II

Privato Whelan Quinn

Quinn Glass

Livello 4

Matrice 124-10-9783


Onorevole Privato:

con riferimento alla Sua ordinazione del 17 corrente, siamo spiacenti di doverLa informare che le nostre scorte di griglie per radiatore bionde e dagli occhi verdi sono, per il momento, insufficienti a completare la massa minima per una spedizione transplat alla Sua ditta. Tuttavia, sapendo che Lei usa una considerevole quantità di pannelli prefabbricati, siamo pronti a completare il peso con lastre standard, sempreché Lei desideri sposarle. Abbiamo il materiale nei colori bianco, dorato come quei capelli di sogno, e avorio. La preghiamo d’informarci appena possibile se un medico può essere di qualche aiuto.

Privatamente Suo,


Roan rilesse distrattamente la lettera che aveva appena composto sullo schermo del video del suo telefax, con un dito sospeso a un millimetro dal tasto SPEDIRE della posta automatica. I suoi occhi erano ancora ottusamente fissi sulle griglie bionde e dagli occhi verdi, quando il ronzio dell’interfono lo fece sussultare.

— Sì?

La voce che ne uscì era quella chiocciante della Nubile Corson: — C’è una chiamata della Greenbaum Grofast, Celibe Walsh. Riguarda una lettera trasmessa alle ore 10,10 dalla sua matrice. Vogliono sapere in cosa consiste esattamente l’articolo undici sulla lista delle ordinazioni.

— Quale articolo undici?

— Qui io leggo «dita dei piedi sorridenti».

— Qualunque cosa significhi c’è un errore. Qual è il prezzo di quell’articolo?

— Qui non compare.

— Allora non importa. Dica loro di cancellare la riga, e di ritenere confermati i primi dieci articoli. Avrebbe dovuto pensarci lei.

— Io sono così occupaa-a-a-ta! — miagolò lei, in tono supplichevole-adorante così disgustoso che se lui l’avesse avuta davanti a sé l’avrebbe presa a calci nel retrobottega… no, nel sedere.

— Ascolti! — la fermò lui, — stampi una copia di tutte le lettere che ho spedito questa mattina e me le porti qui.

Roan emise un grugnito. L’adrenalina che la rabbia gli aveva fatto entrare in circolazione schiarì la sua mente, e rileggendo la lettera sullo schermo deglutì un groppo di saliva. Con mani tremanti apportò le correzioni. Non faticava a immaginare l’espressione con cui il vecchio Quinn avrebbe letto quel «Sempreché Lei desideri sposarle». E non faticava a immaginare neppure il modo in cui si sarebbe contratta la barba di suo padre, se per caso Quinn l’avesse chiamato per chiedere chiarimenti.

La Nubile Corson entrò con un pacchetto di fotocopie. — Qui ce n’è una che dice…

— Le dia a me! Grazie, Nubile — la interruppe lui.

— Oh, di niente. — Sulla porta la donna si volse e disse, con sollecita comprensione: — Celibe Walsh, lei mi sembra… voglio dire, se c’è qualcosa che posso…

Grazie, Nubile! — ruggì lui.

Lei deglutì. — Basta che lei me lo dica. — Poi i suoi occhi si spalancarono mentre lo fissava. Quella parte staccata della mente di Roan che non poteva fare a meno di chiedersi cose simili si chiese che faccia avesse in quel momento. Qualunque fosse, bastò a spedirla fuori come se la stanza fosse stata un cannone e lei la palla.

Roan lesse la prima delle copie:… vostra domanda circa il numero dei sostegni contenuti in ogni imballaggio. Il nostro impiegato provvederà, purché io riesca a scoprire il numero della ragazza bionda. Poi c’era un altro riferimento all’oro, stavolta come cornice dorata intorno al volto, e un paragrafo abbastanza sconcertante circa la spedizione di un generatore con due piedini deliziosi.

Procedendo nella lettura delle copie fu però sollevato scoprendo che le sue preoccupazioni personali avevano avuto un riflesso soltanto sulle ultime quattro lettere. Scrisse di nuovo ciascuna di esse, accuratamente corretta, aggiunse una breve nota di scuse senza dare però troppe spiegazioni, e le spedì al destinatario. Poi distrusse le copie scorrette.

Quando poté rilassarsi contro lo schienale della poltrona era ancora rosso in volto e pieno d’imbarazzo. Già mezzogiorno! Grazie all’Energia almeno per questo.

Soltanto allora vide il biglietto dietro l’orologio della scrivania, nell’angolo dov’era seduta la visione. In calligrafia elegante e precisa recava il numero di un transplat… nient’altro.

Corpo di mille petali!

S’affrettò a metterselo in tasca.

Mentre usciva disse a Nubile Corson, senza voltarsi a guardarla: — Oggi pomeriggio non rientro. Ho da lavorare fuori.

— Oh, ma lei non ha sull’agenda nessun…

Prima che la donna potesse dire altro si girò di scatto a fissarla. Lei deglutì, così vistosamente che Roan ebbe la folle convinzione che si fosse inghiottita la lingua. Salì sulla piattaforma, compose un numero sul quadro e lasciò gli uffici.

Per qualche istante rimase immobile, in piedi sotto il cielo — o meglio sotto l’immensa volta di metalglas — che soffondeva luce perlacea sul Grosvenor Center. C’erano negozi, un ristorante, una biblioteca, e di fronte a lui un teatro: una vasta struttura ad alveare fitta di celle singole, ciascuna con il suo apparato video. Stavano programmando qualcosa chiamato Le glorie della Stasi. Ricordava la recensione: due ore di prosa dedicata a fantasie poetiche sui pomeriggi eterni, sulle rose che mai sfioriscono, e sulla perpetua giovinezza. Forse l’avrebbe vista, pensò. Dopotutto non era di questo che aveva bisogno: veder riaffermata l’immutabilità delle cose, e sapere qual era il suo posto in quell’eterna società?

Quant’era rassicurante il Grosvenor Center! La gente si spostava da un luogo all’altro, mai affrettandosi, mai con andatura scomposta, ciascuno consapevole del posto in cui stava andando e del posto da cui proveniva. Tutti con l’identico vestito, con l’identico passo, i piedi rettangolari sicuri e rigidi, le membra tubolari in meccanica oscillazione, gli abiti cono-su-cono che non si piegavano, non si sgualcivano, non aderivano in nessun punto al corpo…

Scese dalla piattaforma.

… e celate sotto il mantello dell’intimità le loro mani erano piatte e tese, inutilizzate salvo in caso di necessità — così come gli uccelli usavano e ripiegavano le ali — e nascoste allorché dovevano lavorare, così come venivano ricoperti i meccanismi mobili. E dovunque il suo sguardo poteva spingersi questa gente sana era corretta quanto identificabile. Non ci si trovava mai nel dubbio perché un uomo accuratamente sbarbato era un Celibe come lui, e i lunghi capelli sciolti indicavano una Nubile, e quelli annodati dietro la nuca una Madre, mentre gli uomini barbati erano ovviamente Privati.

Nobile titolo, Privato… costante memento dei grandi ideali dell’Intimità, della privata riservatezza, in cui c’era l’essenza dell’ordine universale. Il termine era nato, come si insegnava, fra la stessa gente che negli anni della barbarie aveva formato una grande folla: eserciti di persone pacificamente organizzate, le quali avevano reagito al caos esterno con l’ideale ritiro nel Privato. Coraggiosi a quel tempo e magnifici oggi. Si volse alle file dei transplat e sentì un impeto di orgoglio. Qualcuno aveva usato il termine «chiavi di volta». Una buona definizione. Perché i transplat coprivano il pianeta come un’immensa rete, standardizzando il linguaggio, i vestiti, le usanze e le ambizioni. Ogni punto della Terra si trovava appena a pochi passi e ad una frazione di secondo da tutti gli altri, ed ogni risorsa era vicina alle mani guantate che la cercavano. Un tempo lui aveva nutrito una certa curiosità circa la conformazione dei luoghi e le distanze geografiche. Presto se n’era disinteressato, come di una cosa inutile. Che importanza aveva se gli uffici della ditta erano nel Vecchio Nuovo Messico, e la sua casa dalle parti di quella che una volta era stata Filadelfia? Poteva essere rilevante il fatto che la Nubile Corson arrivava ogni mattina dalla Polonia Tedesca, e la Nubile Hall, segretaria del Privato, la sera andava a dormire a Karachi?

La popolazione era stata stabilizzata sotto i limiti delle risorse. C’era abbastanza rame da fornire energia per sette secoli ancora: rame che, si diceva, un tempo veniva usato per veicolare deboli impulsi elettrici. E quando il rame fosse finito sarebbe stato facile sintetizzarne altro. Il cibo — quella spiacevole e segreta, ma ahimè necessaria cosa — non era più un problema. E per ristorare la mente e il cuore c’erano le astronavi, che ruggivano via verso le stelle e tornavano dopo anni, portando strani fossili e buffe pietre, in lenti viaggi di andata e ritorno in cui gli equipaggi invecchiavano ma che arricchivano il mondo.

Un tempo, Roan lo sapeva, s’era parlato di transplat interplanetari; però era risultato chiaro che l’effetto era possibile soltanto in un campo gravitazionale di «viscosità» planetaria. Terminato l’enorme sforzo costruttivo per istallare la Centrale Transplat, il sistema poteva essere esteso in ogni angolo del globo, ma non fra i pianeti. E questo era un bene, com’era solito dirgli suo padre. Cosa sarebbe accaduto alla loro struttura culturale meravigliosamente bilanciata, se d’improvviso l’umanità fosse stata libera di disperdersi nell’universo come ora si disperdeva ai quattro angoli del mondo? E perché poi andarsene? Cosa poteva esserci di attraente per chiunque (salvo che per uno spaziale squilibrato) fuori dalla Terra?

Ricordava d’aver letto una dichiarazione: Una razza capace di edificare la perfezione al punto in cui l’abbiamo edificata noi, è una razza capace di mantenerla per sempre. Erano occorsi quindicimila anni perché l’umanità uscisse dalla preistoria, popolando la Terra per poi distruggerla durante una guerra spaventosa. Erano occorsi cinquecento anni per concentrare le poche centinaia di migliaia di sopravvissuti in Africa, l’unico continente dove l’uomo poteva ancora vivere. Erano occorsi seicento anni alla Colonia Africana per raggiungere il livello tecnologico che aveva prodotto il transplat. Ma tutto ciò era successo soltanto centocinquant’anni addietro. La tecnologia del transplat poteva costruire una città in pochi giorni, montarla su una piattaforma indistruttibile e spostarla ovunque, oppure proteggerla con cupole a prova di radiazioni dove fosse necessario. La gente poteva stabilirsi ovunque… e lo faceva. La gente poteva lavorare la terra per le sue risorse quasi ovunque… e lo faceva.

Roan sospirò, sentendosi già molto meglio. Distolse lo sguardo dal calmo e indaffarato Grosvenor Center e pigramente contemplò ciò che era visibile dell’orizzonte. Una montagna incappucciata di neve si levava come una nuvola in lontananza, e dalla parte opposta c’era un mare, esteso a perdita d’occhio. Si chiese di quale montagna e di quale mare potesse trattarsi, e rise. Erano particolari ormai poco importanti per un uomo, per l’intera umanità.

Passeggiò per il Grosvenor Center da un capo all’altro, soddisfatto, orgoglioso. Era giovane e pieno di vita, ed era un buon partito… forse capitava a tutti di perdersi in allucinazioni come quella della sua visione bionda, quando giungeva quel periodo della vita. Il matrimonio, dopotutto, racchiudeva un certo animalesco mistero, e come quello del suo negozio di fioraio, dove ripuliva il corpo e i denti e si nutriva di cibi concentrati, esso non poteva venir fatto oggetto di discussione. Avrebbe dovuto aspettare e vedere; al momento giusto quel mistero gli si sarebbe spiegato da solo, come probabilmente accadeva a tutti quanti.

Uscì nel viale centrale sentendo di amare ogni persona al mondo e, per un momento, perfino Nonnina.

Nonnina! Si fermò e chiuse gli occhi, il volto contratto in una smorfia. S’era quasi dimenticato di lei. Be’, che aspettasse e fiorisse! Quel mattino lui aveva passato dei brutti momenti, e il solo pensiero di Nonnina adesso gli riusciva insopportabile. Chi mai, dopo essersi appena tirato fuori da una mattina di sofferente umiliazione, avrebbe voluto trovarsi di fronte quel monolito di rispettabilità? Inoltre, quelle visite gli erano insopportabili. Avrebbe chiesto a sua sorella Valerie di andarci lei. Qualcuno della famiglia doveva addossarsi quella visita, una volta alla settimana. Il perché non lo sapeva, né l’aveva mai domandato. Che ci pensasse Valerie. A cosa serviva avere una sorella se non la si poteva mandare a fare un lavoro spiacevole una volta ogni tanto?

Attraversò il viale, entrò in una cabina e formò sul videophon il numero di Valerie. Gettò un’occhiata all’orologio: doveva esser già rientrata per la pausa di mezzogiorno.

Era in casa. Ma appena vide la sua faccia disse: — Roan Walsh, se hai chiamato per scaricarmi addosso la visita a Nonnina è meglio che tu non ci provi neppure. Io faccio già il mio dovere verso la famiglia, e che sia benedetta se riesco a vedere una ragione per cui dovrei fare di più, o per cui tu dovresti fare di meno. Perciò non dire una parola. — Lui aprì bocca, ma prima che potesse fiatare lei lo precedette: — Guarda di non arrivare in ritardo da lei. E soprattutto non arrivare in anticipo.

Roan aprì di nuovo la bocca, ma lo schermo era diventato nero.

Di nuovo fuori nella luce filtrata del sole lasciò che il suo malumore sfumasse in un freddo divertimento. Era un umore abbastanza raro in lui, un miscuglio di risentimento cerebrale e conscio autocontrollo. Come aveva fatto la razza umana, si chiese, a crescere così meravigliosamente? Be’, interrogandosi su ciò che andava bene e ciò che non andava… e quando le cose non andavano l’uomo le cambiava finché non funzionavano. E adesso tutto quanto andava bene per lui. Tutto salvo questa faccenda di Nonnina. La domanda era: perché doveva far visita a Nonnina? La risposta: perché qualcuno doveva farlo. Ma questa non era una risposta. Girandola in un altro modo, allora: cosa sarebbe successo se non ci fosse andato?

Avanzò con passi misurati sul marciapiede, sostenendo a testa alta gli sguardi di chi veniva in senso opposto. Ma l’umore divertito e orgoglioso gli durò appena pochi minuti ancora, perché la risposta alla domanda «Cosa sarebbe successo se non fosse andato?» era:

Dalla Madre, quel suo sguardo ferito e una valanga di piccole penitenze.

Da Val, silenziose recriminazioni e battute petulanti, un giorno dopo l’altro.

E dal Privato, tuoni e fulmini. E addio alla partecipazione nella ditta. Be’, ai germogli la partecipazione!

Su quel pensiero smise di camminare. Cosa resta da fare a uno che abbandoni gli affari e le attività della famiglia?

Non conosceva nessuno che l’avesse fatto. E dove avrebbe potuto andare? Quale altra vita avrebbe scelto?

Ma l’altra metà di lui stesso lo sfidava: Ah, piantala! Non vorrai saltare qua e là per il Cosmo, per risparmiare a te stesso un’oretta con quella vecchia donna?

Roan non rispose a quella vocina, così essa continuò: E infine, cos’hai tu contro Nonnina?

— È una seccatura — disse Roan ad alta voce. Si volse ed entrò in un negozio di decoratore.

Che cosa? lo sfidò il Roan interiore.

— Comprare qualcosa per Nonnina — replicò. E la voce interna, maledetti i suoi petali, ridacchiò e disse: — Sai una cosa, Roan? Sei uno sciocco codardo.

Il decoratore era un vecchio Celibe dall’aria contegnosa. Roan acquistò rose e giunchiglie ibride, pagò e si diresse alla porta. A un tratto cedette a un impulso di quel suo strano umore e tornò dentro. — Come venivano chiamate queste botteghe dove vendete rose, prima di metterci l’insegna decoratore? — domandò.

L’uomo emise un nitrito da soprano che a fatica Roan identificò come una risatina. S’appoggiò al banco, gettò uno sguardo cauto a destra e a sinistra, e in tono confidenziale sussurrò: — Fiorista! — E il suo volto si contrasse in un’improvvisa angoscia, mentre sulle palpebre gli luccicavano due lacrime.

Roan attese pazientemente che l’uomo si calmasse, poi chiese: — Ma allora, perché adesso chiamano fiorista quel posto lei-sa-quale?

Questo rese l’uomo di nuovo flemmatico. Si grattò la pallida testa calva. — Non saprei. Suppongo sia perché, comunque lo chiamassero prima, la gente diceva battute o imprecazioni su quelle cose. Come adesso con… i negozi di fiorista.

Roan ebbe un fremito, di cui non comprese bene il motivo; ma con esso penetrò in lui la sensazione d’esser giunto attraverso un sentiero melmoso a una grande verità, e per un motivo indefinibile seppe che non avrebbe mai più motteggiato o imprecato sui negozi di fiorista. Né su qualunque altro nuovo nome avessero dato alla faccenda dopo che quello fosse diventato un nome troppo sporco. Accigliato constatò: — Dev’esserci qualcos’altro su cui dire una battuta spinta o imprecare, no?

L’uomo considerò la domanda con accigliata perplessità, quindi scosse le spalle. A Roan parve un gesto disgustato e di rimprovero, come quello che suo padre gli aveva rivolto anni addietro, quando ancora non aveva imparato a tenersi in bocca certe curiosità. Gli aveva fatto varie domande sui transplat, finché ad un tratto non s’era più trattenuto dal chiedergli come funzionava la faccenda. Il Privato s’era azzittito, aveva esitato, quindi le sue spalle s’erano scosse nello stesso gesto, il cui significato era: «Le cose vanno così perché vanno così, e basta».

Tornando alla zona dei transplat, Roan si fermò davanti a una vetrina dove s’erano radunate alcune persone. Era un negozio di recente apertura, la cui insegna diceva: GIOCHI E PASSATEMPI. Da ragazzo s’era, segretamente, sciolto le dita su una quantità di giochi d’abilità: fasci di bastoncelli da costruzione, labirinti mobili, cordoni da annodare in piatte strisce colorate che poi risultavano del tutto inutili e rompicapo di vario genere. I passanti stavano fissando l’oggetto esposto.

Si trattava di due mani meccaniche, ovviamente guantate, che manovravano due stecchi di ferro dal cui continuo intrecciarsi nasceva una morbida striscia piatta di quello che sembrava tessuto. Nessuno avrebbe osato compiere quei gesti all’aperto, ma la simulazione meccanica era accettabile, anche se qualcuno ridacchiava imbarazzato.

All’interno, su una scaffalatura, erano deposti molti esempi del materiale che si poteva produrre con l’esercizio dei due ferri. Roan entrò, e quando fu certo che il mantello l’avrebbe protetto dagli sguardi altrui sporse una mano per tastare una di quelle strisce morbide.

Il filo con cui era stata tessuta risultava compatto, grazie al suo singolare metodo d’intreccio, e gli parve un risultato interessante. Gli si ripiegava mollemente intorno alla mano come un… come un…

— Quanto costa? Che cos’è — domandò alla commessa.

La donna gli si avvicinò: — Lo chiamavano «lavoro a maglia».

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