Trecento anni fa il Mondo Emerso è stato travolto da un conflitto interminabile che le otto Terre hanno condotto l’una contro l’altra per il predominio assoluto: la guerra dei Duecento Anni.
All’epoca la Terra dei Giorni era popolata dai mezzelfi, discendenti dalla fusione tra gli elfi, antichi abitatori del Mondo Emerso, e gli umani. Erano un popolo pacifico, dedito alla scienza e alla sapienza, e per molto tempo non intervennero nelle ostilità. Ciò nonostante, grazie alla loro agilità erano particolarmente dotati per le arti del combattimento. Leven, il loro re più ambizioso, determinato ad allargare il proprio dominio, decise di mettere a frutto quella attitudine.
I mezzelfi non combattevano da secoli, ma il sovrano era uno straordinario stratega: in pochi anni il suo divenne l’esercito più potente del Mondo Emerso e vinse su tutte le altre Terre. Leven non riuscì però a godere del suo potere: morì infatti poco dopo la vittoria finale lasciando il nuovo regno al figlio Nammen.
Incoronato, Nammen convocò i regnanti del Mondo Emerso. I re sconfitti si presentarono al suo cospetto rassegnati a obbedire, ma il giovane re li stupì. «Non voglio il potere che mio padre ha costruito sul sangue» disse. «Le otto Terre torneranno libere.» Poi dettò le sue condizioni.
Ciascuna Terra doveva rinunciare a un territorio, l’unione dei quali avrebbe dato vita alla Grande Terra. Là avrebbero avuto sede il Consiglio dei Re, che avrebbe deciso della politica comune del Mondo Emerso, e il Consiglio dei Maghi, che si sarebbe occupato della vita scientifica e culturale. Nei due Consigli avrebbero trovato posto i rappresentanti di ogni Terra, ognuna delle quali avrebbe poi contribuito all’esercito del Mondo Emerso. Nammen dichiarò infine decaduti tutti i re allora in carica, affinché ciascun popolo scegliesse i propri regnanti.
Tutte le sue volontà vennero realizzate.
Delle tante atrocità del Tiranno, la più terribile fu lo sterminio del popolo dei mezzelfi. Ci volle un mese perché la Terra dei Giorni fosse ridotta a un deserto. I sopravvissuti alla strage cercarono asilo […]
Alla fine dell’anno erano ancora vivi solo un centinaio di mezzelfi. Avevano costituito una colonia nella Terra del Mare, ma quando l’esercito delle Terre libere perse il controllo sul territorio […] i fammin provvidero alla soluzione finale.
Nihal passò una settimana in cella. Non pensò a niente, non provò niente. Dormì, recuperò le forze. Il giorno in cui venne scarcerata era pronta per ricominciare.
Quando fu condotta fuori dall’Accademia si stupì. «Non mi dovrebbe essere assegnato un drago?» chiese alla sua guida, un ragazzo poco più grande di lei.
«Prima dovrai conoscere il tuo maestro. È il Cavaliere di Drago con il quale vivrai d’ora in poi. Sarà lui a insegnarti tutto, compreso come domare il tuo drago.»
«Ma i cavalieri che non combattono non stanno all’Accademia?»
«Infatti, quelli che non combattono. Però non tutti gli allievi vengono assegnati a un cavaliere che non combatte. La battaglia di Therorn, poi, ha cambiato un po’ le cose. In Accademia non ci sono abbastanza maestri. Molti sono partiti per il fronte.»
Nihal e la guida raggiunsero le stalle, presero due cavalli e si misero in viaggio.
Percorsero la Terra del Sole verso sud, dove erano i fronti aperti.
La guida di Nihal amava correre. Galopparono a lungo attraverso una zona boscosa, a briglia sciolta. Per quel che riguardava lei, né il panorama né la corsa la interessavano davvero: di regioni boschive ne aveva viste a sufficienza, e le uniche corse che potevano esaltarla ora erano quelle in groppa a un drago. Pensò che in fin dei conti era un bene che il suo nuovo maestro combattesse: avrebbe avuto più possibilità di scendere di nuovo in battaglia. Non desiderava altro.
Dopo mezza giornata di viaggio fecero una sosta: gli animali erano stanchi e la meta ancora lontana. Si fermarono a mangiare nei pressi di un ruscello. Il cibo rese la guida loquace.
«Sei tu il mezzelfo che nell’ultima battaglia ha fatto fuori un sacco di fammin, giusto?».
Nihal non aveva affatto voglia di parlare. Non staccò gli occhi dalla sua razione.
«Hai perso la lingua?»
La ragazza si alzò. «Scusami. Ho bisogno di sgranchirmi le gambe.»
«Fa’ un po’ come ti pare» disse tra sé e sé la guida.
Nihal si mise a girovagare per il bosco.
Era da quando aveva lasciato la Terra del Vento che non si ritrovava in una foresta: nonostante l’autunno stesse già cambiando i colori degli alberi, tutto le parve splendido. Camminava calpestando un tappeto di foglie cadute, sentendone la morbidezza sotto i piedi. Come sarebbe stato bello dissolversi in quel mare di foglie, ritornare a essere solo natura…
Un rumore la fece voltare di scatto. Qualcosa si agitava tra i rami. Sguainò silenziosa la spada, si diresse verso un cespuglio e colpì le fronde con un fendente deciso.
Un folletto schizzò fuori spaventato.
«Ehi! Accidenti a te! Mi vuoi ammazzare? Io a voi spadaccini vi manderei tutti…» Il folletto fece una pausa. «Nihal?»
«Phos!»
Phos iniziò a volteggiarle intorno contento, cantando il suo nome e facendole le feste. Nihal gli sorrise, ma dopo un paio di capriole il folletto si fermò e la guardò negli occhi. «Che cosa c’è che non va?»
«Niente.»
«Senti, si vede lontano un miglio che stai male.»
Nihal si sedette su un tronco.
«Che cosa ci fai nella Terra del Sole, Phos?»
Il folletto le svolazzò in grembo. «Non ne potevamo più della Terra dell’Acqua. Quelle stupide ninfe stavano sempre a comandarci! Così abbiamo fatto fagotto e siamo partiti.»
«È un bel posto, qui.»
«Lo pensavamo anche noi. La natura è fresca e vitale, c’è persino un albero come il Padre della Foresta, e non ci sono ninfe aguzzine… ma poi…»
«Poi?»
«Poi sono arrivati gli uomini. Ci catturano e ci usano come spie. All’inizio alcuni di noi si sono uniti spontaneamente all’esercito. Sai, volevamo dare una mano. Ma quando gli uomini hanno visto quanto eravamo utili hanno iniziato a rapirci. Per questo sto andando a Makrat. Voglio far sentire la nostra voce al Consiglio dei Maghi. Non è giusto che i folletti non siano rappresentati.»
Nihal ascoltava, ma non riusciva a sentirsi partecipe. Le parve di essere insensibile, come se tutte le sue emozioni avessero preso il volo.
«Sennar è consigliere, va’ da lui. È in partenza per la Terra del Vento, ma credo che per qualche giorno lo troverai ancora a Makrat.»
Phos batté le manine con entusiasmo. «Sei davvero un’amica!» Poi si levò in volo e le si avvicinò al viso. «Perché non vuoi dirmi che cos’hai?»
Nihal si alzò. «Devo andare, Phos. Alla prossima.»
«Aspetta! Forse ti posso aiutare!»
Ma Nihal si era già allontanata.
Viaggiarono ancora per tutto il pomeriggio e al tramonto videro il sole adagiarsi sulla coltre degli alberi. Era già buio pesto quando giunsero all’ingresso di un accampamento. Scesero da cavallo e si avvicinarono a un soldato di guardia.
«Sono qui per Ido, questo è il suo allievo» fece la guida.
«In fondo al campo» rispose la sentinella.
La guida si rivolse a Nihal. «Il mio compito finisce qui. Puoi andare da lui anche da sola. Buona fortuna, mezzelfo.»
Nihal porse le redini del suo cavallo al ragazzo ed entrò senza una parola.
Il campo era immenso. Si trattava dell’accampamento principale della Terra del Sole, dove risiedevano i generali e gli strateghi. Non era una base provvisoria, ma una vera cittadella fortificata. Una palizzata rozza ma robusta circondava il suo perimetro, di cui non si riusciva a vedere la fine. La maggioranza delle case erano capanne in legno e c’era addirittura un’arena come quella dell’Accademia.
Nihal dovette chiedere più volte per trovare l’alloggio di Ido, finché non le venne indicata una casetta malmessa e trasandata. Vi si diresse con decisione, ma quando arrivò davanti alla porta la sua spavalderia venne meno. Era agitata: stava per conoscere il suo maestro, colui che le avrebbe insegnato davvero a combattere.
Esitò un istante, deglutì e bussò.
Non rispose nessuno, ma appena Nihal appoggiò la mano la porta si aprì con un cigolio.
L’interno era ancora peggio dell’esterno: vestiti accumulati in ogni angolo, armi gettate alla rinfusa, avanzi di cibo ed erbe di ogni sorta abbandonati sul tavolo e sul pavimento.
Dalla penombra arrivò una voce indolente: «Chi è?».
«Sono… sono l’allievo…»
«Il che?»
Nihal avanzò, titubante. «L’allievo che vi è stato assegnato…»
Vederlo e ammutolire furono una sola cosa.
Buttato su un letto sfatto, in mezzo alle coltri appallottolate, c’era uno gnomo intento a fumare una pipa.
Sfoggiava una lunga barba, baffi che finivano in due spesse trecce e una selva di capelli arruffati, anch’essi ingentiliti, se così si può dire, da una serie di treccine sparse. Nihal valutò che in piedi doveva arrivarle più o meno al seno. Era esterrefatta.
Lo gnomo sbadigliò e prese a stiracchiarsi così platealmente che la pipa gli cadde di mano sparpagliando a terra il suo contenuto. Allora si alzò di scatto e iniziò a battere col piede sulla brace, mormorando una salva di improperi.
Ci volle un po’ perché Nihal ritrovasse la voce per parlare. «Stavo cercando Ido… il Cavaliere di Drago…»
«E l’hai trovato. Chi hai detto che sei?»
Un Cavaliere di Drago? Quello lì?
«L’allievo, signore.»
Lo gnomo si mise a guardarla. Sembrava perplesso. «L’allievo? Veramente mi avevano detto che sarebbe arrivato uno scudiero oggi, non un allievo. E poi, scusa, non sei una ragazza?»
Nihal alzò il mento con orgoglio. «Sì, sono una ragazza, e allora?»
«Allora, dannazione, ai miei tempi le ragazze non combattevano. Non facevano neppure gli scudieri, se è per questo. E non sono poi tanto vecchio!»
Si sedette sul letto e riaccese la pipa.
«Tu poi, a occhio e croce, non sei un’umana. Di che razza sei? Sembreresti un… mezzelfo?»
«Sono l’ultimo mezzelfo del Mondo Emerso, signore. Devo dedurre che voi invece siete uno… gnomo?»
«Oh, accidenti, piantala con tutte queste formalità! Mi fai sentire decrepito. Dammi del tu e spiegami bene questa faccenda dell’allievo. Ah, cercati da sedere. Da qualche parte ci sono delle sedie. Sono ben camuffate, ma ci sono.»
Nihal si guardò intorno e scorse uno sgabello sotto una montagna di panni. Ci si sedette sopra senza spostarli.
«Be’? Allora? Parla» la esortò lo gnomo.
Nihal si decise. «Arrivo dall’Accademia. Una settimana fa ho superato la prova della battaglia e devo finire il mio addestramento. Mi hanno spedita qui perché nella battaglia a cui ho partecipato sono morti due cavalieri e altri sono rimasti feriti. E allora… insomma… sono stata affidata a te. Credo.»
Ido la ascoltò emettendo dalla sua pipa una raffica di nuvolette bianche. Poi si diede una gran botta sulla fronte. «Ma certo, la battaglia di Therorn! Quella in cui è morto Fen, dico bene?»
Nihal annuì.
«Sicché vieni dall’Accademia. Qualcuno mi aveva parlato di una ragazzina che era diventata allieva. E pensare che io non ci credevo!» Ido ridacchiò. «Ma tu guarda! Quel pallone gonfiato di Raven che permette una simile sconcezza! Evidentemente le cose sono cambiate. Be’, che dire? Sinceramente non ricordo se qualcuno mi ha detto che avrei avuto un allievo. Forse sì. Comunque, a quanto pare mi tocca. Come ti chiami?»
«Nihal.»
«Non è un nome da mezzelfo.»
«Perché, hai conosciuto dei mezzelfi?»
«No, non direttamente» tagliò corto Ido. «Come mai questo nome assurdo?»
«Me l’ha dato mio padre.»
«Da quanto tempo ti addestri?»
«Da sempre: mio padre era un armaiolo. Poi fino a sedici anni mi sono allenata con Fen e un anno fa sono entrata all’Accademia.»
Ido la scrutò con attenzione. «Mi dispiace per Fen: abbiamo combattuto insieme un paio di volte. Gran guerriero.»
Nihal non disse nulla.
La conversazione prese la forma di un interrogatorio: Nihal rispondeva lo stretto necessario e Ido ribatteva per cercare di capire qualcosa di più di quella strana ragazza.
«E così hai superato la battaglia tutta intera.»
«Alcuni dicono che mi sono comportata bene.»
«Fortuna, nient’altro. Ho visto molti giovani valorosi morire alla prima battaglia, ragazzi sul cui luminoso avvenire si scommetteva. Gente in gamba, insomma.»
Ido vuotò la pipa battendola rumorosamente contro la testiera del letto.
«Del resto anche dopo ci si salva sostanzialmente grazie alla fortuna. Sul campo di battaglia la morte gioca a dadi con il destino di ognuno.»
Nihal si sentì offesa da quel discorso, ma non disse nulla.
Tutta la situazione le sembrava assurda. Quell’omino che le stava davanti, quella stanza disordinata… Niente era come si aspettava.
«Senti, per stasera fai un po’ quello che vuoi. Fatti un giro per il campo, se ti va. Io intanto sento il comando e ti trovo un posto per dormire. Va’, ora.»
La ragazza uscì dalla capanna con un senso di liberazione.
Mentre Nihal gironzolava per l’accampamento, Ido si diresse a grandi falcate verso il comando.
«Cos’è, siete ammattiti?»
Nelgar, il responsabile della cittadella, era serissimo. «No, Ido. È la tua allieva.»
«Sentimi bene. Io non posso avere allievi, né tanto meno allievi come quella… ragazzina! Di’ pure a Raven che se crede che io me la accolli… be’, gli ha dato di volta il cervello!»
«Non so che dirti, Ido. La mezzelfo sarà il tuo primo allievo. Non te l’ho comunicato prima perché sapevo come avresti reagito. E comunque lo sai: non puoi tirarti indietro.»
«Supremo Generale dei miei stivali! Ha voluto prendere due piccioni con una fava! Mi ha affibbiato quella zavorra con le orecchie a punta e così si è tolto dai piedi due personaggi scomodi. Mi ha incastrato davvero bene…»
Ido tornò nel suo alloggio. Era furente: l’idea di avere un allievo non gli piaceva neanche un po’. Era l’unico Cavaliere di Drago appartenente alla razza degli gnomi, dopo tanto tempo aveva finalmente trovato il suo posto in quell’esercito… e ora tutto cambiava! E poi, dannazione, un mezzelfo! Non sarebbe mai finita quella storia?
Si chiese cosa fare. Rispedirla al mittente era fuori discussione. Con Raven non era il caso di scherzare.
E poi, a dirla tutta, quella ragazza l’aveva colpito. Stare con lei era rischioso, poco ma sicuro.
Però, in fondo, perché non allenarla? Poteva essere divertente.
La ragazza gli era parsa decisa. Aveva negli occhi una strana luce. Dolore, forse? Comunque lo interessava. Forse la cosa migliore era valutare che tipo fosse e decidere se fosse il caso di addestrarla o no. Alla peggio poteva sempre dire che non l’aveva trovata abbastanza brava per continuare.
Quando andò a cercarla dovette faticare per trovarla. Alla fine la vide seduta su una pietra ai margini del bosco che circondava la cittadella.
«Ti piace la solitudine.»
Non era una domanda.
Nihal si voltò.
«Andiamo a mangiare, forza.»
Nihal lo seguì senza dire nulla.
Cenarono in silenzio nella grande tenda che fungeva da mensa per tutto il campo.
Sulla strada verso l’alloggio dello gnomo incontrarono l’arena. Era un grande spiazzo circolare in terra battuta. Tutto intorno si levavano degli spalti in legno. La fontanella di un abbeveratoio gorgogliava nel buio.
Nihal si fermò a guardarla mentre Ido procedeva imperterrito.
«Quando arriva il mio drago?» chiese. Erano le prime parole che pronunciava da ore.
Ido si fermò e si lisciò la barba. «Il tuo drago? Non ne ho la più pallida idea.»
Quando Ido le mostrò il letto, Nihal lo guardò sorpresa.
«Tu dove dormirai?»
«Non ti preoccupare. Mi sono preparato una branda nell’ingresso.»
Nihal scosse la testa. «No, questa è la tua capanna, e quello è il tuo letto. Il cavaliere sei tu, io sono l’allievo. Dormirò io nell’ingresso.»
«Non se ne parla. Per uno gnomo l’ospitalità è la prima cosa.»
«Ma…»
«Niente ma, allieva. È un ordine.»
Ido se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.
Nihal rimase sola. Si tolse i vestiti, pensando che l’indomani avrebbe dovuto trovare il modo di lavarli. Poi si sedette sul letto. Si dondolò su e giù un paio di volte. Era una vita che non dormiva su un letto vero: si distese con la spada al fianco e chiuse gli occhi, godendosi la sensazione della lana morbida del materasso.
Scivolò lentamente in un sonno dominato dal viso sereno di Fen.
Il giorno seguente la cittadella sembrava un immenso pantano.
Quando si svegliò, Nihal pensò che fosse ancora notte, poi si accorse del rumore di pioggia battente sul tetto. Guardò fuori dalla finestra: il cielo era nero di nuvole. Le toccava passare l’intera giornata lì dentro con un tizio che le ispirava poca fiducia e di cui non aveva affatto stima.
Pensò di barricarsi in camera e dare una lavata al mantello, ma i suoi programmi furono stravolti dalla voce di Ido che tuonava da dietro la porta.
«Si può?»
«No!»
«Preparati che si esce!»
Si esce? Nihal si vestì in fretta e furia e balzò fuori dalla stanza. «E dove andiamo? Piove!»
«Non mi risulta che una guerra si sia mai fermata per la pioggia. Gli esseri di questo mondo si ammazzano con il bello e con il cattivo tempo, mia cara» disse Ido, quindi si voltò e si diresse verso il tavolo, dove era pronta la colazione.
«Mangia. È bene mandare giù qualcosa prima di una giornata intensa» disse intingendo in una scodella del pane nero. «Quando avrai finito, mi farai vedere come te la cavi in combattimento.»
Nihal era allibita: la mandavano ad addestrarsi con un mezzo uomo che si voleva allenare sotto la pioggia e non sapeva nulla del suo drago.
«Io non credo che sia opportuno combattere, oggi» disse in tono irritato.
Ido guardò Nihal da sopra la scodella. Poi, con tutta calma, posò la fetta di pane, diede un ultimo sorso rumoroso e si pulì i baffi. «Lo so cosa stai pensando, ragazzina: cosa può insegnarmi uno gnomo? Be’, ti sbagli, e te ne accorgerai. E comunque questo è quel che passa il convento. Se non ti piace, vattene. Ma se resti, ricordati che esigo rispetto: io sono un cavaliere, tu non sei nessuno. Ora fa’ pure la tua scelta.»
Ido riprese a mangiare. Nihal restò immobile per qualche istante, quindi si sedette: se voleva combattere doveva fare buon viso a cattivo gioco. Prese la sua scodella. Non sapeva cosa contenesse, ma era così buono che lo spazzolò tutto.
Terminata la colazione uscirono. La pioggia si era fatta fitta e sottile.
Nihal si avvolse nel mantello, si coprì la testa e seguì Ido, che non si curava delle gocce d’acqua che gli scivolavano sul volto e sulla barba.
L’arena era vuota.
«Con che cosa combatti?» le chiese lo gnomo.
Nihal si tolse a malincuore il mantello e mostrò la sua spada.
«Cristallo nero. Un’arma notevole.»
«Me l’ha fabbricata mio padre.»
«Armaiolo decisamente abile…» commentò Ido, e sguainò la sua lama. Era un’arma lunga e sottile, o forse sembrava così perché Ido era basso, e aveva l’elsa ricoperta di fregi e simboli, alcuni dei quali grattati via a forza dal legno.
Ido la roteò in aria per qualche istante. Nihal pensò che stesse saggiando la presa, e invece all’improvviso si vide arrivare dall’alto un fendente. Lo schivò, ma perse l’equilibrio e cadde.
«Be’, è tutto qui?»
Nihal si rialzò furibonda. «Credevo che mi lasciassi il tempo di prepararmi!»
«Ah, sì? Questo non è uno di quei balletti a cui vi abituano all’Accademia. Io voglio vedere come combatti in battaglia, quindi dimenticati i manuali di galateo.»
Lo gnomo non aveva ancora finito la frase che già aveva ripreso ad attaccare.
Nihal iniziò a controbattere, ma era stata presa alla sprovvista: si sentiva impacciata, era infastidita dalla pioggia e duellava con scarsa convinzione. All’improvviso le arrivò uno schizzo di fango negli occhi. Istintivamente portò le mani al viso. Ido ne approfittò per farle uno sgambetto. Quando Nihal riaprì gli occhi era sdraiata a terra e aveva la spada di Ido puntata alla gola. «Questo non è leale!» sbottò.
«Vedo che non mi sono spiegato: io faccio sul serio, tu no. Qui non ci sono regole da rispettare: questa è guerra. Vedi di batterti come si deve o alla prossima stoccata, quanto è vera la terra su cui poggio i piedi, ti passo da parte a parte. Alzati!»
Ido non scherzava, Nihal lo capì dal suo sguardo. Ma cosa crede, questa specie di ometto? Si rimise in piedi con un salto e iniziò a combattere con foga.
Ido non si scompose. Il suo modo di battersi era stupefacente: stava quasi fermo e schivava raramente con lievi spostamenti laterali, muovendo solo la mano che stringeva l’elsa. La sua arte era tutta lì: tirava con precisione, giocando con la lama avversaria, stuzzicandola, colpendola. Poi al momento giusto partiva l’affondo, totalmente inaspettato.
Nihal iniziò a irritarsi. Era come se quel tizio conoscesse in anticipo le sue mosse. La forza non c’entrava: la sua sembrava solo abilità di polso. Se Nihal cercava di avvicinarglisi, lui la teneva a bada. Se tentava un attacco dall’alto, Ido lo parava senza difficoltà.
Dopo che ebbe dato fondo alla sua riserva di tattiche, Nihal gli si avventò addosso con un urlo di rabbia, cercando nuove traiettorie per aggirare la lama dello gnomo.
Allora anche Ido si mosse: si abbassò, le passò fra le gambe e la ribaltò.
Nihal era di nuovo seduta nel fango.
«Va meglio, ma non mi basta. Devi mirare a ferirmi. Ricominciamo.»
Nihal si rialzò. La pioggia le impediva di vedere bene e scivolava sulla melma. Decise di chiudere gli occhi. Riuscì a concentrarsi meglio sul rumore regolare che la sua spada faceva quando incontrava quella di Ido. Cercò di rompere il ritmo colpendo in controtempo, ma lo gnomo si adeguava immediatamente ai cambiamenti di velocità che lei imponeva. Allora tentò di farlo cadere, ma Ido era abile nel mantenere l’avversario a distanza. Alla fine colse l’attimo: fece girare la spada dello gnomo e provò a strappargliela di mano. Ottenne solo che la lama avversaria si sollevasse in alto. Esasperata, gli si gettò contro, ma si accorse di avere un coltello puntato contro il ventre.
«Scommetto che ti hanno già fregato in questo modo» disse Ido con un sorrisetto, mentre riponeva le armi. «Non sei male. Con i fammin e con i guerrieri normali la tua tecnica è più che sufficiente. Un cavaliere però spesso combatte con altri cavalieri, e da questo punto di vista sei scarsina. Poco male, farai esperienza.»
Nihal strinse i pugni.
«Hai un’altra grossa pecca» continuò Ido. «Combatti come una belva ferita. Mai perdere la lucidità in battaglia. Tu invece ti lasci trasportare dall’ira. Ricorda: l’ira acceca il guerriero e gli fa fare errori stupidi. L’ira porta alla tomba.»
Era tutto vero, tutto stramaledettamente vero.
Ido si strizzò la barba fradicia. «Questa pioggia è fastidiosa, rientriamo. Più tardi baderai al mio Vesa, così familiarizzi con i draghi.»
Nihal, grondante e ricoperta di fango, rimase in piedi nell’arena. Guardò lo gnomo allontanarsi.
Forse aveva fatto un errore di valutazione.
Passò gran parte del pomeriggio a osservare la pioggia.
Quando stava all’Accademia, dalla feritoia della sua stanza vedeva solo uno spicchio di cielo, ma ora dalla porta della capanna poteva abbracciarlo tutto con lo sguardo.
Le piaceva la pioggia. Sotto le gocce d’acqua sembrava tutto più calmo, ordinato, pulito. Si sorprese a pensare che Fen fosse parte delle nuvole che vedeva correre lassù, in alto. In quella pioggia c’era un po’ di lui che ritornava sulla terra. Allora sognò di volare via e scomparire anche lei come fumo nel vento.
Ido invece se ne stette sul letto a fumare e a riflettere sulla prima impressione che gli aveva fatto Nihal. Sì, c’era materia per farne un ottimo guerriero, però aveva qualcosa che gli sfuggiva.
Ido si chiese quale segreto si portasse dentro.
La scuderia dei draghi era un edificio largo e imponente che si ergeva al centro della cittadella, poco lontano dall’arena.
Non appena giunse sulla soglia, Nihal sentì il respiro di tutti gli immensi animali che vivevano là dentro. Era emozionata.
Quando entrò, lo spettacolo che le si parò davanti fu straordinario.
L’ambiente era diviso in decine di vaste cavità scavate nelle pareti, in ciascuna delle quali stava un drago. Ce n’erano di tutte le possibili sfumature di verde e di tutte le dimensioni. Alcuni animali erano giganteschi e arrivavano a misurare più di quattro braccia al garrese, altri erano più piccoli e compatti.
Alla ragazza mancò il fiato: quanto desiderava un drago!
Ido si muoveva sicuro, mentre lei lo seguiva avanzando lentamente, quasi stesse profanando un luogo sacro.
Percorsero il lungo corridoio fino alla fine della costruzione, poi lo gnomo si fermò davanti all’ultima nicchia.
Era occupata da un grande drago dal colore insolito: era completamente rosso e le sue iridi gialle bordate di verde spiccavano sul manto scarlatto. Era bellissimo.
Nel vedere la sconosciuta, l’animale si mise subito in guardia, ma Ido gli si avvicinò e gli accarezzò il muso. «Buono, Vesa, non c’è niente da temere. È il mio allievo. Devi fare l’abitudine alla sua presenza.»
Il drago parve calmarsi, ma continuò a guardare in direzione di Nihal sbuffando con le narici. Lei restò lontana.
«È solo preoccupato. Avvicinati.»
Nihal fece qualche passo. Vesa non reagì. Allora si avvicinò di più, si fece coraggio e tese addirittura la mano. Il drago si scostò con aria sdegnata.
Ido scoppiò a ridere. «Non esagerare. Guarda che non è un cagnolino. È un guerriero, e come tale vuole essere trattato.»
A Nihal per un attimo Ido e il suo drago sembrarono molto simili.
Poi le parve di percepire chiaramente quello che il drago stava provando: diffidenza, ma anche curiosità. Quei sentimenti non le appartenevano, eppure li sentiva come se li stesse provando lei. Era la stessa sensazione che aveva avuto all’incontro tra Laio e Sennar.
«Perché ha questo nome?» chiese a Ido.
«Perché è il mio drago, il drago dell’unico gnomo cavaliere. “Vesa” è una parola del dialetto della Terra del Fuoco, da dove vengo. Significa veloce.»
Ido gli montò in groppa con un balzo e Vesa parve volerselo scrollare di dosso per gioco. L’animale cercò di disarcionarlo, ma lo gnomo si resse ritto sul suo dorso. Alla fine capitolò.
«Lo so, lo so: sei sempre tu che comandi» disse schioccandogli una sonora pacca sul fianco. Poi si rivolse a Nihal: «Voglio che oggi sia tu a dargli da mangiare. Il cibo lo trovi là in fondo».
Nihal era intimorita. Ricordava ancora la volta che Gaart aveva cercato di arrostirla con il suo alito di fuoco. Rimase impalata, spostando gli occhi da Vesa a Ido e viceversa.
«Guarda che se hai paura non ti lascerà neppure avvicinare. Devi farti accettare da lui. E un drago ti accetta solo se ti reputa degna. Stampatelo bene in mente per quando arriverà il tuo.»
In un angolo della scuderia c’era una fila di carriole colme di pezzi di carne sanguinolenta.
Nihal ne prese una e la spinse faticosamente fino alla nicchia di Vesa, ma il drago non sembrava interessato al cibo. Continuava a scrutarla con sospetto, soffiando dalle narici dilatate.
Nihal non aveva avuto paura in battaglia e neppure la prima volta che si era trovata faccia a faccia con un fammin. Ma ora era intimorita.
Ido la guardava con le braccia conserte. «Devi stare calma. È come una battaglia. Fagli sentire che sei sicura.»
Nihal deglutì e avanzò di qualche passo.
Vesa emise un brontolio sordo, che diventò una sorta di ruggito quando la ragazza diede segno di volersi avvicinare ancora.
Nihal si fermò. Aveva una fifa blu.
Vesa si rizzò sulle zampe posteriori, in posizione d’attacco. Sembrava che volesse saltarle addosso da un momento all’altro.
«Non mollare la carriola: gliela devi portare sotto il naso.»
Allora Nihal mosse un passo, poi un altro, poi un altro ancora, mentre Vesa protendeva una zampa verso di lei e soffiava a più non posso. Quando si sentì abbastanza vicina, posò la carriola e schizzò via con il cuore in tumulto.
«Come primo giorno può andare.»
Ido si avvicinò a Vesa.
«Povero, povero il mio drago» gli disse in tono canzonatorio mentre gli dava dei buffetti sul muso.
Smise di piovere verso sera, in tempo perché Nihal potesse godersi un tramonto fulgido e bellissimo. Seduta fuori dalla capanna, con la schiena appoggiata alle assi di legno, guardava tra le ciglia socchiuse il sole che bruciava sugli alberi del bosco e si sentiva serena.
Quell’Ido non era poi tanto male. E Vesa era un animale meraviglioso. Forse la sua permanenza nel campo non sarebbe stata infruttuosa.
Le voci arrivarono all’improvviso.
Nihal si strinse istintivamente le tempie con le mani.
L’incendio del tramonto si trasformò nel rogo di Salazar.
Rivide il corpo senza vita di Livon. La pira di Fen che bruciava.
Si sentì scoppiare la testa.
No, no, per favore.
Fu Ido a strapparla al suo incubo. «Coraggio, oggi hai fatto il tuo dovere. È l’ora del rancio.»
Nihal si riscosse, le voci cessarono.
Seguì il suo maestro con la testa leggera.
Per qualche giorno le cose proseguirono tranquille: di mattina Nihal si allenava con la spada insieme a Ido, di pomeriggio prendeva confidenza con Vesa e di sera lucidava le armi del suo maestro.
Ido, per parte sua, non sembrava fare molto. Stava quasi sempre nella sua capanna e solo di tanto in tanto volava via con Vesa. A volte partecipava con gli altri cavalieri alle sedute del comando, durante le quali si decidevano le strategie future.
In realtà, per tutto il tempo studiava la sua allieva.
Quando combattevano percepiva la rabbia di Nihal e in quella rabbia riconosceva qualcosa che gli era appartenuto, in passato.
L’idea di addestrarla, di trasmetterle tutto ciò che anni di combattimento gli avevano insegnato, lo stimolava.
Per di più si trattava di insegnare a un mezzelfo.
Si raccomandava prudenza, ma quell’incarico iniziava a piacergli.
Nihal aveva cercato di farsi un’idea del posto in cui si trovava.
Aveva capito che la cittadella, che tutti chiamavano semplicemente “la base”, era una specie di avamposto da cui partivano missioni di guerra contro i nemici nella Terra dei Giorni.
La scoperta di essere a un passo dalla sua terra natale la colpì.
Ido l’aveva portata su un promontorio. Da lassù si spandeva a perdita d’occhio un panorama di desolazione.
«Ecco. Quella è la terra dei tuoi avi e dei tuoi simili. Anche se forse sarebbe meglio dire “era”.»
La ragazza aveva guardato in silenzio, ma dentro di sé si era detta che, sì, un giorno il suo odio sarebbe traboccato.
E allora tutti i morti avrebbero avuto vendetta.
Erano passati più di venti giorni da quando era arrivata alla base e del suo drago non si aveva ancora nessuna notizia.
Nihal quasi non aveva tempo per pensarci. Trascorreva la maggior parte della giornata in combattimento con Ido. Aveva imparato ad apprezzare il suo maestro: per la sua abilità con la spada, certo, ma anche per il suo carattere. Quasi senza accorgersene era passata dalla diffidenza all’ammirazione.
Una sera, stanca per l’addestramento, Nihal sentì il bisogno di stare all’aria aperta. Uscì dalla capanna e si sdraiò sull’erba a guardare le stelle. Erano migliaia. Pensò a Sennar: a lui piaceva la notte. Quando erano ragazzini avevano passato decine di serate come quella sulla terrazza di Salazar, oppure sul prato dietro la casa di Soana. Sembravano passati mille anni. Poi la mente iniziò a vagare. Fen, Livon, i mezzelfi… Le voci echeggiarono flebili nella sua testa. Ecco le vecchie amiche che tornano.
«Bello il cielo, vero?» Ido sedette a terra, l’immancabile pipa tra i denti.
«È bello davvero…» rispose Nihal. La presenza dello gnomo non la disturbava.
«Toglimi una curiosità.»
Nihal voltò il viso verso di lui.
«Sei una ragazza graziosa, di sicuro non avresti penato a trovare marito…» Ido aspirò una lunga boccata dalla pipa. «La guerra è brutta, Nihal. Perché hai deciso di combattere?»
Nihal inarcò un sopracciglio. «E tu, perché hai deciso di combattere?»
Ido sorrise e sbuffò una nuvola di fumo bianco.
«Io? Io un giorno ho capito la differenza tra quello che è giusto e quello che è sbagliato. Ho capito che la gente del Mondo Emerso aveva diritto alla pace. Allora ho preso la mia spada e l’ho messa al servizio dell’esercito. Tutto qui.»
Nihal non sapeva perché, ma quella sera aveva voglia di parlare. «Io ho sempre saputo dove stavano il bene e il male, fin da piccola. Non ho mai pensato di fare altro che il guerriero.»
«Se c’è una cosa che ho imparato in anni di battaglie, Nihal, è che il bene e il male non stanno mai da una parte sola.»
Nihal scattò a sedere. «Ah, no? Io so solo che il Tiranno vuole distruggere il nostro mondo. E so cosa ha fatto. Ecco dov’è il male. Il sangue versato deve essere riscattato!»
Lo gnomo sbuffò e si coricò sull’erba. «Parli come certi soldatini boriosi…»
«Parlo come mi ha insegnato mio padre. È per lui che combatto, prima di tutto.»
«È lui che ti vuole guerriero?»
«È la sua morte che mi vuole guerriero.»
Ido non disse nulla, ma Nihal non si interruppe. L’argine era stato rotto e lei voleva solo parlare, parlare di tutto quello che non gli aveva mai raccontato: la fine della sua infanzia quel giorno a Salazar, la scoperta delle sue origini, il desiderio di vendetta…
Lo gnomo continuava a fumare in silenzio.
Nihal era certa che capisse: era un guerriero, non poteva non provare le stesse sensazioni.
Le parole le uscivano di bocca una dopo l’altra, la sua storia fluiva nel buio come un ruscello in piena.
«Il Tiranno ha sterminato il mio popolo, Ido. Sono stata trovata tra i corpi ancora caldi dei miei simili quando ero una neonata. Il sangue dei morti ha imbevuto la mia anima, e ora quel sangue lo rivoglio.»
Quando Nihal tacque, Ido si tolse la pipa dalla bocca e si levò a sedere. «Non c’è modo per riscattare chi è morto, Nihal. Non esiste al mondo un tesoro tanto prezioso da riscattare una singola vita. Ora rientriamo, si avvicina l’inverno e comincia a fare freddo.»
Il drago arrivò in un’enorme gabbia di ferro tra lo stupore generale della base. In genere i draghi per i novizi erano giovani e venivano trasportati da un cavaliere che fosse in grado di farsi accettare.
Quello invece viaggiava su un carro accompagnato da tre soldati.
Mentre Nihal si avvicinava ammirata alla gabbia, Ido lo osservò attentamente. Era una bestia splendida: forte e robusto, gli occhi rossi fiammeggianti e il manto di un verde smeraldo vivido come quello delle foglie novelle a primavera. Però…
«Come mai è rinchiuso?» chiese.
Uno dei soldati rispose con un’imprecazione. «Questa bestia è una maledizione!
Non si lascia avvicinare da nessuno. Ha quasi ucciso un cavaliere che aveva provato a montarlo, il bastardo.»
«Ha delle cicatrici.»
«Certo che le ha. Ha già combattuto» rispose un altro soldato. «Il suo padrone è morto in battaglia qualche tempo fa: è quel Dhuval, vi ricordate?»
Ido si sfregò la faccia e scosse la testa. «Nihal…»
La ragazza non staccò gli occhi dal carro. «Sì?»
«Si può sapere che accidenti hai fatto a Raven?»
Nihal si girò con aria interrogativa. «In che senso?»
«Questo drago ha già avuto un cavaliere, che è morto in battaglia: sai che cosa significa?»
Ma Nihal si era di nuovo persa a guardare il suo drago. «Come si chiama?» chiese a uno dei soldati.
«Il suo vecchio padrone lo chiamava Oarf.»
Ido alzò la voce. «Allora, mi ascolti o no?»
Nihal alzò gli occhi al cielo. «Sì, sì… ti ascolto…»
«Un drago a cui è morto il cavaliere non accetta la presenza di nessun altro umano. Solo un cavaliere esperto può riuscire a cavalcarlo e a combattere con lui.»
Nihal rivolse al suo maestro uno sguardo determinato. «E allora? Sono sopravvissuta alla distruzione di Salazar e ai fammin. Non sarà certo questo drago a fermarmi.»
Ido perse definitivamente la pazienza. «Bene. Vorrà dire che inizieremo oggi stesso» disse allontanandosi.
Se fosse stato per lei, Nihal avrebbe iniziato anche subito.
Andarono nell’arena quel pomeriggio.
Oarf stava al centro, immobile e assorto come se attendesse un attacco da un momento all’altro. Quando vide arrivare Nihal e Ido si mise in allerta e spalancò le ali con fare minaccioso. Erano enormi e nervose, le membrane sottili come carta, fragili e possenti al tempo stesso. Nihal rimase senza fiato: sembravano proprio quelle scolpite da Livon sulla sua spada.
Ido la fece sedere sugli spalti, al suo fianco. «Ora ascoltami bene, Nihal. Questo drago è diverso dagli altri. Ricordatelo sempre quando ti avvicini. Il suo cavaliere è morto, non ha più fiducia negli uomini.»
Nihal annuì concentrata.
«Tenterà di attaccarti. Tu non lo devi temere, sta’ dritta di fronte a lui come un guerriero davanti al nemico e non abbassare mai lo sguardo. Adesso vai.»
Nihal si alzò e prese ad avanzare.
Pensava che con Oarf sarebbe stato come con Vesa: l’avrebbe guardata storto per un po’ ma alla fine l’avrebbe lasciata avvicinare. Si sbagliava. Non appena iniziò ad accostarsi, Oarf agitò minacciosamente le zampe anteriori verso di lei.
Nihal arretrò.
Oarf continuava a ringhiarle contro.
Nihal riprovò una, due, decine di volte, ma il drago si faceva via via più aggressivo: la coda spazzava nervosa la terra battuta dell’arena e le narici fremevano.
All’ultimo tentativo si sollevò ruggendo, pronto a scagliarlesi contro.
Nihal si allontanò piena di rabbia. Ora ti faccio vedere io. Raggiunse il fondo dell’arena, si voltò verso Oarf, fece un profondo respiro e gli corse incontro urlando.
«Ferma! Così non otterrai niente: non ti puoi imporre a un drago!»
Nihal si fermò incespicando. Era esasperata.
«Ma che cosa devo fare? Io ho bisogno di lui, lo capisci?»
«Tu non hai bisogno di lui. Tu vuoi che lui sia il tuo compagno, il tuo alleato. Devi cercare di entrare in contatto con lui, sentire cosa prova. Concentrati.»
Allora Nihal fece appello alle sue arrugginite capacità di maga. In fin dei conti anche quel drago era figlio della natura con cui lei aveva stretto il patto anni prima.
Respirò profondamente. Tutto è uno e uno è tutto. Chiuse gli occhi. Tutto è uno e uno è tutto. Si concentrò. Tutto è uno e uno è…
I sentimenti del drago la travolsero come un’onda. Paura, odio, sofferenza, disprezzo. Un flusso di sensazioni che la colpì con la forza del pugno. Barcollò.
Ido la agguantò per un braccio un attimo prima che cadesse a terra. «Lo senti già?»
«Io… sì, mi sembra di sì. Sono stata educata un po’ alla magia…»
«Bene. Ti sarà di grande aiuto. Continua, ora. Cerca di rassicurarlo.»
Nihal riacquistò l’equilibrio e si aprì di nuovo alle emozioni di Oarf.
Sentì che la rabbia dell’animale era la sua stessa rabbia.
Il dolore di Oarf il suo stesso dolore.
Cercò di comunicare con lui, ma Oarf rispondeva con ostilità, timore, diffidenza.
Tentò ancora di avvicinarsi. Il ruggito della bestia risuonava per tutta la base, ma Nihal continuò ad avanzare tendendo le mani aperte. Sono con te. Sono come te.
Lo gnomo si alzò di scatto e si mise a correre. «Nihal!»
Ma Nihal non ascoltava. Anch’io ho perso tutto. Sono come te.
Oarf spalancò le fauci.
Ido si gettò su Nihal buttandola di lato.
La fiammata sfrigolò poco sopra le loro teste.
«Dove hai il cervello, ragazza? Entrare in contatto con lui non significa isolarti dal resto! Devi tenere sotto controllo la situazione!»
Ido si alzò scrollandosi la polvere di dosso e porse una mano a Nihal. «Riprova.»
Nihal tentò di nuovo, e poi ancora, e ancora, ma l’animale rispondeva solo con la violenza, senza aprire nessun tipo di contatto con la ragazza. Ido le dava consigli, la spronava a non desistere. E Nihal non desisteva.
Il pomeriggio passò così, mentre nell’arena si radunavano cavalieri, scudieri e soldati incuriositi dall’incontro tra la ragazza guerriero e il drago senza padrone.
All’ennesima fiammata di Oarf un giovane cavaliere si rivolse allo gnomo: «Ido, stai esagerando. Non ti pare il caso di fermarla?».
Ido lo guardò impassibile. «E perché mai? Abbiamo penato tutti, all’inizio.»
«Oarf apparteneva a Dhuval. Quella bambina non può farcela» si intromise un altro cavaliere.
«Mi stupisci. Dovresti sapere meglio di me che un drago non appartiene a nessuno. E credimi: quella è tutt’altro che una bambina.»
Stanca, sporca e livida, Nihal si decise a lasciare l’arena solo al tramonto.
Un attimo prima di uscire si voltò verso Oarf. «Vedremo chi l’avrà vinta, alla fine!» gli urlò.
Ido sorrise sotto i baffi e le diede uno scappellotto. «Vieni via, spaccona!»
La mattina seguente Nihal si svegliò che era ancora buio. Non aspettò nemmeno che Ido si destasse e andò da sola nella scuderia.
L’alba era appena sorta e i draghi riposavano ancora, acciambellati nelle loro nicchie.
Oarf non faceva eccezione. A vederlo addormentato non pareva feroce come il giorno prima. Nihal si sedette a guardarlo in silenzio, incantata. La sua grande testa giaceva abbandonata sulle zampe anteriori incrociate. I fianchi si alzavano e abbassavano al ritmo pulsante del respiro, mentre la coda di tanto in tanto faceva un movimento lieve. Chissà se anche i draghi sognano, si chiese Nihal. Vedere quell’enorme bestia rilassata nel sonno era uno spettacolo affascinante. Non si era sbagliata: quello era proprio il drago che faceva per lei.
Per un po’ l’animale non si accorse della sua presenza. Poi, lentamente, aprì gli occhi. Le palpebre verdi sbatterono un paio di volte, mostrando, nascondendo e mostrando nuovamente le iridi fiammeggianti. La pupilla verticale si contrasse alla debole luce della scuderia. Oarf si svegliò.
Non appena vide la ragazza il drago scattò, sollevandosi sulle zampe posteriori e ruggendo con rabbia.
Con il cuore che batteva all’impazzata, Nihal strinse i pugni. Si costrinse a restare ferma. Non ho paura di te. Siamo uguali. Non ho paura di te. Oarf ruggì più forte e cercò di avvicinarsi, ma una grossa catena lo tratteneva per una zampa.
Il soldato che faceva il turno di notte alla scuderia sbucò dalla penombra, sbraitando. «Sei impazzita? Che cosa ti viene in mente di introdurti qui senza permesso? Lascia in pace questa bestia, non è per te!»
La prese per un braccio, ma Nihal fu rapida a divincolarsi.
«Tieni giù le mani, tu! Questo è il mio drago e vengo da lui quando mi pare e piace. Chi ti ha detto di legarlo?»
«Se è il tuo drago fatti obbedire, ragazzina! L’ho legato perché vuole scappare!»
Il clamore aveva attirato gente.
Ido si fece largo tra soldati e cavalieri. «Che accidenti succede qui?»
Nihal era indignata. «Sono venuta a vedere il mio drago e l’ho trovato incatenato: voglio che sia liberato!»
«Non è il tuo drago, non è di nessuno, quante volte devo dirtelo? E comunque se è legato c’è un motivo. Ora vieni via.»
Lo gnomo la trascinò in malo modo. «Non ti azzardare mai più a fare di testa tua, hai capito? Tu non sei un guerriero, non sei un cavaliere, non sei nessuno! Devi obbedirmi, o non andrai da nessuna parte.»
«Io… io ero andata lì per allenarmi! Non è questo che vuoi? Non ho trasgredito nessun ordine!»
Ido si fermò e fissò Nihal. Il suo sguardo non ammetteva repliche. «Non giocare con me, ragazza! Io sono il tuo maestro. Decido io quando devi o non devi andare da Oarf, chiaro?»
Nihal fu costretta ad abbassare la cresta.
Quando Ido la accompagnò all’arena, dal cielo plumbeo cadeva una pioggia ghiacciata.
Oarf era legato con una catena a un grosso palo conficcato nel terreno. Nihal si strinse nel mantello con un moto di rabbia. Non sopportava di vederlo così: il suo drago doveva essere libero. Accelerò il passo verso l’animale, ma Ido la riacciuffò agguantandola per un lembo del mantello e la costrinse a sedersi sugli spalti. Le si piantò davanti e la guardò fisso negli occhi.
«Ricorda che Oarf non ti appartiene, Nihal. Se ti va bene è il tuo compagno,
niente di più. Fagli sentire che ti fidi, e lui si fiderà di te. Devi trovare il tuo modo per conquistarlo. Ti senti pronta?»
Nihal annuì.
«Bene. Cominciamo.»
Nihal si alzò e si mise a camminare decisa verso il drago. Giunta a metà strada, però, girò sui tacchi e si diresse verso l’abbeveratoio.
«Ehi! Dove stai andando?» urlò Ido.
Nihal non si voltò neppure. «Fidati di me!»
Quando fu davanti alla fontanella si tolse il mantello.
Il freddo pungeva, ma la ragazza sembrava non accorgersene.
Lo mise sotto il getto dell’acqua finché non fu grondante, poi ci si riavvolse e si coprì la testa con il cappuccio.
Nihal si avviò rabbrividendo verso Oarf.
Il ringhio del drago riecheggiò nell’arena.
Nihal continuò a camminare.
Oarf ruggì con tutta la potenza dei suoi polmoni, indispettito che quella creaturina potesse osare tanto.
Nihal si fece sempre più vicina.
La bestia prese a strattonare la catena.
Nihal si fermò a una ventina di passi dal drago.
Lo guardò fisso negli occhi rossi.
Sentì quello che provava.
Odio. Paura. Solitudine.
La fiammata fu improvvisa e possente. Le arrivò vicinissima. Nihal non arretrò di un solo passo. Stretta nel mantello fradicio restò dov’era, dritta come un fuso.
«Che mi venga un colpo…» mormorò Ido.
Oarf esitò, dubbioso. La fiamma perse di potenza, quindi si spense del tutto.
Nihal continuò a guardarlo negli occhi.
Era come se il drago le parlasse.
Non voleva più avere niente a che fare con quegli esseri infimi che si uccidevano l’un l’altro. Li odiava tutti. Avevano trasformato quella terra magnifica in un luogo di morte.
Gli avevano portato via il suo compagno.
Odiava anche lei, sì. La odiava e l’avrebbe uccisa.
Una seconda fiammata sgorgò dalla sua gola.
Nihal sentì il calore asciugare rapidamente il mantello. Non si mosse: senza Oarf tutto quello che aveva fatto fino a quel momento non avrebbe avuto senso.
Il calore si fece via via più intenso. Intorno a loro la pioggia evaporava, dissolvendosi prima di toccare terra.
Nihal si mise a gridare. «Io non mi arrendo, hai capito? Non vedi che io e te siamo uguali? Anch’io ho perso il mio padrone, anch’io odio questo mondo!»
Il drago continuò a soffiare.
Nihal si sentì bruciare le ciglia. Piccole lingue di fuoco le lambirono l’orlo del mantello. «Accettami!»
Il calore era intollerabile.
«Accetta di combattere insieme a me!» strillò un’ultima volta.
La testa le girò. Le mancò il fiato. Ecco. È finita. Cadde in ginocchio.
Fu allora che Oarf smise di sputare fuoco.
La sovrastò per un istante, poi si ritirò verso il fondo dell’arena.
Ido la portò nell’infermeria della base, un bell’edificio in muratura.
A parte qualche lieve scottatura, non si era fatta niente: era solo mortalmente stanca.
Una guaritrice piuttosto anziana le spalmò sulle bruciature una pomata fresca e profumata di erbe. Poi Nihal si addormentò.
Si svegliò che era pomeriggio inoltrato. Fece appena in tempo a ripercorrere nella memoria quanto era successo, quando vide Ido avvicinarsi alla sua branda.
Nihal cercò di indovinare dal suo sguardo se fosse arrabbiato, ma lo gnomo era imperscrutabile.
«Ce l’hai con me?»
«No. È stata una bella sfida. Il problema è un altro.»
Nihal lo fissò stupita. «Cioè?»
Ido si sedette su uno sgabello accanto al letto. «È un problema di strategia e di opportunità, Nihal. L’idea che hai sfruttato con Oarf era buona, ma l’esito è stato pessimo.»
«Io non…»
«Silenzio. Ascoltami. In guerra ogni volta che intraprendi un’azione devi valutare bene come ti muovi: un esercito è fatto di uomini, ciascuno dei quali è un tassello importante per la vittoria. La vita di un cavaliere, poi, è ancora più preziosa per l’esercito. Un cavaliere è un condottiero, dalle sue azioni dipende la sorte di molti soldati. Se muore lui, il più delle volte trascina con sé anche quelli che comanda. Per questo ognuno deve tenere in conto la propria vita, perché non appartiene solo a lui ma a tutti quelli che combattono.»
Ido accese la pipa e tirò una lunga boccata.
«Non ha senso sprecare la propria vita in un’azione suicida: non serve a nessuno e meno che mai a chi muore. Il bravo guerriero fa solo quello che gli è stato ordinato, e se prende l’iniziativa deve conoscere i propri limiti e agire di conseguenza. Ora, tu hai intrapreso un’azione inutile e pericolosa, senza conoscere i tuoi limiti e rischiando la vita per un’idiozia.»
Nihal si offese a morte. Si mise a sedere, agitata. «Sapevo quello che facevo!»
«No che non lo sapevi. Cosa credevi, di cavartela con un mantello bagnato? Eri consapevole che il tuo trucco non sarebbe durato, ma ti sei buttata lo stesso.»
Ido, serafico, tirò un’altra boccata.
«Forse qualche esaltato ti ha detto che un guerriero non ha paura della morte. Non c’è niente di più falso. Un guerriero è una creatura come le altre: ama la vita e non vuole morire. Però non si lascia dominare dalla paura, e per questo capisce quando è necessario morire e quando è inutile. Questo è un guerriero.
Tu invece hai rischiato di morire per cosa? Per farti apprezzare da me e fare la spavalda con un drago che non ti vuole. Non mi sembrano motivi utili né intelligenti. Solo stupidi.»
Nihal si sentì punta nel vivo: da quando aveva preso coscienza di chi era aveva giurato che non sarebbe morta invano. E ora il suo maestro la accusava di cercare vanamente la morte. «Ti sbagli» disse con foga. «Ero sicura che Oarf non mi avrebbe ucciso!»
«Nihal, non ci conosciamo da molto, ma credo di averti capito. Tu invece non hai ancora compreso con chi hai a che fare. Non ci riesci a prendermi in giro. Non eri sicura proprio di un bel niente. Hai voluto solo provarmi che sei coraggiosa. Be’, il tuo non è coraggio. È incoscienza. E fa più morti quella di tutte le truppe del Tiranno messe insieme.»
Nihal tacque.
Un pensiero maligno si insinuò nella sua testa: e se davvero avesse agito così perché non le interessava più vivere o morire? No, non è vero! Sapevo quello che facevo! Io voglio vivere. Io devo vivere perché ho una missione da compiere!
«Ricorda bene quello che ti ho detto oggi. Per questa volta non mi arrabbio, perché spesso anch’io sono stato impulsivo. Ma d’ora in avanti devi imparare a ragionare su quello che fai e sulle motivazioni che ti spingono a farlo.»
«So che quel drago è il mio drago» disse Nihal con impeto.
Ido si sporse sulla branda. «È di qualcuno l’acqua? Il vento? La furia di un uragano? Un drago è una forza della natura e di tanto in tanto si sceglie un compagno. Se non riesci a capirlo non cavalcherai mai Oarf. Stamattina hai detto che il tuo padrone è morto. Mi dispiace dirtelo, ma chiunque fosse non era il tuo padrone, Nihal.»
La ragazza abbassò lo sguardo sulle coperte. Non voleva che lo gnomo si accorgesse che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime.
«Nessun uomo, nessun mezzelfo, nessuno gnomo che voglia chiamarsi tale appartiene a qualcuno. Ognuno deve trovare la forza di tracciare il proprio destino. Il padrone ce l’hanno gli schiavi, e tu non lo sei. Se vuoi essere un cavaliere devi liberarti del dolore e prendere in mano la tua vita. Sta a te farne un buon uso o gettarla via.»
Ido si ritrasse e si riaccese con calma la pipa.
Nihal lo guardò per un po’: quanta forza, quanto coraggio spiravano da quell’ometto. Per un istante le parve un gigante.
«Te la senti di fare un viaggio?» le chiese lo gnomo quando la pipa ebbe preso.
«Credo di sì. Dove andiamo?»
«In guerra, ragazza mia. Dobbiamo dare man forte a un gruppo di ribelli che hanno liberato una città non lontano dal fronte. Sono stretti d’assedio da alcune truppe scelte del Tiranno. Li andiamo a liberare.»
Nihal sentì il cuore che accelerava.
«Potrò combattere anch’io?»
«Dovrai combattere anche tu: ho bisogno di vedere come te la cavi in battaglia.»
La marcia fino alla città fu breve.
La strategia era già stata concordata prima di partire, poiché una volta arrivati non avrebbero avuto il tempo né il luogo per fare piani, visto che non c’erano accampamenti nei dintorni. L’attacco si basava esclusivamente sulla sorpresa: avrebbero cercato di prendere gli assedianti alle spalle. Ido era l’unico Cavaliere di Drago della truppa e pertanto sarebbe stato il comandante dell’attacco.
Ido e Nihal cavalcavano affiancati. Lo gnomo fumava tranquillamente, ma la ragazza fremeva.
«Hai paura?» le chiese.
«No.»
«Male. Tutti hanno paura prima di combattere, è giusto che sia così. Anch’io ho paura.»
«Non mi sembra proprio che tu abbia paura» commentò Nihal.
«Ho paura, non terrore. La paura mi dà la dimensione di quello che mi appresto a fare. La paura è mia amica, perché mi fa capire che cosa fare in battaglia, mi evita rischi inutili e mi mantiene lucido.»
Nihal alzò un sopracciglio. «Dici? Non è la paura che fa scappare i soldati davanti al nemico?»
«Anche, Nihal, anche. La paura è un’amica pericolosa: devi imparare a controllarla, ad ascoltare quello che ti dice. Se ci riesci, ti aiuterà a fare bene il tuo dovere. Se lasci che sia lei a dominarti, ti porterà alla fossa.»
Nihal guardò Ido: quel tipo le piaceva, anche se non sempre riusciva a capire cosa intendeva dire.
«Siamo vicini. Ora si procede a piedi» disse Ido.
Abbandonarono i cavalli. Nihal estrasse da una bisaccia il drappo nero e prese a fasciarsi il capo.
«Combatti senza corazza?»
«Preferisco così.»
«Fa’ come credi…»
Lo gnomo si allontanò per raggiungere il suo drago nelle retrovie e andare a osservare la situazione dall’alto.
I fanti affrettarono il passo.
Nihal avanzava rapida e silenziosa come un gatto, i sensi tesi e attenti a ciò che la circondava.
Poi giunsero in vista del luogo dell’assedio.
La marea nera circondava le mura sbrecciate di una cittadina in rovina.
Un urlo di Ido fu il segnale che la battaglia aveva inizio.
Nihal si lanciò fra i primi con un furore e una rabbia anche maggiori della prima volta che aveva combattuto. Si scagliava sui nemici senza alcun timore di esporsi ai fendenti delle asce dei fammin, la mente dominata dal pensiero di distruggere tutto ciò che le capitava a tiro.
Ido ebbe il tempo, dall’alto, di vedere di tanto in tanto la sua allieva che infieriva sul nemico senza pietà.
Anche Nihal, nei pochi attimi in cui la battaglia le dava respiro, osservava il suo maestro volteggiare insieme a Vesa.
L’esercito guidato da Ido sembrava una infallibile macchina da guerra. Lo gnomo comandava le sue truppe con fermezza, senza scomporsi ma senza risparmiarsi. Schivava le frecce e al contempo attaccava senza timore. Le lingue di fuoco del suo drago spargevano il panico sui nemici a terra, presi alla sprovvista dall’attacco improvviso.
Quando la situazione fu ben delineata, Ido lasciò Vesa libero di continuare l’attacco dall’alto e scese a terra a combattere con la spada. Nihal lo seguì sicura, continuando la sua strage.
Fu una vittoria facile: poche perdite, molti prigionieri. La città era libera. Non era un risultato da poco: in quarant’anni di guerra erano state poche le volte in cui l’esercito delle Terre libere era riuscito a strappare territori al Tiranno.
Il successo fu festeggiato con esultanza all’interno della città affrancata e i guerrieri vennero accolti come eroi. Tutti offrirono ospitalità ai soldati per la notte e Ido accettò l’invito di buon grado.
La sera ci fu baldoria in piazza, con danze e un banchetto improvvisato, con i pochi viveri disponibili, dalle battagliere donne del luogo, che avevano infuso nel cibo tutta la loro riconoscenza per i soldati.
Nihal non partecipò all’euforia. Tutto quello che voleva in quel momento era combattere ancora, uccidere altri nemici. Anche nel bel mezzo della festa non riusciva a pensare ad altro.
«Vuoi ballare?»
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da uno scudiero piuttosto giovane, che le tendeva amichevole la mano. Arrossì. Ballare? Io? Era la prima volta che qualcuno la trattava come una donna.
«No, grazie. Non fa per me» si schermì.
«E dai! Coraggio! Siamo scampati alla morte, divertiamoci!» insistette il ragazzo con un sorriso incoraggiante stampato sul volto.
«Davvero, non so ballare.»
Lo scudiero alzò le spalle, le fece un inchino e un attimo dopo si era già lanciato nelle danze con una ragazza della città.
A Nihal venne in mente Fen.
Quante volte aveva sognato di ballare con lui! Volteggiare tra le sue braccia con un abito lungo in una sala scintillante di luci. Fantasie. Quella scena non poteva più esistere neppure nei suoi sogni.
Si strofinò gli occhi. Non doveva più fantasticare in quel modo: era un guerriero, non aveva più importanza se fosse uomo o donna. Era soltanto un’arma.
Tra la folla festante intravide Ido. Sorseggiava qualcosa da un boccale, scherzava con i soldati, guardava la confusione allegra che aveva invaso la piazza della città. Quel successo era merito suo.
Poi lo gnomo la notò e le andò incontro. «Ti devo parlare» le disse in un orecchio e la tirò in disparte sotto un porticato.
Per prima cosa le porse il boccale.
«Bevi, porta male non festeggiare la vittoria.»
Nihal assaggiò il contenuto del bicchiere: pungeva la lingua, ma aveva un ottimo sapore. Le vennero le lacrime agli occhi.
Ido rise. «Vedo che non hai mai bevuto birra! È la bevanda preferita degli gnomi, sai?»
Nihal gli restituì il boccale. «È buona…»
Ido diede un sorso, poi si pulì i baffi con il dorso della mano. «Perché non partecipi alla festa?»
«Non ne ho voglia.»
«Vedo.»
Ido diede un altro sorso. «Ti ho guardata con attenzione mentre combattevi.»
Nihal non riuscì a trattenere un sorriso e si preparò a ricevere lodi sperticate.
«Non mi sei piaciuta, Nihal.»
Il sorriso le morì sulle labbra. «Ho sbagliato qualcosa?»
«No. È il tuo modo di comportarti in battaglia che non mi piace.»
«Non capisco…»
«Ti butti nella mischia senza ragionare, con l’unico pensiero di distruggere tutto quello che ti capita a tiro. Per un fante qualunque può anche essere una tecnica efficace. Ma non è così che combatte un cavaliere.»
«In guerra conta quanti nemici abbatti, no? Io cerco solo di darmi da fare!»
Ido le offrì nuovamente la birra. Nihal ingollò, cercando di controllare la rabbia e la delusione per le parole del suo maestro.
«In battaglia dai l’impressione di un animale in gabbia che lotta per liberarsi.
Ti fai trascinare dal tuo corpo, combatti d’istinto. E poi ti batti come se sul campo di battaglia ci fossi solo tu. Non è così. Devi sempre sapere dove sono gli altri e che cosa fanno. Questo è importante per quando sarai cavaliere, perché allora guiderai altri uomini e dovrai avere sempre una visione globale dello scontro. Infine, Nihal, combattere è una necessità, non un piacere.»
«A me piace combattere, che c’è di male?» sbottò la ragazza.
«No, a me piace combattere. E ho scelto questa strada per mia volontà. A te piace uccidere. Ascoltami bene: in queste truppe non c’è spazio per chi è assetato di sangue. Se credi di scendere sul campo per dare sfogo al tuo odio, puoi scordarti di combattere ancora. Chiaro?»
Lo gnomo chiuse il discorso accendendosi tranquillamente la pipa, come se avesse parlato del più e del meno.
Nihal sentì il sangue salirle al viso. «I fammin hanno ucciso mio padre, Ido!» urlò. «E Fen! E sterminato la mia gente! Come faccio a non odiarli?»
Ido non si scompose. «I fammin e il Tiranno hanno ucciso mio padre, mi hanno portato via un fratello e hanno ridotto in schiavitù il mio popolo. Tutti qui hanno da raccontare una storia come la tua o come la mia, ma ci sforziamo di tenere bene a mente perché combattiamo. Tu sai perché combatti?»
Ido la fissò con tanta intensità che Nihal fu costretta ad abbassare lo sguardo.
«Se non lo sai, è ora che ti interroghi se sia il caso di continuare a fare il guerriero.»
«Io ho sempre voluto…»
«Basta. Ora vieni a ballare.»
«Non so ballare…»
«È un ordine.»
Senza neanche accorgersene Nihal si ritrovò in mezzo alla piazza, trascinata dal ritmo.
Che cosa c’era di sbagliato nell’odiare il Tiranno? Non era forse l’odio che dava la forza per combattere? Non era forse giusto odiare i fammin e vivere per sterminarli? Che cosa non andava in quella logica?
Il suo corpo continuò a ballare, ma la sua mente era altrove.
La festa terminò a tarda notte e Nihal e Ido si ritirarono presso un mercante che aveva messo loro a disposizione la sua casa.
«Non ti è piaciuto stasera?» disse Ido congedandosi. «Non hai sentito com’è bello divertirsi? Apprezza la vita, Nihal, e allora capirai perché combatti.»
Nihal si coricò più confusa che mai.
Per Nihal l’addestramento vero e proprio iniziò dopo la prima battaglia. Le mattine erano totalmente dedicate alle tecniche di combattimento. Ido non le dava tregua. Iniziavano al sorgere del sole e non si interrompevano se non quando era ora di pranzo e l’arena era gremita.
Non fu facile. Nihal era abituata a combattere d’istinto: sapeva di avere un dono e cercava di sfruttarlo al massimo. Ido invece la voleva sempre pronta, attenta e lucida. In allenamento come in battaglia lo gnomo non sbagliava un colpo, quali che fossero le armi che adoperava.
Nihal riprese in mano la lancia, la mazza chiodata, l’ascia e la frusta, con le quali si era già cimentata all’Accademia.
Imparò a concentrarsi in combattimento, a restare presente a se stessa in ogni momento dell’attacco, ma Ido non era mai contento.
Non gli bastava che Nihal padroneggiasse la tecnica. Voleva che fosse forte e sicura, che avesse sempre bene a mente i motivi per cui combatteva, che non si affidasse alla furia cieca dell’odio. Voleva farne una vera donna, utile a sé e al Mondo Emerso.
Ido voleva bene a Nihal, conosceva le sue potenzialità e ne ammirava la tenacia. Ma aveva capito cosa la muoveva: rabbia, voglia di vendetta, disprezzo per se stessa. E non poteva permettere che distruggesse la propria vita. Era troppo forte, troppo bella e decisa per buttarsi via.
Così non le dava tregua.
Non la lodava quasi mai, la sfiniva, la gettava a terra più e più volte per poi costringerla a rialzarsi dalla polvere per ritentare. E Nihal si rialzava sempre, senza lamentarsi, senza curarsi delle ferite. Aveva un obiettivo e voleva perseguirlo a ogni costo.
Con il trascorrere delle settimane, però, le sue certezze venivano meno. Era sempre stata sicura del suo destino di vendetta, non si era mai chiesta se fosse giusto o no, ma le parole di Ido dopo la battaglia avevano incrinato la sua convinzione.
Continuava a ripetersi che non capiva cosa ci fosse di sbagliato nel suo odio. Perché sarebbe sopravvissuta al suo popolo, se non per vendicarlo? Quando di notte si svegliava dagli incubi, si convinceva che la sua unica meta era abbattere il Tiranno. E morire. Perché non sapeva immaginare cosa avrebbe potuto essere di lei dopo che il Tiranno fosse stato vinto. Dove sarebbe andata? Che cosa avrebbe fatto? Senza quello scopo sarebbe stata come un sacco vuoto. Eppure…
Eppure la vicinanza di Ido le suscitava mille dubbi. Come faceva il suo maestro a combattere senza odiare? Da dove traeva la sua forza?
La bellezza della vita, diceva…
Sì, c’era stato un tempo in cui a Nihal la vita era parsa bella. Ma quel tempo era passato. Ora la sua esistenza era scandita da duri giorni di allenamento e notti dense di incubi.
A volte ripensava a quello che aveva sentito la notte della sua prima battaglia, alle possibilità che aveva intravisto. Era quella la vita che tutti amavano? Forse sì, ma a lei sembrava solo un sogno lontano.
Alla base molti avevano notato Nihal e lentamente una piccola folla di scudieri e soldati iniziò a seguire il suo addestramento.
Vederla battersi con Ido, la cui abilità era nota a tutti, divenne uno spettacolo imperdibile. Perché Nihal era agile, era brava, ma soprattutto era bella.
Non si poteva dire che rispondesse ai canoni tipici della bellezza, ma tutta la sua figura emanava fascino. Sotto le lunghe ciglia i suoi occhi viola avevano uno sguardo fiero. Era sottile come un giunco, ma aveva anche curve sinuose. Il modo in cui si muoveva in combattimento incantava chi la guardava. E poi, eccezion fatta per il suo maestro, che era l’unico con cui parlasse, era fredda come il ghiaccio.
Iniziò a essere considerata da tutti la preda ideale. Giravano addirittura scommesse su chi l’avrebbe irretita per primo. Ma Nihal continuava a camminare per l’accampamento con passo marziale ignorando gli sguardi che le venivano indirizzati. Le dava fastidio quando la osservavano con occhi troppo lascivi. Aveva smesso di considerarsi donna il giorno in cui Fen era morto. Ora era un guerriero e basta.
Ogni tanto qualcuno tentava di avvicinarla senza secondi fini, ma anche in quelle occasioni la ragazza manteneva un contegno distaccato.
Con le donne della base non andava meglio: la invidiavano per il successo che riscuoteva tra gli uomini, perché era forte, perché combatteva come un maschio. Certo, non mancavano le eccezioni. Un paio di ragazze avevano cercato di fare amicizia con lei, ma Nihal sentiva di avere poco in comune con quelle signorine che stavano in casa ad aiutare le madri e che aspettavano la maggiore età per convolare a nozze.
Era sola. E l’unico essere a cui rivolgeva le sue attenzioni non era un umano, bensì un drago.
Nihal era letteralmente innamorata di lui.
Sentiva che non avrebbe mai potuto cavalcare un drago che non fosse quella bestia imbizzarrita.
Dopo i primi approcci disastrosi, Ido l’aveva lasciata libera.
«Ti ho spiegato com’è fatto un drago e come ci si pone nei suoi confronti. Ora sta a te trovare il modo di farti accettare da lui. Quando salirai in groppa, inizieremo a lavorare sul serio.»
Così fu Nihal a scegliere i tempi e i modi di avvicinamento: si mise d’accordo con il guardiano della scuderia perché il drago fosse pronto per l’allenamento ogni giorno subito dopo pranzo.
La prima volta Oarf le apparve in fondo all’arena, sempre alla catena, e non appena la vide iniziò a brontolare.
Nihal rimase dalla parte opposta, ferma, a pugni stretti. Sentiva l’odio del drago, ma restò al suo posto. Era una sfida: doveva provare che era più forte di lui, che non avrebbe ceduto. Restò a fissarlo a lungo, cercando di sostenere quello sguardo rosso carico di disprezzo.
Per qualche giorno il guardiano si fermò ad assistere, ma il rituale si ripeteva sempre uguale: Nihal e Oarf si guardavano in cagnesco per tutto il pomeriggio. Una noia mortale.
A chi gli chiedeva notizie rispondeva invariabilmente: «Per me quella è matta. Sta lì impalata e lo guarda. Certo che questi mezzelfi dovevano essere degli strani tipi!».
Dopo i primi tempi Nihal iniziò a parlare con Oarf.
Si sedeva in fondo all’arena, gli occhi sempre incollati su di lui, e si sforzava di trasmettergli i suoi pensieri. Non era facile, e quando il tentativo falliva se la cavava con le parole. Pensava che più di tante moine potesse la forza della sua storia: era fermamente convinta che lei e quell’animale fossero legati dallo stesso destino.
Gli raccontò degli incubi che la tormentavano, della morte di Livon, della distruzione della sua città. Gli parlò di Fen, di quanto l’avesse amato, del modo crudele in cui l’aveva perduto e di quando aveva acceso la fiaccola alla sua pira nella speranza di catturare un po’ del suo spirito.
Oarf restava impassibile. Nessuna reazione, a parte un ringhiare sordo. Ma Nihal continuava. E al contempo cercava di penetrare la mente dell’animale.
Spesso Ido la osservava da lontano. Nihal stava agendo bene: Oarf la guardava ancora con sospetto, ma nei suoi fieri occhi rossi si cominciava a intravedere una luce di interesse.
Contemporaneamente Nihal combatteva.
Lei e Ido erano spesso impegnati in battaglia. Lo gnomo aveva deciso che Oarf li seguisse nelle retrovie.
Prima di ogni scontro, Nihal gli faceva visita. «La senti questa tensione? Questo silenzio? Ti chiamano, Oarf. Ti chiedono di tornare a combattere.»
Poi scendeva in campo con tutta la foga di cui era capace, sempre prima tra quelli del suo gruppo, incurante del pericolo. Molte battaglie le vinse, molte le perse, e dovette abituarsi a vedere il suolo coperto di cadaveri di commilitoni.
Ido continuava a redarguirla duramente. E ogni volta Nihal giurava che avrebbe cercato di cambiare, che avrebbe cercato di battersi con un altro spirito. Ma era inutile. Il rombo delle armi le dava alla testa.
Quando era in campo diventava un puro strumento di morte.
La marcia d’avvicinamento a Oarf continuò.
Nihal cercava di andargli ogni giorno più vicino, avanzando di un passo alla volta. Oarf non temeva più quell’accorciarsi delle distanze e si limitava a guardarla con sospetto. La ragazza sentiva che il drago non era più ostile, non la temeva. Ora voleva tentare di stabilire una comunicazione più profonda con lui.
Per due settimane passò i pomeriggi accovacciata di fronte a lui.
Era come quando aveva dovuto superare la prova nel bosco: si concentrava e tentava di captare il suo pensiero. Ido le aveva spiegato che tra un cavaliere e il proprio drago c’è comunicazione solo se entrambi lo vogliono. E Oarf al momento ancora non voleva.
Ma Nihal era sicura che ce l’avrebbe fatta.
Un giorno, per caso, arrivò un po’ prima del solito e vide l’entrata di Oarf nell’arena.
Il guardiano lo trascinava con l’aiuto di due nuovi inservienti. Era una scena penosa. Il drago recalcitrava, si impuntava sui posteriori cercando di resistere, ma subito dopo cedeva perché la zampa a cui era legata la catena era ferita. Avanzava a strattoni, tra le imprecazioni dei tre uomini e i suoi mugolii di dolore.
Nihal non si era mai accorta della ferita. Si maledisse per non essersi informata prima su come veniva trattato il suo drago. Quando Oarf si trovò al suo posto, lei raggiunse a grandi falcate gli inservienti, che stavano lasciando l’arena.
«Ehi, voi!» li apostrofò. «D’ora in poi non voglio più vedere quella catena!»
I due si guardarono ridacchiando.
«E tu che ne sai, signorina?» fece uno di loro. «Guarda che senza catena quello prima ti mangia in un boccone e poi se ne vola via!»
Nihal lo afferrò per il bavero. «Sono un futuro Cavaliere di Drago: ti consiglio di usare più prudenza quando parli con me.»
L’altro compare soffocò a malapena una risata. Nihal estrasse la spada e gliela puntò contro. «Sto parlando per tutti e due. Da domani niente catena. Se mi uccide, sono fatti miei. Se scappa, vi sollevo da ogni responsabilità: mi assumerò io la colpa di qualsiasi danno.»
I due inservienti si allontanarono in fretta.
Nihal si voltò verso Oarf: si stava leccando la zampa ferita, cercando con scarsi risultati di raggiungere anche la parte coperta dalla catena. Nihal prese ad accostarsi, la spada ancora in mano.
Oarf si mise in posizione d’attacco, ma Nihal era già molto vicina.
Il drago emise un ruggito di avvertimento.
Era pronto a lanciare una fiammata, quando Nihal vibrò un violento fendente con la spada. Tranciò di netto la cinghia di ferro della catena e sotto di essa scoprì una grossa ferita purulenta.
Oarf rimase stupito da quel gesto e ancora di più dal fatto che quella ragazzina si era inginocchiata e tendeva le mani verso la zampa.
Il drago avvertì un improvviso calore nella zona della ferita, un tepore piacevole, che sembrava spegnere il dolore che lo assillava.
Nihal percepì il sollievo dell’animale.
Oarf abbassò la grande testa smeraldo e vide che dalle mani di Nihal proveniva una lieve luce rosata. Cercò di ritrarsi, perché non voleva l’aiuto di nessuno, ma lo fece con poca convinzione. Nihal gli si avvicinò di nuovo e riprese a curarlo.
Oarf continuò a guardarla. Da tempo nessuno lo trattava con tanto amore. Fu allora che il drago si aprì ai sentimenti di Nihal. Ne comprese la tristezza, lo smarrimento, il dolore. Sentì i suoi ricordi, percepì l’affetto che stava infondendo in quel gesto.
Nihal non era abbastanza esperta per mantenere un incantesimo di guarigione a lungo, ma quando smise la ferita non era più infetta. Si sedette a terra tutta sudata: quella piccola magia le era costata uno sforzo notevole.
Oarf la annusò incuriosito: come erano fragili le razze di quella terra…
Nihal abbozzò un sorriso e si alzò in piedi. «Mi devi la libertà, Oarf. Da oggi vedi di fare il buono.»
Per la prima volta Oarf ritornò spontaneamente al suo giaciglio.
Il giorno seguente entrò nell’arena di sua volontà.
Nihal gli si avvicinò e tese la mano verso di lui. Non aveva mai accarezzato un drago. Neppure Vesa si era mai lasciato toccare, sebbene ormai fosse abituato alla sua presenza.
Oarf si ritirò sdegnato.
«Ehi, come sarebbe? Ti ho liberato, ti ho curato… una carezza me la devi, Oarf!»
Il drago grugnì e scosse con vigore la testa.
«Su, vedrai che ti piacerà.»
Nihal allungò nuovamente la mano. Le tremava, perché era emozionata. Le dita sfiorarono la pelle di Oarf: era coriacea, umida, ma era piacevole al tocco.
Nihal appoggiò tutta la mano sul petto dell’animale e percepì immediatamente un pulsare ritmico, poderoso. La vita, era quella la vita. Iniziò a passare la palma sul fianco squamoso, con gesti sempre più ampi.
Oarf non si muoveva.
Sembrava in ascolto: nessuno lo aveva mai accarezzato.
Era dolce, era piacevole. Quella mano era piccola e fresca. E quella creatura era così gentile con lui. Eppure ne conosceva l’odio. L’aveva intuito fin dalla prima volta che l’aveva vista. Era un essere tenace, pieno di rancore e di tristezza. Come lui.
Forse si poteva davvero ritornare ad avere fiducia negli uomini. Aveva voglia di spiegare le ali e volare sfiorato dal vento, come aveva fatto tante volte da cucciolo…
«Anch’io ho sempre desiderato volare, sai?» disse Nihal mentre lo accarezzava.
Le piaceva il contatto con le squame.
Ora era davvero il suo drago.
Le sembrava incredibile avercela fatta: stava coccolando un drago. Il suo drago. E un giorno lo avrebbe cavalcato.
Per un istante Nihal ritrovò la parte di sé che aveva perduto nel rogo della sua città. Si sentì di nuovo libera e con tutta la vita davanti, una vita il cui sentiero non era ancora tracciato. Come ho fatto ad allontanarmi tanto da quel che ero?
Poi Oarf si sottrasse alle carezze, ma Nihal riuscì ugualmente a intravedere nei suoi occhi il barlume di un sentimento molto simile alla serenità.
Più tardi Nihal raccontò al suo maestro come era andata la giornata.
«Bene, Nihal. Sono contento di te.»
«Ora mi insegnerai a cavalcarlo, vero?»
Lo gnomo sbuffò una nuvola di fumo. Sembrava esitare.
Nihal era sulle spine. «Allora? Eh?»
Un’altra nuvola di fumo. Ido si tirò la barba, pensieroso, poi annuì. «Sì, penso che sia ora. Sono tre mesi che sei qui: abbiamo aspettato abbastanza.»
Nihal sentì un tuffo al cuore. Avrebbe cavalcato il suo drago. Avrebbe imparato a combattere come un cavaliere. Era quello che aveva sempre desiderato. E stava per realizzarsi.
Ido non condivideva lo stesso entusiasmo.
Si era affezionato a Nihal e più di tutto voleva aiutarla a liberarsi del dolore che aveva provato. Però sapeva anche che se non ci fosse riuscito avrebbe dovuto impedire che Nihal diventasse un Cavaliere di Drago. Era troppo concentrata sulla vendetta, troppo chiusa in se stessa per poter essere davvero utile all’esercito delle Terre libere.
Nella tecnica di combattimento Nihal aveva fatto grandi progressi, ma in battaglia continuava a essere accecata dalla furia. Finché non avesse imparato a battersi per qualcun altro e non solo per se stessa, sarebbe stata sempre un pericolo.
Ido sperava che prima o poi Nihal avrebbe iniziato a seguire davvero i suoi insegnamenti. Ma al tempo stesso sentiva di dover prendere una decisione.
Nelle due settimane successive Nihal passò tutti i suoi pomeriggi nell’arena. Parlava con Oarf, lo accarezzava, poi lo riportava nella scuderia e si occupava personalmente di dargli da mangiare.
Il drago si era abituato alle sue attenzioni e le accettava con un malcelato piacere: quella pulce di ragazza iniziava a piacergli, anche se non voleva darlo troppo a vedere.
Col passare dei giorni, però, Nihal si faceva sempre più impaziente e ogni volta che aveva modo di incrociare lo gnomo lo assillava.
«Domani cosa fai?»
«Vado al comando, Nihal.»
«Ah. Ancora?»
«Sì, Nihal.»
«Dopodomani?»
«Sono in un altro accampamento.»
«E quand’è che mi insegni a cavalcare?»
«Non lo so, Nihal.»
Ido era molto impegnato. A breve sarebbe scattata una grossa offensiva e lo gnomo ne era uno dei principali strateghi. Tra i consigli di guerra alla base e gli incontri con i generali e i cavalieri degli altri accampamenti, non aveva un attimo per lei.
«Se non hai tempo potrei provare da sola» azzardò una sera Nihal mentre mangiavano alla mensa.
Ido lasciò cadere il cucchiaio nella ciotola e la guardò dritto negli occhi. «Vedi di non metterti in testa strane idee: cavalcare un drago non è uno scherzo.»
«Lo so, però…»
«Chiuso l’argomento!»
Ma ormai l’idea era stata partorita.
La ragazza provò a resistere alla tentazione. Si fidava di Ido e ammirava la sua tranquillità, la sua sicurezza. Ma sempre più spesso si chiedeva perché aspettare. Lei aveva una missione da compiere. Stare lì ferma era una perdita di tempo.
Una mattina Nihal si svegliò e si recò nell’arena in anticipo rispetto al solito. Non sapeva perché era arrivata così di buon’ora, ma aveva sentito il bisogno di correre subito da Oarf. Era un inverno rigido, il freddo penetrava nelle ossa. Nihal si strinse nel mantello e si sedette sugli spalti ad aspettare.
Lo vide apparire a poco a poco dalla bruma, accompagnato dallo scudiero: la grande figura di Oarf avanzava con maestà.
Si prefigurò la mattinata: le solite chiacchiere, i soliti gesti, il solito tragitto fino alla scuderia e, per finire, la solita carrettata di carne fresca.
E se oggi…
Oarf continuava ad avanzare.
No, Nihal, lascia perdere. Ido si infurierebbe.
Oarf era sempre più vicino.
D’altra parte…
Nihal sentiva che tutto il suo corpo le chiedeva di innalzarsi sopra quella nebbia umida e volare lontano.
No, non posso. Non so neppure da che parte cominciare.
Poi una vocina le suggerì che non doveva essere poi tanto complicato: era montata su un drago già altre volte. Non da sola, certo, però in fin dei conti che differenza faceva?
Oarf le fu davanti e abbassò la testa imponente.
«Come va?» chiese Nihal mentre gli grattava il muso. Il respiro del drago le riscaldava le mani gelate.
Nihal iniziò ad accarezzarlo. Dopo due mesi di lotte, di passi falsi e tentativi, lei e Oarf avevano trovato finalmente l’intesa. Erano tutti e due pronti per quel passo.
«Che ne diresti di volare, oggi?»
Il drago la fissò con i suoi occhi rossi. Allontanò il muso dalla mano di Nihal.
Ora magari non vuole, ma è normale. Quando sarò in groppa sarà contento.
«Fammi salire, Oarf.»
Per tutta risposta Oarf iniziò a brontolare e a scostarsi da lei.
Ma ormai Nihal aveva deciso: quel giorno l’avrebbe cavalcato a qualsiasi costo. Alzò la voce: «Fermati!» ma Oarf affrettò il passo.
Nihal agì d’impulso: lo raggiunse di corsa, spiccò un balzo e gli si aggrappò a un fianco, arrampicandosi agilmente sulla sua schiena.
La cosa incredibile fu che lei, che mai era montata da sola su un drago, riuscì immediatamente a metterglisi in groppa. Oarf si infuriò davvero e iniziò a sgroppare violentemente.
Nihal, per tutta risposta, si abbarbicò alla pelle abbondante del collo dell’animale. Oarf rincarò la dose e iniziò a ruggire per spaventarla, ma la ragazza non demordeva.
Il drago non si capacitava che quello scricciolo osasse tanto: era infuriato e stupito al tempo stesso. Voltò il muso verso Nihal ringhiando a più non posso, ma lei era galvanizzata. «Mi dispiace, amico mio, devi rassegnarti.»
Fu allora che Oarf spiccò il volo.
Iniziò a salire verso il cielo, sfruttando la spinta possente delle ali.
Nihal sentiva il vento che la investiva, le sembrava quasi di non riuscire a respirare. Chiuse gli occhi. Ebbe paura, molta. Poi però si rese conto che volava. Volava! In groppa a un drago! Al suo drago!
Aprì gli occhi e iniziò a urlare di gioia. Ora che attraversava le nuvole come una saetta e saliva sempre più in alto, sempre di più, si sentiva potente come una divinità.
Si aggrappò con tutte le sue forze e guardò giù.
Era a un’altezza vertiginosa: gli alberi dei boschi intorno alla base erano lontanissimi e svettavano dalla bruma come isole in un mare lattiginoso.
Fu bellissimo e spaventoso.
Durò un istante.
Oarf sembrò fermarsi in aria. Le sue ali si tesero, immobili. Poi si gettò a peso morto verso il basso.
All’inizio caddero lentamente, ma la velocità aumentò sempre di più mentre alberi, costruzioni, prati, terra si avvicinavano minacciosi.
Nihal si strinse al collo di Oarf cercando di resistere al vento che voleva trascinarla via. Fu presa dal terrore. «Io mi fido di te! Mi fido di te!» iniziò a strillare al drago.
In realtà non si fidava affatto.
La terra era vicinissima, l’impatto imminente e inevitabile.
Nihal urlò con quanto fiato aveva in corpo.
Proprio quando sembrava che il suolo non attendesse altro che il loro schianto, Oarf si risollevò e planò a volo radente sulla base, sfiorando i tetti delle costruzioni, mentre gli abitanti della cittadella fuggivano in ogni direzione.
Sotto le sue gambe, convulsamente strette ai fianchi del drago, Nihal poteva sentire i muscoli che si contraevano nello sforzo di battere le ali smisurate, lunghe quanto tutto il corpo dell’animale.
Era atterrita, aveva lo stomaco sottosopra e il cuore a mille: non vide Ido che usciva del comando e guardava in su a occhi spalancati, né sentì le maledizioni che lo gnomo urlò a lei e a quella dannata bestia.
Oarf, dal canto suo, si divertiva un mondo.
Era da molto tempo che non volava e si beava della sensazione del vento sulla pelle, del piacere del volo radente, della gioia di lasciarsi portare dalle correnti. Aveva dimenticato la sua insolente passeggera e si abbandonava con la temerarietà di un cucciolo a tutti i giochi di cui era capace in aria. Continuava a salire, a scendere a precipizio, a rallentare per poi accelerare di scatto.
Al culmine dell’entusiasmo iniziò a rotolarsi allegramente in cielo, capovolgendosi in capriole continue.
Per Nihal fu troppo: iniziò a veder terra e cielo che si scambiavano di posto in continuazione. Sotto e sopra non avevano più significato.
Le girò la testa. Le mani lasciarono la presa. Precipitò nel vuoto.
Fu investita da un vento furioso. Urlò senza neppure udire la propria voce.
Chiuse gli occhi. Che morte stupida, ebbe il tempo di pensare.
Poi sbatté violentemente contro qualcosa di duro e squamoso.
Sotto di lei il drago volava lento, planando dolcemente in direzione della base.
Nell’arena si era radunata una folla.
L’animale atterrò con delicatezza, quindi si accucciò in modo che potessero recuperare la ragazza. Ci fu un applauso per il mezzelfo reduce dal suo primo volo e molti complimenti per il drago che l’aveva salvata. Mentre la facevano scendere, dolorante e scombussolata, Nihal sussurrò: «Mi hai salvato la vita: ora sì che sei il mio drago» ma Oarf si allontanò sdegnato.
Aveva appena toccato terra, che ricevette un sonoro schiaffone. «Sei capace di fare qualcosa senza rischiare le penne? Dannazione, quand’è che ti darai una calmata?»
Ido la strappò dalle mani di chi la sorreggeva e Nihal cadde in ginocchio: le gambe non smettevano di tremarle.
«Non avevi mai tempo… io credevo che…»
Ido imprecò. «Dovevi aspettare, maledizione! Ma no, tu devi sempre fare di testa tua!»
Lo gnomo la costrinse ad alzarsi.
Nihal sentiva un dolore sordo in tutto il corpo e camminava a fatica.
Ido la trascinò per un braccio attraverso tutta la base finché non raggiunsero un edificio basso, isolato dalle abitazioni.
Poche finestre, e tutte fornite di sbarre.
Mentre un soldato chiudeva il chiavistello della sua cella, Nihal cercò di protestare: «Ti prego, Ido… Non volevo fare niente di male…».
«Schiarisciti le idee, Nihal» concluse lo gnomo, e andò via.
Nihal si appoggiò al muro.
La schiena le faceva malissimo.
Allungò la mano per tastarsi e sentì un forte bruciore: quando la ritirò vide che era sporca di sangue.
Era troppo stanca per recitare una formula di guarigione.
Si sdraiò prona sul pavimento e si addormentò.
Si svegliò qualche ora più tardi con una sensazione di fresco sulla schiena. Girò lentamente la testa e socchiuse un occhio: Ido le stava spalmando una pomata sulla ferita. Non si mosse. Non voleva che lo gnomo si accorgesse che era cosciente. Più della ferita, le bruciava sapere che quella volta il suo maestro aveva ragione.
«Ben svegliata» disse Ido.
Nihal tacque.
Ido si mise a spalmare l’unguento sulla ferita con maggiore energia. Nihal emise un mugolio di dolore.
«Hai spaventato tutto l’accampamento, contravvenuto ai miei ordini e fatto l’ennesima sciocchezza. Non so più come dirtelo, Nihal: il tuo non è coraggio, è idiozia. Resterai qui fino a domani.»
Quando ebbe finito di medicarla lo gnomo se ne andò sbattendo la porta.
Nihal restò sdraiata a terra.
Era profondamente arrabbiata.
Con se stessa, perché sapeva di essere nel torto.
E con Ido, perché glielo aveva fatto notare.
L’indomani Ido andò personalmente a tirarla fuori dalla prigione.
Nihal aveva passato una notte orribile.
Quando era ancora nel dormiveglia, nel momento in cui il corpo non risponde alla mente ma si è ancora lucidi, la cella si era popolata di presenze eteree.
Nihal era rimasta paralizzata, senza riuscire a distogliere gli occhi da quelle figure insanguinate, sfregiate, mutilate che le sussurravano di vendicarle. Avrebbe voluto urlare ma aveva la gola serrata. Avrebbe voluto chiudere gli occhi ma erano spalancati nel buio.
Ed era tutta colpa di Ido.
Era lui che l’aveva sbattuta là dentro, dove nessun oggetto familiare poteva rassicurarla con la sua normalità.
Era lui che la ostacolava nel suo proposito di vendetta facendole tutti quei discorsi sull’amore per la vita, sulla paura, sul perché si combatte.
Lei non era come gli altri.
Non era una ragazza.
Non era neppure un semplice guerriero.
Era un’arma nelle mani dei morti.
Ido sostenne il suo sguardo carico di rancore. «Te lo sei meritato, Nihal. E lo sai.»
Per quel giorno non si dissero altro.
Nihal dovette occuparsi di Vesa e della manutenzione delle armi dello gnomo.
Non si allenarono e non le fu permesso di vedere Oarf.
All’interno della sala del Consiglio l’atmosfera era pesante. I nove maghi, seduti sui loro scanni di pietra, ascoltavano seri le parole di Dagon.
«Le cose non vanno affatto bene, Sennar. Quanto territorio abbiamo perso negli ultimi tempi? Troppo, e tu lo sai: il nostro anello debole è la Terra del Vento. Non te ne faccio una colpa, tu ti stai comportando egregiamente, ti stai dimostrando degno dei miei insegnamenti…» Sennar sapeva che il Consigliere Anziano era l’unico a pensarlo. Si sentiva circondato da sguardi ostili. «Ma le forze del Tiranno hanno il controllo di cinque Terre, e in ciascuna di esse si producono incessantemente nuove armi e risorse per la guerra. Le nostre truppe sono numericamente inferiori e i Cavalieri di Drago troppo pochi. Occorre trovare una soluzione.»
Dagon aveva concluso e tornò a sedersi.
Nella sala del Consiglio calò il silenzio.
Toccava a Sennar. Si alzò. Quello che doveva dire non gli piaceva. Quando iniziò a parlare gli tremava la voce. «Dagon, Consiglieri… Sì, la situazione è drammatica. I laboratori del Tiranno sfornano nuovi guerrieri a getto continuo. Nella Terra del Vento abbiamo potuto osservare nuove bestie, una nuova sorta di uccelli di fuoco, spesso cavalcati da fammin in miniatura. Noi non abbiamo da opporre che uomini e gnomi. Ultimamente abbiamo avuto molte perdite, il morale delle truppe è basso. Devo ammetterlo: anch’io spesso sono preda dello sconforto.» Qualche sorriso maligno accompagnò quell’ultima affermazione, ma Sennar proseguì. «I soldati continuano a morire sui campi di battaglia e le nostre forze si assottigliano sempre di più, in un circolo vizioso. Potrei chiedervi più truppe, ma non basterebbe. Abbiamo a che fare con un nemico molto potente: Dola è un grande stratega, oltre che un guerriero apparentemente imbattibile.» Sennar si strofinò gli occhi. Quella notte, in attesa della riunione, la tensione lo aveva lasciato dormire ben poco. «Ci attaccano perché vogliono la Terra dell’Acqua, che è la più sguarnita delle Terre libere. Non ha un proprio esercito e può fare affidamento solo sulle guarnigioni della Terra del Sole. Al confine gli attacchi si susseguono. A tutt’oggi siamo riusciti a preservare il territorio, tuttavia il prezzo che stiamo pagando è caro: il numero di vittime è altissimo. Ho avuto molti colloqui con Galla e Astrea. Tutte le ninfe si impegneranno a erigere una barriera magica a difesa dei confini. È la loro unica arma, ma quanto potrà durare?»
Il consigliere Sate, uno gnomo della Terra del Sole, lo interruppe: «E tu cosa proponi?».
Aveva sempre guardato Sennar con disprezzo, fin da quando era diventato consigliere. Purtroppo non era l’unico.
Il giovane mago fece una lunga pausa. Guardò i Consiglieri a uno a uno, poi si fece coraggio. «Non ci resta che chiedere aiuto ai popoli del Mondo Sommerso.»
Il mormorio di stupore che Sennar si era aspettato fu un vero e proprio boato di sdegno.
Sate parlò per tutti. «Il Mondo Sommerso?» Si rivolse all’assemblea con tono sarcastico. «Forse il consigliere Sennar non sa che il Mondo Sommerso ha deciso di disinteressarsi di noi durante la guerra dei Duecento Anni. Del resto è molto giovane, il consigliere Sennar. Questo dettaglio storico gli sarà sfuggito!»
Nella sala del Consiglio risuonò qualche risata.
Sate guardò Sennar con freddezza. «Non sappiamo più nulla di quel continente, consigliere. Si è persa perfino memoria di come raggiungerlo.»
Un mormorio di approvazione si levò dall’assemblea.
Sennar scosse la testa. Fatti forza, continua. «Il Tiranno è un pericolo per tutti, anche per il Mondo Sommerso. E da soli non ce la possiamo fare.»
Prese la parola la ninfa che rappresentava la Terra dell’Acqua: «Hanno deciso di abbandonarci, Sennar. Non torneranno sui loro passi. Non possono dimenticare che ci fu un tentativo di invasione da parte del Mondo Emerso. E poi, come faremmo ad arrivarci?».
Sennar estrasse dalla sua bisaccia una pergamena arrotolata. «L’ho trovata nella biblioteca del palazzo reale: è una carta che mostra approssimativamente la posizione del continente perduto.»
La mappa passò di mano in mano tra tutti i Consiglieri. Era imprecisa, vecchia e smangiata dal tempo.
«Se crede di trovare il Mondo Sommerso con questa…» commentò qualcuno.
Sennar strinse i pugni e alzò la voce. «Io non posso stare a guardare la distruzione del nostro mondo! È per questo che sono entrato nel Consiglio! Il Tiranno sta per distruggerci. Da soli non possiamo farcela. So bene che molti generali non vogliono ingerenze da altri eserciti. E so anche che molti di voi e molti regnanti non vogliono abbassarsi a chiedere aiuto al Mondo Sommerso…»
Si levò una voce indignata: «Come ti permetti, giovanotto, di insinuare simili malignità!» ma Dagon la zittì con un gesto.
Sennar si calmò. Riprese. «La verità è che non vogliamo umiliarci con chi ci ha rinnegato e che il Consiglio teme di perdere prestigio a vantaggio dell’esercito. A tutto questo io rispondo: non mi interessa. I giochi di potere ora sono fuori luogo. So anch’io che è un’impresa disperata, ma non voglio lasciare nulla d’intentato. Se questo è l’unico modo per dare una speranza di sopravvivenza alla gente del Mondo Emerso, be’, io sono pronto a provare. E voi?»
Aveva finito. Il cuore gli scoppiava in petto. Si sedette.
La sala si chiuse in un lungo silenzio.
Poi si alzò il consigliere della Terra del Mare. «E chi dovrebbe compiere quest’impresa?»
«Una delegazione di politici e militari. Un consigliere e un generale, per esempio. Così sarebbe perfetto» rispose Sennar.
Il silenzio si fece ancora più assorto.
Fu Dagon a romperlo. «Consiglieri, io credo che Sennar abbia ragione. La guerra si trascina da troppi anni. È un miracolo che vi siano ancora Terre libere. Non possiamo attendere oltre. Porremo la sua proposta ai voti.»
Sate si alzò in piedi. «E sia, votiamo. Ma a una condizione: che sia lui a partire per il Mondo Sommerso, visto che è tanto convinto di quello che dice.»
«Se approverete la mia proposta, partirò» rispose Sennar di slancio.
«Non ho finito, consigliere» continuò Sate. «I generali servono più che mai in questo periodo. Suggerisco che Sennar ascolti le loro richieste e le presenti da solo agli abitanti del Mondo Sommerso. Se li trova, naturalmente…»
Poi il Consiglio dei Maghi votò.
Sennar sarebbe andato alla ricerca del Mondo Sommerso. Da solo.
Sono un codardo si ripeteva Sennar attraversando la Terra del Sole. Da lì avrebbe raggiunto la Terra del Mare. Poi avrebbe solcato l’oceano alla volta di un continente che, per quanto ne sapeva, poteva anche non esistere più. Aveva paura. Erano centocinquanta anni che non si avevano notizie del Mondo Sommerso. Un’eternità.
Per il momento era diretto all’accampamento di Nihal.
Da quando aveva lasciato l’Accademia per raggiungere il suo nuovo maestro si erano scritti, di tanto in tanto, ma erano mesi che non si vedevano. Ora stava andando a dirle addio, forse per sempre.
Sennar sapeva che la partenza gli era tanto penosa anche per quello.
La stava lasciando per l’ennesima volta. Questo avrebbe pensato Nihal. E l’avrebbe odiato.
Ma anche se aveva paura, anche se soffriva all’idea di separarsi dalla persona a cui teneva di più al mondo, anche se le probabilità che quella lacera mappa non lo portasse da nessuna parte erano alte, Sennar sapeva che doveva provare.
Arrivato alla base il mago si fece indicare direttamente l’arena. Era certo di trovarla là. Ma il grande spiazzo circolare era gremito di soldati che si allenavano. Della mezzelfo non c’era traccia.
«Dove posso trovare Nihal?» chiese a uno scudiero.
«Quella furia scatenata? Sarà di sicuro dal suo drago. Bella coppia di svitati, quei due!»
Sennar raggiunse la scuderia. Percorse tutto il lungo corridoio guardandosi intorno. Poi la vide.
Nihal era china accanto a Oarf, gli stava dando da mangiare.
Il mago si fermò a guardarla in silenzio, emozionato. Le sembrava che in quei pochi mesi fosse diventata ancora più bella. Si avvicinò. «Nihal?»
La ragazza alzò gli occhi e si scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. Non si alzò neppure. «Ciao, Sennar. Come mai da queste parti?»
Sennar rimase lì, deluso. «Che accoglienza…»
Aveva sperato che gli balzasse al collo, che gli dicesse che era contenta di vederlo. Ma Nihal non era più abituata a simili dimostrazioni d’affetto. Continuò a porgere pezzi di carne al drago, che scrutava sospettoso il mago con due enormi occhi scarlatti.
Passeggiarono per il campo. Nihal raccontò a Sennar dei progressi che aveva fatto con Oarf e del fatto che era riuscita a cavalcarlo, tacendogli però la reazione del suo maestro. Era ancora arrabbiata con Ido. Non si parlavano da giorni e l’allenamento era ancora sospeso.
Sennar ascoltava ma era stranamente taciturno. Continuarono a camminare, ma tutti i tentativi di conversazione di Nihal caddero nel vuoto.
«Oh, insomma, Sennar. Che cosa c’è?» gli chiese infine.
«Ti fa davvero piacere che sia venuto?»
«Che domande fai? Certo che mi fa piacere.»
«Era tanto tempo che non ci vedevamo e… Non so, Nihal. Sento che non hai più bisogno di me.»
La voce del mago era amara. La ragazza si fermò. «Non capisco che cosa intendi.»
«Voglio dire che tu non hai più bisogno di nessuno. Hai trovato il modo di vivere senza dipendere dagli altri, e non so se questo atteggiamento mi piace. Anzi, non mi piace per niente.»
Nihal lo guardò con freddezza. «La mia vita è affar mio, se non ti dispiace.»
«No, la tua vita non è solo affar tuo. È anche affar mio, e di Soana, e di tutti quelli che ti vogliono bene. Io non ti riconosco più, Nihal.»
Nihal fu colpita da quelle parole come da uno schiaffo. Sentì la rabbia montare. «Si può sapere che ti prende? Che accidenti stai dicendo? Che cosa avete tutti quanti contro di me? “Non devi odiare”, “così non va”, “non sei più la stessa”! Solo questo sapete dirmi. Ma tu sei forse nella mia testa? Sai quello che penso, quello che provo? Allora sta’ zitto e non parlare di cose che non conosci!»
Tra i due ragazzi calò un lungo silenzio. Poi Sennar abbassò gli occhi. «Devo partire. Non so quando tornerò.»
Nihal rimase interdetta. «E dove vai, stavolta?» chiese sottovoce.
«Nel Mondo Sommerso, a chiedere rinforzi.»
A Nihal ci volle un po’ per capire quello che il mago le stava dicendo. «Stai parlando del continente perduto?»
«Sì.»
«Perché tu?»
«È stata una mia proposta.»
«Capisco.» Nihal tirò un calcio a una pietra. «Bene. Fa’ come ti pare» concluse, poi si voltò e tornò a grandi falcate in direzione della scuderia.
Quante volte aveva già vissuto quella scena? Mille, le sembrava. Forse il suo destino era di vedere allontanarsi tutti coloro che amava.
Sennar la raggiunse, la agguantò per un braccio, la costrinse a voltarsi. Si mise a urlare. «Perché per una volta non dici quello che pensi? Perché non urli, non ti arrabbi? Fai qualcosa, maledizione! Dimmi che non vuoi che vada! Dimostrami che sei ancora una persona, e non una spada!»
Nihal si liberò dalla presa. Il sangue le pulsava alle tempie. Non si diede neppure il tempo di pensare. Agì d’impulso, come in battaglia. La mano corse all’elsa. Sguainò la spada.
Sulla guancia di Sennar comparve un lungo segno rosso.
Per un istante fu come se il tempo si arrestasse. Anche il sangue non fluì subito dal taglio, ma passò qualche attimo prima che colasse dal viso del mago fino a terra, in un’unica goccia.
Per la prima volta da quando aveva iniziato a combattere, a Nihal cadde la spada di mano. Aveva ferito Sennar, che innumerevoli volte l’aveva aiutata, protetta, curata. Sennar, che era l’ultima persona che le rimaneva, l’unico che la capiva, il suo amico. «Sennar… io…»
Il mago sorrise con amarezza. «Va bene. Parto con un ricordo di te che non mi abbandonerà.» Si sfiorò il taglio con le dita. «Torna a vivere, Nihal. Fallo per te. O magari per Fen, che ora non c’è più e che tu ami tanto.»
Sennar se ne andò senza voltarsi. Per la prima volta dopo la morte di suo padre, pianse.
Nihal non sapeva per quanto tempo era rimasta lì, sul viottolo di ghiaia, impietrita, a guardare il sangue di Sennar che lambiva il filo della sua spada. Le sembrava di non avere la forza di muoversi.
Fu Ido a riscuoterla da quel torpore. «Si può sapere dove ti eri cacciata? Forza, si sta facendo buio.»
Nihal lo seguì, consumò la cena e andò a letto.
Guardò a lungo il soffitto, non riusciva a dormire.
Poi sentì uno strano silenzio e si affacciò alla finestra. Nevicava.
L’allenamento non riprese per altre due settimane. Per i primi giorni a Nihal andò bene così. Da quando Sennar era partito non aveva voglia di fare niente. Passava le ore con Oarf, semplicemente guardandolo, mentre lui la studiava con aria interrogativa.
Alla fine della seconda settimana la ragazza pensò di aver scontato a sufficienza la sua colpa. Era ora che Ido ricominciasse a farla lavorare. Aveva bisogno di cancellarsi dalla testa l’immagine di Sennar con la guancia sfregiata, che le dava le spalle e si allontanava. Aveva bisogno di combattere. Decise di parlare al suo maestro.
Lo trovò che si lucidava l’armatura.
«Non toccherebbe a me?» gli chiese.
Ido non rispose.
Nihal andò subito al dunque. «Volevo chiederti scusa, Ido. Ammetto di essermi comportata da stupida. Ti prometto che d’ora in poi mi impegnerò a obbedirti. Ti prego solo di ricominciare ad allenarmi.»
Lo gnomo continuò imperterrito a far splendere la corazza dell’armatura.
«Ido?»
«Cosa, Nihal?»
«Ti prego. Dammi un’altra possibilità.»
Ido non la guardò neppure. «No, Nihal.»
La ragazza incassò il colpo ma non si arrese. «Perché no?»
«Tu pensi che basti venire qui con l’aria da agnellino?»
«Io non penso niente, Ido. Io voglio diventare un cavaliere e, ti giuro, ho fiducia solo in te. Io voglio obbedirti! È solo che non ce la facevo più ad aspettare. Sono stata una sciocca, lo so. Ma…»
Ido era passato ai gambali. «Domani parto per la battaglia. Ne riparleremo quando torno.»
«Cosa vuol dire “parto”?»
Ido si decise ad alzare gli occhi e li puntò in quelli di Nihal. «Che io e altri andremo a combattere.»
Nihal non credeva alle sue orecchie. «E mi lasci qui?»
«Io non porto con me guerrieri di cui non posso fidarmi. Ho fatto un errore di valutazione con te: sei ancora una bambina, che non sa trattenersi e fa solo quello che le pare.»
Nihal abbandonò ogni ritegno. «Non puoi farmi questo! Io devo combattere! Lo sai quanto è importante per me!»
«È proprio perché lo so che penso tu te ne debba staccare per un po’. C’è altro oltre alla guerra, lo capisci? Anche per te c’è un posto in questo mondo, un posto in cui tu possa sentirti a casa.»
Ma Nihal non capiva, non voleva capire. «Sei ingiusto, sei ingiusto!» urlò.
Ido non si lasciò commuovere.
Nihal corse a chiudersi nella sua camera.
Preparò tutto in segreto: lucidò la spada, mise i vestiti per la battaglia sul letto, pronti per essere indossati. La notte non dormì, l’orecchio teso a cogliere i preparativi di Ido alla partenza.
Non le importava che cosa avrebbe detto il suo maestro, né sapere contro chi combattevano e in che modo. Sentiva che il limite era stato passato. Combattere, ora e subito: questo bisognava fare.
Lo sentì uscire dalla capanna prima dell’alba. La neve cadeva a larghe falde. Le truppe iniziavano a muoversi. Nihal si avvolse nel mantello e uscì dalla finestra.
Scavalcò la recinzione della base e le camminò tutto intorno, in modo che nessuno la vedesse.
Per evitare di essere riconosciuta aveva deciso di indossare un’armatura. Avrebbe avuto problemi a muoversi in battaglia, ma confidava di farcela ugualmente.
Nella sua vita di guerriero aveva superato difficoltà anche maggiori.
Attese l’esercito sul limitare del bosco. Sul bianco della neve il suo mantello era troppo visibile, perciò decise di camminare nel folto, affidandosi all’udito per riconoscere il tragitto dei soldati dal loro passo ritmato. Attese a lungo, ma fu ripagata della sua pazienza: le truppe iniziarono a sfilare.
Lo schieramento era ampio e la colonna di soldati assai lunga.
Nihal si posizionò in corrispondenza della coda e iniziò la sua marcia tra gli alberi. La neve amplificava lo scricchiolio dei suoi passi, ma era comunque impercettibile rispetto al fragore che producevano i soldati che marciavano. Continuò a sgusciare al fianco della colonna, furtiva come una donnola che fa la posta alla sua preda.
Sentiva indistintamente il mormorio dei soldati. Cercò di cogliere le loro parole, per capire qualcosa della strategia che avrebbero adottato in combattimento, ma la colonna era troppo lontana. Poco male. Saprò tutto all’arrivo.
Marciarono a lungo. Nihal non era abituata al peso della corazza. L’aveva rubata dall’armeria quella mattina stessa, dopo che l’accampamento si era svuotato. Aveva giudicato a occhio che le potesse andare bene, ma dentro ci stava davvero scomoda: le stringeva sul seno, era larga sui fianchi e le graffiava le spalle.
Vide lentamente il cielo imbiancarsi per l’aurora: la neve continuava a scendere imperterrita. Non si era ancora abituata a quello spettacolo: nella Terra del Vento non nevicava quasi mai. Si ricordava ancora lo stupore e la gioia della prima nevicata che aveva visto: Livon l’aveva portata sul tetto di Salazar e lei si era messa con il naso per aria a guardare i fiocchi che volteggiavano come petali nell’aria fredda. Poi, tra le risate del padre, aveva aperto la bocca e aveva cercato di mangiarli al volo.
Pensò per un istante alla sua prima battaglia. Risaliva solo a qualche mese prima, eppure era cambiato tutto.
Quella volta era stata emozionata, tesa. Impaurita, anche.
Ora camminava e basta. Non provava nulla se non impazienza. Era una marcia come un’altra, una nuova battaglia. Nient’altro.
Quando giunsero sul luogo dello scontro, Nihal si confuse con le truppe e riuscì a entrare nell’accampamento approfittando della calca.
L’elmo era una tortura proprio come se lo ricordava: le stringeva sulle orecchie e le faceva mancare l’aria. Così paludata muoversi era più complicato del previsto, ma fu contenta quando si accorse che poteva scegliere in che ruolo combattere: di solito era Ido che stabiliva la sua posizione, e invariabilmente la metteva tra le file centrali, dove l’impegno e il rischio erano minori. Ora non c’era nessuno che decidesse per lei.
Si diresse senza esitazioni verso la prima linea. Quel giorno avrebbe dato il meglio di sé.
Si mossero verso il campo di battaglia a metà mattina.
Fino a quel giorno Nihal aveva partecipato solo a incursioni a sorpresa o ad azioni volte a liberare piccole zone strategiche.
Quella era tutta un’altra impresa.
Per la prima volta si trovò di fronte la linea nemica. Tra lei e le truppe d’assalto del Tiranno c’erano solo poche braccia di distanza e uno spesso muro di neve, che le confondeva la vista e le entrava in bocca a ogni folata.
Una lunga linea nera, irta di lance e chiusa da scudi, le sbarrava la vista.
Era una linea viva. Ondeggiava come un serpente che coglie pigramente i raggi del sole e del serpente aveva la compattezza. Era un corpo unico di tanti fammin che si muovevano all’unisono, arti di un unico organismo mosso solo dalla volontà del Tiranno.
Lo spettacolo la turbò. Sentì il cuore accelerare.
Un generale che non aveva mai visto li passò in rivista, rinfrescando loro la memoria sul piano tattico: sarebbero partiti all’attacco per sfondare d’impeto il fronte nemico, penetrando fino alle seconde file. Quindi si sarebbero aperti in due ali per facilitare l’accerchiamento dei reparti più esterni.
«Al mio ordine, disperdetevi e iniziate la ritirata» concluse il generale allontanandosi.
All’improvviso Nihal vide un individuo magro raggiungere il generale e camminargli a fianco, la lunga veste sbattuta dal vento.
Sennar!
Si mosse, ma l’armatura la impacciava, la massa di soldati la ostacolava. Sennar! Voleva raggiungerlo, abbracciarlo stretto e pregarlo di perdonarla, di non partire, di restare con lei. Spinse bruscamente un guerriero, guadagnò terreno.
Poi quello si voltò.
Non era Sennar.
Era un mago, forse un rappresentante del Consiglio, ma non era Sennar. Sennar era partito.
Nihal provò una stretta al petto.
I Cavalieri di Drago sarebbero partiti dalla seconda linea. Tra loro Nihal intravide anche Ido, ma neppure per un istante provò rimorso per quello che stava facendo.
Si predispose a scattare al segnale d’attacco. Alla vista di tutti quei nemici il cuore le batteva all’impazzata, mentre la neve cadeva sempre più fitta. Nonostante il freddo, sudava sotto l’armatura.
Poi udì il grido che dava il via alla carica.
La prima linea iniziò una corsa precipitosa che per molti terminò sulle lance che i fammin avevano abbassato all’ultimo istante.
L’impatto con la prima linea nemica fu incredibilmente violento e nella confusione Nihal cadde a terra. L’armatura la salvò da un colpo d’ascia. Si rialzò a fatica. Iniziò a combattere.
I fammin sembravano spuntare dal nulla, moltiplicandosi. Il campo era già ricoperto di cadaveri.
Nihal cercava di non pensare a nulla, si gettava sul nemico con odio, ma lo scontro era diverso dal solito. Non c’erano davanti altre file di guerrieri ad attutire l’impatto. Le sembrava che tutti i nemici fossero su di lei. Faceva fatica ad avanzare. Non vedeva altro che una selva di lance, lame e spade che oscuravano il cielo.
Continuò a colpire, a menare fendenti in ogni direzione mentre il sangue arrossava la sua armatura.
Poi iniziò a cadere una fitta pioggia di frecce. Ma Nihal aveva smesso di prestare attenzione a ciò che le accadeva intorno.
Finalmente la sua mente si svuotò. Sennar, la solitudine, la morte, la sua missione: tutto si dissolse nell’aritmico cozzare delle spade e nei movimenti precisi del suo corpo. Persino il dolore fisico scomparve. Nihal non sentì il ferro delle lame nemiche che violava la sua carne.
L’urlo che ordinava la ritirata si levò inatteso. Il momento era ben scelto, perché sembrava davvero che l’esercito delle Terre libere fosse in svantaggio.
Nihal lo sentì, ma per lei non aveva senso ritirarsi. Quella era la sua guerra, era la sua vendetta contro il nemico, seguiva logiche diverse da quelle che muovevano il resto dei combattenti.
Ignorò il segnale. Gli altri guerrieri arretrarono rapidamente e lei rimase isolata tra gli avversari. Se ne accorse quando ormai il fronte amico era già due file oltre la sua posizione. Per un attimo rimase smarrita.
Dovunque si girasse c’erano esseri ripugnanti che si avventavano su di lei con asce grondanti sangue.
Un colpo alla testa le fece volare via l’elmo.
Un grido solo emerse dalle bocche dei fammin: “Un mezzelfo!”.
Nihal fece appello a tutte le sue forze. Avanzò verso il primo nemico, ma molti la assalirono da ogni lato. Quelle bestie ridevano, le bocche spalancate a mostrare le zanne, ridevano di lei.
Si fece prendere dallo sconforto. Iniziò ad agitarsi a caso, perdendo coordinazione nei movimenti. La colpirono ovunque, e ogni colpo andava a segno. Nihal sentì una gamba cedere. Si accorse di avere una ferita alla coscia. Cadde in ginocchio. In un attimo i nemici la sovrastarono. Ovunque si girasse c’erano solo fammin, che sghignazzavano divertiti da quella facile preda.
Ho paura?
La domanda le attraversò la mente come una folgorazione.
Le risuonavano nella testa le parole di Ido: La paura è un’amica pericolosa: devi imparare a controllarla, ad ascoltare quello che ti dice. Se ci riesci, ti aiuterà a fare bene il tuo dovere. Se lasci che sia lei a dominarti, ti porterà alla fossa.
No, non aveva paura.
Si muoveva automaticamente, schivando i colpi.
Sto per morire, pensò.
Non provò nulla. Solo un leggero fastidio alla gamba ferita.
Di colpo una fiammata investì alcuni dei fammin che le stavano intorno. Nihal si sentì afferrare saldamente per i capelli. Con le ultime forze si aggrappò alla mano che la teneva e un attimo dopo era in groppa a Vesa.
I fammin superstiti si gettarono addosso al drago ululando di rabbia.
Una scure colpì Ido a un braccio, ma lo gnomo non se ne curò. Mentre Vesa sputava fuoco e fiamme, il cavaliere sguainò la spada e iniziò a infierire sui fammin. Il sangue scendeva copioso dalla ferita, ma lui continuò a combattere, e intanto con la mano libera stringeva a sé la ragazza per proteggerla dalle frecce.
Nihal guardò il suo maestro. Nonostante non gli avesse obbedito, era venuto a salvarla e ora stava rischiando la vita per lei.
Che cosa mi è successo? Perché non ho avuto paura? Perché non ho obbedito agli ordini?
Di colpo sentì l’enormità di quello che aveva fatto. Lacrime calde iniziarono a rigarle il viso sporco di polvere e di sangue.
Infine si levarono in volo. Dall’alto Nihal si accorse che l’accerchiamento non era andato a buon fine. Un gruppo avanzato rischiava di restare isolato in mezzo al nemico.
Chiuse gli occhi e riprese a piangere in silenzio.
Atterrarono alle spalle del campo di battaglia. Ido spinse bruscamente Nihal giù dall’arcione. La ragazza cadde ai piedi di un soldato.
«Mettila in cella con i prigionieri» ordinò Ido.
«Ma… non è uno dei nostri?»
«Fai quello che ti dico!» sbraitò lo gnomo riprendendo il volo verso il campo.
Nihal non protestò quando il ragazzo la prese per un braccio e la trascinò verso un gabbione.
Continuò a piangere, e non smise neppure quando si accorse che i suoi compagni di prigionia erano cinque fammin. I mostri non la guardarono, non la schernirono. Rimasero accucciati, sofferenti.
Nihal si ritirò in un angolo della gabbia e si rannicchiò con la testa tra le gambe per non vederli.
Fu allora che accadde qualcosa di strano: da quel gruppetto sparuto di prigionieri sentì provenire un flusso di dolore senza speranza, un’afflizione che non avrebbe mai sospettato in quelle creature.
Nihal rimase frastornata da quella sensazione.
La gamba le pulsava, aveva perso molto sangue.
Non ebbe neppure la forza di recitare una formula di guarigione.
Si sentì sola e perduta. Sennar…
Scivolò lentamente nell’incoscienza.
Dopo qualche ora in gabbia fu portata in infermeria, dove le medicarono la ferita, che si rivelò superficiale. Quando si sentì meglio volle andare a seguire l’esito della battaglia dal colle che sovrastava il campo. Passò lassù l’intera giornata, assistendo alla disfatta con le lacrime agli occhi.
Furono due giorni di combattimenti ininterrotti, di sangue e morte.
La battaglia si concluse con una disfatta: l’esercito delle Terre libere non guadagnò neppure un braccio di terreno. Sul campo rimasero centinaia di caduti.
Le truppe tornarono alla base con il loro carico di feriti. Nihal camminava a fatica, ma non volle l’aiuto di nessuno. Percorse lentamente, con la mente svuotata, lo stesso tragitto che due giorni prima aveva affrontato con tanta impazienza.
Ido la attendeva nella capanna, fumando come di consueto la pipa. Era seduto su un robusto seggio di legno con alcuni cuscini a sorreggergli la schiena. Le larghe fasciature che gli coprivano il busto e il braccio erano qua e là intrise di sangue.
Nihal entrò a testa bassa, incapace di guardarlo negli occhi.
Lo gnomo fumava con rabbia, emettendo piccole nuvole di fumo compatto che si dissolveva nell’aria fredda della stanza. La guardò a lungo con sguardo torvo. Dopo un tempo che a Nihal parve interminabile, si tolse la pipa dalla bocca.
«Si può sapere cosa ti è saltato in mente?»
Nihal alzò gli occhi su di lui. «Io… volevo combattere.»
Lo gnomo si mise a urlare. «Hai disobbedito a me, non hai rispettato l’ordine di ritirata, hai rischiato di mandare a monte la strategia! Hai fatto il gioco del nemico, Nihal!»
Nihal rispose con un filo di voce. «Perdonami, Ido. Non sapevo quello che stavo…»
«Non raccontarmi balle, ragazza! Sapevi perfettamente quello che facevi! Oh, se lo sapevi! E vuoi che ti dica perché l’hai fatto? Perché a te non importa niente né della tua vita né di quella degli altri. Tu vuoi solo uccidere! Tu non sei un guerriero. Sei un’assassina.»
Nihal strinse i pugni. «Ti sbagli.»
«Mi sbaglio? Cosa distingue l’esercito delle Terre libere da quello del Tiranno? Dimmelo, avanti.»
Nihal ci pensò, ma ora che le parole di Ido la ferivano così profondamente le sembrava di non trovare risposta. «Che combattiamo per la libertà…» balbettò.
«Non te lo sei mai chiesto, vero?» ghignò Ido. «Eh, già, per te conta solo la tua vendetta!»
«Non è vero!» disse Nihal alzando la voce.
Ido balzò in piedi e le puntò un dito contro. «Zitta! La differenza tra noi e loro è che noi combattiamo per la vita. La vita, Nihal! Quella che tu non conosci, che neghi con tutte le tue forze. Combattiamo perché tutti abbiano diritto a vivere la loro vita su questa terra, perché ognuno possa decidere che cosa fare della propria esistenza, perché nessuno sia schiavo, perché ci sia la pace. Combattiamo per la gente che ha ballato con noi in piazza, per il mercante che ci ha ospitato, per le ragazze che amoreggiavano con i nostri soldati. E combattiamo con la consapevolezza che la guerra è orribile, ma che se non lo facessimo il mondo che amiamo andrebbe distrutto! Non è l’odio che ci muove! È la speranza che un giorno tutto questo finisca. L’odio è quello del Tiranno!»
Ido si risedette di schianto e abbassò la voce. «Non hai ragione di stare qui. Non sai nemmeno perché combatti. L’unica cosa che sai è che vuoi morire.»
«No! Io non sono così!» urlò Nihal.
«Tu hai paura di vivere. Ogni volta che scendi in campo speri che arrivi un colpo di spada che ti sollevi dalla responsabilità di affrontare la tua vita.
Cosa credi, che ci voglia coraggio per morire? Morire è facile. È vivere che richiede coraggio. Sei una codarda, Nihal.»
«Io non morirò prima di aver dato una mano a salvare questo mondo!»
«Ti credi un’eroina? È questo che pensi? Ebbene, non lo sei!»
Nihal cadde in ginocchio, le mani serrate sulle orecchie e gli occhi pieni di lacrime. «Sta’ zitto, sta’ zitto!»
Ido si alzò e le andò incontro. Per un istante Nihal credette che volesse consolarla, ma lo gnomo le prese le mani e gliele allontanò con forza dalle orecchie.
«No, ora mi ascolti! Ho creduto che ci fosse del buono in te. L’ho visto sepolto sotto una montagna di rancore e ho sperato di poterlo tirare fuori. Ma tu non hai mai voluto darmi retta, hai sempre fatto finta che andasse tutto bene…»
«No! No!»
«Te lo ripeto. Qui per te non c’è più posto. Se cerchi un posto dove combattere, quello è l’esercito del Tiranno. Hai scelto tu di diventare una macchina di morte: va’ insieme ai tuoi simili.»
Nihal urlò. Le lacrime sgorgavano inarrestabili dai suoi occhi. In piedi di fronte a lei, Ido la guardava senza pietà. Si rannicchiò per terra e continuò a piangere, squassata dai singhiozzi. Le sembrava che non avrebbe mai più smesso, che avrebbe pianto per sempre.
«Che cosa avrei dovuto fare, cosa?» chiese al suo maestro sollevando il viso arrossato. «Ero solo una bambina, capisci? Una bambina! Che ne sai di quello che ho visto nei miei sogni, delle stragi cui ho assistito?»
Ido si chinò e la guardò negli occhi. «Di che cosa stai parlando? Che storia è questa?»
Nihal continuò a singhiozzare. «Io ho visto il massacro del mio popolo! Bambini, donne, uomini! Notte dopo notte, per una vita intera! Mi sussurrano parole incomprensibili, mi perseguitano, mi dicono di vendicarli! Che cosa avrei dovuto fare?»
Ido rimase un istante pensieroso, poi si sedette di fronte alla sua allieva. Le parlò con dolcezza. «Tu sei libera, lo capisci? Libera! Il posto degli spiriti non è su questa terra. Quell’odio è loro, non tuo.»
Nihal si riscosse di nuovo. «E tutti quelli che sono morti? Per cosa sono morti? Qualcuno deve vendicare quella strage! Sono l’unica sopravvissuta di un popolo intero! Perché io?»
«I morti sono morti, Nihal. Chi è stato ucciso non ha altre possibilità in questo mondo. Non puoi fare niente per loro. Ma puoi fare qualcosa per chi è vivo, per chi subisce ogni giorno le atrocità del Tiranno.»
Lo gnomo scostò i capelli dal viso bagnato di Nihal. «Ascoltami. Anch’io ho visto cose terribili. Anch’io ho dovuto lottare contro l’odio che mi cresceva dentro. Poi ho capito che c’era gente che aveva bisogno di me. Per questo ho deciso di combattere. Io non so perché tu sia sopravvissuta. Ma sei qui, sei viva. Non puoi permetterti di sprecare la tua vita, perché non è solo tua, ma di tutta la tua gente.»
Nihal riprese a piangere, disperata, il corpo minuto scosso dai singulti.
Ido le cinse le spalle. «Piangi, piangi finché vuoi. Da quanto non lo facevi?»
Nihal non riusciva a fermarsi. «Ho visto morire mio padre. E poi Fen. Io lo amavo, Ido. Era lui che mi legava ancora a questo mondo, che mi dava una ragione per vivere. Dopo, mi è rimasto solo l’odio. Nient’altro.»
Ido guardò quella creatura sperduta e ne ebbe pietà. «Non è nell’odio che troverai una risposta, Nihal. Solo un ideale dà senso al combattere: non è facile trovarlo, non è facile essere coerenti con esso e perseguirlo, ma una vita, una lotta senza ideali non hanno significato.»
Le carezzò la testa.
Nihal continuò a piangere per tutta la giornata. I singhiozzi violenti si placarono, ma le lacrime non si arrestarono.
Ido non le disse altro. Era convinto che ora spettasse a lei trovare la strada. La lasciò seduta sul pavimento di legno della capanna, a singhiozzare con gli occhi premuti sulle ginocchia.
Mangiò solo, e durante tutta quella mesta cena ricordò tante cose che credeva di aver dimenticato, ma che non era mai davvero riuscito a rimuovere. I ricordi tornarono a graffiarlo.
Quando ebbe finito di cenare si accorse che dalla stanza di Nihal non proveniva più alcun rumore.
Socchiuse la porta.
Nihal era stesa sul letto, vestita, con la sua spada al fianco. Dormiva, e finalmente sembrava tranquilla.
Quando la mattina seguente Nihal si svegliò, le parve un giorno come un altro. Poi, con la consapevolezza che il risveglio porta con sé, iniziò a ricordare con dolore crescente quello che era accaduto. Affondò la testa nel cuscino.
Ido fece capolino dalla porta. «Buongiorno! Abbiamo dormito parecchio! Come ti senti?»
«La gamba mi fa un po’ male» rispose ricacciando indietro le lacrime.
«Mangia. Dopo ti porto in infermeria» disse Ido, e le mise sotto il naso una ciotola colma di latte.
Nihal aveva lo stomaco chiuso ma bevve lo stesso.
In infermeria le praticarono un incantesimo di guarigione: la ferita aveva iniziato a infettarsi.
A Nihal tornò in mente quando era stata sul punto di morire e per tre giorni consecutivi Sennar aveva evocato l’incantesimo più potente che conosceva, disputandola alla morte. Le sarebbe piaciuto che le mani che ora la sfioravano fossero le sue. Se ci fosse stato il suo amico quelle ore non le sarebbero sembrate tanto buie.
Ido rientrò all’infermeria nel tardo pomeriggio.
La trovò che guardava dalla finestra. Era tutto così calmo là fuori… Le sembrava che quel paesaggio bianco e addormentato assomigliasse alla sua anima. Il pianto l’aveva svuotata. Ora era calma.
«Nihal…»
La ragazza si girò verso il suo maestro.
«Devo parlarti.»
Ido si sedette sulla branda, accanto a lei. Nihal attese in silenzio.
«Credo sia meglio che tu ti allontani dal campo per un po’.»
Nihal sorrise amara, mentre le lacrime riprendevano a farsi strada lungo l’ovale del suo viso.
«Non ti sto cacciando, ragazza. Ma non ha senso che tu rimanga qui, ora. Voglio semplicemente che ti prenda una licenza. Certo, se vuoi rimanere non posso e non voglio obbligarti a partire. Ma se davvero vuoi trovare le ragioni di quello che fai, credo che tu debba andartene.»
Nihal lo guardò. «Io ho bisogno di qualcuno, Ido. Da sola non ce la faccio.»
«È una bugia, e lo sai: sei forte e ce la farai. Io non posso aiutarti più di così. Sei tu che devi scegliere: la vuoi questa licenza?»
Nihal fissò la coperta, indecisa. Forse Ido aveva ragione. Aveva bisogno di pensare. Doveva rimanere da sola. «Potrò stare via quanto voglio?»
«Tutto il tempo che vorrai. Io ti aspetterò.»
Nihal annuì.
Decise di andarsene quella notte stessa. Aveva capito di voler bene a Ido, non voleva lasciarlo: aveva vissuto troppi addii per sopportarne un altro.
Si alzò all’alba e sgusciò fuori dall’infermeria avvolta nel mantello. Faceva molto freddo. Entrò nella capanna del suo maestro dalla finestra, attenta a non fare il minimo rumore.
Non aveva molta roba da portare via: pochi vestiti, la sua spada.
E la pergamena con l’immagine di Seferdi. Quel foglio sgualcito assumeva ora un duplice significato: era tutto ciò che le restava delle sue origini e al contempo l’unico ricordo tangibile di Sennar.
Lo guardò a lungo, chiedendosi dove aveva sbagliato.
Che fosse davvero tutto in quel foglio il significato della sua esistenza? Lo aveva pensato spesso, ma ora non era più sicura di nulla. Arrotolò con cura la pergamena e la mise insieme ai panni nel fagotto che era tutto il suo bagaglio.
Passò dalla scuderia: non poteva andare via senza salutare Oarf.
Trovò il suo drago che dormiva. Sprofondato nel sonno sembrava meno feroce che mai. Nihal sentì una fitta di tenerezza per quell’animale. Lo accarezzò.
Il drago si svegliò. Con il tempo aveva imparato a capire quella ragazza, sapeva quando soffriva. La guardò e seppe che lo stava lasciando.
Nihal lo carezzò con più vigore. «Io devo andare, Oarf. Devo capire cosa desidero veramente. Solo allora potremo volare insieme.»
Oarf spostò il muso, sottraendosi alle carezze. Allora Nihal gli cinse il collo e appoggiò la testa sul suo petto. «Perdonami. Tornerò».
Oarf abbassò il muso sul capo di Nihal e restarono così per un po’: un drago e una ragazza, vicini.
Il sole iniziava a illuminare il cielo livido di neve: presto il campo si sarebbe svegliato.
Nihal prese un cavallo e vi montò in groppa con qualche difficoltà, perché la gamba aveva ricominciato a farle male.
Non appena ebbe varcato la soglia della base, lanciò l’animale al galoppo verso la foresta.
Ido si svegliò con un presentimento.
Andò in infermeria senza neppure vestirsi, correndo scalzo sulla neve soffice.
Il letto di Nihal era vuoto.
Si maledisse mille volte, perché non avrebbe dovuto parlare a Nihal della possibilità di andarsene prima che fosse guarita.
Tornò nella capanna imprecando contro tutti gli dèi, fece irruzione nella stanza di Nihal. Sul letto c’era una lettera.
Caro Ido,
perdonami se me ne vado così.
Non ti ho salutato perché sapevo che non mi avresti permesso di partire subito, e forse anche perché ero certa che se ti avessi visto ancora avrei cambiato idea.
Me ne vado e mi lascio alle spalle le mie lacrime e il mio dolore, che ho deciso di gettare via.
Non so se tornerò.
Non so se saprò vivere lontana dal campo di battaglia.
L’unica cosa di cui sono sicura è che, per la prima volta, voglio provare a capire chi sono.
Grazie per tutto quello che hai fatto per me.
Averti per maestro è stato importante. Sei il miglior guerriero che io abbia mai conosciuto, e l’unica persona che mi abbia aperto gli occhi. Addio.
La tua unica allieva.
Nihal scese il fianco della montagna seguendo il corso di un ruscello che gorgogliava allegro tra le rocce imbiancate.
Dovette procedere a lungo su sentieri sconnessi e giunse in piano solo quando il sole era già alto. Il bosco iniziava a sfoltirsi. Il cielo si mostrava a tratti spezzando la trama marrone dei rami spogli.
Il cavallo era stanco, lei esausta: aveva sempre più caldo e la gamba le bruciava. Si fermò; con quella mezza giornata di marcia aveva messo tra sé e la base abbastanza leghe per non cedere alla tentazione di tornare indietro.
Appena smontò da cavallo ebbe un capogiro. Si sedette su un masso e respirò profondamente. Provò a recitare un incantesimo di guarigione, ma si sentì di nuovo svenire. Se andava avanti così non ce l’avrebbe fatta. Doveva trovare del cibo e un posto dove riposarsi un po’. Dopo una dormita sarebbe stato tutto più facile e forse sarebbe anche riuscita a curarsi.
Si chinò e bevve avidamente dal ruscello: l’acqua gelida parve un nettare per la sua bocca riarsa. Scotto. Devo avere la febbre. Era stanca, e non solo fisicamente. Dopo solo mezza giornata di vagabondaggi, già le sembrava di non aver mai avuto una casa.
Guardò in alto: il cielo era ora di un blu profondo, senza neppure una nuvola. Volare via, andare lontano, non tornare più…
La riscosse uno strillo, una voce sottile e piena di paura. Nihal si alzò a fatica e iniziò a correre verso il luogo da cui proveniva quel grido.
Altre urla, un pianto disperato. Era la voce di un bambino.
Accelerò il passo per quanto le era possibile e sguainò la spada.
Giunse in una piccola radura, simile in tutto a quella in cui aveva superato la prova d’iniziazione alla magia.
Vide un bambino terrorizzato. Davanti a lui due enormi lupi grigi ringhiavano pronti ad attaccare.
Uno dei due animali balzò in avanti. Nihal scattò e si parò davanti al bambino, colpendo il lupo con un fendente. Lo ferì di striscio. L’animale si scagliò di nuovo e il suo compagno lo seguì a ruota. Questa volta la lama andò a segno: la testa del primo lupo schizzò via lasciando sulla neve una scia vermiglia, ma il secondo fu rapido ad addentare il braccio della ragazza.
Il bambino continuava a piangere coprendosi gli occhi.
Nihal urlò di dolore e si buttò a terra, cercando di staccarsi di dosso quella bestia famelica. Rotolarono come un solo corpo. I canini del lupo le laceravano la carne. Poi, con uno sforzo immane, lei puntò i piedi sul ventre dal lupo e lo spinse lontano.
Nel breve attimo in cui l’animale cercò di rialzarsi, Nihal gli fu sopra. Un fendente ben assestato gli tagliò la gola. Il mugolio strozzato del lupo morente si spense a poco a poco, lasciando spazio al silenzio ovattato della radura.
Nihal si accasciò sulla sua spada, il petto che si alzava e si abbassava alla ricerca d’aria. Si guardò intorno. Il bambino era rannicchiato ai piedi di un albero e singhiozzava piano.
Gli si avvicinò zoppicando, usando la spada come bastone. «È tutto finito. Non piangere. È tutto finito.»
Il bimbo si alzò e le abbracciò con forza le gambe. Nihal rivide se stessa bambina, sola nella foresta, terrorizzata. Gli accarezzò la testa.
«Dai, che sei un ometto coraggioso.»
Il bambino alzò il viso e la guardò con gli occhi pieni di lacrime. Era davvero molto piccolo. «Grazie, signore, grazie!»
Signore? Mi ha preso per un uomo! «Ti sei perso?»
Il bimbo scosse la testa. «No. Stavo giocando con i miei amici e siamo entrati nel bosco. Giocavamo a nascondino, gli altri si erano nascosti… e poi sono arrivati i lupi!» Tirò su con il naso.
Nihal si sforzò di sorridergli, ma le faceva male dappertutto. Era scossa dai tremiti e il sudore le si stava ghiacciando addosso. «Vuoi che ti accompagni a casa?»
Il bambino annuì.
«Come ti chiami?»
«Jona, signore.»
«Sei mai stato a cavallo, Jona?»
Lui scosse con decisione la testa.
«Bene. Vorrà dire che questa sarà la prima volta.» Lo prese per mano e si incamminarono nel bosco.
Il cavallo accorse subito al richiamo della ragazza.
«Metti un piede lì e tirati su» disse Nihal a Jona, e lo aiutò a salire con il braccio sano. Poi, con grande fatica, montò in sella anche lei.
Cinse Jona con un braccio e spronò il cavallo. Il bambino le si appoggiò al petto. «Ma tu sei una donna! Sei morbida come la mamma!» fece stupito.
Nihal sorrise debolmente. «Eh, già…» Tremava e iniziava ad annebbiarlesi la vista. Coraggio, Nihal. Puoi farcela.
«È lontana casa tua?»
«No, è dopo il paese, ti ci porto io.»
«Quanti anni hai?»
«Sette» disse lui con voce squillante. La paura era passata.
«Non devi andare nel bosco: la mamma non te l’ha detto?»
«Sì, ma se non ci vado gli altri mi dicono che sono fifone…»
«E tu rispondi che loro sono stupidi. Sei stato fortunato perché passavo io, ma se fossi stato da solo?» Nihal pensò che a quell’età aveva fatto cose ben più pericolose insieme a quegli scalmanati dei suoi amici. «Manca molto?» È tutto sotto controllo. Non sto così male.
«No, gira a destra, così facciamo prima.»
«Sei un’ottima guida, Jona.»
Nihal si ostinava a parlare nella speranza che il torpore non avesse la meglio, ma si sentiva esausta. Quella volta a Salazar stavo molto peggio. Non sto così male…
Sentì solo Jona che strillava: «Mamma! Mamma!».
Una donna corse incontro al bambino e lo strappò dal debole abbraccio di Nihal. «Jona! Che cosa è successo? Cos’è tutto questo sangue?» Lo strinse forte a sé, esaminandolo per vedere se fosse ferito.
«Ero nel bosco… c’erano i lupi… la signorina mi ha salvato…» Finalmente al sicuro tra le braccia della mamma, Jona ricominciò a piangere.
«Quante volte ti ho detto di non andare nel bosco, quante?» disse la donna accarezzando il viso del figlio.
Poi sentì un tonfo.
Il cavaliere che le aveva riportato il suo bambino era un fantoccio nero a terra.
Quando Nihal si riprese, la prima cosa che percepì, prima ancora di essere del tutto cosciente, fu la morbidezza della coltri nelle quali era avvolta. Spalancò gli occhi: su di lei era chino un volto infantile, vicinissimo.
«Mamma! Mamma! Si è svegliata!»
L’urlo del bambino le rimbalzò nella testa dolorante. Jona si rimise a guardarla con curiosità. Nihal sbatté le palpebre, infastidita dalla luce.
«Jona, togliti da lì! Lasciala respirare!»
Nel campo visivo di Nihal apparve una figura di donna: era giovane e formosa, con un bel viso cordiale. Ma dove sono finita?
«Come ti senti?»
Aveva una voce melodiosa e c’era una nota di sincera preoccupazione in quella frase.
«Male» sussurrò Nihal.
La donna sorrise. «È normale: le ferite erano gravi, avevi la febbre alta…» La donna fece un attimo di pausa. «Non so come ringraziarti per aver salvato mio figlio: ti sono immensamente riconoscente…»
Con un certo sforzo Nihal riportò a galla il ricordo di quello che era successo: il bambino, i lupi, il tragitto nel bosco. La memoria veniva meno dal momento in cui Jona le diceva che la casa era vicina.
«Non c’è bisogno di ringraziarmi» mormorò Nihal, e pregò perché la lasciassero in pace.
La donna dovette accorgersi della sua sofferenza, perché riprese a parlare a voce bassissima. «Hai avuto la febbre tutto ieri, poi stanotte è calata. Ti ho curato la ferita al braccio con qualche erba. Hai perso molto sangue, ma adesso va tutto bene. Ora dormi, ne hai bisogno.»
Così dicendo abbandonò la stanza e richiuse la porta dietro di sé.
Nihal assaporò il silenzio. Gettò un’occhiata fuori dalla finestra: la neve cadeva lenta e placida. Si tirò le coperte fino agli occhi e si sentì protetta.
Si accorse che l’ora di pranzo era vicina perché la casa si riempì di un piacevole aroma speziato: da dietro la porta provenivano rumori attutiti e, di tanto in tanto, la vocetta acuta di Jona.
La donna entrò nella stanza portando un vassoio di legno. Sopra c’erano una scodella e un tozzo di pane nero. Nihal cercò di sollevarsi, ma si sentiva troppo debole.
«Aspetta, ti aiuto» fece la donna. Posò il vassoio a terra e la sollevò, mettendole il cuscino dietro la schiena.
Nihal si guardò intorno: la camera era piuttosto piccola e tutto l’arredamento consisteva nel letto, in un grande specchio e in una cassapanca sotto la finestra, dalla quale pendeva una tenda azzurra di cotone sottile. Alla ragazza sembrò una reggia. Abbassò gli occhi e si accorse di indossare una camicia da notte di lana, con un nastrino a chiuderle il colletto.
«Dov’è la mia spada?» chiese allarmata.
La donna indicò un angolo della stanza.
«Non temere, è là.» La spada era ancora protetta dal fodero, e giaceva appoggiata al muro. «I vestiti li ho lavati, erano tutti intrisi di sangue. Spero che la camicia da notte ti tenga abbastanza caldo…»
Nihal arrossì: non era stata molto educata. «Sì, certo. Grazie» mormorò.
La donna le mise il vassoio sulle ginocchia e Nihal si gettò sulla scodella, sorseggiandone rumorosamente il contenuto, e poi addentando il pane.
Jona, fermo sulla soglia della camera, la guardava stupito.
La donna sorrise. «Deve essere parecchio che non mangi…»
Nihal si fermò un istante e guardò la scodella. «Be’… sì.» La gentilezza di quella donna la metteva in imbarazzo.
«Sbaglio o per te è l’ora del sonnellino?» disse la donna al bambino.
«Dai, mamma… Fammi restare con la signorina…»
«A nanna senza discutere!»
Jona se ne andò sbuffando.
«Così non ti darà fastidio: quando ci si mette è un chiacchierone insopportabile…»
Nihal ricominciò a mangiare in silenzio. Era un bel guaio quello che le era capitato: se voleva rifarsi una vita doveva andare il più lontano possibile dalla guerra. Stare lì era pericoloso. Doveva andarsene in fretta.
La donna la osservò per un po’. «Io sono Eleusi. E tu?»
Nihal la guardò con sospetto.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, che Eleusi si affrettò a colmare: «Non fa niente, se non vuoi dirmelo…».
La zuppa era quasi finita. La ragazza posò la scodella e diede una breve stretta alla mano che Eleusi le porgeva. «Nihal.»
«Che strano nome. Non è di queste parti. Da dove…?»
Ecco. Comincia a diventare curiosa. Nihal fece per alzarsi. «Ti ringrazio molto per tutto quello che hai fatto per me…»
Eleusi la fermò. «No, aspetta. Scusa se sono stata invadente. Volevo solo parlare un po’.»
Nihal si sentì a disagio. «Non è per questo, è che davvero non posso…»
Eleusi la costrinse dolcemente a coricarsi. «Ascolta, non sei in grado di metterti in cammino. Sei reduce dalla febbre, sei debole. E poi, ho dovuto darti dei punti sulla gamba…»
Nihal sgranò gli occhi. «Come?»
Aveva sentito parlare di quella pratica. Quando non c’era un mago che potesse recitare incantesimi di guarigione, toccava ai sacerdoti rimediare alle ferite, e talvolta prendevano ago e filo e ricucivano. Alla base, una volta, passando vicino all’infermeria aveva sentito gli strilli di un soldato a cui stavano somministrando quella cura: si era detta che avrebbe preferito morire piuttosto che farsi fare una cosa del genere.
«Sai, la ferita si era riaperta…» le spiegò Eleusi. «Devi riposare. Una settimana come minimo. Credimi, lo dico per te.»
Dannazione. Nihal si adagiò sul cuscino. «Sei una sacerdotessa?»
«No. Ma mio padre era sacerdote. È lui che mi ha insegnato. Ti è andata bene, sono molto ricercata come guaritrice!» scherzò la donna.
Nihal aveva finito di mangiare.
Eleusi vide il vassoio vuoto. «Hai ancora fame? Vuoi un po’ di formaggio? Ho qualche mela…»
Nihal annuì debolmente e la donna scappò via dalla stanza.
Tornò poco dopo con un piatto: qualche castagna, delle noci, un paio di mele e un minuscolo pezzetto di formaggio. «Non è granché, mi dispiace. L’annata è molto magra.»
Nihal addentò la mela: era dolcissima.
Eleusi si sedette sulla cassapanca. «Quando ero piccola andavo sempre a giocare nel bosco: i lupi non attaccavano mai gli uomini. Solo qualche pecora, ma raramente. Ora invece la guerra li scaccia dai loro territori e hanno cominciato a diventare aggressivi. È la quarta volta dall’inizio dell’inverno che attaccano i bambini. Maledetta guerra…»
Nihal aveva finito la mela. Si schiarì la voce. «Senti, Eleusi…»
«Dimmi.»
«Io… ecco… insomma, non voglio occupare il tuo letto. Mi basta un po’ di paglia.»
La donna scosse il capo. «Non se ne parla nemmeno! Hai salvato Jona. Darti il mio letto è il minimo» poi prese il vassoio e fece per andarsene.
Nihal la fermò. «Aspetta! Tu sei stata anche troppo gentile. Mi hai curato, mi hai offerto il tuo cibo. Non sai neanche chi sono…»
Prima di uscire dalla stanza Eleusi le sorrise. «Io giudico dalle azioni. E tu non puoi che essere una brava ragazza.»
Per alcuni giorni Nihal fu costretta a letto. Jona andava spesso a trovarla: era un bambino divertente, pieno di curiosità e chiacchierone, proprio come aveva detto la madre. La mattina presto entrava in camera come un ciclone per augurarle il buongiorno.
La cosa che più lo interessava era la spada. Tempestava Nihal di domande: se era pesante, di cosa era fatta, se tagliava molto…
Nihal provava una simpatia istintiva per quel bambino. «Se ti piace così tanto, prendila in mano» gli disse un giorno.
«Dici davvero? Posso?» domandò lui tutto emozionato.
Nihal si chiese se anche lei, da piccola, faceva la stessa faccia di fronte alle armi di Livon. «Certo che puoi. Ma non devi toccare la lama. E non ti devi allontanare da me.»
Non senza fatica, Jona prese la spada con tutto il fodero: era alta più o meno quanto lui. La porse a Nihal, che lo aiutò a sguainarla.
Gli occhi gli brillavano. «Come luccica…»
«È fatta di un materiale che si chiama cristallo nero.»
Jona la guardava da tutte le angolazioni. «E questo coso bianco?»
«Si chiama Lacrima: me l’ha data un folletto.»
Il faccino di Jona si illuminò. «Conosci i folletti?»
Nihal sorrise. «Certo.»
«E come sono fatti? Qui non ce ne sono!»
«Sono grandi poco più della tua faccia e hanno i capelli di tutti i colori. E poi hanno le ali e svolazzano di qua e di là. Quella pietra bianca è un segno di riconoscimento. Vuol dire che sono amica del popolo dei folletti. E poi serve anche a rendere più forti gli incantesimi.»
Jona restò a bocca aperta. «Incantesimi? Sai fare gli incantesimi?»
«No. Cioè, sì, ma solo qualcosina…» si schermì Nihal
«Dai! Ti prego! Me ne fai vedere uno?»
«Ora no, Jona. Magari quando sto meglio…»
Jona batté le mani eccitato.
I giorni di convalescenza furono piacevoli. Eleusi era un’ospite deliziosa: circondava Nihal di mille attenzioni e non le faceva mancare niente. Non le aveva più fatto domande, ma di tanto in tanto la intratteneva chiacchierando: era prodiga di racconti sulla sua vita.
Nihal seppe così che era molto giovane e che suo marito era un soldato: combatteva nella Terra del Vento e tornava a casa una volta all’anno, per un mese.
«Di solito gli danno la licenza in autunno, e viene in tempo per arare il campo. Però qualche volta ci fa una sorpresa e ce lo vediamo arrivare durante l’inverno, o d’estate. Certo, ultimamente non capita spesso… sai, la guerra va male.»
Nihal si stupì. «E non ti manca? Insomma, non ti dispiace che non ci sia mai?»
«Certo che mi manca. Quando decise di partire, due anni fa, ne discutemmo a lungo. Ma non poteva più sopportare le ingiustizie a cui assisteva di continuo, ed era stanco di vedere i suoi amici partire e non tornare più… Quando sono triste, mi consolo pensando che combatte perché un giorno Jona possa vivere libero. Che futuro potrebbe avere nostro figlio con il Tiranno?» Eleusi fece una lunga pausa. «Io sono orgogliosa di mio marito.»
Quelle parole colpirono Nihal: il compagno di Eleusi sapeva quello che faceva, e per chi lo faceva. Aveva qualcuno da proteggere, combatteva per uno scopo. Rispetto a quello sconosciuto, che per suo figlio e sua moglie aveva rinunciato a una vita tranquilla, si sentì meschina.
Nihal aveva molto tempo per pensare: l’ambiente caldo e raccolto di quella piccola casa la faceva sentire fuori dal mondo, le permetteva di riordinare le idee.
Come prima cosa si era riproposta di non rimuginare sui suoi incubi. Le costava fatica, ma la vita quotidiana con Eleusi e Jona la aiutava. Non aveva mai visto come viveva una vera famiglia: la semplicità dei loro gesti, la genuinità dell’affetto che li legava erano totalmente nuove per lei. Neppure quando abitava con Livon aveva mai respirato quell’atmosfera.
Lo scorrere del tempo era scandito dalle occupazioni a cui Eleusi si dedicava: riassettare, preparare il pane, andare al mercato, tessere le stoffe che poi avrebbe venduto. La sera la donna si sedeva con suo figlio vicino al camino e gli parlava, gli raccontava storie, a modo suo lo istruiva, così che il giorno seguente, quando sarebbe andato dal saggio del villaggio con gli altri bambini per imparare, sapesse già qualcosa.
Dunque è così una brava madre? Nihal guardava Eleusi: non aveva mai conosciuto una donna come lei.
Erano passati circa tre giorni dall’arrivo di Nihal quando Eleusi tornò dal mercato con un paio di stampelle.
Entrò trionfante nella stanza di Nihal. «Visto cos’ho trovato? Con queste, se vuoi, potrai alzarti!»
Nihal volle subito sperimentare il nuovo acquisto. Si mise a sedere sul letto e prese le stampelle ma, quando fece per alzarsi, le girò immediatamente la testa, mentre il cuore le batteva impazzito.
Eleusi si preoccupò. «Forse sei ancora troppo debole.»
Nihal scosse la testa. «No, no, va tutto bene…» Puntò nuovamente le stampelle, ritentò e, dopo un paio di ondeggiamenti, riuscì a restare in piedi.
Fece qualche passo incerto. La luce della tarda mattinata la illuminava. Era la prima volta da anni che vestiva con qualcosa che non fosse la sua tenuta di battaglia. Si guardò: la camicia da notte le scendeva fino alle caviglie. Rimase a osservarsi a lungo, stupita.
«Cosa c’è, Nihal?»
«Niente, niente, è che…» Nihal arrossì alla confessione: «È la prima volta che mi vedo in gonna…».
Eleusi sgranò gli occhi. «Ma quanti anni hai?»
«Quasi diciotto» mormorò Nihal.
«E non ti sei mai vestita da donna?»
«Be’… no!»
Nihal ed Eleusi si guardarono per un istante, poi scoppiarono a ridere.
La ragazza insistette per prendere una boccata d’aria.
La neve ricopriva ancora la terra, abbondante. Formava una coltre sottile e soffice. Si fece aiutare a mettere gli stivali, si avvolse nel suo mantello e uscì, mentre Eleusi e Jona la osservavano dalla soglia.
Camminò avanti e indietro affondando le stampelle nel bianco, allegra, ma le sue gambe erano ancora malferme: ci volle poco perché cadesse a faccia in giù nella neve. Il freddo le punse la pelle, svegliandola dal torpore della convalescenza. Nihal si tirò su a sedere e scoppiò a ridere, contagiando con la sua allegria anche Jona, che le si buttò immediatamente addosso coprendola di neve.
Eleusi sorrise. «Ora basta, voi due! Jona, fila in casa! E tu, vuoi prenderti un raffreddore?»
Nihal guardò il cielo terso. «Dove sono nata non c’era mai la neve. È bellissimo.»
Nihal continuò ad allenarsi con le stampelle per tutta la giornata.
Eleusi la pregava di calmarsi un po’, ma lei non ci pensava nemmeno. Dopo tanta immobilità non le sembrava vero di poter camminare. Si sentiva viva.
Riuscì a farsi spostare nella stanza principale della casetta, in modo che Eleusi potesse riprendere possesso del suo letto. La donna riempì di paglia un grosso sacco di iuta, quindi lo ricoprì con lenzuola fresche di bucato e due spesse coperte di lana e lo mise di fronte al camino. Per essere un giaciglio improvvisato era straordinariamente comodo: Nihal ci si sentì subito a suo agio.
La sera mangiò a tavola con i suoi ospiti e dopo cena assistette allo spettacolo di Eleusi che tesseva al telaio.
Nihal non aveva mai visto una macchina come quella. Era enorme, tutta di legno: le sembrò un attrezzo sorprendente. Guardò affascinata i movimenti rapidi e precisi con cui Eleusi faceva correre la spoletta da un estremo all’altro dell’ordito.
Più tardi Eleusi la aiutò a coricarsi. «Sei una ragazza davvero singolare: non hai mai messo una gonna, non sei capace di tessere, hai i capelli corti, sai usare la spada. Sai, mi piacerebbe sapere da dove vieni… così, per curiosità…» La donna le indirizzò un sorriso sincero. «Ma se non ti va di parlarne va bene lo stesso. Davvero.»
Nihal, seduta sul giaciglio, guardò le braci del camino che si spegnevano lentamente. Le sarebbe piaciuto continuare a crogiolarsi in quella pace. D’altra parte la donna era stata tanto gentile con lei: era giusto che sapesse chi aveva accolto nella propria casa. Fece un respiro profondo. «Sono un guerriero, Eleusi. Vengo dal campo al di là delle montagne. La base, così la chiamano. Forse ne hai sentito parlare.»
«Hai disertato?» chiese Eleusi in un sussurro.
Nihal si lasciò scappare una risata. «Disertato? Come ti è venuto in mente?»
«Be’, sai com’è… Mi sono detta che è strano che lascino andare via un guerriero ferito senza averlo curato…» Improvvisamente Eleusi sembrava leggermente intimorita da quella strana ragazza.
«Non ho disertato» rispose Nihal. «Il mio maestro mi ha dato una licenza e io ho deciso di partire anche se non ero ancora guarita. Ecco tutto.»
Eleusi si sentì rassicurata. «Allora quando hai trovato Jona stavi raggiungendo la tua famiglia!»
«No» replicò Nihal tranquilla. «Io non ho una famiglia.»
Seguì un attimo di silenzio. Nihal guardò Eleusi negli occhi. Devo dirglielo. Devo.
«C’è un’altra cosa che devi sapere.» Nihal prese coraggio. «Sono… sono un mezzelfo.»
La donna rimase a fissarla per un lungo istante, incredula. «Io pensavo… Insomma, ero convinta che i mezzelfi non esistessero. Non più, almeno. Si dice che siano tutti…» Eleusi si fermò, a disagio.
«Morti?» fece fredda Nihal. «Lo sono. Tutti, tranne uno: io. Il mio popolo è stato sterminato dal Tiranno. Sono l’ultimo mezzelfo del Mondo Emerso. È per questo che voglio andarmene prima possibile, perché il mio destino sia solo mio e non coinvolga altri.»
Eleusi sentì tutta la tristezza di Nihal, tutta la sua solitudine. Una parte di lei le diceva di lasciarla andare, e presto anche. Ma una voce le suggeriva che non poteva abbandonare quella ragazza sperduta. «Perché non resti qui per un po’? Ti rimetti come si deve, fai compagnia a Jona… Ti è molto affezionato, sai? E poi siamo lontani dal villaggio. Se vuoi, puoi nasconderti… non farti vedere…»
Nihal la interruppe. «No, Eleusi. Credo che la prossima settimana riprenderò il mio viaggio.»
La donna annuì, delusa: si era abituata alla presenza di Nihal e si accorse che le dispiaceva che partisse. «Dove andrai?» le chiese.
«Non lo so.»
«Be’, ce l’avrai un amico, un fidanzato… qualcuno che ti aspetta…»
«Non c’è nessuno che mi aspetta. Viaggerò e basta.»
A quelle parole Eleusi insorse. «Oh, insomma Nihal! Vedi che ho ragione? Resta! Io e Jona siamo contenti che tu rimanga con noi. E poi potresti darmi una mano a tessere, a fare la legna… Staremo bene!»
Nihal abbozzò un sorriso. «Grazie, Eleusi, ma…»
La donna le prese una mano e gliela strinse. «Promettimi che ci penserai.»
Nihal ricambiò la stretta. «Ci penserò.»
Il giorno dopo, rientrando in casa, Eleusi trovò Nihal seduta vicino al camino, con la gamba sbendata e una mano appoggiata sulla ferita. Dalla palma aperta della ragazza proveniva una debole luce rosata.
«Che cosa stai facendo?» Nella sua voce c’era una nota di allarme.
Nihal sobbalzò e staccò la mano dalla gamba. «Niente… stavo solo guardando la ferita…» e si ricoprì.
Ma a Eleusi non era sfuggito che la ferita era notevolmente migliorata. «Sei una maga…» mormorò.
«No, davvero. So solo qualche formula semplice. Sai, per un guerriero può essere utile, e allora…»
Nihal si accorse dell’improvvisa freddezza della donna. Da quando il Tiranno era salito al potere c’erano molti pregiudizi sui maghi.
Eleusi insistette per controllare la ferita: non necessitava più dei punti. Mentre tagliava con mano sicura il filo e lo sfilava dalla gamba di Nihal la guardava di sottecchi, indecisa se preoccuparsi di quell’ultima novità. Al termine dell’operazione sembrò essersi rasserenata. Guardò Nihal e le sorrise. «Sai cosa ti ci vuole adesso? Un bel bagno caldo! Anzi, vado a preparartelo subito.»
Un bagno caldo? Nihal si era sempre lavata nel modo più semplice: una secchiata di acqua gelida.
Eleusi si mise a trafficare. Uscì di casa e ne rientrò poco dopo con un enorme catino ramato, che spinse in camera sua. Poi si affaccendò intorno al focolare con una serie di pentoloni colmi d’acqua.
Quando tutto fu pronto, trascinò Nihal in camera. «Forza, cos’è quella faccia? Vedrai che dopo ti sentirai una regina!»
Nihal si spogliò davanti allo specchio. Da piccola aveva avuto un momento di grande curiosità per gli specchi: ci si rimirava e cercava di capire se quella bimba che vedeva al di là della lamina argentea fosse davvero lei e non un qualche folletto che la ingannava.
Si guardò con la curiosità di chi si vede per la prima volta. Osservò i muscoli compatti delle gambe, la pancia piatta, le braccia forti, frutto degli allenamenti con la spada e delle battaglie. Si stupì che il suo corpo fosse cresciuto tanto in fretta, quasi a sua insaputa, trasformandola in una donna: aveva belle forme e un seno forse un po’ abbondante, ma ben disegnato. Si avvicinò al riflesso del suo volto. Ho gli occhi troppo grandi. Però il colore le piaceva: era intenso e profondo. Provò a sorridere, ma in fondo al suo sguardo rimaneva una nota di tristezza.
Allungò una gamba per saggiare l’acqua: era piacevolmente calda. Entrò nella tinozza e si abbandonò alla sensazione del tepore che l’avvolgeva lentamente. Poi immerse anche la testa. I capelli blu le ondeggiarono intorno al volto. Forse era quella la vita.
Eleusi si stupì della richiesta di Nihal. «Prestarti un vestito? Certo. Comunque se vuoi i tuoi, sono puliti…»
Nihal arrossì fino alla punta delle orecchie. «È che… mi piacerebbe un vestito da donna…»
Eleusi le scoccò un sorriso entusiasta. «Ma certo! Un vestito da donna!»
Prese dalla cassapanca uno dei suoi abiti migliori, quello che metteva per andare con suo marito alle feste del villaggio. Poi aiutò Nihal a indossarlo: lei da sola non capiva neppure come si legassero i lacci del corsetto. La divisa che aveva portato fino allora era infinitamente più semplice: fissava il corpetto di pelle sul davanti, stringeva i lacci laterali del pantalone ed era fatta. Quel vestito invece aveva corsetto, sottogonna, gonna, grembiule… sembrava che la roba da mettere addosso non finisse più.
Quando Nihal si guardò allo specchio, si vide stranissima. Non sapeva se si piaceva o no.
«Allora?» le chiese Eleusi soddisfatta.
«Ho un po’ freddo alle gambe. E poi questa gonna pesa! Non riesco quasi a muovermi.»
Eleusi scoppiò a ridere. «È solo questione di abitudine, Nihal! Solo questione di abitudine!»
Quel giorno Nihal volle far divertire Jona.
Si sedettero sulla panca fuori dalla casa, la schiena appoggiata al muro, a godersi il pallido sole invernale, e Nihal gli mostrò qualche piccola magia che aveva imparato da piccola. Emise qualche innocuo lampo colorato, accese un ramoscello secco con uno schiocco di dita e per finire creò un piccolo globo luminoso. Lo tenne per un po’ sulla palma della mano, poi lo passò al bambino.
«È bellissimo! È bellissimissimo!» continuava a ripetere, fuori di sé dalla gioia.
Giocando con Jona, Nihal sentì una struggente nostalgia per Sennar: se l’avesse potuta vedere in quel momento, vestita da ragazza, a giocare con un bambino, forse l’avrebbe presa in giro. Ma sarebbe stato contento. Pregò con tutto il cuore che tornasse sano e salvo. Ora che non c’era, si rendeva conto di quanto avesse bisogno di lui. Di quanto gli volesse bene.
La sera, dopo che Jona fu andato a dormire, Nihal ed Eleusi restarono vicino al fuoco: la ragazza seduta per terra a guardare le fiamme, la donna su una sedia a dondolo a ricamare.
Fu Eleusi a rompere il silenzio. «Hai deciso cosa fare?»
«Sì» rispose Nihal, lisciandosi le pieghe della gonna e carezzandone la stoffa morbida, così leggera rispetto alla pelle della sua divisa.
«E…?» chiese Eleusi titubante.
«Resto per un po’.»
Eleusi depose il ricamo, le si avvicinò e la strinse a sé sorridendo.
Tra le cure di Eleusi e gli incantesimi, Nihal si rimise in fretta. Volle subito rendersi utile: l’inverno si preannunciava duro e lei non voleva essere un peso. Insistette perché la donna le trovasse qualche compito, ma si rese presto conto di non saper fare quasi nulla.
Eleusi decise di insegnarle a impastare il pane.
«Farai tutto da sola, io ti do solo le indicazioni» disse, e le mise davanti gli ingredienti.
Fu un vero disastro: Nihal si infarinò da capo a piedi, rovesciò una brocca d’acqua per terra e la pagnotta rimase grumosa e mal lievitata.
Eleusi la convinse a infornarla lo stesso. Il risultato fu una focaccia bassa, dura e con un disgustoso sapore di lievito, ma le due donne si erano divertite un mondo. Stavano bene insieme: Nihal assaporava la normalità che le era sempre mancata, Eleusi non era più sola.
Una mattina decisero di uscire tutti insieme, Nihal, Eleusi e Jona, per andare al mercato. Nihal insistette per coprirsi: si fece prestare uno scialle, ci si avvolse la testa in modo che non fuoriuscisse neppure una ciocca di capelli e lo strinse per cercare di camuffare le orecchie. Poi si guardò allo specchio. Non male, Nihal. Non male. Da quel primo giorno in cui si era specchiata ci aveva preso gusto, e spesso si sorprendeva a sbirciarsi: non si capacitava ancora di quanto potesse essere femminile vestita in quel modo.
La piccola comitiva si incamminò nella neve. Jona era eccitatissimo: per lui il giorno di mercato era una festa, anche se da quando c’era la guerra gli scambi si erano molto ridotti.
«Quando ero una bambina» raccontò Eleusi «il fronte era ancora lontano e il mercato era davvero bellissimo: venivano venditori da altre Terre, l’aria del villaggio si riempiva del profumo delle spezie e anche d’inverno c’era un’infinità di merci diverse: stoffe, frutta, verdura, piccoli animali in gabbia… Mi dispiace che tu debba vederlo adesso…» La donna sospirò.
Nihal non rispose. Era tesa e avanzava a capo chino.
«Ehi, che ti succede?» le chiese l’amica.
«Niente, niente. Forse era meglio se restavo a casa…»
Eleusi la rassicurò: «Stai tranquilla e pensa a divertirti. Nessuno baderà a te».
Marciarono per un po’ in silenzio, e solo dopo un bel pezzo Nihal udì una risata soffocata alle sue spalle. Si voltò ed Eleusi tornò subito seria, ma sulle sue labbra rosse rimase un’ombra di divertimento. Nihal la guardò con aria interrogativa.
«Scusami. È che… cammini proprio come un uomo!»
Nihal si fermò. «In che senso?»
«Sì, insomma, vai a passo di marcia…»
Nihal si imbronciò. «Nell’esercito tutti camminano così.»
«Sì, certo. Non era una critica. Solo che è buffo.»
Poco dopo, Nihal si lasciò superare e finì in coda alla piccola carovana. Si mise a osservare con attenzione l’incedere di Eleusi. Non notava niente di diverso dal suo modo di camminare. Era così che camminava una donna?
«Eleusi! Aspetta, spiegami. Perché è buffo?»
«Be’, è che tu avanzi decisa, a passi larghi. E poi non ancheggi nemmeno un po’! Non te l’ha detto tua madre che ai ragazzi piace?» scherzò Eleusi.
Nihal si rabbuiò. «Non ho mai conosciuto mia madre. Mi ha cresciuta un armaiolo.»
Eleusi si diede della stupida e riprese a camminare.
Quando giunsero al villaggio Nihal entrò in crisi.
Era pieno di gente, le girava la testa. Le parve di essere tornata ai tempi di Salazar, quando nella torre regnava la confusione e ovunque risuonavano voci, grida, risate. La nostalgia la prese a tradimento. In quella folla anonima le sembrava di rivedere i volti noti della sua città: i vicini, i ragazzini con cui giocava da bambina, i proprietari delle botteghe. Le sembrò quasi di scorgere Sennar, con la tunica svolazzante e senza lo sfregio sulla guancia. Chiuse gli occhi, frastornata.
«Perché non fate un giro mentre io vendo la stoffa? Ci incontriamo fra un’ora al mio banchetto: è in fondo alla strada» disse Eleusi, e le diede alcune monete, nel caso volesse comprare qualcosa. «Ah, Nihal… Tieniti Jona vicino!»
Nihal obbedì, stringendogli convulsamente la mano.
Il bambino prese a tirarla per un braccio con sguardo speranzoso. «Dai, andiamo a comprare qualche dolce? Eh? Ci andiamo?»
Nihal era indecisa. «Non so… Che cosa ne pensa tua madre?»
«In genere un dolcetto me lo compra sempre» fece lui con aria furba.
Che c’era di male, anche se mentiva? Nihal decise di accontentarlo.
Andarono da una vecchia che vendeva pochi biscotti e qualche mela candita. Fu contenta di avere clienti, e porse loro il pacchettino di dolci con riconoscenza.
Nihal si guardò intorno: anche le altre bancarelle avevano poca merce. Quella gente si sforzava di vivere normalmente, si vestiva bene per andare al mercato, passeggiava, si fermava a tirare sul prezzo. Ma la povertà aveva iniziato a insinuarsi anche in quel villaggio ai piedi della montagna. La guerra stava arrivando anche lì.
Improvvisamente un’ondata di voci le risuonò nelle orecchie. Il tuo posto non è qui. Impugna di nuovo la spada! Vendicaci!
Nihal si fermò, scosse la testa, chiuse gli occhi per scacciare quei pensieri. Quando li riaprì, Jona la guardava preoccupato. «Ti senti male?» Aveva in mano una mela candita e lo zucchero iniziava a impiastricciargli le dita.
«No, va tutto bene. Un capogiro, nient’altro.»
Jona le porse il pacchetto. «Magari hai fame. Prendi un biscotto, dai.»
Erano dolci semplici, ma a Nihal piacque il loro sapore casereccio.
Lei e Jona si aggirarono tra le bancarelle, soffermandosi a guardare i pesci di fiume che guizzavano ancora nei secchi, certe grosse mele che occhieggiavano da una cesta di vimini, i colori dei tessuti che pendevano da un tendone.
Nihal scoprì quanto fosse bello il mondo filtrato dagli occhi di quel bambino: era tutto nuovo, era tutto una scoperta. Jona era vivace, guardava ogni cosa con entusiasmo e chiacchierava senza fermarsi mai.
Dopo aver attraversato il mercato in lungo e in largo si fermarono presso un muretto. Era la prima volta che Nihal affrontava una lunga passeggiata senza stampelle: aveva bisogno di una pausa. Spazzarono via la neve che lo copriva, si sedettero e divisero l’ultimo biscotto rimasto.
«È vero che sei un soldato?» chiese a tradimento Jona.
Per Nihal fu come ricevere uno schiaffo: si era abituata all’idea che nessuno sapesse chi era. «Sì» rispose con noncuranza.
Jona la guardò ammirato. «Anche il mio papà è un soldato: lo sapevi? La mamma mi ha detto che non ti dovevo fare domande, se no diventavi triste, ma io ho visto la spada e allora ho capito!»
Nihal continuò a masticare facendo finta di niente.
Jona proseguì, imperterrito. «Hai ucciso molti nemici?»
«Qualcuno.»
«E i fammin? Sono davvero così brutti come dicono?»
«Anche peggio» tagliò corto Nihal.
Jona fece una pausa prima di tornare alla carica. «Senti, Nihal…»
«Dimmi, Jona.»
«Ma un giorno, quando stai meglio, mi insegni a spadaccinare?»
Nihal non poté impedirsi di sorridere. «“Spadaccinare”? Non credo che sarebbe una buona idea, sai? La guerra è una brutta cosa. Molto meglio la pace.»
«È che a me piacerebbe tanto essere come il mio papà. Se io imparo a fare il guerriero posso andare da lui, così facciamo finire in fretta la guerra e lui può tornare a casa da mamma.»
Il discorso non faceva una piega.
«Vedrai che la guerra finirà presto. Nel frattempo tu farai il bravo ometto e consolerai la tua mamma quando è triste.»
Jona non era convinto. «Sì, però… Dai, una volta giochiamo che facciamo un combattimento? Una volta sola!» chiese supplichevole.
«E così tu vorresti combattere con me?» disse Nihal, preparando di nascosto una palla di neve.
«Sì!»
«Sei proprio sicuro?»
«Sì» urlò Jona sempre più eccitato.
«In guardia, allora!»
Nihal saltò giù dal muretto e gettò la palla di neve addosso al bambino, che si buttò nella lotta con entusiasmo.
Si rincorsero attraverso i vicoli ridendo e lanciandosi neve finché non furono esausti. Nihal aveva recuperato il buonumore. Si sentì spensierata come quando era bambina. Avrebbe voluto vivere così per sempre.
Il banchetto di Eleusi esponeva le stoffe che la donna tesseva in casa, le uova delle sue galline e poche verdure dell’orto. D’inverno, e senza il marito ad aiutarla, non riusciva a produrre più di così. Lei e Jona vivevano di quello e dei proventi della sua attività di guaritrice.
Nihal si sedette accanto a lei e si mise a guardare la gente che passava. Erano solo uomini, delle altre razze non c’era traccia. I profughi vivevano tutti nei grandi centri, dove la possibilità di trovare un lavoro o qualcosa da mettere sotto i denti era maggiore.
«Le città sì che sono ricche!» spiegò Eleusi. «La gente che ha molti soldi vive lì: nobili, guerrieri che hanno acquisito grandi appezzamenti di terra grazie alla guerra. Gli altri stanno nelle campagne. Molti dei contadini che vedi non possiedono neppure la terra che lavorano, la coltivano per altri. Non c’è molta giustizia in questa Terra.»
D’un tratto un cavaliere si fermò proprio al loro banchetto.
Nihal si coprì il più possibile con il cappuccio: era uno della base, che combatteva nelle prime file. A quanto pareva Eleusi lo conosceva bene, perché si misero a chiacchierare.
Il cavaliere, però, guardava Nihal con una certa insistenza. Le sorrise. «Salve. Sbaglio o ci siamo già visti da qualche parte?»
Nihal abbassò gli occhi e scosse la testa. Il cuore le batteva nel petto. Si accorse che aveva paura di quel soldato. Aveva paura che la sua sola presenza potesse rompere l’incantesimo di quei giorni.
«Non credo. È una mia parente» mentì Eleusi. «È venuta a trovarmi da Makrat.»
Il soldato non staccava gli occhi da Nihal. «Una parente molto graziosa… Come ti chiami?»
«Lada» mormorò la ragazza dicendo il primo nome che le era venuto in mente, e mentre lo pronunciava si ricordò che l’aveva udito da un vecchio che si aggirava per Salazar pochi giorni prima dell’invasione.
«Lada. Bellissimo nome! E come ti trovi qui in…»
Fu Eleusi a interrompere quel tentativo di conversazione. «Lada, per favore, mi vai a cercare Jona?»
Nihal annuì e si alzò veloce. Un attimo dopo era già lontana.
Quella sera tornarono a casa con qualche soldo in più nelle tasche.
Di fronte a quei pochi spiccioli Nihal si sentì un’intrusa. Poco prima di coricarsi guardò Eleusi, seria. «Sei sicura che posso rimanere?»
La donna la fissò, stupita. «Certo! Perché?»
«Be’, sono una bocca in più da sfamare, voi non avete tanti soldi…»
Eleusi sorrise. «Non temere: troverò il modo per metterti al lavoro! Ora dormi, e finiscila con questi pensieri sciocchi.»
Nihal si coricò serena.
Quella notte, sola nel letto, pensò a tutto quello che era successo in quei pochi giorni. Iniziava a piacerle indossare abiti femminili, muoversi tra la gente senza che la spada accompagnasse i suoi passi. Si sentiva rinata: forse era davvero una Lada rediviva, una ragazza normale che conduceva una vita normale.
Nihal non aveva mai vissuto in un ambiente tanto sereno. Capì che cosa fosse una vera famiglia e arrivò a pensare che era molto meglio di quello che aveva provato con Livon. Lei e il Vecchio non erano una famiglia: erano due sbandati che la vita aveva messo insieme per supportarsi a vicenda. Si volevano bene, ma lui non le aveva saputo dare quello che Eleusi donava al figlio. Nella sua vita non c’era mai stata la tranquillità, il senso di protezione che percepiva fra quelle quattro mura. Si meravigliava di come non se ne fosse mai accorta prima. Ma ora poteva rimediare, poteva riprendersi ciò che le era stato tolto: stare lì significava avere una seconda possibilità.
Prima di addormentarsi fantasticò di rimanere nella piccola casa gialla per sempre.
Appoggiata al muro, la sua spada iniziava a impolverarsi.
La mattina dava una mano in casa: con i lavori domestici era una frana, ma era animata da una straripante voglia di imparare. Seguiva passo passo Eleusi mentre sbrigava le faccende e cercava di esserle utile.
Imparò a cucinare. Nonostante il primo fallimentare tentativo con il pane, scoprì che le piaceva. Non solo, aveva talento: si lasciava guidare dall’istinto e i suoi piatti erano saporiti.
Ma soprattutto si occupava dell’orto. Gli anni di addestramento con la spada l’avevano resa forte e le piaceva mettere la sua resistenza al servizio di quel fazzoletto di terra che dava loro da vivere.
La sera Jona raccontava le storie che aveva appreso dal saggio e le scorribande che aveva fatto con i suoi amici. Nihal ascoltava, senza pensare a nulla.
Non rimpiangeva più Livon, aveva archiviato Soana in un angolo recondito della sua mente, persino il viso di Fen era ormai un’immagine confusa. Ma non poteva dimenticare tutti. Sennar continuava a essere un ricordo vivo, presente, che le stringeva il cuore. Cercava di scacciare anche lui dai suoi pensieri, ma in fondo all’anima sentiva che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con se stessa.
L’inverno era rigido e la legna iniziava a scarseggiare. Occorreva andare a farne della nuova, ed Eleusi pensò di chiedere a Nihal di occuparsene.
«Non sono per niente brava con l’ascia» si scusò. «Di solito ci pensa mio marito…»
La ragazza accettò di buon grado: «Non ti preoccupare, lo faccio volentieri. Anzi, porto con me anche Jona, così ci facciamo una passeggiata nel bosco».
Nihal e Jona andavano spesso nel bosco a giocare, a raccontarsi storie o semplicemente a passeggiare. Jona la guardava con occhi sognanti. Per lui una donna che faceva il soldato era il massimo: le femmine lo mettevano in agitazione, con tutte le loro moine e il loro modo di fare le preziose, ma lei era diversa. Lei si divertiva a buttarsi nella neve, non si stancava mai di starlo ad ascoltare ed era forte come un uomo. Jona la esibiva ai suoi amici con orgoglio, presentandola come un soldato.
In Jona Nihal rivedeva se stessa da bambina. La sua compagnia la rasserenava: amava il modo ingenuo con cui guardava alle cose, le piaceva giocare con lui o farlo divertire con qualche piccola magia. Un paio di volte accettò persino di combattere con una spada di legno, ma quando lui le chiedeva di raccontargli qualche storia di guerra, tergiversava dicendo di non ricordare.
Quella mattina si imbacuccarono per bene e si diressero verso la foresta. Camminavano canticchiando un motivo che Jona aveva insegnato a Nihal, mentre la scure pendeva dalle mani della mezzelfo tracciando nella neve una lunga linea sinuosa.
Quando giunsero alla piccola radura dove si erano incontrati la prima volta, Nihal vide un bell’alberello secco, perfetto per il camino.
«Allontanati, Jona. Credo che la nostra ricerca sia finita.»
Impugnò l’ascia, sentendo quasi una scossa. Ne guardò la lama come se non ne avesse mai vista una.
«Che cos’hai?» chiese Jona. Non gli era sfuggita l’aria pensierosa di Nihal.
La ragazza si riscosse. «Mi sono solo ricordata di quando combattevo con questa.»
Jona non si fece scappare l’occasione e iniziò a salterellarle intorno. «Fammi vedere che cosa facevi, dai! Fammi vedere!»
La scure era lì, sembrava la chiamasse. Ma sì, perché non accontentarlo? La impugnò saldamente. Poi fu la memoria del corpo a farla muovere.
Nihal iniziò a far volteggiare l’ascia sempre più veloce, quindi prese a tagliare l’aria con movimenti rapidi e precisi. La lama roteava e lei ricordava ogni esercizio, ogni singolo giorno dell’Accademia, ogni ora di allenamento. Si stupì di averne nostalgia: era stata male in quell’edificio, era stata sola, fatta eccezione per la compagnia di Malerba e di Laio, eppure rimpiangeva le lezioni, la spada, il sudore. Rimpiangeva la battaglia, il suo corpo che si muoveva agile, la lama nera che brillava al sole… la sensazione di essere finalmente se stessa… la riscoperta delle sue radici nella lotta e…No!
Lasciò cadere la scure di colpo.
Non è la guerra che vuoi, non è il combattimento! Le sere davanti al fuoco, la vita con Eleusi e Jona, il vestito grazioso che indossi… Questo deve essere il tuo futuro!
Jona vide Nihal incupirsi e il sorriso gli morì sulle labbra. «Sei arrabbiata?» le chiese titubante.
«Non è niente» rispose Nihal ancora turbata «brutti ricordi. Sbrighiamoci o si fa tardi» e senza aggiungere altro iniziò ad abbattere l’albero con colpi secchi e decisi.
Il cammino verso casa lo fece in silenzio.
Jona la guardava di sottecchi. «È colpa mia, vero?»
«Che cosa, Jona?» rispose fredda Nihal. Non aveva voglia di parlare. Poi però si accorse che il bambino aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Che sei diventata triste…»
Nihal si fermò, gli sorrise. Poi si chinò verso di lui e gli schioccò un bacio sulla guancia. «No, piccolo. Non sono triste. Davvero. E ora forza, andiamo a casa a fare una bella merenda!» rispose dandogli un affettuoso sculaccione.
Jona riprese a trotterellare sul sentiero, rasserenato, ma Nihal sapeva di aver detto una bugia.
Eleusi le fece la proposta un pomeriggio: erano sedute al tavolo e Jona era fuori a giocare. La donna depose il grembiule che stava rammendando e guardò Nihal. «Senti, tu sei una maga, giusto?»
«Perché me lo chiedi?» rispose Nihal dubbiosa.
«Ho pensato che potresti venire con me a fare la guaritrice. Darmi una mano con i tuoi incantesimi, insomma…»
Nihal era scettica. La sola idea di mostrarsi in giro la metteva in agitazione. «Non so…»
«Diremo che vieni da un’altra Terra, da qualche posto lontano, e che sei fuggita per la guerra. Potremmo dire che sei figlia di una ninfa! Le ninfe qui nessuno sa nemmeno come sono fatte. E poi non puoi nasconderti per sempre, Nihal.»
Eleusi desiderava che la ragazza mettesse radici. E, se iniziava a sentirsi utile, forse non sarebbe andata via.
Il loro primo incarico in coppia lo ricevettero una sera che nevicava fitto. Un bambino del villaggio era caduto da una scala battendo la testa e non aveva più ripreso conoscenza. Eleusi e Nihal affrontarono il sentiero nel buio della notte: il freddo penetrava nelle ossa.
Raggiunta la casa, entrarono in punta di piedi. Su un letto giaceva un ragazzino pallido come un cencio, con una larga macchia rossa sulla fronte dalla quale, attraverso un bendaggio di fortuna, colava ancora sangue. A Nihal quell’immagine riportò alla memoria la guerra, ma si sforzò di scacciare i ricordi.
«Sono io, Mira. Non piangere, sono qui per tuo figlio» disse Eleusi sottovoce. Dovette prendere delicatamente la donna per le spalle per allontanarla dal giaciglio. Nella stanza c’era anche un uomo, dietro al quale si nascondeva timorosa una bimba bionda. Fu a lui che Eleusi si rivolse. «Dimmi con precisione che cosa è accaduto.»
Mentre l’uomo raccontava con voce concitata quello che era successo, Nihal si guardava intorno. Si sentiva fuori posto: non era una sacerdotessa, non era capace di dire che cosa avesse quel bambino. Fino ad allora aveva curato solo se stessa, e con incantesimi molto blandi. La bambina, poi, non le staccava gli occhi di dosso.
«Non temete, non credo sia grave» fece Eleusi rassicurante, quindi si avvicinò al ragazzo facendo segno a Nihal di avanzare.
La donna gli sbendò la testa e iniziò a esaminare la ferita. I suoi erano occhi esperti, attenti, e percorrevano il corpo del ragazzino soffermandosi su ogni particolare.
«Per ora vorrei solo che tu facessi qualcosa per il taglio» disse a Nihal. «A farlo rinvenire ci penso io. Ha un po’ di febbre, ma non dovrebbe essere un problema.»
Nihal annuì. Si rimboccò le maniche del vestito, si sedette sul letto e congiunse le mani. Sentiva gli sguardi dei presenti puntati su di lei come spilli. Cercò di concentrarsi ugualmente, quindi impose le mani sulla ferita. Non era profonda, non ci sarebbe voluto molto a farla rimarginare.
La madre si mise in agitazione. «Chi è la donna che hai portato con te?»
«Una mia amica. Mi è venuta a trovare dalla Terra dell’Acqua e sta da me per un po’.»
«Che cosa sta facendo al mio Doran?»
«Non ti preoccupare, sa quel che fa. È la mia aiutante.»
Ma non appena Nihal iniziò a pronunciare l’incantesimo e le sue mani furono circondate da un alone azzurrino, la donna si mise a urlare: «Una strega! Mi hai portato in casa una strega!» e la spinse via con violenza dal letto.
Nihal cadde a terra. Una ciocca di capelli scivolò fuori dallo scialle che le faceva da turbante.
La bambina puntò il dito su di lei. «Guarda, mamma! Ha i capelli blu!»
La donna fissò Nihal con odio. «Portatela via da mio figlio!» strillò.
Eleusi le si avvicinò. «Non devi avere paura» disse in tono pacato. «È un’amica, la conosco da tempo. È molto brava.»
Ma Mira continuava a ripetere «È una strega! È una strega!».
Nihal si era ritirata in un angolo: era come all’Accademia. Ricordava quegli sguardi ostili, quella diffidenza malcelata.
Eleusi non si diede per vinta. Alzò la voce. «Per salvare tuo figlio c’è bisogno anche di lei. Sono anni che curo la gente del villaggio. Ho curato tutti voi. Perché ora non vuoi fidarti?»
«Non voglio streghe in questa casa!»
«Come desideri, Mira. Andiamo, Nihal…» disse Eleusi dirigendosi verso la porta.
«Aspetta!» La donna si alzò riluttante dal letto del figlio e fissò Nihal negli occhi. «Prega che non gli succeda niente di male. O hai finito di vivere.»
Quando il ragazzino si riprese, Mira lo abbracciò piangendo.
Eleusi venne pagata con qualche moneta e un piccolo sacco di farina.
A Nihal non fu rivolta una sola parola.
Nel villaggio si sparse la voce. Mira ne parlò con le sue amiche e la notizia passò di bocca in bocca.
«È arrivata una strega…»
«Ha i capelli blu…»
«Ha fatto un incantesimo alla povera Eleusi!»
«Ma cosa dici!»
«Sì, non vedi che se la porta sempre dietro?»
«Forse è una spia del Tiranno…»
«Io ho detto a mio figlio che se lo vedo con Jona lo riempio di schiaffoni!»
Nihal aveva capito subito come sarebbe finita. L’anno all’Accademia le aveva insegnato che la paura può scavare a fondo nell’animo degli uomini.
«È meglio che non venga più con te. La gente ha paura di me, Eleusi» aveva detto appena fuori dalla casa di Mira.
«Ma no, è perché non ti avevano mai vista! Non farti scoraggiare, ci faranno l’abitudine…»
Ma la diffidenza riaffiorò anche la seconda volta, quando curò una donna che si era tagliata con un coltello, e pure la terza e ultima, quando salvarono una neonata dalla febbre. Da allora Eleusi non fu più chiamata a fare la guaritrice nel suo villaggio. Per trovare lavoro dovette spingersi nei paesi vicini, da sola.
Nihal all’inizio si impose di fare finta di niente: accompagnava Eleusi al mercato, si faceva vedere insieme a Jona, ma ovunque andasse percepiva gli sguardi ostili degli abitanti del villaggio.
Ben presto agli sguardi seguirono le parole. Frasi amichevoli, consigli che venivano dati a Eleusi da chi la conosceva. Quando Nihal non c’era la avvicinavano, le chiedevano chi fosse la straniera.
Eleusi si sperticava in lodi per la mezzelfo, raccontando con quanto coraggio avesse salvato suo figlio dai lupi, quanto fosse brava con la magia, che persona adorabile fosse.
Ma le altre donne non demordevano: «Ragiona, Eleusi. Ti sei messa in casa una che neppure conosci! Che sai di lei? Ha i capelli blu, è una strega, traffica con la magia» e ognuna diceva la sua, raccontando episodi sentiti da altri o inventati di sana pianta su streghe malefiche che si introducevano con l’inganno nelle case della brava gente per rapirne i figli.
Eleusi ascoltava piena di rabbia e qualche volta, anche se non l’avrebbe mai ammesso, il dubbio faceva breccia. Non sapeva davvero nulla di quella ragazza, ed era stata avventata ad accoglierla così, senza una domanda. Ma il ricordo di Nihal ferita, ai piedi del suo cavallo, cancellava ogni esitazione. Avrebbe difeso la sua nuova amica a tutti i costi, perché aveva un disperato bisogno di lei.
Nihal cercò di continuare la sua vita, ma l’incantesimo aveva iniziato a rompersi.
Avvertiva una specie di inquietudine, come un dolore sottile che cercava di venire alla luce dalle zone più profonde del suo animo. Si chiedeva quando fosse cominciato: forse nel momento in cui aveva impugnato l’ascia, forse quando aveva sentito gli sguardi d’odio della gente che era andata ad aiutare. Non lo sapeva. Però sentiva un richiamo lontano, che la ammaliava e la spaventava al tempo stesso.
Un giorno le cadde l’occhio sulla spada appoggiata al muro. Il fodero era ricoperto da uno spesso strato di polvere. Un istante dopo l’aveva sguainata: se la rigirò tra le mani, ne osservò l’elsa lavorata. Poteva ancora distinguere i colpi del martello di Livon, le scalfitture che i suoi arnesi vi avevano tracciato. La osservò a lungo. Poi uscì di casa e raggiunse il granaio. La ripose in un cantuccio, in modo da non doverla vedere tutti i giorni.
Una mattina di fine inverno andò al mercato da sola. Non era la prima volta: Nihal aveva capito che Eleusi voleva che diventasse un po’ più indipendente. Quel giorno era di buonumore. C’era un bel sole e l’aria fredda era corroborante. Decise di spingersi fino a un villaggio vicino, dove non la conoscevano: là poteva perdersi tra la folla anonima ed essere una tra tante.
Si divertì a curiosare tra le bancarelle, comprò dei dolciumi per Jona e persino un fazzoletto per sé. Ormai ne aveva una collezione. I capelli avevano iniziato a ricrescerle, morbidi e lucenti come erano prima che li tagliasse.
Si divertì a vagare per la piazza, ad ascoltare le chiacchiere delle comari. La gente spettegolava, parlava della guerra, di chi era lontano, di chi era morto, di come avanzava l’inverno, del raccolto, dei bambini. Ma l’argomento del giorno erano i mercenari sfuggiti alle truppe regolari dell’esercito delle Terre libere, che dopo aver disertato si stavano dando ai saccheggi. A quella notizia Nihal si sentì fremere, ma si impose la calma. Non ti riguarda, Nihal. Torna a casa.
Sulla via del ritorno volle passare attraverso il bosco. Quel tragitto allungava un po’ la strada, ma camminare tra gli alberi era un piacere a cui non poteva rinunciare.
Poi vide le tracce. Provenivano dal folto del bosco e si perdevano lungo la via del villaggio. Tracce di cavalli.
Nihal si chinò e le guardò con attenzione: erano passati da poco.
Sentì un tuffo al cuore. Affrettò il passo, veloce, sempre più veloce, fino a correre. Inciampò e cadde nella neve: la gonna la impacciava. Si rialzò di scatto e ricominciò la corsa. Per prima cosa prendere la spada. La spada è nel granaio. Anche se non c’è nessuno, e di sicuro non c’è nessuno, per prima cosa prendere la spada. Aveva paura, tanta, eppure era perfettamente lucida.
Quando giunse in vista della casa il cuore le si fermò per un istante: due cavalli sostavano sull’aia, annusando il terreno.
Tese l’orecchio, ma sentì solo il sangue batterle alle tempie.
Girò silenziosa intorno alla casa, acquattandosi per non farsi vedere, e si arrampicò nel granaio.
Sguainò la lama e le sembrò che la sua mano si fondesse con l’elsa… che lei e la sua arma formassero un’unica entità.
Poi un urlo, seguito da alcune risate, le fece accapponare la pelle.
Quando irruppe dentro casa un uomo sovrastava Eleusi, che cercava disperatamente di divincolarsi, mentre Jona era tenuto fermo da un altro individuo.
Quello che tratteneva Eleusi si voltò. «Oh, vedo che ci sono ospiti. Be’, molta brigata vita beata!» disse ridendo, e liberò Eleusi gettandola in un angolo. «Ma che bella ragazzina! Vedo che ti piacciono le spade… Vieni a giocare con noi, vieni!»
Nihal scattò con un balzo e lo abbatté con un solo colpo.
L’uomo cadde a terra senza un lamento. Dalla sua gola schizzò un fiotto di sangue scuro. Eleusi urlò con quanto fiato aveva in corpo.
L’altro partì come una furia brandendo la spada e lo scontro ebbe inizio.
Il corpo di Nihal ritrovò in un istante tutta la sua agilità e la sua prontezza: si muoveva veloce, schivava e parava con precisione. Il cuore della ragazza cantava di gioia. Dopo tanto smarrimento, a Nihal sembrò di ritrovarsi: era di nuovo se stessa.
Dopo un primo attacco l’uomo si allontanò, schiumando di rabbia.
Nihal si deterse il sudore e ghignò: «È tutto quello che sai fare, bastardo?». Poi si slanciò ancora all’attacco, ferendo profondamente l’uomo a un braccio. Un attimo dopo lo aveva disarmato.
Il mercenario cadde in ginocchio, l’arma di Nihal puntata alla gola. «Non farmi del male, ti supplico, perdonami…»
Nihal lo guardò con disprezzo. «Raccogli quella bestia del tuo compare e vattene: non spreco il filo della mia spada per una carogna.»
L’uomo obbedì in tutta fretta: sollevò il suo compagno e si avviò verso la porta, ma Nihal lo fermò dicendo: «E ricordati: se osi rimettere piede in questo villaggio, giuro che ti faccio a pezzi».
«No, no, grazie, grazie…» rispose l’uomo in lacrime prima di dileguarsi.
Nihal rimase immobile al centro della stanza.
Aveva combattuto di nuovo. Aveva impugnato di nuovo la spada. E le era piaciuto. Sentiva la sua arma palpitarle nella mano, invitarla a riprendere insieme il cammino interrotto, a combattere di nuovo. Era felice, assurdamente felice.
Eleusi, rannicchiata contro un muro, stringeva a sé Jona.
«È tutto finito» disse Nihal avvicinandosi, ma la donna si ritrasse con un grido.
Ha paura di me. Quella consapevolezza fulminò Nihal. Eleusi, a cui si era attaccata come a un’ancora di salvezza, aveva paura di lei. La spada le scivolò di mano.
Eleusi si alzò, le andò incontro, fece per abbracciarla. «Perdonami, non volevo…» ma stavolta fu Nihal a ritrarsi. Si scostò d’un passo, vide la spada a terra, la lama rossa di sangue.
Corse via.
Nella penombra del granaio risuonava uno sgocciolio ritmico, preciso. Forse era la neve che si scioglieva lentamente. Del resto c’era il sole.
Nihal aveva chiuso la testa fra le ginocchia: quante volte aveva fatto così nella sua vita? Le venne quasi voglia di contarle.
Eleusi spuntò dalla scala a pioli. «Sei qui, meno male!»
Silenzio.
«Scusami, Nihal. È… è stato più forte di me. Ti sono infinitamente grata per avermi salvata, infinitamente… È che tutto quel sangue, quell’uomo a terra,
e tu che sembravi un’altra… Di’ qualcosa, ti prego.»
Nihal sollevò la testa e la guardò senza parlare.
«Ti fa male tenerti tutto dentro. Dimmi cosa pensi.»
«Non lo so che cosa penso.»
«Vuoi che vada via?»
Nihal si passò una mano sul viso. «Sì.»
Gli occhi di Eleusi si riempirono di lacrime. «Va bene. Come vuoi tu.»
Nihal aprì gli occhi e vide la luce filtrare attraverso la fessura tra le sue ginocchia. Era bastato riprendere in mano la spada per stravolgere tutto.
All’improvviso i colori splendidi di quei mesi con Jona ed Eleusi si erano dileguati. Sì, era stato bello, ma quella ragazza timida che aveva scorto nello specchio non era lei.
Non era stata sua la vita di quei mesi. Lei era la mezzelfo con la spada, quella che combatte sempre in prima fila, quella che si getta nella battaglia.
Che cosa devo fare? Nihal iniziò a battere ritmicamente la testa sulle ginocchia. Che cosa devo fare?
Rientrò in casa per l’ora di cena. Si sedette a tavola senza una parola e iniziò a mangiare.
Eleusi la guardò per un po’ senza sapere come comportarsi.
Jona taceva, cercando con lo sguardo gli occhi di sua madre.
Quando Nihal ebbe finito, posò il cucchiaio e fece per alzarsi.
Fu allora che Eleusi si mise a urlare.
«Dannazione, la vuoi piantare con questo silenzio? Fammi almeno capire cosa ti passa per la testa!» Jona trasalì.
Nihal la guardò con astio. «Non hai mai avuto bisogno di un attimo di pausa, Eleusi? Non hai mai sentito che le parole non servivano? Non ti ha mai sfiorato l’ombra di un dubbio, eh? Dimmelo! Hai mai avuto bisogno di pensare, tu?»
La donna diventò tutta rossa e si alzò di scatto dalla sedia. «Io… Qualsiasi cosa abbia fatto, non merito questo trattamento!»
«Perché non puoi fare uno sforzo e capire?» Anche Nihal aveva alzato la voce. «Pensi che il mondo giri intorno a te? Non hai fatto niente, e io non ce l’ho con te. Sono altri i miei problemi, e parlarne non serve. Te ne stai in questa casa, avvolta nella bambagia! Che ne vuoi sapere di quello che mi passa per la testa, di quello che accade nel mondo, di quello che succede in guerra?»
«Ma certo!» gridò Eleusi. «Che ne so io, stupida contadina a cui non vale la pena di raccontare niente? Quanto alla bambagia della mia casa, non mi sembra che ti sia mai dispiaciuta, visto come ti ci sei accomodata!»
Nihal prese il mantello e uscì. Quella notte dormì nel granaio.
Per qualche giorno fu come se il tempo fosse sospeso. La piccola casa gialla sembrava rinchiusa in una palla di vetro e le ore scorrevano in una calma innaturale. Tutti erano in attesa di qualcosa.
Jona di capire perché tutto sembrasse diverso.
Eleusi di scoprire che effetto avrebbero avuto le sue parole sull’amica.
Nihal, di una risposta. Non aveva sempre fatto quello, nella vita? Chi era? Perché era sopravvissuta? Qual era il suo compito in quel mondo? Se lo chiedeva da sempre. Chissà se esisteva davvero una risposta.
La cena era finita da un po’: Jona era a letto e il suo respiro regolare scandiva il silenzio della casa.
Nihal era fuori. Eleusi ne intravedeva la schiena china dalla finestra.
La donna uscì nel gelo della sera. La ragazza aveva indossato di nuovo i suoi abiti da battaglia. Aveva in mano la spada. Sulla neve risaltavano delle ciocche blu.
«Non avevi deciso di farli crescere?» chiese Eleusi.
Nihal abbassò la spada e guardò la donna. «Una volta avevo dei capelli lunghissimi, sai? Li ho tagliati la notte della mia prima battaglia.»
Eleusi non volle capire. «Che cosa vuoi dire? Che cosa c’entra questa storia?»
Nihal le sorrise dolcemente. «Lo sai, Eleusi. Non posso più restare qui. Devo tornare alla mia vita.»
La donna cercò di reprimere le lacrime con la rabbia. Alzò la voce. «Perché? Non stai bene qui? Forse è per la gente del villaggio? Si abitueranno a te, ci vuole solo tempo. Tu sei fatta per questa vita, e lo sai! Non puoi andartene!»
Nihal non aveva smesso di sorridere. Alzò la spada e la guardò brillare ai raggi della luna. «Ascoltami. L’altro giorno, quando l’ho impugnata, la spada mi ha parlato. Mi ha detto che devo seguirla, che devo fidarmi di lei, perché il mio destino è in lei. Combattere è l’unica cosa che so fare.» Nihal fece una pausa. «È l’unica cosa che mi piace fare.»
La donna tacque: era proprio finita. Nihal era già lontana da lei, non le apparteneva più.
«Mi mancherai molto. Ti devo tanto. Se non fosse stato per te non so che fine avrei fatto» disse Nihal voltandosi verso di lei.
Eleusi continuò a guardare a terra. Le sue lacrime bucavano il tappeto di neve. «Mi hai fatto credere che la mia solitudine fosse finita, che saresti rimasta qui. L’hai fatto credere a me e a Jona. Ora che non ti serviamo più te ne vai.»
«Io non ti ho mai promesso che sarei restata» disse Nihal sottovoce.
«Ma me l’hai fatto credere in mille modi. Fa’ quel che vuoi, va’ via, va’ a uccidere e a morire, se è solo questo desideri!» Eleusi si alzò e rientrò precipitosamente in casa.
Nihal udì a lungo i suoi singhiozzi attraverso le pareti della casa.
Poco prima dell’alba fu pronta a partire. Preparò il cavallo, raccolse le sue cose, si mise il mantello. Poi salì nella stanzetta dove dormiva Jona. Il bambino respirava piano, a bocca aperta. Nihal lo scosse debolmente e lui aprì a fatica gli occhi assonnati.
«Che cosa c’è?»
«Sono venuta a salutarti.»
Il bambino si tirò su di scatto. «Perché?»
«Me ne vado, Jona.»
«No» piagnucolò lui. Due grosse lacrime gli scivolarono sulle guance.
«Non piangere, piccolo. Ci rivedremo. Io vado a “spadaccinare”, ma tornerò. E allora ci sarà il tuo papà, e io e lui insieme ti insegneremo a usare la spada. Devi solo avere un po’ di pazienza.»
«Non andare via» disse Jona singhiozzando, e l’abbracciò forte.
Nihal lo aiutò a distendersi e lo coprì. «Devo andare. Tu bada alla mamma. Sei l’uomo di casa, giusto?» disse sforzandosi di sorridere.
Lo baciò sulla fronte. Poi corse via fino al suo cavallo, con il pianto di Jona ancora nelle orecchie, e lo spronò al galoppo.
La pietra correva avanti e indietro lungo la lama sprigionando piccole scintille. Gli piaceva affilarsi la spada da solo e ci si dedicava con tutto se stesso. Nonostante il rumore coprisse ogni altro suono, Ido sentì che era arrivato qualcuno. Alzò gli occhi.
Sul limitare della capanna c’era una figura minuta, vestita di nero, in attesa. Il cuore gli balzò in petto. Era contento, ma non volle darlo a vedere. Tornò al suo lavoro. «Allora?» chiese.
«Ho vissuto, come mi avevi chiesto.»
«Hai capito perché combatti?»
«Non ne sono certa. Ora so cos’è la vita, so cos’è la pace, ma sento che devo combattere, che è l’unica cosa che posso fare. Non è la vendetta che mi spinge, ma qualcosa che ancora non capisco bene. Forse non ho ancora le idee abbastanza chiare per riprendere l’addestramento. Se non mi accetterai lo capirò, ma…»
«Basta così» la interruppe lo gnomo.
Nihal restò sulla soglia a testa china. Aveva paura. In quegli istanti si giocava la sua vita.
Poi si accorse che Ido le si era avvicinato. «Oarf ti aspetta. Inizieremo l’addestramento domattina.»
La ragazza abbracciò il suo maestro. Rise. Era tornata.