IV

S’avviò subito al suo cubicolo sfiorando sua sorella che era ferma in un angolo del cortile. Gli parve che fosse sul punto di dirgli qualcosa, ma deliberatamente le volse le spalle e affrettò il passo. La sua mediocrità soddisfatta, le sue interminabili recite sui doveri quotidiani e il suo placido autocompiacimento erano proprio ciò che in quel momento non avrebbe sopportato. Aveva bisogno d’intimità, molta intimità, e subito.

Appena chiusa la porta vi si appoggiò con le spalle. Gli scoppiava il cervello. Era un cervello abilissimo nell’isolare le idee insopportabili in una serie di compartimenti stagni, trasferendole poi dall’uno all’altro finché non le aveva ruminate a fondo. Questo era il motivo per cui sapeva manovrare d’istinto i molteplici affari della ditta. E questo era il motivo per cui era passato indenne attraverso quella giornata straordinaria… fino a quel momento. Ma i compartimenti erano saturi; non doveva succedergli nient’altro.

S’era svegliato poco dopo l’alba per vedere, sullo sfondo chiaro della parete, una ragazza dalle vesti fluttuanti che lo fissava con gravità. Aveva i capelli d’oro e le mani intrecciate su un ginocchio. Non era riuscito a vederle i piedi… non allora.

Era salito sul transplat per andare in ufficio, piombando invece in un luogo non identificabile dove aveva visto intorno a sé strani tendaggi e la stessa ragazza. Lei gli aveva parlato.

Se l’era ritrovata davanti, appollaiata sulla sua scrivania.

Aveva sprecato due ore in un’insolita autoanalisi che l’aveva lasciato perplesso e poco sicuro di sé, ed era andato a fare una visita di rispetto alla sua molto rispettabile nonna, la quale gli aveva riempito la testa con le più sconvolgenti congetture su cui un uomo decoroso potesse mai soffermarsi a riflettere… inclusa una che sembrava alla base delle sue folli visioni. Perché gli aveva suggerito il pensiero che grazie a una forza chiamata tele-qualcosa-o-qualcos’altro certa gente poteva apparire ovunque, con o senza transplat?

Sbuffò. Non c’era bisogno del transplat per avere delle visioni. E lui aveva sognato la ragazza, lì nel cubicolo e nel cortile chiuso da tende. L’aveva sognata nel suo ufficio. — Ecco qua! — disse a se stesso. — Adesso ti senti meglio?

No.

Chiunque avesse sogni di quel genere avrebbe fatto bene a stare lontano dal transplat.

E sia pure, pensò, non erano sogni.

In tal caso Nonnina aveva ragione: qualcuno disponeva di un sistema così superiore al transplat che il mondo — il suo mondo — ne sarebbe stato stravolto. Se soltanto si fosse trattato di uno sviluppo tecnologico avrebbe potuto esser fermato, messo al bando per mantenere la Stasi. Ma se era qualcos’altro… allora era un incontrollabile, assurdo, impalpabile mistero conosciuto solo a pochi individui e lui, Roan, era uno di loro.

Era insopportabile, impensabile. Indecente!

Andò dal fiorista e si fece servire la cena. Ma ebbe un grugnito di sorpresa quando, invece delle solite quattro tavolette e del bicchiere di vitabroth, si ritrovò fra le mani qualcosa di caldo, molliccio e fibroso. Lo esaminò da una parte e dall’altra. Era la cosa dall’aria meno commestibile che avesse mai visto in vita sua. D’altra parte, ogni tanto accadeva che ci fossero delle innovazioni quando il Servizio Nutrizione era pronto a cambiare i prodotti di base a causa dei batteri mutanti e della necessità di fornire nuovi antibiotici.

Ma quel prodotto era troppo voluminoso, oltreché strano. Forse, pensò d’un tratto, era un miscuglio di sostanze nutrienti e crusche stimolanti.

Vi affondò i denti. Un caldo sugo rossiccio gli colò lungo il mento, e un sapore quantomai piacevole gli riempì la bocca, le narici e — così gli parve — perfino gli occhi. Era così buono che lo sforzo di masticarlo gli sembrò una delizia.

Prima che si raffreddasse l’aveva già mangiato fino all’ultimo pezzetto, e si permise un sospiro di meraviglia. Frugò nel vano del distributore automatico nella speranza di trovarne ancora, ma la cena era tutta lì, a parte il vitabroth. Si portò il bicchiere alle labbra, poi cambiò idea e lo depose: niente doveva levargli di bocca quell’incredibile sapore finché avesse potuto continuare a gustarlo.

Scivolò nello scomparto parasguardi e in fretta si cambiò d’abito. Mentre trasferiva nella nuova tasca il portafogli si fermò a guardarci dentro, per controllare se andava riempito.

Ma a riempirsi fu il vuoto che era rimasto nella sua memoria. Uscendo dall’ufficio del Privato s’era trovato faccia a faccia con il suo… con quel… be’, sogno o meno lei era stata là. Ed era svanita. E sull’angolo della scrivania, proprio dov’era stata seduta, aveva lasciato un numero di transplat… quel numero che ora gli ricapitava in mano.

Proprio come una creatura di sogno, la ragazza non gli aveva parlato né in ufficio né nel cubicolo. Ma l’aveva fatto nel cortile con le tende. E quell’episodio, per quanto improbabile, non poteva esser stato una fantasia onirica. Per trasportarsi là aveva composto un numero. Poteva aver sbagliato, certo, ma era stato ben sveglio.

E stabilì che lei doveva essere uno di questi… questi nuovi mostri del prossimo passo avanti di cui aveva parlato Nonnina. E lui doveva sapere, doveva parlarle ancora. Non per via dei suoi capelli, naturalmente, né di quel vestito sfrontato. Doveva chiarire la faccenda del transplat, poiché la Stasi era ciò che teneva unita la società. Questo era semplicemente il dovere di un buon cittadino.

Rientrato in casa si mise un nuovo paio di guanti e tornò nel cortile. Valerie era sempre lì, e lo accolse con espressione speranzosa.

— Roan!

— Più tardi — sbottò lui componendo il numero.

Per favore! Solo un minuto!

— Non ho un minuto, adesso — replicò lui, e saltò nella piattaforma. Lo sfarfallio di tenebra interruppe i richiami della ragazza. Roan scese dalla piattaforma d’arrivo e s’arrestò di colpo, stupefatto.

Niente tendaggi! Niente profumi. Niente… oh, santissimo Privato in paradiso!

— Celibe Walsh! — stridette la Nubile Corson. Gli occhi della segretaria rotearono fin quasi al punto di schizzarle dalle orbite. Le sue mani, grazie all’Energia decentemente guantate, balzarono in alto lasciando annodato indecentemente nei lunghi capelli un pettine. Dal che lui dedusse d’aver interrotto nientemeno che un’operazione intima. All’istante capì cos’era accaduto, e un impeto di furia spazzò via l’imbarazzo che l’aveva letteralmente paralizzato.

La donna doveva avergli visto gettar via il suo numero di transplat, e s’era premurata di portargli un secondo fogliettino. Un numero che lui aveva intascato con emozione, e che aveva composto aspettandosi i tendaggi, le braccia nude, i capelli d’oro e tutto il resto… per trovarsi invece faccia a faccia con questo!

— Privato! — gridò la Nubile Corson. — Madre! Madre! — Chiamava i suoi genitori, naturalmente. Be’, ogni ragazza onesta e decorosa l’avrebbe fatto.

Roan deviò in direzione del quadro-comandi. Anche la segretaria vi si precipitò, ma lui fu molto più svelto.

— Non se ne vada, Celibe Walsh! — ansimò lei. — Madre Corson e il mio Privato non sono in casa al momento, ma sarebbero stati qui se solo avessi potuto immaginare… io li farò tornare subito, però. No, per favore, non se ne vada così!

— Mi ascolti — la bloccò lui. — Ho trovato questo numero sulla mia scrivania, e ho creduto che a lasciarlo fosse stato Grig Labine. Avevo appuntamento con lui, anzi sono già in ritardo. Mi spiace molto aver invaso la sua intimità, ma è stato un errore. Capisce? Soltanto un errore.

L’eccitazione della donna crollò così all’improvviso che tutto il suo corpo parve contrarsi. La bocca le s’incurvò in basso, umida e patetica; le mani ebbero un timido gesto convulso, e con un doloroso sorriso annuì per mostrare che aveva capito. Oh, bastardo spietato, che ti ha mai fatto di male questa poverina? si accusò Roan.

— Le auguro una sera felice — farfugliò, e compose il numero di casa.

— O-o-o-o-oh…! — il gemito della donna fu tagliato dal transplat.

Restò fermo dov’era comparso, con gli occhi chiusi per l’imbarazzo, traendo alcuni profondi respiri.

Ma subito dopo ai suoi orecchi giunse un lamentoso: — Per favore… — e per un allucinante momento pensò che il transplat della Nubile Corson non avesse funzionato. Riaprì cautamente gli occhi, poi fece un sospiro e scese. Era a casa. Quel miagolio era uscito dalla bocca di Valerie.

— Be’, che c’è che non va? — le chiese.

— Roan — gemette lei, — ti prego, non arrabbiarti con me. So che mi sono comportata male. È solo che… dovevo farlo ma, oh, non avrei dovuto essere tanto…

— Di cosa stai parlando?

— Di quando mi hai chiamato per chiedermi di andare da Nonnina.

Roan aveva l’impressione che fosse un episodio ormai lontano nel passato e privo d’importanza. — Dimenticatene, Val. Avevi perfettamente ragione e ci sono andato io, perciò lascia perdere.

— Non sei arrabbiato?

— No di certo.

— Ah, bene. Mi fa piacere, perché ho bisogno di parlarti. Posso? — lo supplicò.

Questo era insolito. — Parlarmi di cosa?

— Non potremmo uscire per un po’, Roan?

— Dove sono la Madre e il Privato?

— Nella Stanza di Famiglia. Non staremo via molto. Ti prego, Roan.

Lui annuì, incerto. Nel suo mondo Val rappresentava una perenne, per quanto innocua, fonte di scocciature; quella era probabilmente la prima volta che la vedeva come una persona umana, con i suoi problemi personali.

— Grosvenor Center? — le domandò.

Lei accennò di sì. Roan compose il numero e salì sulla piattaforma al suo fianco. Al Grosvenor Center era ancora pieno giorno, e vagamente lui si chiese in quale angolo della Terra fosse. Il mare s’era scurito in una distesa blu cobalto, e la montagna era una gloria di luce bianca.

Val lo seguì giù dal transplat. Passeggiando in silenzio oltrepassarono il negozio di decoratore, quello dei giochi e passatempi e il ristorante, finché giunsero al parco. Fianco a fianco sedettero su una panchina, ciascuno nel suo separé alto fino alla spalla, e osservarono la fontana.

Val appariva un po’ pallida e le sue spalle si contraevano sotto il mantello dell’intimità: un movimento in parte dovuto ad ansiti simili a singhiozzi, ed in parte al continuo agitarsi delle sue mani.

Con il tono più comprensivo che poté, Roan chiese: — Cosa c’è che non va?

— Tu non mi vuoi bene.

— Ma certo che te ne voglio, invece. Tu sei una brava ragazza.

— No, per favore, non volermi bene. Non voglio. Ho bisogno di parlare con te proprio perché non mi vuoi bene.

Questo risultò del tutto incomprensibile a Roan. Decise che per saperne di più, e più in fretta, gli conveniva stare zitto e lasciarla parlare.

A bassa voce Valerie disse: — Quella che devo dirti è una cosa che mi farà odiare da te, se già non mi detesti, perciò posso dirlo solo a te. Oh, Roan, io non sono buona!

Lui aprì la bocca per negarlo, ma la richiuse subito. L’intuito gli suggeriva che sarebbe stato poco saggio sia darle torto, sia darle ragione.

— C’è qualcuno che… che io ho visto. Poi l’ho visto di nuovo, e gli ho parlato. Lui è… io vorrei… oh! — gemette e cominciò a piangere.

Roan tolse di tasca un fazzoletto sterile, e con gesto il più possibile decoroso glielo porse da sopra il bordo del separé. Sentì, senza vederle, le dita di lei che lo prendevano.

— Il dovere di una Nubile è di attendere — disse lei con voce rotta, — finché un giorno giunge un Celibe a farle visita, ed egli diviene il suo Privato e… e lei diviene il suo sostegno e servizio, per sempre. Ma io non… voglio essere il sostegno e il servizio di un… del Celibe che verrà. Chissà, forse ne verrà uno da un momento all’altro. Invece io voglio che… che sia quello a venire!

— Forse lo farà — cercò di blandirla Roan. — Chi è?

— Io non lo so! — gemette disperatamente lei. — L’ho soltanto visto. Oh, Roan, tu devi cercarlo per me!

— Be’, dove potrei…

— È alto. Alto come te — s’affrettò a dire Val. — Ha gli occhi verdi. E ha… — deglutì a vuoto, abbassando la voce. — Ha i capelli lunghi, però non come quelli di una Nubile. E ha una fossetta in mezzo al mento, e su una guancia… sì, la guancia sinistra, ha una piccola cicatrice curva.

— Capelli lunghi? Gli uomini non portano i capelli lunghi!

— Lui sì, invece.

— Una nuova moda? — Roan soppresse una risatina a quel concetto abbastanza eretico. — Se esiste un tipo del genere, capelli lunghi e tutto, quasi chiunque dovrebbe sapere chi è costui e dov’è. Non credi?

— Sì — ammise cupamente lei.

— Dunque la conclusione è che un uomo simile non esiste.

— Ma lui c’è! Io l’ho visto!

— Dove? — Poiché lei taceva, Roan sbuffò: — Se non mi dici dove, come posso trovarlo?

Dopo una lunga esitazione lei si lamentò: — Io… non posso dirtelo. Ma questo non importa, perché non lo troveresti in… in quel posto. — Il suo volto avvampò. Dev’essere da qualche altra parte. Per favore, Roan, cercalo. Il suo nome. Dove abita. Anche se lui non… non… io vorrei almeno conoscere il suo nome — sospirò, malinconica. Poi raddrizzò le spalle: — Il Privato ci starà aspettando.

Mentre tornavano nella zona dei transplat Val disse, fissando il vuoto davanti a sé: — Stai pensando che io sono disgustosa, non è vero?

— No! — protestò caldamente lui. — Qualche volta penso che ognuno di noi è un tantino diverso da ciò che la Stasi si aspetta. Non è affatto «disgustoso» essere un po’ diversi. — E il suo subconscio, invece di rimproverarlo, lo indusse a sbarrare gli occhi su quel concetto sorprendente.

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