniato di sua mano; traduzioni dei classici Sahar, un’enciclopedia di storia naturale, meditazioni e speculazioni, una geografia descrittiva del pianeta, con mappe allegate. Vermoulian ordinò ai suoi servitori di trasferire tutto nel palazzo.
Morreion volse un ultimo sguardo sul paesaggio che aveva conosciuto per tanto tempo e che aveva finito per amare. Poi, senza una parola, andò al palazzo e salì la scalinata di marmo. I maghi lo seguirono in silenzio. Vermoulian salì subito nel belvedere di comando, dove eseguì i Riti della galleggiabilità. Il palazzo s’innalzò fluttuando dall’ultimo pianeta.
Ildefonse proruppe in un’esclamazione d’orrore. «Il “Nulla” è vicinissimo… più di quanto sospettassimo!».
Il muro nero incombeva sorprendentemente vicino: l’ultima stella ed il suo unico pianeta quasi lo sfioravano.
«Le prospettive non sono chiare», fece Ildefonse. «Non c’è modo di giudicare con certezza, ma sembra che ce ne siamo andati appena in tempo».
«Aspettiamo e stiamo a vedere», propose Herark. «Morreion potrà constatare che siamo in buona fede».
Il palazzo pellegrino restò librato nello spazio, con la luce pallida del sole condannato che giocava sulle cinque guglie di cristallo, proiettando lunghe ombre dietro i maghi, schierati alla balaustrata.
Il mondo dei Sahar fu il primo ad incontrare il “Nulla”. Sfiorò l’enigmatica non-sostanza, poi, sospinto da una componente del moto orbitale, un quarto della sfera si spostò, libero: un oggetto a forma di montagna, con una base esattamente piatta che mostrava gli strati, le zone, le pieghe, le intrusioni, ed il nucleo in precedenza nascosti. Il sole raggiunse il “Nulla”, lo toccò, avanzò. Divenne una mezza arancia su uno specchio nero, poi sprofondò, lontano dalla realtà. Le tenebre avvolsero il palazzo.
Nel belvedere, Vermoulian trasferì simboli sulla ruota del timone. Li lanciò, poi mise un fuoco doppio nell’incenso della velocità. Il palazzo scivolò via, verso le nubi di stelle.
Morreion si scostò dalla balaustrata ed andò nella grande sala; sedette, profondamente immerso nei suoi pensieri.
Poco dopo, Gilgad gli si accostò. «Forse hai ricordato la fonte delle pietre IOUN?».
Morreion si alzò. Volse i sereni occhi neri su Gilgad, che arretrò di un passo. Tutte le pietre rosa e verdi erano divenute pallide, come pure molte di quelle incarnatine.
Il volto di Morreion era freddo e severo. «Ricordo molte cose! Vi fu una consorteria di nemici che m’ingannò… ma tutto è fioco, come il velo delle stelle sospeso nello spazio. In qualche modo, le pietre fanno parte di tutto questo. Perché mostri tanto interesse per le pietre? Eri uno dei miei antichi nemici? Lo siete forse tutti? In tal caso, state di guardia! Io sono un uomo mite fino a quando non incontro antagonisti».
Il diabolista Shrue parlò in tono suadente. «Noi non siamo tuoi nemici! Se non ti avessimo sottratto al pianeta dei Sahar, ora saresti nel “Nulla”. Non è una prova sufficiente?».
Morreion annuì cupamente; ma non sembrava più l’uomo mite ed affabile che avevano incontrato.
Per ridestare quell’amabilità, Vermoulian si affrettò a recarsi nella Stanza degli Specchi Offuscati dove teneva la sua cospicua collezione di bellissime donne, sotto forma di matrici. Era possibile attivarle e renderle corporee con un semplice Incantesimo Antinegativo; e poco dopo, uscirono dalla stanza, una dopo l’altra, le deliziose creature del passato che Vermoulian aveva ritenuto opportuno far rivivere. Ogni volta esse uscivano freschissime, senza il ricordo di precedenti manifestazioni; ogni apparizione era nuova, qualunque cosa fosse accaduta prima.
Tra le donne che Vermoulian aveva evocato c’era la graziosa Mersei. Entrò nel grande salone, sbattendo le palpebre per lo sbalordimento comune a coloro che venivano evocati dal passato. Si fermò stupita e poi avanzò a passi svelti. «Morreion! Che cosa fai qui? Ci avevano detto che eri andato a combattere gli archveult, e che eri stato ucciso! Per il Sacro Raggio, sei vivo e illeso!».
Morreion, perplesso, abbassò lo sguardo sulla giovane donna. Le pietre rosate e cremisi rotearono intorno alla sua testa. «Ti ho visto in qualche luogo; in qualche luogo ti ho conosciuta».
«Io sono Mersei! Non ricordi? Tu mi portasti una rosa rossa che cresceva in un vaso di porcellana. Oh, che cosa ne ho fatto? La tengo sempre vicina… Ma dove sono? Dov’è la rosa? Non importa. Io sono qui e tu sei qui».
Ildefonse mormorò a Vermoulian: «Un atto irresponsabile, secondo me: perché non sei stato più prudente?».
Vermoulian sporse le labbra, irritato. «Mersei proviene dalla fine del Quarantatreesimo Eone, ma non avevo previsto una cosa del genere!».
«Ti consiglio di richiamarla nella tua sala delle matrici e di ridurla. Morreion sembra attraversare un periodo d’instabilità; ha bisogno di pace e di quiete; meglio non introdurre stimoli tanto imprevedibili».
Vermoulian attraversò il salone. «Mersei, mia cara, vuoi avere la bontà di venire da questa parte?».
Mersei gli lanciò un’occhiata dubbiosa, poi implorò Morreion: «Non mi riconosci? C’è qualcosa di molto strano; non riesco a comprendere nulla… è come un sogno. Morreion, sto sognando?».
«Vieni, Mersei», fece soavemente Vermoulian. «Vorrei scambiare una parola con te».
«Fermati!» disse Morreion. «Mago, stai indietro: questa fragrante creatura è qualcosa che io amavo, in un tempo passato».
La giovane donna esclamò, con voce incalzante: «In un tempo passato? È stato ieri! Io curavo la dolce rosa, guardavo il cielo; ti avevano mandato a Jangk, presso la stella rossa Kerkaju, l’occhio della Scimmia Polare. Ed ora tu sei qui, ed io sono qui… che significa?».
«Inopportuno, inopportuno», borbottò Ildefonse. Poi esclamò: «Morreion, da questa parte, ti prego. Vedo una curiosa concatenazione di galassie. Forse qui è la nuova patria dei Sahar».
Morreion posò la mano sulla spalla della giovane donna, la guardò in viso. «La dolce rosa rossa fiorisce, e per l’eternità. Siamo tra maghi, e si compiono strani eventi». Lanciò un’occhiata a Vermoulian, poi di nuovo a Mersei. «Per ora, vai con Vermoulian dei Sogni, che ti accompagnerà nella tua camera».
«Sì, caro Morreion, ma quando ti rivedrò? Mi sembri così strano, così teso e vecchio, e parli in modo così bizzarro…».
«Ora vai, Mersei. Io devo conferire con Ildefonse».
Vermoulian ricondusse Mersei verso la sala delle matrici. Sulla porta lei esitò e girò la testa, ma Morreion si era già voltato. Seguì Vermoulian nella sala. La porta si chiuse dietro di loro.
Morreion andò nel padiglione, oltre gli scuri cedri dai frutti argentei, e si appoggiò alla balaustrata. Il cielo era ancora buio, sebbene avanti e in basso si potesse scorgere alcune galassie vagabonde. Morreion si portò la mano alla testa; tutte le pietre incarnatine e alcune pietre rosse persero colore.
Morreion si girò di scatto verso Ildefonse e gli altri maghi che, in silenzio, erano giunti nel padiglione. Avanzò, mentre le pietre IOUN si precipitavano una dietro l’altra nella fretta di seguirlo. Alcune erano ancora rosse, altre mostravano scintillii mutevoli azzurri e rossi, altre ardevano di un freddo blu incandescente. Tutte le altre erano divenute color perla. Una era andata a fluttuare davanti agli occhi di Morreion; egli l’afferrò, l’esaminò un attimo aggrottando la fronte, poi la gettò in aria. Roteando e sobbalzando, riacquistato momentaneamente il colore, la pietra si affrettò a raggiungere le altre, come un bimbo imbarazzato.
«La memoria viene e va», fece pensieroso Morreion. «Sono sconvolto, nella mente e nel cuore. Molti visi fluttuano davanti ai miei occhi, e poi svaniscono; altri eventi si spostano in una regione di chiarezza. Gli archveult, le pietre IOUN… ne so qualcosa, sebbene sia quasi tutto vago e confuso, quindi è meglio che io tenga la lingua a freno…».
«Ma no, ma no!» dichiarò Ao degli Opali. «Ci interessano le tue esperienze».
«Certo!» disse Gilgad.
La bocca di Morreion si contorse in un sorriso che era nel contempo sardonico ed aspro, e leggermente malinconico. «Benissimo. Racconterò questa storia, dunque, come se narrassi un sogno.
«Mi sembra di essere stato inviato a Jangk in missione… forse per scoprire la provenienza delle pietre IOUN? Forse. Odo mormoni che me lo dicono; potrebbe essere vero… Arrivai a Jangk; ricordo bene il paesaggio. Ricordo uno straordinario castello ricavato da un’enorme perla rosea. In quel castello, io affrontai gli archveult. Mi temevano e arretravano, e quando esposi i miei desideri non vi fu opposizione. Mi avrebbero condotto a raccogliere le pietre, e perciò partimmo, volando nello spazio con un velivolo di cui non ricordo la natura. Gli archveult tacevano e mi guardavano con la coda dell’occhio; poi divennero affabili e io mi sorpresi della loro gaiezza. Ma non avevo paura. Sapevo tutto della loro magia; portavo controincantesimi nelle unghie, ed in caso di necessità avrei potuto lanciarli immediatamente. Così attraversammo lo spazio, con gli archveult che ridevano e scherzavano in modo che mi sembrava demenziale. Ordinai loro di finirla. Smisero subito e sedettero, fissandomi.
«Giungemmo all’orlo dell’universo, e scendemmo su un mondo tristissimo, un luogo spaventoso. Lì attendemmo in una regione popolata da involucri di stelle bruciate, alcuni ancora caldi, altri freddi, altri ancora ridotti in cenere come il mondo su cui stavamo… forse anche quello era una stella morta. Di tanto in tanto scorgevamo i cadaveri di stelle nane, sfere scintillanti di sostanza così pesante che un granello pesa di più di una montagna terrestre. Vidi oggetti del diametro non superiore a dieci miglia, che contenevano la materia d’un sole enorme come Kerkaju. Entro quelle stelle morte, mi dissero gli archveult, si trovavano le pietre IOUN. E come si potevano ottenere? chiesi io. Dovevamo scavare una galleria in quella superficie splendente? Gli archveult risero beffardamente della mia ignoranza; io li rimproverai con asprezza, e subito tacquero. Il portavoce era Xexamedes. Da lui appresi che nessun potere noto agli uomini o ai maghi poteva deturpare una materia tanto densa. Dovevamo attendere.
«Il “Nulla” incombeva in distanza. Spesso gli involucri derelitti ci passavano vicini, nelle loro orbite. Gli archveult vigilavano attentamente, indicavano e calcolavano; si agitavano e cavillavano; alla fine, una delle sfere splendenti urtò contro il “Nulla”, e perse metà di se stessa. Quando schizzò via, gli archveult portarono il loro veicolo a posarsi sulla superficie piatta. Poi si avventurarono tutti all’esterno, con estrema precauzione; non protetto contro la gravità, su quella superficie un uomo diventava istantaneamente un contorno schiacciato. Ci muovemmo su slittotavole immuni alla gravità.
«Che spettacolo meraviglioso!! Il “Nulla” aveva prodotto una levigatezza impeccabile; quella pianura specchiante si estendeva per quindici miglia, deturpata soltanto al centro da un certo numero di crateri nerissimi. La si trovavano le pietre IOUN, in nidi di polvere scura.
«Procurarsi le pietre non è cosa di poco conto. La polvere nera, come le slittotavole, resiste alla gravità. Non è pericoloso scendere su quella polvere, ma è necessario prendere una nuova precauzione. Mentre la polvere nega la sostanza sottostante, altri oggetti celesti risucchiano, perciò è necessario ancorarsi. Gli archveult piantano piccoli ganci nella polvere, e si legano con una corda: anch’io feci lo stesso. La polvere viene sondata con uno strumento speciale… un compito tedioso! La polvere è così compatta! Tuttavia, mi misi al lavoro con. grande energia, ed a suo tempo mi conquistai la mia prima pietra IOUN. La levai in alto, esultante. Ma dov’erano gli archveult? Poco prima si aggiravano in cerchio intorno a me: ma erano ritornati al veicolo! Cercai la mia slittotavola… invano! Se l’erano portata via, furtivamente!
«Barcollai, mi accasciai; lanciai un Incantesimo Delirante contro i traditori. Quelli protesero davanti a loro le pietre IOUN appena trovate: la magia veniva assorbita, come acqua che penetra in una spugna.
«Senza una sola parola, senza neppure gesti di trionfo — mi tenevano in scarsa considerazione, infatti — rientrarono nel veicolo e se n’andarono. In quella regione contigua al “Nulla” la mia sorte era segnata… almeno, loro n’erano certi!».
Mentre Morreion parlava, le pietre rosse impallidirono; la sua voce fremeva d’una passione che fino ad allora non aveva mai mostrato.
«Rimasi solo», disse Morreion, arrochito. «Non potevo morire, poiché avevo addosso l’Incantesimo del Nutrimento Incessante, ma non potevo muovere un passo fuori dalla cavità della polvere nera, altrimenti sarei divenuto istantaneamente un’impronta sulla superficie del campo splendente.
«Rimasi irrigidito… non so per quanto tempo. Anni? Decenni? Non riesco a ricordare. Mi sembra un periodo saturo d’una foschia opaca. Frugai nella mia mente, cercando qualche risorsa, e la disperazione mi rese temerario. Cercai, sondando, altre pietre IOUN, e trovai quelle che ora mi cingono. Divennero mie amiche e mi arrecarono consolazione.
«Assegnai loro un nuovo compito che non avrei mai tentato, se la disperazione non mi avesse reso quasi pazzo. Presi alcune particelle di polvere nera, le bagnai con il sangue, formando un impasto; e modellai l’impasto in una lastra circolare, grande abbastanza per sostenermi.
«Quando fu terminata, vi montai; mi ancorai con i ganci uncinati, e salii, salii, lontano dalla mezza stella.
«Mi ero liberato! Stavo sul mio disco, nel vuoto! Ero libero, ma ero solo. Non potreste sapere ciò che provai fino a quando anche voi vi sarete trovati nello spazio, senza saper dove andare. In lontananza scorsi una stella solitaria, vagabonda; e mi diressi verso quell’astro.
«Non so dire neppure quanto tempo richiese quel viaggio. Quando calcolai di aver coperto metà della distanza, girai il disco e ridussi la velocità.
«Ricordo ben poco del viaggio. Parlavo con le mie pietre, donavo loro i miei pensieri. Mi sembrava che parlare mi calmasse, perché durante i primi cento anni del viaggio provai un furore prodigioso che pareva sopraffare ogni pensiero razionale; pur d’infliggere anche una sola puntura di spillo ad uno dei miei avversari sarei morto cento volte fra i tormenti! Meditai vendette deliziose, mi esaltai pensando alle sofferenze che avrei inflitto. Poi, talvolta, soffrivo di un’indicibile malinconia… mentre gli altri godevano delle belle cose della vita, i festini, il cameratismo, le carezze delle donne amate, io stavo la, solo nella tenebra. L’equilibrio sarebbe stato ristabilito, mi dicevo. I miei nemici avrebbero sofferto quanto me, e ancora di più! Ma il furore si placò, e via via che le mie pietre impararono a conoscermi, assunsero quei colori bellissimi. Ognuna ha un nome; ognuna è un individuo; le riconosco ad una ad una dai loro movimenti. Gli archveult le considerano le uova cerebrali del popolo del fuoco, che vive all’interno delle stelle: ma non so se questo è vero.
«Scesi finalmente sul mio mondo. La mia rabbia si era consumata. Ero calmo, sereno, come ora mi conoscete. Volsi la mente ad una nuova esistenza e, con il trascorrere degli eoni, eressi i miei edifici ed i miei tumuli: vissi la mia nuova vita.
«I Sahar destarono il mio interesse. Lessi i loro libri, appresi le loro tradizioni… Forse incominciai a vivere in un sogno. La mia vita d’un tempo era lontana; una stonatura trascurabile cui attribuivo sempre meno importanza. Mi sorprende che la lingua della Terra mi sia ritornata in mente con tanta prontezza. Forse le pietre racchiudevano e custodivano la mia conoscenza, e me l’hanno resa quand’è stato necessario. Ah, mie pietre meravigliose, che cosa sarei senza di loro?
«Adesso sono ritornato fra gli uomini; so come si è svolta la mia vita. Vi sono ancora spazi confusi; a tempo debito, ricorderò tutto».
Morreion tacque, riflettendo; numerose pietre azzurre e scarlatte si affievolirono rapidamente. Morreion rabbrividì, come se fosse stato toccato da un’essenza galvanica; la barba bianca, tagliata corta, parve diventare ispida. Avanzò di un passo, lentamente; alcuni maghi si mossero, irrequieti.
Morreion parlò con voce nuova, meno meditabonda e reminescente, con un aspro suono gracchiante. «Ora confiderò in voi». Volse lo scintillio degli occhi neri su ogni volto, uno dopo l’altro. «Ho detto che la mia rabbia era svanita con il trascorrere degli eoni; ed è vero. I singulti che laceravano la mia gola, il digrignare che mi spezzava i denti, la furia che faceva dolere e tremare il mio cervello, tutto si è affievolito, perché non avevo nulla con cui alimentare i miei sentimenti. Dopo l’amara riflessione venne la tragica malinconia, poi finalmente la pace, turbata dal vostro arrivo.
«Ora un nuovo umore s’è impadronito di me. Via via che il passato diventava reale, io sono ritornato lungo la via del passato. C’è una differenza: ora sono un uomo freddo e prudente; forse non potrò più provare gli slanci della passione che un tempo mi consumava. D’altra parte, certi periodi della mia vita sono ancora oscuri». Un’altra pietra rossa e scarlatta perse il suo vivido fulgore; Morreion s’irrigidì, e la sua voce divenne più tagliente. «Le colpe commesse contro la mia persona gridano vendetta! Gli archveult di Jangk dovranno pagare pienamente ed onerosamente! Vermoulian dei Sogni, cancella i simboli che hai impresso sulla ruota del timone! La nostra destinazione, adesso, è il pianeta Jangk!».
Vermoulian guardò i colleghi, per conoscere la loro opinione.
Ildefonse si schiarì la gola. «Propongo che il nostro ospite Vermoulian faccia prima tappa sulla Terra, per scaricare coloro che hanno affari urgenti da sbrigare. Gli altri proseguiranno in compagnia di Vermoulian e Morreion fino a Jangk; in questo modo, si potranno soddisfare le esigenze di tutti».
Morreion disse, con voce minacciosamente sommessa: «Non vi sono scopi più urgenti del mio, che è già stato procrastinato anche troppo a lungo». Si rivolse a Vermoulian: «Appicca un fuoco più vivo all’incenso della velocità! Dirigiti direttamente a Jangk».
Haze delle Acque Stanche disse, in tono diffidente: «Non posso fare a meno di rammentarti che gli archveult sono maghi potentissimi: come te, possiedono le pietre IOUN».
Morreion fece un gesto furioso; la sua mano, fendendo l’aria, lasciò una scia di scintille. «La magia deriva dalla forza personale! La mia passione basterà a sconfiggere gli archveult! Io mi rallegro al pensiero dell’imminente confronto. Ah, come rimpiangeranno ciò che hanno fatto!».
«Il perdono è stato definito come la virtù più nobile», suggerì Ildefonse. «Da molto tempo, ormai, gli archveult hanno dimenticato persino la tua esistenza; la tua vendetta apparirà come una tribolazione ingiusta e superflua».
Morreion girò di scatto gli scintillanti occhi neri. «Respingo questo concetto. Vermoulian, obbedisci!».
«Ci dirigiamo a Jangk», disse Vermoulian.
Sulla panchina di marmo, fra un paio di cedri dai frutti d’argento, era seduto Ildefonse. Rhialto gli stava accanto, con una gamba elegantemente appoggiata sulla panchina, in una posa che metteva in mostra il mantello di raso color rosa foderato di bianco. Stavano attraversando un ammasso di mille stelle; grandi luci passavano sopra, sotto, ai lati; le guglie di cristallo del palazzo riflettevano milioni di scintille.
Rhialto aveva già espresso la sua preoccupazione per la piega assurda degli eventi. Ora parlò di nuovo, con maggiore enfasi: «Sta bene osservare che quell’uomo manca di mezzi; ma, come egli sostiene, la forza può vincere la raffinatezza».
Ildefonse, disse, in tono sicuro: «La forza di Morreion è quella dell’isteria, dispersa e non concentrata».
«È in questo che sta il pericolo! E se per un capriccio la sua ira si rivolgesse su di noi?».
«Bah, e con questo?» ribatté Ildefonse. «Dubiti forse della mia abilità, o della tua?».
«L’uomo prudente prevede le contingenze», disse Rhialto, con grande dignità. «Ricorda: una certa parte della vita di Morreion rimane oscura».
Ildefonse si tirò pensosamente la barba bianca. «Gli eoni hanno cambiato tutti noi; Morreion non meno degli altri».
«È appunto ciò che intendevo», fece Rhialto. «Potrei dirti che meno di un’ora fa ho tentato un piccolo esperimento. Morreion passeggiava sul terzo balcone, guardando le stelle che passavano. Dato che la sua attenzione era distolta, ne ho approfittato per lanciare verso di lui un piccolo Incantesimo Fastidioso — la Fitta Viscerale di Houlart — ma senza alcun effetto percettibile. Poi ho tentato la versione ridotta del Prurito Noioso di Lugwiler, di nuovo senza risultato. Ho notato, tuttavia, che le sue pietre IOUN pulsavano luminose, mentre assorbivano la magia. Ho provato il Tumulto Verde; le pietre sono diventate brillanti, e questa volta Morreion se n’è accorto. Per un caso fortunato, è passato di li Byzant in Necrope. Morreion gli ha rivolto un’accusa, e Byzant ha negato. Li ho lasciati impegnati in una discussione accanita. La morale è questa: primo, le pietre proteggono Morreion dalla magia ostile; secondo, egli è vigile e sospettoso; terzo, non è il tipo da dimenticare un’offesa».
Ildefonse annuì gravemente. «Certo, dobbiamo tener conto di queste cose. Ora comprendo la portata del piano di Xexamedes: intendeva far del male a tutti. Ma guarda la, nel cielo! Quella è la costellazione Elektha, vista a rovescio? Siamo di nuovo in una regione familiare. Kerkaju deve trovarsi davanti a noi, e con esso lo straordinario pianeta Jangk».
I due si avviarono verso la parte anteriore del padiglione. «Hai ragione!» esclamò Rhialto. E indicò: «Ecco Kerkaju: riconosco il suo enfarisma scarlatto!».
Apparve il pianeta Jangk: un mondo dalla strana lucentezza cupa.
Seguendo le istruzioni di Morreion, Vermoulian fece scendere il palazzo sull’Altura dei Danzatori di Fumo, sulla sponda meridionale dell’Oceano d’Argento Vivo. Proteggendosi dall’aria velenosa, i maghi scesero la scalinata e si avviarono sull’altura; un panorama affascinante si spiegava davanti a loro. Il mostruoso Kerkaju giganteggiava nel cielo verde: ogni poro ed ogni flocculazione venivano rispecchiati nell’Oceano d’Argento Vivo. Sotto di loro, alla base dell’altura, il mercurio si riversava scorrendo fra distese piatte d’orneblenda nera; li i “draghi” di Jangk, esseri purpurei dalle forme di viole del pensiero, del diametro di circa due metri, pascolavano tra ciuffi di muschio cristallino. Verso oriente, la città di Kaleshe digradava a terrazze verso la spiaggia.
Morreion, ritto sull’orlo del precipizio, aspirò i vapori nocivi che arrivavano dall’oceano, come se fossero un tonico. «La mia memoria si ridesta», esclamò. «Ricordo questo scenario come fosse ieri. Vi sono stati mutamenti, è vero. Quel picco laggiù si è eroso, riducendosi a metà della sua altezza; le alture su cui ci troviamo sono invece salite, quasi raddoppiandosi. È trascorso tanto tempo? Mentre io erigevo i miei tumuli e meditavo sui miei libri, gli eoni volavano. Per non parlare poi del periodo incalcolabile durante il quale attraversai lo spazio su un disco impastato di sangue e di polvere stellare. Rechiamoci a Kaleshe: un tempo era la dimora dell’archveult Persain».
«Che accadrà quando incontrerai i tuoi nemici?» chiese Rhialto. «Hai pronti i tuoi incantesimi?».
«A che servono gli incantesimi?» gracchiò Morreion. «Guardate!» Tese un dito: un lampo d’emozione scaturì per schiantare un macigno. Strinse i pugni, e la passione soffocata crepitò, come se egli avesse gualcito una pergamena rigida. Si avviò verso Kaleshe, seguito dal drappello dei maghi.
I Kalsh avevano veduto scendere il palazzo; si erano radunati in gran numero in cima all’altura. Come gli archveult, erano rivestisti di scaglie celesti. Cordicelle d’osmio legavano le piume nere degli uomini; le lievi piume verdi delle donne ondeggiavano al ritmo dei passi. Erano più alti d’un uomo, e snelli come lucertole.
Morreion si fermò: «Persain, vieni fuori!» intimò.
Uno degli uomini parlò: «Non c’è nessun Persain, a Kaleshe».
«Come? Non c’è l’archveult Persain?».
«Non ce n’è nessuno che porti questo nome. L’archveult locale è un certo Evodix, che se n’è andato in tutta fretta alla vista del vostro palazzo pellegrino».
«Chi custodisce i documenti della città?».
Si fece avanti un altro Kalsh. «Io».
«Conosci Persain l’archveult?».
«Conosco di fama un Persain che venne inghiottito da un drago verso la fine del Quarantasettesimo Eone».
Morreion si lasciò fuggire un gemito. «Mi è sfuggito? E Xexamedes?».
«Ha lasciato Jangk; nessuno sa dov’è andato».
«Djorin?».
«È vivo, ma non lascia mai il suo castello di perla rosa al di la dell’oceano».
«Aha! Ed Ospro?».
«Morto».
Morreion lanciò un altro gemito abissale. «Vexel?»
«Morto».
Morreion gemette di nuovo. Un nome dopo l’altro, fece l’appello dei suoi nemici. Solo quattro erano ancora vivi.
Quando Morreion si voltò, il suo viso era divenuto stralunato e scavato; sembrava che non vedesse i maghi della Terra. Tutte le pietre scarlatte e azzurre avevano perduto il colore. «Solo quattro», mormorò. «Solo quattro per ricevere la carica di tutta la mia forza… Non basta, non basta! Troppi mi sono sfuggiti! Non basta, non basta! L’equilibrio deve essere ristabilito!» Fece un gesto brusco. «Venite! Al castello di Djorin!».
Ritornati nel palazzo, attraversarono l’oceano mentre il grande globo rosso di Kerkaju li seguiva. Più avanti, si levarono scogliere screziate di quarzo e di cinabro: su un picco che sporgeva sull’oceano stava un castello che aveva la forma di una grande perla rosata.
Il palazzo pellegrino scese su un’area pianeggiante; Morreion scese a balzi la scalinata e avanzò verso il castello. Una porta circolare d’osmio massiccio si aprì; un archveult altissimo, con le piume nere che ondeggiavano un braccio al di sopra della testa si affacciò.
Morreion gridò: «Mandami Djorin; ho qualcosa da sbrigare con lui».
«Djorin è dentro! Avevamo avuto un presentimento! Tu sei lo scimmione terrestre Morreion, del lontano passato. Stai in guardia: siamo pronti ad affrontarti».
«Djorin!» gridò Morreion. «Vieni fuori!».
«Djorin non uscirà», dichiarò l’archveult. «E non usciranno Arvianid, Ishix, Herclamon o gli altri archveult di Jangk che sono venuti qui per unire i loro poteri contro i tuoi. Se cerchi vendetta, volgiti ai veri colpevoli; non irritarci con le tue lagnanze». L’archveult rientrò e la porta d’osmio si richiuse.
Morreion rimase immobile. Mune il Mago si fece avanti ed annunciò: «Li tirerò fuori in un batter d’occhio, con l’Estrattivo Azzurro di Houlart». Scagliò l’incantesimo contro il castello, ma inutilmente. Rhialto tentò un incantesimo di pullulazioni cerebrali, ma la magia venne assorbita; poi Gilgad avventò il suo Affondo Galvanico Istantaneo, che crepitò innocuo contro la lucida superficie rosata.
«Inutile», disse Ildefonse. «Le loro pietre IOUN assorbono la magia».
A loro volta, gli archveult entrarono in azione. Tre portelli si aprirono; ne scaturirono tre incantesimi simultanei, che furono intercettati dalle pietre IOUN di Morreion, tornate a pulsare vivacemente per un attimo.
Morreion avanzò di tre passi. Puntò il dito; la forza colpì la porta d’osmio che scricchiolò e sussultò, ma rimase salda.
Morreion puntò il dito verso il fragile guscio madreperlaceo: la forza slittò via, si disperse.
Morreion mirò ai pilastri di pietra che sostenevano il castello. I pilastri si schiantarono. Il castello sussultò, rotolò giù per le scogliere. Rimbalzò di spuntone in spuntone, frantumandosi, e piombò nell’Oceano d’Argento Vivo, dove una corrente l’afferrò e lo trascinò al largo. Tra gli squarci nella madreperla uscirono gli archveult, per arrampicarsi in cima. Altri li imitarono sino a quando l’assommarsi del loro peso fece rigirare la perla, scagliando tutti quanti nel mare di mercurio, dove sprofondarono fino alle cosce. Alcuni cercarono di camminare o di procedere a balzi verso la riva, altri si stesero sul dorso, remando con le mani. Una raffica di vento afferrò la sfera rosa e la fece rotolare sul mare, scagliando via gli archveult come una ruota, girando, scagliò lontano le gocce d’acqua. Una schiera di “draghi” di Jangk lasciò la spiaggia per avviluppare e divorare gli archveult più vicini; gli altri si affidarono alla corrente che li portò al largo, dove si persero di vista.
Morreion si voltò lentamente verso i Maghi della Terra. Era grigio in volto. «Un fiasco», mormorò. «Nulla».
Si avviò lentamente verso il palazzo. Ai piedi della scalinata si arrestò di colpo. «Cosa intendevano dire, quando hanno parlato di “veri colpevoli”?»
«Una figura retorica», rispose Ildefonse. «Vieni nel padiglione; ci ristoreremo con il vino. Finalmente la tua vendetta è compiuta. Ed ora…» La sua voce si spense, mentre Morreion saliva i gradini. Una delle fulgide pietre azzurre perse il colore. Morreion s’irrigidì, come scosso da una fitta di sofferenza si voltò di scatto, girando lo sguardo da un mago all’altro. «Ricordo un certo viso: un uomo con la testa calva: dalle guance gli scendeva una barba nera divisa in due. Era un uomo robusto… Come si chiamava?».
«Questi eventi sono lontani nel passato», fece il diabolico Shrue. «È meglio dimenticarli».
Altre pietre azzurre divennero opache; gli occhi di Morreion parvero assumere la luce che le gemme avevano perduto.
«Gli archveult vennero sulla Terra. Noi li sconfiggemmo. Implorarono la grazia della vita. Questo lo ricordo… Il mago principale chiese il segreto delle pietre IOUN. Ah! Come si chiamava? Aveva l’abitudine di tirarsi la barba nera… Un bell’uomo, un gran damerino — vedo quasi il suo viso — fece una proposta al mago principale. Ah! Ora comincia a diventare chiaro!» Le pietre blu sbiadirono una ad una. Il viso di Morreion ardeva d’un fuoco incandescente. Le ultime pietre blu impallidirono.
Morreion parlò con voce sommessa, delicatamente, come se assaporasse ogni parola. «Il nome del mago principale era Ildefonse. Il damerino era Rhialto. Ricordo ogni particolare. Rhialto propose che io andassi ad apprendere il segreto; Ildefonse giurò di proteggermi a costo della sua vita. Mi fidavo di loro; mi fidavo di tutti i maghi presenti nella sala: c’era Gilgad, e c’era Hurtiancz e Mune il Mago e Perdustin. Tutti miei cari amici, e si unirono in un voto solenne, promettendo di usare gli archveult come ostaggi per garantire la mia sicurezza. Ora conosco i colpevoli. Gli archveult mi trattarono da nemico. I miei amici mi fecero partire e non pensarono mai più a me. Ildefonse… che hai da dire, prima di andare ad attendere per venti eoni in un luogo che io conosco?».
Ildefonse disse, precipitosamente: «Suvvia, non devi prendere tanto sul serio questa domanda. Tutto è bene ciò che finisce bene; ora siamo felicemente riuniti, e abbiamo conquistato il segreto delle pietre IOUN!».
«Per ogni sofferenza che io ho subito, tu ne subirai venti», disse Morreion. «E anche Rhialto, e Gilgad, e Mune, e Herark e tutti gli altri. Vermoulian, fai decollare il palazzo. Ritorna per la stessa via che abbiamo percorso. Accendi un doppio fuoco sotto l’incenso».
Rhialto guardò Ildefonse, che scrollò le spalle.
«Inevitabile», disse Rhialto. Evocò l’Incantesimo della Stasi Temporale. Il silenzio scese sulla scena. Ognuno stava immobile come un monumento.
Rhialto legò le braccia di Morreion lungo i fianchi con lunghi pezzi di nastro. Gli legò insieme le caviglie, gli riempì di bende la bocca, per impedirgli di proferire un suono. Trovò una rete e, catturando le pietre IOUN, le tirò sulla testa di Morreion, a contatto con il cuoio capelluto. Poi, ripensandoci, strinse una benda sugli occhi di Morreion.
Non poteva fare di più. Dissolse l’incantesimo. Ildefonse stava già attraversando il padiglione. Morreion sussultava e si dibatteva, incredulo. Ildefonse e Rhialto lo deposero sul pavimento marmoreo.
«Vermoulian», disse Ildefonse, «abbi la bontà di chiamare i tuoi servitori. Dì che portino una barella e conducano Morreion in una stanza buia. Deve riposare per un po’».
Rhialto ritrovò la sua dimora come l’aveva lasciata, ad eccezione del cartello indicatore, che era completo. Soddisfatto, Rhialto andò in una stanza segreta. Aprì un buco nel subspazio e vi collocò la rete piena di pietre IOUN che aveva portato. Alcune brillavano di un azzurro incandescente; altre erano scarlatte e blu; le altre scintillavano di un rosso carico, incarnatino, rosa e verde, verdepallido e lavanda.
Rhialto scosse malinconicamente il capo e richiuse la dimensione fra le pietre. Tornato in laboratorio, ritrovò Puiras tra i Minuscoli e gli restituì le proporzioni normali.
«Una volta per tutte, Puiras, non ho più bisogno dei tuoi servigi. Puoi restare con i Minuscoli, oppure puoi prendere la tua paga e andartene».
Puiras fece udire un ruggito di protesta. «Ho lavorato tanto da consumarmi le dita: è questo il ringraziamento!».
«Non voglio discutere con te; anzi, ho già trovato chi ti sostituirà».
Puiras fissò l’uomo alto, dagli occhi vacui, che era entrato nel laboratorio: «È questo? Gli auguro buona fortuna. Dammi il mio danaro: e che non sia il tuo oro magico, che si trasforma in sabbia!».
Puiras prese il suo danaro e se ne andò. Rhialto parlò al nuovo servitore: «Come primo compito, puoi ripulire le macerie della voliera. Se trovi qualche cadavere, trascinalo da parte; dopo penserò io a sbarazzarmene. Poi, le piastrelle della grande sala…»