In un freddo mattino di primavera, verso la metà del XXI° Eone, Rhialto sedeva a far colazione nella cupola orientale della sua dimora, Palazzo Falu. Sulle colline il vecchio sole indugiava ancora dietro una pallida cortina di foschia, attraverso cui la sua luce stanca inargentava la brina del Prato Inferiore. L’umidità si condensava sui cristalli.
Per un motivo che Rhialto non si curava di esplorare, quel mattino il suo appetito era scarsissimo. Esaminò senza interesse l’insalata verde, scartò con una smorfia il vassoio dei salumi, mordicchiò appena il pane biscottato e infine bevve una tazza di the scuro e forte. Poi, sebbene avesse una dozzina di cosette in sospeso nella sua stanza da lavoro, s’appoggiò allo schienale della poltroncina e lasciò vagare lo sguardo oltre il prato, la dove s’infittiva il Bosco Mannaro.
In quella pigra e astratta contemplazione la sua mente rimase tuttavia acuta e percettiva. Un insetto scese sulla tremula foglia di un vicino pioppo nano: Rhialto prese nota con cura dell’angolo in cui piegava le zampe, e dei mille barbagli rossi nei suoi occhi sfaccettati. Interessante e significativo, rifletté.
Dopo aver speculato a fondo sulla natura e sul comportamento dell’insetto, Rhialto estese la sua attenzione al panorama. Osservò i pendii del prato che digradavano verso l’ansa del Ts, e la distribuzione delle erbe. Studiò alcuni tronchi spezzati al bordo della foresta, la luce solare che ora s’infiltrava rossastra nel fogliame, penetrò con gli occhi le ombre indaco e verde scuro. Ogni particolare si presentava alla sua esplorazione visiva con assoluta chiarezza. Il suo udito non era meno acuto e… D’un tratto si protese, inclinando il capo nel tentativo di sentire… Che cosa? Le note di una musica senza suono?
Niente di niente. Rhialto si rilassò, sorridendo delle sue strane fantasie, e si versò un’altra tazza di the amaro. Ma lo dimenticò prima d’averne bevuto una goccia. D’impulso si alzò e scese nell’andito, tolse da una cassapanca il mantello e un berretto da cacciatore, ed estrasse da un armadietto segreto il bastone noto col nome di Calamità di Malfezar. Poi suonò per chiamare Ladanque, il suo ciambellano e factotum di palazzo.
«Ladanque, penso che mi recherò a passeggiare nella boscaglia per qualche ora. Fai attenzione che la torbidità del Quinto Tino non aumenti troppo. Se credi, puoi cominciare a distillarne il contenuto nelle fiasche sigillate col grosso alambicco azzurro. Tieni bassa la fiamma ed evita di respirare i vapori: potrebbero causarti un’eruzione purulenta su tutto il volto».
«Come il Signore ordina. Cosa devo fare col sembiante?».
«Non prestargli attenzione. Non avvicinarti alla gabbia. E ricorda che i suoi discorsi sulle vergini e sulla ricchezza non sono che ingannevoli promesse. Dubito perfino che conosca il vero significato di quelle parole».
«Capisco perfettamente, Signore».
Rhialto si allontanò dalla sua magione. Scese lungo i prati d’erba tenera lungo un sentiero che serpeggiava fino alla riva del Ts, varcò il vecchio ponte di pietra canterina e s’inoltrò nella foresta.
Ben presto il percorso, tracciato dalle creature notturne che uscivano dai boschi per abbeverarsi al fiume, scomparve fra le erbacce. Rhialto proseguì di buon passo evitando il sottobosco più folto, attraversò radure dove spuntavano già le candoline, i rossi cespi dei pratospini e le bianche dymphne simili a lacrime nell’erba. Aspirò il profumo delle betulle, si chinò per passare sotto le fronde tremule dei salici che orlavano le sorgenti, aggirò creste e sporgenze rocciose incrostate di muschio e saltò agilmente minuscoli ruscelli silenziosi.
Se nella boscaglia si aggiravano altre creature, nessuna di loro lasciava intravedere la sua presenza. Sul bordo di una piccola radura nel cui centro svettava isolata una betulla bianca, Rhialto si fermò e tese le orecchie… ciò che udì fu solo il sospiro della brezza nel silenzio.
Trascorse un minuto. Rhialto era immobile come una statua.
Non si udiva un rumore, non un verso né un fruscio. Che avesse sognato?
La musica, rifletté, sempre che fosse stata tale, doveva essere esistita solo nella sua mente.
Questo era curioso, si disse Rhialto.
Avanzò allo scoperto, dove la betulla emergeva fragile e sottile da un viluppo di cedri neri dal tronco corto. E, mentre si volgeva per tornare indietro, di nuovo ebbe l’impressione di sentire la musica.
Musica senza suono? Una palese contraddizione di termini!
Inspiegabile, pensò Rhialto, specialmente considerando che la musica sembrava proprio giungere ai suoi sensi dall’esterno. Ora poteva percepirla meglio: le note fluttuanti di uno strumento a corde, un’armonia a tratti dolce, a tratti trionfante, a tratti malinconica. Ben definita e tuttavia al tempo stesso incerta, inafferrabile.
Lo sguardo di Rhialto balzò in ogni direzione. La musica, o qualunque altra cosa fosse, sembrava pervenire da una sorgente vicinissima. La prudenza avrebbe richiesto che tornasse sui suoi passi e si affrettasse a mettersi al sicuro a Palazzo Falu, senza fermarsi neppure a guardare indietro, ma egli proseguì. Attraversò una macchia di promeliacee e, poco più avanti, si trovò sulla riva di uno stagno, profondo e immobile, la cui acqua rifletteva le rocce della sponda con la cristallina nitidezza di uno specchio. E, rigido per lo stupore, Rhialto vide che nel riflesso della riva opposta si stagliava l’immagine di una donna, insolitamente pallida, con capelli d’argento fermati da un nastro nero attorno alla fronte. Indossava una tunichetta bianca lunga fino a metà coscia, che le lasciava nude le braccia, ed era scalza.
Rhialto rialzò lo sguardo sulla sponda: non c’era nessuna donna, nessun uomo, nessuna creatura vivente di qualsiasi genere. Abbassò di nuovo gli occhi sulla superficie dell’acqua e la, esattamente come prima, c’era l’immagine speculare della sconosciuta.
Per un lungo minuto Rhialto studiò quella visione. La donna appariva piuttosto alta, con seni piccoli e fianchi snelli, flessuosa e fresca come una fanciulla. Il suo volto ovale, dalle proporzioni classiche, lasciava intuire una calma interiore da cui era assente ogni sentimento frivolo. Rhialto, la cui abilità di evocatore gli aveva fatto meritare il nome che portava, la giudicò bella ma scostante e fredda, e con tutta probabilità inavvicinabile, in specie se ella avesse rifiutato di mostrarsi se non come un semplice riflesso… e forse anche per buone ragioni, fu costretto a dirsi, visto che d’improvviso gli era balenato un sospetto sull’identità di lei.
Le si rivolse in tono cauto. «Signora, devo presumere che mi abbiate chiamato qui tramite la musica? In tal caso, prego, vogliate spiegarmi che genere di aiuto vi occorre. Sia chiaro che non posso impegnarmi però in nulla, senza aver valutato i pro e i contro».
La donna rispose solo con un freddo sorriso che a Rhialto non piacque molto. Le rivolse un rigido inchino. «Se vi pare di non aver niente da dirmi, preferisco non disturbare oltre la vostra intimità», dichiarò. Ma un istante dopo qualcosa lo spinse alle spalle con forza scaraventandolo nello stagno a capofitto.
L’acqua era gelida come ghiaccio sciolto. Rhialto emerse con un colpo di reni, raggiunse la riva e si tirò all’asciutto. Chiunque fosse stato a giocargli quello scherzetto poco piacevole — entità arcana o essere umano — era già scomparso.
Preoccupato e furente, Rhialto tornò a lunghi passi a Palazzo Falu, si spogliò delle vesti fradice e s’immerse in una vasca da bagno colma d’acqua profumata, dove sostò pensoso bevendo the di verbena.
Quando si fu rivestito, passò dalla biblioteca e andò a sedersi nella stanza da lavoro, sfogliando per qualche ora dei vecchi tomi rilegati in metallo e risalenti al XVIII° Eone. Ma quel bagno freddo non era stato privo di conseguenze: dopo un po’ si accorse di avere la febbre, un ronzio nelle orecchie e noiosi dolori alla schiena.
Seccato, dovette decidersi a miscelare un tonico profilattico, a cui unì un febbrifugo a base di acònito che, come ben sapeva, gli avrebbe causato sofferenze ancora peggiori. Andò a letto, si mise una bottiglia d’acqua calda fra i piedi, inghiottì una pasticca di sonnifero e cadde in un sonno tormentoso.
La sua indisposizione lo tenne inchiodato al letto per tre giorni. Il mattino del quarto, Rhialto si mise in comunicazione col Mago Ildefonse, che risiedeva a Palazzo Boumegarth sulla riva dello Scaum. Ciò che gli disse preoccupò Ildefonse abbastanza da convincerlo a volare subito a Palazzo Falu, sul più piccolo dei suoi velociferi.
Senza trascurare i dettagli, Rhialto gli descrisse gli eventi culminati in quel bagno fuori stagione, nella foresta, e concluse: «Adesso sapete tutto. Sono ansioso di conoscere la vostra opinione».
Con le mani dietro la schiena Ildefonse osservò pensosamente la boscaglia. Quel giorno era tornato ad assumere le sue ordinarie sembianze fisiche: un dignitoso gentiluomo di mezz’età, un po’ calvo, con sottili baffetti biondi e dai modi gioviali. I due Maghi uscirono dalla veranda laterale di Palazzo Falu e sedettero all’ombra vermiglia di un plumanthia dalle fronde porporine. Sul tavolo da giardino, Ladanque aveva disposto un vassoio di pastesfoglie, tre varietà di the e una caraffa di vino bianco dal sapore morbido.
«Certo, questo è straordinario», ammise Ildefonse. «Specialmente se lo si riporta a una mia esperienza recente».
Rhialto inarcò un sopracciglio. «Anche voi avete subito uno scherzo di questo genere?».
L’altro assunse un tono cauto. «La risposta potrebbe essere sì e nello stesso tempo no».
«Interessante», commentò Rhialto.
Ildefonse scelse con cura le parole. «Prima che io tragga qualche conclusione, lasciate che vi domandi una cosa: non avete mai sentito parlare di quella che potremmo definire musica ombra?».
«Mai, prima d’ora».
«E quali sensazioni vi comunicava?».
«Indescrivibili. Non era allegra né tragica, né dolce, e tuttavia contorta su un insieme di ritmi diversi».
«Era possibile identificare una melodia, un ritornello, una progressione di note, o qualcosa che possa darci un indizio?».
«Solo un’espressione. Se mi consentite un momentaneo volo di fantasia, oserei dire che mi pervase di un desiderio di cose perdute e ormai irraggiungibili».
«Aha!», esclamò Ildefonse. «E la donna? Cosa vi ha persuaso a ipotizzare che fosse la Murthe?».
Rhialto rifletté. «Il suo pallore e i capelli d’argento avrebbero potuto essere quelli di una femmina degli Elfi, o di una delle antiche Naiadi delle sorgenti. La sua avvenenza era quantomai terrena, anche se non provai un immediato desiderio fisico. Ma mi diede la sensazione che qualcosa avrebbe potuto accadere fra noi, dopo una conoscenza più approfondita».
«Hmmf! Sospetto che il vostro portamento elegante e virile non interesserebbe troppo a una creatura come la Murthe… Quando vi è venuta l’idea che si trattasse di lei?».
«Mentre annaspavo verso casa, grondando fango e con gli stivali pieni d’acqua, l’immagine della donna e la musica si… sovrapponevano, in un certo modo, e nella mia mente balenò quel nome. Poi lessi uno dei manoscritti di Calanctus, e ne fui certo. Il sortilegio che mi ha colpito era senza dubbio reale. Solo oggi ho potuto chiamarvi».
«Avreste potuto mettervi in contatto prima, sebbene io avessi un problema simile… cos’è questo fastidioso rumore?».
Rhialto si volse verso la strada. «Qualcuno sta arrivando con un veicolo a ruote. Sembra proprio che sia Zanzel Melancthones».
«Ma che razza di strana creatura si sta trascinando a rimorchio?».
Rhialto si alzò per vedere meglio. «Non è chiaro. Suppongo che lo scopriremo fra poco».
Lungo la sinuosa strada sterrata si stava avvicinando una lussuosa carozza dalle grandi ruote, fornita di un baldacchino che ombreggiava due elengatissimi divani in seta dorata. Dietro di essa una creatura dall’aspetto semi-umano, con una catena al collo, correva nella polvere.
Ildefonse agitò una mano. «Ehilà, Zanzel! Dove state andando di bello? E cos’è quel bizzarro essere che strapazzate così duramente?
Zanzel manovrò una leva per arrestare il veicolo. «Oh, siete voi, Ildefonse? Salve, Rhialto. È un vero piacere rivedervi entrambi. Avevo quasi dimenticato che questa vecchia strada passava da Palazzo Falu e, quando me ne sono reso conto, ho deciso che tanto valeva fermarmi un po’ da queste parti».
«Un’idea che approvo senz’altro», dichiarò Ildefonse. «E cosa mi dite del vostro prigioniero?».
Zanzel gettò un’occhiata alle sue spalle. «La mia opinione è che questa che vedete sia una creatura piuttosto insidiosa. La sto portando in un luogo dove possa essere eliminata senza che il suo fantasma torni a vendicarsi. Che ne dite di quel prato laggiù? Mi pare lontano a sufficienza dalle mie terre».
«Ma non dalle mie. Ci sta proprio in mezzo», grugnì Rhialto. «Vi suggerisco di trovare un posto che convenga ad entrambi».
«E che ne sarà di me?» gemette il prigioniero. «Nessuno si prende la briga d’interrogarmi in merito?».
Rhialto annuì. «Più che giusto. Consiglio dunque che il luogo dell’esecuzione sia gradito anche a te, oltre che a noi due».
«Un momento», s’intromise Ildefonse. «Prima che Zanzel compia il suo spiacevole dovere, vorrei saperne di più su questo essere».
«Cè poco da dire», borbottò l’altro. «L’ho scoperto per caso, quando aprii un uovo dalla parte sbagliata. Come potete notare, costui ha sei dita, una cresta sul cranio e ciuffi di penne che gli crescono dalle spalle. Tutto ciò pone la sua origine alla fine del XVII° Eone, o al più nel XVIII°. Il suo nome, a quanto afferma, è Lehuster».
«Notevole», dichiarò Ildefonse. «In un certo senso si tratta dunque di un fossile vivente».
Zanzel non permise che Lehuster aprisse bocca. «Vi auguro ora il buongiorno, amici. Rhialto, mi sembrate un po’ pallido. Vi consiglio riposo e una buona pozione bollente. Provate con latte quagliato, due parti di vino, una di aceto, e insaporite con miele e cannella».
«Grazie», annuì Rhialto. «Sarò onorato se tornerete a farmi visita, quando avrete fatto. Nel frattempo vi annoto che la mia proprietà si estende fino a quelle alture. Abbiate cura di mettere a morte il vostro prigioniero ben al di la di tale limite».
«Aspettate!», ansimò Lehuster. «Possibile che non esistano menti capaci di ragionare nel XXI° Eone? Non vi interessa sapere come ho potuto trasferirmi nel tempo fino a quest’epoca sventurata? Io possiedo informazioni importantissime, e ve le offro in cambio della mia vita».
«Che genere di informazioni?», chiese Ildefonse.
«Farò le mie rivelazioni soltanto dinnanzi a un Conclave di Alti Maghi, dove pretendo che le garanzie siano registrate pubblicamente e ogni promessa rispettata».
Zanzel si volse a guardarlo con una smorfia d’ira. «Taci! La tua sola presenza sta già infangando fin troppo la mia reputazione».
Ildefonse lo placò con un cenno. «Zanzel, vi imploro di essere paziente. Chi può sapere cos’ha da dirci questo briccone a sei dita? Lehuster, quale argomento riguardano le vostre rivelazioni?».
«La Murthe è in libertà fra le vostre genti, con tutti i suoi malefizi e la sua perversità. Non dirò altro finché non farete solenne giuramento di rispettare la mia vita».
«Bah!», sbottò Zanzel. «Mi rifiuto di permettere che tu prenda in giro queste degne persone con le tue rozze menzogne. Vi auguro il buon giorno, gentiluomini. Ora devo proseguire per i miei affari».
Ildefonse poggiò una mano sul bordo della carrozza. «Questo è un caso straordinario! Zanzel, avete perfettamente ragione ma siete all’oscuro di certi fatti essenziali. Come Maestro, devo ordinarvi di lasciare in vita questo Lehuster. Terremo un’immediata riunione a Palazzo Boumegarth, onde chiarire ogni particolare della faccenda. Rhialto, spero che vi siate ripreso abbastanza per onorarci della vostra presenza».
«Verrei in ogni caso. La questione in ballo è troppo importante».
«Benissimo, allora. Trasferiamoci subito a Boumegarth».
Lehuster si palpeggiava l’addome. «Dovrò correre per tutta la strada? In tal caso arriverò in fin di vita, e non potrò testimoniare».
Ildefonse borbottò: «Per condurre legalmente la cosa, è necessario che io assuma la custodia di Lehuster. Zanzel, siate gentile e levategli questa catena».
«Badate, l’eccessiva credulità è pericolosa», ringhiò l’altro. «Questo furfante dovrebbe essere giustiziato, prima che ci confonda tutti con le sue stupidaggini».
Sorpreso dalla veemenza di Zanzel, Rhialto si accigliò. «Ildefonse dice il vero. Dobbiamo saperne di più».
Il conclave a Palazzo Boumegarth vide riuniti soltanto quindici membri dell’Associazione, che quell’anno ne comprendeva un totale di ventiquattro. Oltre a Rhialto e Zanzel Melancthones, il Maestro Ildefonse era riuscito a convocare il Negromante Shrue, Hurtiancz, il Necrope Byzant, Teutch, Mune il Mago, il freddo e riservato Perdustin, Tchamast, che tempo addietro aveva dichiarato di conoscere l’origine di tutte le Pietre Ioun, Barbanikos, Haze delle Acque Stanche, Gilgad, Ao degli Opali, e Panderleou, la cui collezione di manufatti artistici non terrestri era invidiata da tutti.
Senza perder tempo in cerimonie, Ildefonse si rivolse all’assemblea: «Illustri colleghi, è con disappunto che prendo nota dell’assenza di quattro di noi, vista la straordinaria rilevanza degli avvenimenti messi all’ordine del giorno». In piedi sul podio, osservò i Maghi che sedevano nelle eleganti poltroncine del salone. «Sarà bene che cominci descrivendo l’esperienza accaduta al collega Rhialto, qui presente. In parole brevi, egli fu attirato nei recessi del Bosco Mannaro dalle fuggevoli note di una musica immaginaria. Dopo aver vagato per un poco, incontrò una donna che, con mezzi non identificabili, lo scaraventò in uno stagno d’acqua gelida. Quindi… gentiluomini, vi prego! Non vedo nessun motivo d’ilarità nell’accaduto. Questa è una cosa grave, e la disavventura di Rhialto non va presa con leggerezza. Fatto sta che le nostre ipotesi ci conducono a credere che quella donna fosse la Murthe». Fece una pausa e li fissò in viso uno per uno. «Proprio così. Avete udito bene, signori».
Quando il mormorio di commenti concitati si fu spento, Ildefonse proseguì: «In circostanze apparentemente non collegate con questa, il collega Zanzel Melancthones è giunto a contatto di un certo Lehuster, individuo originario del XVIII° Eone. Potete vederlo qui seduto. Lehuster afferma di avere notizie importanti per noi, e anch’egli ha menzionato la Murthe. Al mio invito si è detto disposto a condividere con noi tali informazioni, e adesso gli chiedo di farsi avanti per esporre i fatti di cui è a conoscenza di fronte all’assemblea. Lehuster, prego!».
Lehuster non si mosse. «Nel mio interesse devo astenermi da ogni dichiarazione finché non mi verrà garantita salva la vita. E visto che non ho commesso nessun crimine, oso sperare che questo non vi costerà un grande sforzo morale».
Zanzel lo fissò acremente. «Dimentichi che io stesso ho già stabilito di punirti per la tua condotta e la tua palese pericolosità».
«Cavilli filosofici, sofismi pretestuosi!», si lagnò l’altro. «Ildefonse, dovete promettere d’impedirgli di attentare alla mia vita».
«Hai la mia personale garanzia. Adesso parla».
Ma ad alzarsi fu Zanzel. «Tutto ciò è assurdo! Perché mai dovremmo accogliere fra noi ogni lestofante e vagabondo temporale, nutrirlo e alloggiarlo con ogni suo comodo, e nel frattempo consentire che le nostre usanze siano pervertite da costui?».
Il corpulento e irascibile Hurtiancz emise un brontolio. «Sottoscrivo pienamente l’opinione etica di Zanzel. Questo Lehuster potrebbe essere solo il primo di un’orda di profughi politici, deviazionisti o sobillatori, mascalzoni che seminerebbero il caos e fannulloni buoni a niente. Applaudo alla sua decisione di eliminarlo».
Ildefonse si sforzò di mantenere un tono canno. «Se le notizie portate da Lehuster fossero veritiere e utili, dovremmo concedergli almeno ciò che chiede. Fatti avanti, Lehuster. Sorvoleremo sulla tua condotta come sulle penne che ti crescono dalle scapole. Anzi ti assicuro che siamo ansiosi di ascoltarti».
Lehuster sali sul podio e si schiarì la voce. «Devo prima di tutto inquadrare la mia testimonianza nella sua prospettiva storica. Il tempo da cui provengo è la tarda Prima Epoca del XVIII° Eone, dunque anteriore al Grande Motholam, ovvero quando i Maestri Maghi e le Streghe rivaleggiavano in potenza e sortilegi. Un avvenimento simile s’era verificato nell’Undicesima Epoca dell’Eone precedente, allorché stregoni e negromanti di ogni genere s’erano avversati con furia. Ma stavolta gli eventi precipitarono in quella che fu chiamata la Guerra dei Maghi e delle Streghe.
«Per amor di cronaca devo dire che il conflitto fu voluto dalle Streghe. Molti praticanti di magia divennero Archveults, centinaia d’altri furono distrutti. E alla fine le Streghe, guidate dalla Strega Bianca Llorio, trionfarono su tutti gli avversari.
«Durante l’intera Epoca post-bellica esse furono le dominatrici indiscusse. Llorio assunse il titolo di La Murthe, ed elesse a sua residenza un grande tempio. La, come una sorta di idolo vivente fatto di carne e di incorporee energie femminili, ella fu adorata e venerata da tutte le donne del pianeta.
«Tre soli Maghi erano sopravvissuti alla guerra: Theus Treviolus, Schiman Shabat e Phunurus l’Orfo. Essi si unirono in un giuramento mortale, identificandosi ciascuno in una delle loro tre sezioni della Cabala: la Ghematria, il Notàrikon e la Themurà. Poi, dopo esser penetrati nel tempio in cui la Murthe regnava da millenni, riuscirono a comprimerla in una Sfera di Zohar e la portarono via. Le altre Streghe ne furono sconvolte, i loro poteri svanirono con la disorganizzazione, e di ciò approfittarono i Maghi che ricomparvero e ripresero forza. Per Epoche intere le due fazioni vissero in un vacillante compromesso, e quelli furono tempi agitati e avventurosi, potete credermi!
«Venne però il momento in cui Llorio, la Murthe, riuscì a tornare libera e si unì alle sue Streghe. Per sua sventura, all’epoca di cui parlo, grande era il potere di Calanctus il Flemmatico, ed egli raccolse la sfida. Sconfisse terribilmente le Streghe, dando loro la caccia fino a settentrione del Grande Elm, e lassù le sopravvissute si rimpiattarono nei crepacci, tremando miseramente al solo udire il nome di Calanctus. Faccio notare a lorsignori che io avevo l’onore di servire ai suoi ordini.
«In quanto alla Murthe, Calanctus volle essere magnanimo con lei e la condannò all’esilio su una stella lontana. Poi si ritirò in clausura, dopo aver incaricato me di tenere la Murthe sotto perpetua sorveglianza.
«Disgraziatamente qualcosa andò storto: ella non arrivò mai a Naos né a Sadal Suud, stazioni intermedie dove la sua scorta doveva fare tappa e, dopo una vana attesa, decisi di mettermi alla sua ricerca. Fu una cosa lunga e difficile, ma di recente ho scoperto una traccia di Tempoluce che conduceva fino al XXI° Eone, finendo proprio qui.
«Tutto ciò mi ha convinto che la Murthe sia presente in quest’epoca, e che di conseguenza debba esser considerata un pericolo. In effetti ella botrebbe aver già incantato perfino il vostro gruppo.
«Per quel che riguarda me, Lehuster Benefer, sono qui con un solo eletto proposito: aiutare i Maghi a riunirsi in un gruppo cabalistico che possa impedire il risorgere di distorte energie femminili, e così mantenere l’ordine sociale. L’urgenza è grande, Signori!».
Lehuster tornò a sedersi in disparte e incrociò drammaticamente le braccia, in una posa che fece sollevare all’esterno come tante alette le rosse penne delle sue spalle.
Ildefonse tossicchiò, accigliato. «Lehuster ci ha ben circostanziato i fatti, direi. Zanzel, siete convinto che egli abbia diritto alla sua libertà, dopo che avrà fatto ammenda per il comportamento che vi ha offeso?».
«Bah!» grugnì l’altro. «Il suo racconto non è che un insieme di antichissimi pettegolezzi e dicerie infondate. S’illude se crede di prendermi per il bavero così facilmente».
Ildefonse si tormentò uno dei baffetti biondi. Gettò uno sguardo a Lehuster. «Hai sentito il commento di Zanzel Melancthones. Puoi addurre prove concrete a sostegno delle tue parole?».
«Un incantesimo gettato su di voi lo proverebbe al di la di ogni dubbio, ma allora sarebbe troppo tardi».
Giusto in quel momento Vermoulian, il Viaggiatore del Sogno, decise di raggiungere i colleghi, e comparve su una delle poltroncine. Si alzò in piedi e parlò in tono assai franco: «Mentre bado ai miei interessi, come sapete, io passo attraverso sogni di ogni genere. Di recente — per la precisione due notti fa — mi sono imbattuto in un sogno del tipo che noi chiamiamo entroattivo o involontario, sul quale dunque il Viaggiatore non esercita alcun controllo o quasi, e anzi può trovarlo alquanto pericoloso. Cosa abbastanza strana, in quel sogno era presente la Murthe. Mi par giusto narrarvene i particolari, colleghi».
Hurtiancz ebbe un plateale gesto di noia sprezzante. «Se ci siamo qui riuniti, a nostro incomodo, è stato solo per giudicare e condannare un Archveult, questo Lehuster. Ti prego di non seccarci con l’interminabile racconto di uno dei tuoi soliti sogni!».
«Non ho chiesto il tuo parere», lo rimbeccò irritato Vermoulian. «Sono intervenuto per prendere la parola a questo conclave, e nessuno può impedirmi d’intrattenere l’assemblea col racconto dei particolari su cui ritengo opportuno dilungarmi».
«Esigo formalmente l’intervento del Maestro!», protestò Hurtiancz.
Ildefonse sospirò. «Vermoulian, se il vostro sogno è attinente all’argomento continuate, ma, per favore, siate breve».
«È un suggerimento ovvio», disse dignitosamente Vermoulian. «Per amor di brevità, mi limiterò a dire che mentre mi apprestavo a viaggiare nel sogno catalogato con AXR-11 GG7, Volume Sette dell’Indice, entrai incece in un sogno fin’ora non classificato del tipo entroattivo. Venni a trovarmi in una località utopica e affascinante, dove incontrai un gruppo di persone assai raffinate e colte, amanti dell’arte e dai modi squisiti. Le loro vesti e le acconciature erano gradevoli all’occhio, i colori riposanti, la cordialità seducente e garbata».
«Per riassumere quanto mi dissero costoro, ogni proprietà era in comune, e fra loro l’ingordigia era un sentimento sconosciuto. Miravano all’arricchimento della personalità, il lavoro era ridotto al minimo e condiviso in modo egualitario. Regnava una pace assoluta, il crimine non esisteva, le malattie e le angosce neppure, e così anche la crudeltà dell’uomo verso l’uomo. Armi? La sola parola bastava a provocare un doloroso shock nell’ascoltatore.
«Uno di questi uomini mi divenne particolarmente amico, e mi disse questo: “La nostra dieta è basata sui vegetali e sulla frutta fresca, e beviamo soltanto l’acqua pura di sorgente. La sera ci riuniamo intorno a fuochi da campo e cantiamo allegre ballate. In speciali occasioni distilliamo un liquore, l’opo, miscelando estratti di frutta, miele d’api e sesamo, e ciascuno può averne un buon sorso”.
«“E tuttavia anche noi conosciamo momenti di malinconia. Guarda! Ecco seduto laggiù il giovane Pulmer, che sa ballare e cantare con grazia e stile: ieri tentò di saltare il ruscello, ma cadde nell’acqua e ciò provocò le risa divertite delle fanciulle che lo osservavano. Occorsero due ore buone per consolarlo. Capisci?”
«Io risposi che capivo benissimo. Poi, non vedendo donne in giro, domandai dove fossero.
«“Ah, le donne!”, esclamò lui. “Noi le adoriamo per la loro grande gentilezza, la grazia, la pazienza e soprattutto per il loro buonsenso! Qualche volta vengono perfino a unirsi alla nostra compagnia, intorno ai fuochi da campo, e allora facciamo giochi e gare divertenti. Le donne possono star certe che nessuno è così folle da recare loro oltraggio, o da eccedere in sentimenti disdicevoli come la gelosia”.
«Io commentai che certo era una vita tranquilla, e domandai come agissero quando si trattava di procreare dei figli.
«“Ho ho ho!”, rise lui. “Abbiamo imparato che se ci comportiamo coi dovuti modi rispettosi, talvolta le donne si compiacciono d’essere… uh, gentili con noi. Mi spiego? Ma guarda laggiù: sei fortunato! Ecco che sta arrivando la Grande Signora in persona”.
«Attraverso il prato si avvicinava a me Llorio, la Murthe, una giovane donna dall’aspetto nobile e forte. Tutti gli uomini erano balzati in piedi e sollevavano le mani verso di lei, sorridendo e salutandola con caloroso rispetto. Quando mi fu dinnanzi disse: “Vermoulian, sei venuto per unirti a noi e aiutarci? Splendido! Capacità come le tue saranno molto utili ai nostri scopi. Ti dò il benvenuto nel nostro gruppo!”
«Incantato dalla sua bellezza statuaria feci per abbracciarla, con gioia e amichevolmente ma, prima che potessi toccarla, lei mi colpì con un violento schiaffone. Non ebbi modo di chiederle il motivo di quel gesto, perché proprio allora mi svegliai, angosciato e stupefatto».
«Posso risolvere io il vostro dilemma», intervenne Lehuster. «Voi eravate sotto incantesimo. Un tentativo di esqualmazione, per il vero».
«Durante un sogno?» Vermoulian scosse il capo. «Non la ritengo un’ipotesi sensata».
La voce di Ildefonse suonò preoccupata: «Lehuster, sii così gentile da spiegarci in che modo si possono riconoscere i segni di questa esqualmazione».
«Semplice. Nello stadio finale dell’esqualmazione l’evidenza è ovvia: la vittima diventa una donna. Il primo sintomo è una tendenza a muovere rapidamente la lingua dentro e fuori dalla bocca. Avete notato un atto del genere fra i vostri colleghi o conoscenti?».
«Solo nello stesso Zanzel, ma egli è uno dei membri più anziani dell’Associazione. L’idea mi appare inconcepibile».
«Quando si ha a che fare con la Murthe, l’impensabile diviene cosa di ogni giorno. E la reputazione di Zanzel conta meno che sterco di topo in una cantina».
Zanzel Melancthones emise un mugolio stridulo. «Mi ritengo offeso da questo paragone! Possibile che un gentiluomo non possa neanche leccarsi le labbra senza incorrere in una tempesta di stupide calunnie?»…
Ildefonse si volse a Lehuster. «Sia chiaro che l’opinione di Zanzel ha molto peso in questo consesso. Se esprimi un’accusa tanto seria devi poterla provare, altrimenti bada a quel che dici».
Lehuster assentì con un rigido inchino a mezzo busto. «Mi limiterò a dichiarazioni precise. La Murthe dev’essere contrastata, se non vogliamo assistere al trionfo finale del sesso femminile. Che si formi dunque un gruppo cabalistico forte e deciso! La Murthe non è invincibile: tre Eoni fa venne sconfitta da Calanctus, e il passato è ormai precluso per lei».
Ildefonse osservava pensoso il riflesso della sua immagine nella parete di smeraldite. «Se la tua analisi è corretta, certo dovremo assicurarci che un simile incubo non si ripeta nel futuro».
«È del presente che dovete preoccuparvi! Quella donna può essere già al lavoro».
«Incoerente, bugiardo e villano!», ringhiò Zanzel. «Liberiamoci di quest’individuo senza scrupoli, Signori».
«Ammetto d’essere confuso», disse Ildefonse. «Perché mai la Murthe avrebbe scelto questo tempo e questo luogo per le sue manovre?».
Lehuster fece oscillare la cresta che aveva sul cranio. «È chiaro che qui troverebbe un’opposizione risibile. Guardatevi in faccia l’un l’altro: cosa vedete? Ottusi pedanti come Tchamast, mistici come Ao, buffoni ringhiosi come Hurtiancz e Zanzel. Vermoulian perde tempo a esplorare sogni per riportarli sui suoi registri. Teutch giocherella coi particolari della sua privata infinità. Rhialto esercita le sue doti inseguendo le sottane svolazzanti delle fanciulle. Come pensate di poter ostacolare la Murthe? Dopo aver esqualmato il vostro gruppo, avrà creato un’utile Compagnia di Streghe!».
Ildefonse domandò: «Sono queste le tue “dichiarazioni precise”? Chiacchiere, speculazioni e sciocche critiche. È così che rispondi a quel che ti ho chiesto?».
«Per amor di chiarezza forse sono uscito dall’argomento. Inoltre», disse candidamente Lehuster, «ho scordato la tua domanda».
«Ti era stato chiesto di esibire le prove che c’è una… uhm, esqualmazione in atto».
Lehuster esaminò con attenzione i loro volti. Ciascuno dei presenti aprì la bocca e fece saettare la lingua dentro e fuori. «E sia pure!», sospirò. «Temo che dovrò attendere un’altra occasione per finire il mio discorso».
Nel salone esplose un caos di luci lampeggianti e di suoni acuti, quando i Maghi si trasferirono alle loro dimore. Ma allorché tornò la calma, anche Lehuster era scomparso.
L’oscurità aveva fatto ancora gelare la rugiada sui lisci declivi del Prato Inferiore. Nella stanza da lavoro di Palazzo Falu, Ildefonse accettò il calice di vinsacro che Rhialto gli porgeva e sedette a centellinarlo su una delle seggiole di legnocuoio. Per un poco i due Maghi si fissarono in pensoso silenzio, quindi Ildefonse mandò un sospiro.
«È triste che due vecchi amici debbano spiarsi l’un l’altro a questo modo, prima di sedersi a bere insieme».
«Per prima cosa stenderò una Rete Impenetrabile intorno a questa stanza, così che nessuno sappia quel che facciamo», disse Rhialto. Accarezzò un’ampolla di vetro nero mormorando alcune parole. «Ecco… è fatto. E adesso, a noi. Io ho evitato l’esqualmazione. Resta solo da provare che voi siete sempre un uomo».
«Non tanta fretta!», si oppose l’altro. «Ambedue dobbiamo sottostare a un esame accurato. La credibilità non può reggersi su una gamba sola».
Rhialto scosse le spalle. «Sia come volete. Ma voglio premettere che giudico tale esame assai poco confacente alla mia dignità».
Ildefonse cominciò a slacciarsi i pantaloni. «È un’opinione che mi trova propenso ai commenti ironici. Eseguiamolo e non parliamone più».
Quando l’esame fu fatto e ciascuno fu rassicurato sull’integrità sessuale dell’altro, Ildefonse disse: «Per il vero, mi ero un poco preoccupato vedendo aperto sul vostro tavolo Calanctus: Detti e Sentenze».
I modi di Rhialto si fecero più confidenziali. «Quando incontrai Llorio nella boscaglia, ella tentò subito di allettarmi con la sua bellezza. La galanteria mi impedisce di entrare in particolari. Ma l’avevo riconosciuta e, per quanto si dica della vanità di Rhialto, non fui così sciocco da crederla davvero una rubacuori dai facili amoretti. E soltanto col perverso espediente di farmi precipitare nello stagno riuscì a distrarre la mia vigilanza, così da potermi gettare l’incantesimo dell’esqualmazione. Ritornato a Palazzo Falu seguii la terapia prescritta da Calanctus, e l’esqualmazione fu esorcizzata».
Ildefonse sollevò il calice, fece ruotare il contenuto e lo vuotò d’un fiato. «Come vi dissi, accadde anche a me d’incontrarla, sebbene su un piano meno… uh, sentimentale. Esploravo un sogno, e venni a trovarmi su un’immensa pianura dove la prospettiva visuale appariva distorta. Lei era a una distanza di circa venticinque metri da me, splendida come una regina dai capelli d’argento, e abbigliata con l’evidente scopo di colpirmi. Ma la sua statura era tripla del normale, e torreggiava sopra di me come su un bambino. Un espediente psicologico, ovviamente, la cui ingenuità mi strappò un sorriso.
«Mi rivolsi a lei in tono franco: “Llorio la Murthe, la mia vista è perfetta. Non hai alcun bisogno di mostrarti a me così alta”.
«Lei rispose con cortesia: “Ildefonse, la mia statura non deve impensierirti, e neppure la mia voce più forte. Ciò che conta è il significato delle mie parole”.
«“Certo: ma perché vuoi rischiare un attacco di vertigini? Le tue proporzioni naturali sono sicuramente più gradevoli all’occhio. Bene, sia come preferisci. Che stai facendo qui, in questo sogno?”.
«“Ildefonse, fra tutti gli uomini della tua epoca tu sei il più saggio. Resta poco tempo, ma non è ancora troppo tardi. Il genere femminile può ristrutturare l’universo intero! Per prima cosa intendo guidare un colpo di mano a Sadal Suud: fra le Sette Lune daremo nuovo impulso al destino dell’umanità. La tua forza, le tue virtù morali e la tua grandezza saranno preziose nel ruolo che potrai ricoprire”.
«Il tono in cui lo disse non mi piacque molto. Risposi: “Llorio, tu sei una donna affascinante, ma oso dire che ti manca quel calore che attrae l’uomo e aggiunge profondità al carattere”.
«La Murthe rispose, secca: “Il pregio di cui parli non è altro che il lascivo impulso dei sensi, un istinto per fortuna ormai relegato al passato. In quanto al fascino, si tratta di una luce interiore generata dall’animo femminile, che tu nella tua rozza mascolinità percepisci come un semplice insieme di contorni fisici”.
«Questo mi stuzzicò, così replicai: “Rozzo o meno, ti assicuro che il mio sguardo si pasce di ciò che gli mostri. Se hai voglia di fare un colpo di mano ti propongo un luogo più comodo: seguimi nella mia camera da letto a Palazzo Boumegarth, e la misureremo la nostra tenacia in un conflitto dove scoprirai in me ben altre doti che la semplice virtù. Ma riduci le tue dimensioni fisiche, te lo chiedo da gentiluomo, altrimenti ci vedremmo costretti a stendere dei materassi sul pavimento del salone grande, mia cara”.
«Llorio si fece sprezzante. “Ildefonse, altro non sei che un disgustoso vecchio satiro. Vedo che sbagliavo nell’attribuirti dei meriti. Malgrado ciò, tu dovrai renderti utile alla nostra causa con ogni tua energia”.
«Detto ciò volse le spalle e si allontanò a passi statuari, mentre quella bizzarra prospettiva la faceva rimpicciolire sia in distanza che in statura. Ma procedeva con una lentezza ipnotica, invitante, quasi che mi chiedesse di seguirla. D’un tratto cedetti all’impulso e le tenni dietro, all’inizio con dignitosa andatura, poi sempre più svelto e quindi di corsa, galoppando ansante nel tentativo di raggiungerla. Alfine mi abbattei esausto sull’erba. Llorio si girò e disse: “Vedi come i tuoi bassi appetiti possono trascinarti a un comportamento stupido e indecoroso?”.
«Mentre la fissavo senza fiato mosse una mano, e dal palmo le scaturì l’incanto dell’esqualmazione che mi colpì sulla fronte. “Adesso ti dò licenza di tornare alla tua dimora”, disse, e queste furono le sue ultime parole.
«Mi risvegliai sul divano della mia stanza da lavoro. Immediatamente presi la copia del volume di Calanctus, e applicai le sue raccomandazioni profilattiche con estrema cura».
«Piuttosto seccante», annuì Rhialto. «Mi chiedo in che modo Calanctus agì nei suoi confronti».
«Come ci è stato consigliato, presumo. Ovvero formando un forte e inflessibile gruppo cabalistico».
«Sì, ma dove e come? Zanzel è stato esqualmato, e certamente non soltanto lui».
«Tirate fuori lo Specchio Visore, e prepariamoci al peggio. Chissà, forse qualcuno può ancora esser salvato».
Rhialto tracciò un’Efesia Grammata su un punto della parete nuda, e vi comparve un loculo. Ne estrasse un pesante specchio chiuso in una cornice d’ebano assai consunta, che al tocco delle sue mani divenne nero come la pece. «Chi volete osservare per primo?».
«Proviamo il leale per quanto misterioso Gilgad. È un individuo sagace e sospettoso, difficile da raggirarsi».
«Potremmo restarne delusi», borbottò Rhialto. «L’ultima volta che l’ho guardato in faccia, la sua lingua sembrava l’imitazione di un serpente impazzito». Sfiorò un pulsante nascosto della cornice, sussurrò un sortilegio e, quando alitò sulla superficie dello specchio, vi comparve la figura di Gilgad in miniatura.
Il piccolo Mago dalla faccia tonda e grigiastra era nella sua cucina, a Palazzo Thrume, e in quel momento stava rimproverando il cuoco. Invece della consueta tunica vermiglia da casa indossava larghissimi pantaloni rosa e rossi, ornati ai fianchi da civettuoli fiocchi neri. Sulla blusa color lilla esibiva dozzine di farfalle ricamate in broccato variopinto. Quel giorno aveva adottato anche una pettinatura nuova e inusitata, con opulenti rotoli di capelli sulle orecchie, due pettini-spilla tempestati di rubini per tenere le ciocche a posto, e una lunga piuma bianca che sovrastava il tutto.
Rhialto ebbe una smorfia. «Si deve notare che Gilgad è stato svelto ad accettare i dettami della nuova moda».
«Ascoltate!», sussurrò Ildefonse.
Dallo Specchio Visore vibrava fuori la voce sottile di Gilgad, resa acuta dall’agitazione: «… e sudiciume, e avanzi dappertutto. Questo potevo sopportarlo nella mia precedente condizione semi-umana, ma adesso molte cose sono cambiate e io vedo il mondo, inclusa questa sordida cucina, in una luce nuova. D’ora in poi esigo scrupolo e correttezza! Tutte le superfici dovranno brillare, i fornelli e gli utensili saranno gioielli di lindore, la pulizia e l’igiene prevarranno. E non è tutto! Immagino che la mia metamorfosi sembrerà peculiare ad alcuni di voi, e che si mormoreranno incauti pettegolezzi, perciò ricordate che io ho orecchie dappertutto. Mi limito a portarvi l’esempio di Kungy, che esegue i lavori domestici saltellando su piedi di topo, si trascina dietro la coda e squittisce alla sola vista di un gatto. È chiaro?».
Rhialto toccò il pulsante e fece dissolvere l’immagine. «Davvero triste. Gilgad ha sempre avuto un temperamento bilioso e modi aspri coi domestici. È evidente che l’esqualmazione non nobilita certo il carattere delle sue vittime. Ah, be’… così vanno le cose. A chi tocca ora?».
«Facciamo un piccolo controllo su Eshmiel, la cui lealtà all’Associazione è certo rimasta intatta».
Rhialto alitò sullo Specchio Visore, sfiorò il pulsante, e sulla superficie apparve l’immagine di Eshmiel nel suo spogliatoio di Palazzo Sil Soum. I gusti del Mago erano sempre stati improntati a una preferenza per il chiaro-scuro, col lato destro del suo corpo bianco ed il sinistro nero. Gli indumenti che indossava seguivano lo stesso concetto, sebbene il loro taglio fosse talora frivolo o bizzarro.
Adesso, nella sua esqualmazione, Eshmiel non aveva abbandonato il gusto dei contrasti, ma sembrava averlo dirottato su temi diversi, blu e porpora, giallo canarino e arancione, rosa e ambra. Quelli erano i colori degli abiti appesi alle grucce che riempivano lo spogliatoio. Mentre Rhialto e Ildefonse lo spiavano, Eshmiel andava avanti e indietro esaminando ora una blusa, ora una cappa, ma con l’aria di non trovare niente che gli piacesse, e ciò lo innervosiva visibilmente.
Ildefonse ebbe un gesto di sconforto. «E anche Eshmiel è andato! Stringiamo i denti e vediamo un po’ cosa accade a Hurtiancz, e poi a Dulce-Lolo».
Mago dopo Mago, tutti i loro colleghi furono investigati dallo Specchio Visore, e alla fine non restò alcun dubbio: l’esqualmazione li aveva infettati dal primo all’ultimo.
Rhialto era cupo. «Neppure uno che mostrasse cenni di disperazione! Si direbbe che sguazzino nel loro mutamento come se questo fosse una ricompensa ambita. Reagiremmo nello stesso modo, se ciò accadesse a noi?».
Ildefonse si tormentò i baffi. «È un’ipotesi che mi fa gelare il sangue».
«E così siamo rimasti soli», stabilì Rhialto. «Dovremo essere noi a decidere il da farsi».
L’altro rifletté su quella frase. «La questione ha aspetti complessi. Siamo sottoposti a un attacco: è il caso di replicare? E in tal caso, come? O forse dovrei dire: perché? La Terra è moribonda».
«Ma io non lo sono! Io sono Rhialto, e un’azione così sgraziata e deplorevole mi offende».
Il collega annuì, accigliato. «Questo è un punto basilare. Io pure, con uguale veemenza, sono e intendo restare Ildefonse».
«Io aggiungo che siete Ildefonse il Maestro. E affermo che dovete far uso del vostro legittimo potere».
Ildefonse fissò Rhialto con gli occhi azzurri socchiusi come fessure. «D’accordo. Nomino voi esecutore legale dei miei editti».
Rhialto ignorò la facezia. «Stavo pensando alle Pietre Ioun».
«Che cosa intendete dire, di preciso?».
«Dovete dichiarare la confisca di tutte le Pietre Ioun a quelle che ora vanno considerate Streghe esqualmate, come misura cautelativa d’ordine interno. Quindi metteremo in opera una tempo-stasi, e manderemo fuori i Sandestins a ritirare le pietre».
«Una tattica decisa. Ma i nostri colleghi spesso nascondono i loro tesori con ingegnose misure precauzionali», disse Ildefonse.
«Devo confessare un piccolo svago personale… un capriccio, diciamo un innocente gioco intellettuale. In questi anni ho voluto accertare la dislocazione di tutte le Pietre Ioun in possesso dei membri dell’Associazione. Per fare un esempio, voi tenete le vostre nel cassone della riserva d’acqua dietro la stanza da lavoro».
«Questa, Rhialto, è una dichiarazione sfacciata e seccante. Tuttavia al punto in cui siamo non me la sento di rimproverarvi. Confischerò le pietre dei nostri ex colleghi ora stregati. E adesso, se mi consentite di infrangere il continuum con un incantesimo in casa vostra, chiamerò subito i miei Sandestins: Osherl, Ssisk e Walfing».
«Quelli al mio servizio, Topo e Belluine, hanno un senso del dovere che garantisco personalmente», annuì Rhialto.
L’opera di confisca fu portata a termine con facilità quasi eccessiva, e due ore più tardi Ildefonse commentava, soddisfatto: «Abbiamo sferrato un colpo efficace, ed ora ci troviamo attestati su una posizione chiara: la nostra sfida è diretta ed energica».
Rhialto sollevò lo sguardo dalle Pietre Ioun che aveva accumulato in vari contenitori. «Una sfida energica e un colpo efficace, certo. Ma ora quale sarà la nostra tattica?».
Hdefonse sbuffò e agitò le mani. «Suggerisco la prudenza. Saggezza esige che si stia nascosti finché la Murthe non se ne sarà andata».
Rhialto emise un acre borbottio. «Rimpiattarci in un buco, finché non ci troverà e ci farà fuggire squittendo di paura? Sarebbe la fine per la nostra dignità personale. Certo Calanctus non si comporterebbe così».
«Cerchiamo allora di scoprire i metodi di Calanctus», si rassegnò Hdefonse. «Tirate fuori il volume Gli Assoluti, di Poggiore, che ha riservato un intero capitolo alla Murthe. Farà comodo anche Le Encicliche, di Calanctus e, se lo avete, Calanctus, Tecniche e Significati».
Il pallore dell’alba lasciava il posto ai colori più vivi dell’aurora. Sulle Acque Selvagge l’atmosfera si schiariva in toni azzurri e rosa. Rhialto chiuse di botto la copertina rilegata in acciaio delle Encicliche: «Qui non c’è niente di utile. Calanctus descrive la perseveranza delle inclinazioni femminili, ma non è esplicito circa i rimedi».
Ildefonse alzò gli occhi da La Dottrina di Calanctus. «Ho trovato un paragrafo interessante. Calanctus paragona la donna all’Oceano Ciaeico, che assorbe il caldo flusso della Corrente degli Antipodi dopo che questa ha aggirato Capo Spang. Ma ciò accade solo quando cè bel tempo. Se scoppia una tempesta, l’oceano si solleva in onde altissime intorno al Capo facendo ingolfare la corrente al di la di esso. Allorché poi torna il sereno, l’Oceano Ciaeico accoglie di nuovo placidamente l’ingresso della corrente. Siete d’accordo con questa interpretazione dello spirito femminile?».
«Non del tutto. A volte Calanctus tende a essere iperbolico. Questo stesso esempio deve considerarsi un caso limite, in specie se egli non prevede programmi per trattenere o divergere altrove la furia dell’Oceano».
«Sembra però suggerire che, ordinariamente, si evita di controllare la burrasca preferendo invece costruire una nave sicura, su cui attraversarla».
Rhialto scosse le spalle. «Forse. Tuttavia simbolismi di questa sorta mi sono sempre rimasti oscuri. L’analogia non ci è utile affatto».
«Eppure», ruminò Ildefonse, «questo sembra consigliare che, invece di affrontare la Murthe in uno scontro di poteri, dovremmo evitarne il pieno impatto. E infine, consumate altrove le sue energie, potremmo navigare come la nave sui flutti tornati calmi».
«Un’immagine affascinante ma limitata. La Murthe dispone di poteri disparati e proteiformi».
Ildefonse si tormentò pensoso un sopracciglio. «Viene da chiedersi se tutto questo fervore, la sua abilità, la sua perseveranza, non abbiano finito per governarla, influenzandola e spingendola verso, per così dire, il regno utopico del…».
«Queste vostre speculazioni», lo interruppe Rhialto, «hanno il sapore malinconico di un testamento intellettuale».
L’altro scosse la testa con energia. «Come assertore della libertà di pensiero, non intendo impedire ai miei pensieri di vagare dove più a loro piace».
Un insetto dorato saettò fuori dall’ombra e, dopo aver roteato intorno alla lampada, scomparve di nuovo. Rhialto s’irrigidì all’istante. «Qualcuno è entrato a Falu, e ora si trova in salotto». Andò alla porta e chiese a gran voce: «Chi è la? Parlate, o danzerete la tarantella su lingue di fuoco ardente».
«Risparmia i tuoi incantesimi», disse una voce. «Sono soltanto io, Lehuster».
Pochi secondi dopo l’individuo fece il suo ingresso nella stanza da lavoro, zoppicante e con l’abito assai malconcio. Le penne che gli spuntavano dalle spalle apparivano sporche, e ansava per la stanchezza. Aveva in mano una sacca, che con un certo sollievo depose su una delle poltroncine.
Ildefonse lo esaminò con una smorfia scontenta. «Alla buon’ora, Lehuster! Finalmente ti si rivede. È tutta la notte che fatichiamo sulle scartoffie, e i tuoi consigli avrebbero potuto farci comodo, ma tu eri introvabile. Ebbene, hai qualche novità?».
Rhialto porse all’individuo un bicchierino di acquavite. «Bevi, riprendi fiato, e non farci attendere quel che hai da dire».
Lehuster bevve il liquore d’un sorso. «Aha! Un sapore acerbo ma di qualità rara e forte. Ebbene… ho abbastanza poco da riferirvi, anche se ho trascorso la notte lavorando duramente. Tutti i vostri colleglli sono stati esqualmati, salvo voi due. Ma la Murthe è convinta di avere sotto controllo l’intera Associazione».
«Cosa?», ringhiò Rhialto. «Stai dicendo che prende così alla leggera me e Ildefonse il Maestro?».
«Non la vedo come una gran tragedia». Lehuster si riempì ancora il bicchiere. «Chiedo scusa, ma ho la gola secca. Mmh… buono davvero! Dunque, ho appurato che la Murthe ha requisito tutte le Pietre Ioun per suo uso personale, e…».
«Hai appurato male», ridacchiò Ildefonse. «Noi siamo stati più svelti e le pietre sono in mano nostra».
L’altro gli gettò un’occhiataccia. «Voi siete stati svelti ad impossessarvi soltanto di un mucchio di fondi di bicchiere colorati. La Murthe ha sostituito con facsimili tutte le pietre, incluse le vostre».
Rhialto corse ai contenitori dove aveva accumulato le gemme, e mandò un ansito. «Quella putt… quella gentildonna dai facili costumi ci ha derubati a sangue freddo! Si può essere più ignobili?».
Lehuster indicò la sacca che aveva portato con sé. «In questa occasione possiamo dire di averla giocata. Le pietre sono li dentro. L’ho alleggerita del bottino con abile manovra, mentre faceva il bagno. Suggerisco ora che mandiate un Sandestin a rimpiazzarle con quelle false. Se fate in fretta, c’è ancora un po’ di tempo utile. La Murthe ama indugiare parecchio nella sua toeletta. E nel frattempo nasconderete le pietre autentiche in qualche loculo extradimensionale, cosicché non possa più metterci le grinfie sopra».
Ildefonse si volse a Lehuster. «Si può sapere in che modo Calanctus ha potuto sconfiggere una femmina così astuta e spaventosa?».
«Su quegli avvenimenti c’è ancora un certo mistero», ammise l’altro. «Tuttavia per tenere a bada la Murthe so che Calanctus usava un intenso potere suo personale».
«Uhmf! Dobbiamo scoprirne di più su di lui. Le cronache non fanno neanche menzione della sua morte. Per quel che ne sappiamo potrebbe essere ancora vivo, magari nella Terra di Cutz».
«È una possibilità che preoccupa anche la Murthe», annuì Lehuster. «Dovremmo esser capaci di confonderla e indurla a ritirarsi».
«Alludi a un espediente?».
«Non c’è tempo da perdere. Tu e Rhialto dovete creare un’immagine realistica con le sembianze di Calanctus, e in questo, se non altro, io posso esservi di aiuto. Non è necessario che sia un alter-ego permanente, ma bisogna che abbia vitalità sufficiente da convincere Llorio che sta per avere un altro disastroso scontro con Calanctus».
Ildefonse considerò le difficoltà. «Quest’ultimo particolare è il più problematico».
«Vi consiglio di non indugiare. Faccio presente che questa faccenda delle Pietre Ioun irriterà la Murthe, e che dovete attendervi delle violente rappresaglie».
Rhialto accolse con faccia scura quell’osservazione. «Allora mettiamoci al lavoro, Signori».
«Bah! Io non temo quella femmina presuntuosa», borbottò Ildefonse. «Ma non c’è una soluzione più facile?».
«Sicuro! Involarsi per la dimensione più lontana che ci sia».
«Se mi conoscessi meglio non parleresti così. Coraggio, allora: faremo scappare a gambe levate la Strega. Voglio vederla strillare di abbietto terrore!».
«Così mi piace, Signori», dichiarò Lehuster, alzandosi. «E adesso, prima di metterci all’opera, propongo un brindisi con quella deliziosa acquavite».
Pian piano, ma senza gravi difficoltà tecniche, la sembianza artificiale di Calanctus prese forma sul bancone da lavoro: dapprima essa fu soltanto un’armatura di fili di tantalio e d’argento, fissati a uno scheletro articolato, poi presero forma i rivestimenti sintetici. Nel cranio e nell’addome vennero alloggiati i sensori, e in essi fu registrato tutto il lavoro disponibile di Calanctus, compresi i cataloghi, i compendi colmi di riferimenti, le pantologie e gli aneddoti, finché Lehuster si lagnò che stavano esagerando.
«Sa già venti volte più cose di quante non ne conoscesse lo stesso Calanctus, signori! Mi chiedo come potrà organizzare una simile massa di nozioni».
Il sistema muscolare fu registrato e messo in fase con quello neurale, venne applicata la pelle, completa di peluria, e uno strato di folti capelli neri tagliati corti. Lehuster s’impegnò con abnegazione a modellare i tratti del volto, controllando i movimenti caratteristici della mandibola, l’artificiale corrugarsi della fronte, la linea esatta del naso e delle sopracciglia. Rhialto ignorò la stanchezza per dedicarsi agli ultimi particolari del sistema audiovisivo e, quando accese gli auricolari, fece un cenno a Lehuster.
«Tu sei Calanctus!» disse lui ad alta voce. «Mi odi, nobilissimo Mago? Rispondimi, o eroe del XVIII° Eone!».
Gli occhi si aprirono e la creatura gratificò Lehuster di uno sguardo pensieroso. L’individuo s’inchinò. «Io sono tuo amico. Alzati, Calanctus. Siediti con maggiore comodo su questa poltroncina». Il simulacro di Calanctus scese dal tavolo senza difficoltà di coordinazione, fece qualche passo, e sedette dove gli veniva indicato.
Lehuster si volse ai due Maghi. «Meglio che voialtri andiate a riposare in salotto per qualche minuto. Devo istillare nella sua mente certi ricordi e associazioni psichiche, per dargli maggiore vivacità».
«Un’intera vita di memorie in pochi minuti?», si stupì Ildefonse. «È impossibile!».
«Per nulla, con la tempo-compressione. Inoltre gli insegnerò musica e poesia, di cui era appassionato Calanctus. La sua personalità deve assumere un tocco di brillantezza. Il mio principale strumento sarà questo piccolo petalo di fiore rinsecchito: ha un profumo dall’effetto magico».
Per quanto riluttanti, Rhialto e Ildefonse si lasciarono convincere a uscire e, seduti nel salotto, attesero l’alba osservando la nebbia che stagnava sul Prato Inferiore. Sulla sponda oscura del Ts, una coppia di ippogrifi era uscita dalla boscaglia per abbeverarsi.
Mezz’ora dopo, Lehuster li richiamò nella stanza da lavoro: «Questo che vedete è Calanctus. La sua mente è colma di sapienza, e il corpo appare un tantino ingrassato rispetto a come lo ricordavo. Calanctus, permettimi di presentarti questi due rispettabili Maghi, Rhialto e Ildefonse. Essi sono tuoi amici, e degnissime persone».
Gli occhi azzurri di Calanctus esaminarono i due. «Sono lieto di sentirlo dire», affermò. «Da quanto ho saputo, il mondo ha un triste bisogno di uomini leali e rispettabili».
Lehuster si grattò la testa. «Bè… è Calanctus, ma con qualche piccola differenza o manchevolezza. Potrei dire che gli ho dato un quarto del mio sangue, ma forse non è stato abbastanza. Comunque, staremo a vedere».
Ildefonse chiese: «E i poteri? Può rafforzare i suoi ordini?».
Lehuster considerò il simulacro. «Ho collegato al sensorio diverse Pietre Ioun. Ma non ha mai conosciuto offesa, e questo lo rende gentile e acquiescente, malgrado la sua indubbia potenza intrinseca».
«Che cosa sa della Murthe?».
«Tutto ciò che sappiamo noi. Noto che non mostra alcuna emozione».
Rhialto e Ildefonse non nascondevano un certo scetticismo. Rhialto commentò: «Infatti ha un’aria un tantino troppo placida e astratta. Non si potrebbe fornirgli un’identificazione più viscerale ed emotiva con il vero Calanctus?».
Lehuster esitò: «Forse. Calanctus usava portare al polso un braccialetto con uno scarabeo. Vestitelo in modo acconcio, quindi io glielo consegnerò».
Dieci minuti più tardi Rhialto e Ildefonse scesero di nuovo” in salotto con Calanctus, che ora indossava un elmetto nero, un giustacuore metallico, stivaloni, tunica e cappa anch’essi neri, con fibbie e accessori in argento.
Lehuster ne parve soddisfatto. «È lui, al meglio della forma. Calanctus, porgi il braccio. Ti consegno ora un bracciale appartenuto al primo Calanctus, del quale devi assumere l’identità. È tuo. Non lo togliere mai dal polso destro». Gli allacciò il monile, che gli altri due Maghi osservarono con interesse.
Calanctus si accigliò. «Sento sorgere in me vita e potenza… Io sono forte! Io sono Calanctus!»
Rhialto gli chiese: «E pensi che sarai svelto ad imparare la magia? A un uomo normale occorrono quarant’anni di studio soltanto per diventare un apprendista».
«Io ho il potere d’apprendere ogni pratica magica».
«Quand’è così, datti da fare. Comincerai a studiarti tutta la serie di tomi dell’Enciclopedia, poi i Tre Libri di Phandaal, e se per allora non sarai morto o impazzito ti riconoscerò come un’entità superumana. Prego… la stanza da lavoro è per di qua».
Ildefonse fu lasciato solo nel salotto e, più per ingannare il tempo che per fame, spilluzzicò della frutta. Ma erano trascorsi appena due minuti che una serie di suoni acutissimi e un grido stridulo lo fecero balzare in piedi allarmato. Ci furono dei passi. Calanctus rientrò nella stanza con andatura ferma e sicura. Dietro di lui c’era Rhialto, che sembrava malfermo sulle ginocchia ed era pallido.
Il tono di Calanctus suonò tenebroso: «Ho accolto in me la magia. La mia mente è colma d’incantesimi arcani. Sono grezzi, ma già ne controllo le instabili energie. Lo scarabeo me ne dà la forza».
Lehuster entrò ansimando. «Ci siamo, Signori: le nuove Streghe sono comparse la fuori, sul prato! Ho riconosciuto Zanzel Melancthones, Ao degli Opali, Barbanikos e altri. Essi… cioè esse, sembrano in preda all’ira o al nervosismo». Indicò la finestra. «Guardate: Zanzel si sta avvicinando».
Rhialto gettò uno sguardo a Ildefonse. «Dobbiamo sfruttare l’opportunità?».
«Saremmo degli sciocchi a lasciarcela scappare».
«Proprio quel che penso. Ora, Ildefonse, se voi vi occuperete di quell’albero, il granipesco li sulla destra…».
Un minuto più tardi Rhialto usciva sulla veranda frontale, e nel giardino si fece incontro a Zanzel. L’individuo appariva ormai femmineo in ogni particolare, e fu con un’acuta voce da donna che protestò e lanciò accuse circa quanto era accaduto alle Pietre Ioun.
«Mi associo alla tua indignazione», lo blandì Rhialto. «È stato un atto vile, di cui è responsabile solo Ildefonse. Ti prego di accomodarti un momento qui, nella seggiola sotto il granipesco, ed io riparerò al torto che avete subito».
Zanzel andò a sedersi borbottando e, appena fu sotto l’albero, Ildefonse fece piovere dalle foglie l’Incanto della Solitudine Interiore, che desensibilizzò la donna. Ladanque, il ciambellano di Rhialto, corse fuori e caricò Zanzel su una carriola, poi la portò nel capanno degli attrezzi in fondo al giardino. La manovra era stata studiata in modo che nessuna delle nuove Streghe vedesse l’accaduto, e il successo riempì Rhialto di soddisfatta baldanza.
Con un cortese cenno invitò Barbanikos a farsi avanti, gridando che per restituire loro le Pietre Ioun era costretto a riceverle una alla volta. Barbanikos si fece avanti ancheggiando, la sua aria sospettosa si dissolse davanti ai sorrisi — calcolatamente virili — di Rhialto, e acconsentì a sedersi sotto il grani-pesco. All’istante subì l’identica sorte dell’altra collega.
Nel tempo di venti minuti Ildefonse gettò l’Incantesimo della Solitudine Interiore su Ao degli Opali, Dulce-Lolo, Hurtiancz e parecchie altre Streghe, finché le sole che restarono ai limiti del prato furono Vermoulian e Tchamast il Didattico. La prima, che esibiva due voluminose, mammelle, aveva un’aria assente. La seconda ignorò testardamente gli inviti di Rhialto.
D’un tratto nell’aria si avvicinò un turbine di nebbia, che venne a fermarsi sul prato a pochi palmi dal terreno. Ne saltò fuori Llorio la Murthe, bella e agile nella semplice tunichetta bianca che i suoi arcani gioielli d’argento impreziosivano stranamente. S’accostò a Vermoulian, la interrogò, ed essa rispose in tono concitato indicando Palazzo Falu.
Llorio esaminò Rhialto da lontano, quindi si incamminò senza fretta nella sua direzione. Quando fu a venti metri dalla veranda, Ildefonse uscì allo scoperto e protese le mani scagliandole addosso l’Incantesimo della Solitudine Interiore. Il sortilegio, sotto forma di una vibrazione giallastra, non fece però molta strada: dopo un istante tornò indietro e colpì in pieno Ildefonse, scaraventandolo lungo disteso a terra.
Llorio la Murthe si fermò. «Rhialto! Tu hai maltrattato le mie colleghe, e hai rubato le pietre magiche di mia proprietà. Decreto quindi che tu ci segua a Sadal Suud non come Strega, bensì con le misere mansioni di servo e cameriere. Questa sarà la tua umiliante punizione. E al tuo complice Ildefonse toccherà lo stesso trattamento».
Dalla porta principale del Palazzo Falu uscì maestosamente Calanctus, che si arrestò a fissarla a braccia conserte. Llorio sbarrò gli occhi, la sua bocca si aperse scioccamente. Quando riuscì a parlare la sua voce suonò rauca:
«Com’è possibile che tu sia qui? Come sei evaso dal Triangolo? E che cosa…» Il fiato le si strozzò in gola. Sbigottita rimase a guardare Calanctus per qualche istante, poi disse: «Perché mi osservi a questo modo? Io non mi sono mai comportata slealmente. Ora partirò per Sadal Suud. Sono qui soltanto per fare ciò che doveva esser fatto, e se qualcuno è sleale quello sei tu!».
«Io pure feci quel che doveva esser fatto, e dovrò agire ancora nello stesso modo, perché tu hai esqualmato dei gentiluomini facendone delle Streghe a te asservite. Hai infranto la Legge Maggiore, uno dei cui dettami è che gli uomini e le donne rimangano quelli che sono».
«Quando la necessità si scontra con la Legge, quest’ultima dev’essere modificata. Lo hai scritto tu stesso nei Decreti Umani».
«Non citare i miei detti. Se vuoi andare a Sadal Suud, vai, ma subito e da sola, senza le persone esqualmate».
«Non m’importa di loro», disse Llorio. «Sono un gruppo ben triste, Streghe o Maghi che siano, e onestamente ne desideravo la compagnia soltanto per avere un seguito dignitoso».
«Allora parti, Murthe!».
Ma invece di muoversi, Llorio squadrò Calanctus con un’espressione mista di perplessità e insoddisfazione sul suo bel viso. Restò dov’era e assunse un atteggiamento fra oltraggioso e provocante. «Il trascorrere degli Eoni non è stato benigno con te: hai l’aria di un uomo fatto di pastafrolla. Ricorda cosa minacciasti di farmi, se ci fossimo incontrati ancora?» Fece un passo avanti ed ebbe un freddo sorriso. «Che c’è, hai timore dei miei poteri? Sembra proprio di sì. Dove sono finite le tue arie roboanti, le tue vanterie e le tue esibizioni?».
«Io sono un uomo di pace. Preferisco la tranquillità dell’anima alle azioni fatte per soggiogare gli altri. Non pronuncio minacce, ma parole di speranza.»
Llorio si avvicinò e studiò il suo volto. «Ah!» sussurrò, con un lampo negli occhi. «Sei soltanto una vuota facciata, e non Calanctus. Un simulacro. Preparati ad assaporare la dolcezza della morte!».
«Io sono Calanctus».
Llorio intrecciò le braccia cantilenando un Incantesimo di Torsione, ma Calanctus gettò da parte con un gesto le corde d’acciaio che gli si stavano avvolgendo al corpo, e pronunciò sette parole squillanti: da altrettante direzioni diverse comparvero sette neri Raggi Schiacciaossa, che abbatterono in ginocchio la ragazza dai capelli d’argento. Pur gemendo sotto la terrificante pressione, la Murthe riuscì a salvarsi dal sortilegio con un gesto così arcaico e possente che pochi Maghi avrebbero osato concepirlo: si fece l’antico segno della croce, ed i raggi disparvero. Ansante poggiò le mani al suolo.
«Tu, una Strega, hai l’ardire di richiamare la Vecchia Religione?», si stupì Calanctus.
Invece di rispondere, Llorio si alzò di scatto e gli si precipitò addosso avvolta da un’aura violetta che crepitava come mille api inferocite. I due si avvinghiarono nella lotta. Con uno spintone si separarono nuovamente.
«Tu non inganneresti nessuno: sei latte annacquato, dove invece Calanctus era sangue e fuoco!», esclamò la ragazza.
Il simulacro fece un passo avanti e pronunciò il Sortilegio della Mano Fredda, afferrandola per il collo. La Murthe gli prese i polsi per liberarsi, ma ad un tratto si rese conto, con drammatico ritardo, che l’altro si aspettava proprio quel gesto da lei, e che sotto una delle sue mani c’era il bracciale con lo scarabeo. Tentò di lasciarlo, non vi riuscì, e le forze parvero abbandonarla: priva di ogni potere ella restò inerme, in balia della pura e semplice forza fisica dell’avversario che la stava strangolando.
Ma un attimo prima che la luce si spegnesse nei suoi occhi, mentre già un rivolo di sangue le colava da una narice, Llorio tornò ad afferrare il bracciale. Nell’aria si sentì l’odore della carne bruciata quando compì quel gesto, e poi dalle sue labbra uscì in un sussurro la Parola Nera. Ci fu un lampo: la Strega venne proiettata all’indietro contro il tronco del granipesco, e il simulacro di Calanctus rotolò al suolo con le gambe ripiegate in un’angolazione bizzarra.
Per qualche minuto Llorio ansimò, scossa da conati di vomito, tracciando nell’aria circoli magici per scacciare gli effetti della Parola Nera che vibrava ancora tutt’intorno, poi fissò come senza vederlo il simulacro spezzato. Dalla bocca gli usciva una spirale di fumo nero, e c’era il puzzo di sostanze sintetiche che si carbonizzavano.
A passi lenti e sognanti Lehuster oltrepassò Rhialto e guardò anch’egli il relitto. D’improvviso batté sonoramente le mani. Nell’atmosfera balenò una luminosità azzurra che sorprese i presenti, ed essi videro le vesti dell’individuo ardere di un fuoco freddo senza fiamme. Da lì a pochi momenti Lehuster era scomparso, e al suo posto stava adesso una persona completamente diversa, alta e robusta, avvolta in una tunica nera e con occhi che brillavano di orgoglio e fierezza. I suoi lineamenti erano quelli del simulacro che si stava incenerendo sull’erba. Fece un passo avanti e tolse il bracciale alla creatura sintetica, allacciandoselo al polso con sicurezza.
Il nuovo Calanctus si rivolse a Llorio: «Tutte le mie fatiche sono finite in niente. Ho scelto di trasferirmi in quest’epoca come Lehuster, per controllare le tue manovre senza risvegliare i vecchi rancori, la rabbia e la sofferenza del passato. E adesso tutto è come prima. Io sono io, tu sei tu, e le beghe che ci dividono non sono mutate».
Llorio non replicò, ancora scossa, e Calanctus ebbe una smorfia: «Avanti, facci vedere di quali incantesimi distruttivi sei capace. So che ne puoi scatenare molti e diversi. Provali su di me. Ma bada, io non sono quel povero mezzo Calanctus che giace lì a terra.» Ebbe un gesto di disgusto. «L’avevo costruito per portare avanti un grumo di speranza, e come tutte le speranze ora non ne resta che un rottame!».
«Speranza?», gridò Llorio. «Quando il mondo è finito e io sono stata resa impotente? Cosa rimane? Niente! Qui non c’è né speranza, né onore, né gioia, né angoscia. Tutto è svanito. Le ceneri dell’umanità ammorbano l’aria su un deserto. Tutto è stato perduto o dimenticato. I migliori sono diventati polvere, mescolandosi con la polvere dei peggiori. Chi sono questi individui che ci stanno intorno con sguardi vacui e stupefatti? Ildefonse? Rhialto? Fantasmi parlanti che agonizzano sotto un cielo rosso e morente. Parli di speranza… dove la vedi? Tutto si è dissolto ed è finito. Perfino la morte appartiene al passato!».
Llorio vacillò dopo quello sfogo, come se la passione con cui aveva parlato le essudasse dai pori e la stordisse. Con uno sforzo si calmò, e si asciugò il sangue che le era colato dal naso. Poi si esaminò cupamente la mano ustionata. Il rossore svanì, la pelle tornò sana. Calanctus la osservava con aria placida, in attesa che le emozioni di lei si placassero del tutto.
Llorio strinse i denti. «Qui non ho intorno che nemici, e ho fallito. Me ne andrò da sola su Sadal Suud». Llorio fece un passo indietro. «Io non rinnego niente di me. Non voglio cambiare niente».
«Ho forse detto che intendo farlo? Ma… tu continui a sanguinare dal naso, e anche dagli orecchi!».
«Già. Qualcosa si è spezzato nella mia testa. Non avrei dovuto usare incantesimi così spaventosi per distruggere quel simulacro.» Ebbe una risata amara. «Sento in bocca il sapore della morte, Calanctus. Alla fine hai avuto la tua vittoria!».
«Come al solito, tu mi fraintendi. Io non voglio nessuna vittoria. Tu non stai morendo affatto, e non andrai a Sadal Suud. Lassù ci sono rimaste soltanto paludi infestate dagli uccelli rapaci, serpenti e roditori. Un posto poco adatto a una signora raffinata: chi laverebbe la tua biancheria?».
«Vuoi impedirmi di morire e anche di andarmene su un nuovo mondo? Alla mia sconfitta aggiungi anche l’umiliazione!».
«Queste sono soltanto parole. Adesso stringi la mano che ti porgo e dichiariamo una tregua».
«Mai!», esclamò Llorio. «Questo simbolizzerebbe la disfatta definitiva. Ma io non mi arrendo».
«Mi piacerebbe mettere da parte i simbolismi, e attenerci alla realtà. Andiamo, sono certo che, se ti rilassassi un momento, potresti apprezzare certe modeste doti della mia persona».
«Sei uno sfacciato.» La ragazza strinse le palpebre. «Sai bene che odio queste insinuazioni tipicamente mascoline. Bada che ti faccio ingoiare i denti, Calanctus!».
«Mi sono portato dietro il mio castello. Che ne dici di riposarci qualche giorno nei giardini, bevendo vino dolce e ammirando il panorama? Sarai mia gradita ospite, e parleremo oziosamente di argomenti del tutto futili».
«Non ci casco, Calanctus», brontolò lei.
«Un momento», intervenne Ildefonse. «Prima che ve ne andiate, dovete togliere l’esqualmazione a quell’accozzaglia di Streghe, e risparmiarne la fatica a noi».
«Bah, non ti costerà nessuno sforzo», disse Calanctus. «Evoca il Secondo Retromorfico, e fissa il risultato con un Talismano Xang. È questione di pochi minuti, per un Mago capace».
«Cosa vuoi insinuare?», Ildefonse si erse fieramente. «Ero perfettamente a conoscenza dell’incantesimo più adeguato».
Rhialto fece un cenno a Ladanque. «Porta fuori le signore, e scaricale sul prato».
Il ciambellano indicò il rottame del simulacro. «Questo oggetto sta bruciando l’erbaccia, padrone. Devo spegnerlo subito».
Seccato e stanco, Rhialto pronunciò uno dei più elementari incantesimi di dissoluzione. L’oggetto scomparve, lasciando una chiazza sul terreno.
Il sole era già alto. Llorio gettò un’occhiata al fiume, esitò, si volse a considerare la strada che conduceva fra le colline, poi cambiò idea e si avviò con aria pensosa lungo il declivio del prato. Calanctus la seguì. I due si fermarono una cinquantina di passi più avanti, guardandosi con espressioni diverse. Llorio disse qualcosa, Calanctus rispose agitando una mano con noncuranza, la ragazza gli sbatté un dito sul petto replicando in tono pungente, Calanctus rise e indicò verso est con aria invitante. Anche Llorio guardò da quella parte, sospirò e si strinse nelle spalle. Un attimo dopo i due erano scomparsi.