Licia Troisi Nihal della Terra del Vento

UNA BAMBINA.

[…] è il più piccolo e sperduto paese del Mondo Emerso. Posto a ovest, è chiuso da un lato dal Saar, il Grande Fiume, e dall’altro è minacciato dalla Grande Terra. Non vi è punto da cui non si veda l’altissima torre della Rocca, dimora del Tiranno. Essa incombe come un’oscura minaccia sulla vita di tutti gli abitanti della zona. Ricorda a ciascuno che non v’è luogo dove il Tiranno non possa giungere. Il regno tuttavia è ancora parzialmente libero.

Relazione annuale del Consiglio dei Maghi, frammento.

La Terra del Vento è caratterizzata dalla particolare architettura delle sue città, costruite come immense torri, altamente organizzate e per lo più autosufficienti. Ogni parte degli agglomerati urbani è deputata a una precisa attività. Il nucleo di ogni singola torre è costituito da una vasta zona centrale aperta e coltivata. La città-torre di Salazar è l’ultimo avamposto della Terra del Vento prima della Foresta, l’imponente bosco che segna il confine con la Terra delle Rocce. […]

Anonimo, dalla Biblioteca perduta della città di Enawar, frammento.

1 Salazar.

Il sole inondava la pianura. Era un autunno particolarmente clemente: l’erba era ancora d’un verde vivido e ondeggiava contro le mura della città come un mare in bonaccia.

Sul terrazzo in cima alla torre, Nihal si godeva il vento mattutino. Era il posto più elevato di tutta Salazar: da lì si godeva la vista migliore sulla piana, che si srotolava per leghe e leghe a perdita d’occhio. Su quella distesa sconfinata la città spiccava imponente con i suoi cinquanta piani di case, botteghe e stalle. Un’unica immensa torre che conteneva una piccola metropoli di quindicimila persone, stipate nelle sue milleduecento braccia d’altezza.

A Nihal piaceva starsene là sopra da sola, con la brezza a scompigliarle i lunghissimi capelli. Si sedeva sulle pietre a gambe incrociate, con gli occhi chiusi e la spada di legno appoggiata al fianco, come fanno i veri guerrieri. Quando stava lassù era come pacificata. Poteva concentrarsi solo su se stessa, sui suoi pensieri più nascosti, su quella vaga malinconia che certe volte l’abbracciava, sul mormorio lento che ogni tanto sentiva levarsi dal fondo della sua anima.

Ma quello non era uno di quei giorni. Era un giorno di battaglia, e Nihal guardava la pianura come un condottiero desideroso di battersi.


Erano una decina, ragazzetti dai dieci anni in su. Tutti maschi, e lei femmina. Tutti seduti, e lei in piedi tra loro. Il capo: una ragazzina smilza e slanciata, con vividi occhi viola, fluenti capelli di un blu lucido e spropositate orecchie a punta. Non si sarebbe detta forte, a guardarla, ma gli altri pendevano dalle sue labbra.

«Oggi si lotta per le case abbandonate. I fammin stanno tutti là a spadroneggiare. Non sanno di noi e non si aspettano il nostro arrivo: li coglieremo di sorpresa e li scacceremo con la forza delle nostre spade.»

I ragazzini ascoltavano con attenzione.

«Il piano?» chiese il più grassoccio.

«Scenderemo compatti fino al piano sopra le botteghe, poi taglieremo per i condotti di manutenzione dietro le mura; da lì sbucheremo direttamente nel loro nascondiglio. Li prenderemo alle spalle: se non ci facciamo sentire sarà un gioco da ragazzi. Io starò in testa al gruppo; dietro di me la squadra d’attacco.» Un paio di ragazzini annuirono sicuri. «Poi gli arcieri» e tre bimbetti con in mano le fionde fecero un cenno d’intesa «e per finire i fanti. Siete pronti?»

Un coro di sì risuonò entusiasta.

«Allora andiamo!»

Nihal levò in alto la spada e si gettò giù per la botola che conduceva dalla terrazza alla torre, seguita a ruota dal resto della banda.

I ragazzini marciarono compatti per i corridoi che percorrevano il cerchio interno di Salazar, fra gli sguardi divertiti - ma più spesso seccati - degli abitanti della città, che ben conoscevano le epiche battaglie di Nihal e dei suoi.

«Buongiorno, Generale.»

Nihal si voltò. A parlare era un essere alto pressappoco quanto lei, piuttosto tozzo, con il volto interamente coperto da una fitta barba. Uno gnomo. Si esibì in un buffo inchino.

Nihal fece fermare i suoi e si inchinò a sua volta. «Buongiorno a te.»

«Anche oggi a caccia di nemici?»

«Come sempre. Oggi dobbiamo scacciare i fammin dalla Torre.»

«Già, come sempre… Io però, se fossi in te, con i tempi che corrono quel nome non lo pronuncerei con tanta disinvoltura. Nemmeno per gioco.»

«Noi non abbiamo paura!» urlò un ragazzetto dal fondo.

Nihal sorrise spavalda. «Già, non abbiamo paura. E poi di che ti preoccupi? I fammin non stanno simpatici a nessuno, e comunque la Terra del Vento è ancora libera.»

Lo gnomo ridacchiò e le strizzò l’occhio. «Fa’ come vuoi, Generale. Buona battaglia.»

Attraversarono a uno a uno i vari livelli della torre, a passo ritmato, composti come veri soldati. Passarono davanti a case e botteghe, tra il caos di razze e lingue della gente di Salazar, girando in tondo per i corridoi di ogni piano, con il sole che a intervalli regolari li baciava dalle finestre aperte sull’orto centrale. Le torri della Terra del Vento, infatti, erano tutte dotate di un profondo pozzo centrale che aveva una duplice funzione: illuminare meglio gli ambienti della città e ospitare una piccola zona coltivata, occupata da parecchi orti e da qualche frutteto.

Poi Nihal entrò sicura in un vicolo laterale e aprì una porta vecchia e ammuffita. Dietro, l’oscurità più profonda.

«Eccoci.» La ragazzina assunse un’aria solenne. «Da qui in poi nessuna paura, come al solito. Il nostro alto compito non ci permette cedimenti.»

Gli altri annuirono seri, quindi entrarono strisciando nel cunicolo.

Non si vedeva nulla. Anche l’aria era spessa e densa, satura d’odore di chiuso. Dopo un po’ però gli occhi si abituarono all’oscurità e riuscirono a distinguere la scala di gradini umidi e sconnessi che si inabissava nel buio.

«Non sarà mica che oggi qualcuno passa di qua? Ho sentito dire che le mura occidentali hanno delle crepe da riparare…» fece un ragazzino.

«Sono già passati» rispose Nihal. «Un buon comandante prevede anche questo. Basta con le ciance, diamoci da fare!»

I loro passi risuonarono nella cavità ancora per un po’, mescolandosi alle voci al di là del muro. Poi, dopo l’ennesima svolta, silenzio.

«Ci siamo» bisbigliò Nihal col fiato mozzo. Era sempre così, appena prima dell’attacco: il cuore le batteva forte nel petto, il sangue le pulsava alle tempie.

Le piaceva quel misto di paura e desiderio di battersi. Le sue dita corsero sul muro fino a trovare una porta di legno. Appoggiò l’orecchio alla parete. I pietroni squadrati erano spessi, ma riusciva ugualmente a cogliere le voci dei ragazzini dall’altra parte.

«Sempre noi. Io mi sono stufato di fare il fammin.»

«Non dirlo a me! L’altra volta Nihal m’ha fatto nero.»

«A me ha spaccato un dente…»

«Quando il capo era Barod almeno si faceva a turno.»

«Sarà, ma io con Nihal mi diverto molto di più. Cavolo, quando combattiamo sembra vero! Mi sento come una cosa dentro… come essere soldati!»

«Comunque è lei la più forte, è giusto che comandi.»

Nihal staccò l’orecchio dal muro e sguainò silenziosa la sua arma. Un istante ancora d’attesa, poi con un calcio buttò giù la porta e lei e i suoi fecero irruzione urlando.


La stanza era ampia e piena di polvere, con grosse ragnatele a fare da tende alle finestre. Una casa di ricchi abbandonata, come tutte le abitazioni di quel piano. Seduti a terra c’erano sei ragazzini con in mano altrettante asce di legno. Nonostante fossero stati presi di sorpresa si alzarono di scatto e la battaglia ebbe inizio.

Nihal sembrava una furia: si gettava con violenza sui nemici, la spada che si muoveva di qua e di là come impazzita. Nella foga del combattimento i contendenti passarono di stanza in stanza, percorrendo tutta l’abitazione, fino al corridoio esterno.

I ragazzini con le asce avevano palesemente la peggio. Si iniziarono a sentire gli “ahi!" di chi prendeva una botta troppo forte.

«Ritirata!» gridò il capo dei fammin. Quelli che erano ancora tutti interi si misero a correre verso le scale.

«Inseguiamoli!» urlò Nihal, e fece per lanciarsi dietro i fuggitivi.

Uno dei suoi la prese per un braccio. «Giù per le botteghe no, Nihal! Se mio padre mi pesca un’altra volta là sotto a combinare guai mi ammazza di botte.»

Nihal si svincolò. «Non combineremo niente, li seguiamo e poi tagliamo per i campi centrali.»

«Sì, dalla padella nella brace…» mormorò tra sé il ragazzino, ma non poté far altro che seguire il suo capitano.

Tutti si precipitarono giù per le scale, e poi via come scalmanati, armi in pugno, verso il piano delle botteghe. Molti negozi si affacciavano sulla strada con nient’altro che la porta d’ingresso e una piccola vetrina che mostrava la mercanzia, ma altri, specie quelli che vendevano ortaggi e frutta, occupavano parte del corridoio con bancarelle e ceste. Nella foga della corsa i ragazzetti urtarono proprio contro uno di quei banchi travolgendo una serie di ignari avventori.

«Dannati scavezzacollo!» urlò il fruttivendolo fuori di sé. «Nihal! Stavolta tuo padre mi sente!»

Ma Nihal continuava a rincorrere i fuggitivi. Mentre scorrazzava con la spada in pugno si sentiva viva e forte. Alcuni dei suoi avevano già catturato i fammin. Restava da acchiappare il loro capo.

«A lui ci penso io!» urlò al suo esercito, quindi chiese uno sforzo supplementare alle gambe. Accelerò e si mise alle calcagna del suo nemico. Il ragazzino poteva quasi sentire il suo fiato sul collo. Si gettò per le scale ma cadde rovinosamente due piani più in basso. Si rialzò dolorante, controllò di essere al piano giusto, quindi si buttò fuori dalla finestra.

Nihal si sporse: erano scesi così tanto che sotto di loro c’erano solo le stalle. Ai piedi della finestra, nel bel mezzo di uno degli orti del giardino centrale della torre, c’era la sua preda accovacciata. Saltò giù senza paura, atterrò in piedi e si lanciò con la spada puntata verso l’avversario, che aveva già le mani alzate.

«Mi arrendo» disse con il fiatone.

Nihal lo raggiunse. «Complimenti, Barod. Sei diventato rapido!»

«Sì, come no. Con te alle costole…»

«Ti sei fatto male?»

Barod si guardò le ginocchia sbucciate. «Io non salto agile come te. Comunque la prossima volta lo fai fare a qualcun altro il capo dei fammin, io mi sono stufato: m’hai fatto più lividi tu…»

La risata di Nihal venne bruscamente interrotta da una voce infuriata.

«Ancora tu! Sono arcistufo, dannazione!»

«Oh-oh! Baar!» fece Nihal preoccupata. Aiutò Barod a tirarsi su e iniziarono a correre tra i cespi d’insalata.

«È inutile che scappate, tanto so chi siete!» continuava a urlare la voce.

Raggiunto il confine dell’orto Nihal si rivolse all’amico: «Senti, vai a casa. A lui ci penso io».

Barod non se lo fece ripetere due volte.

Nihal invece preparò la sua migliore faccia di bronzo e aspettò l’arrivo del contadino, un vecchietto sdentato la cui ira era così straripante da schizzar fuori da ogni ruga.

«Avevo già detto a tuo padre che se ti ripescavo qua dentro mi avrebbe dovuto ripagare i danni! Oggi tre cespi d’insalata da buttare, ieri le zucchine… Per non parlare di tutte le mele che mi hai rubato!»

Nihal mise su un’aria contrita. «Stavolta sono innocente, Baar! È che il mio amico è caduto da quella finestra lassù, vedi? Io sono solo scesa per aiutarlo.»

«È una vita che i tuoi amici cascano nel mio orto e tu vieni ad aiutarli! Se avete i piedi di ricotta state lontani dalle finestre!»

Nihal annuì con aria dispiaciuta. «Hai ragione, scusami. Non succederà mai più.»

Poi guardò Baar con espressione così angelica che il contadino ci cascò con tutte le scarpe. «E va bene, sparisci. Ma di’ a Livon che gli costerà un’altra limatina ai miei falcetti.»

«Come no?»

La ragazzina schioccò un bacio all’aria e se la diede a gambe più in fretta che poteva.


Livon viveva ai piani delle botteghe, subito sopra le stalle e l’ingresso di Salazar, una pesante porta di legno a due battenti con grosse borchie di ferro ai lati e ampi cardini, alta più di dieci braccia. Il legno consunto presentava ancora tracce di bassorilievi scolpiti in un lontano passato. Le figure però erano assai confuse e, a parte qualche cavaliere e qualche drago, non si riusciva a distinguere altro.

Come per molti commercianti, anche per Livon casa e bottega coincidevano: così si risparmiavano tempo e denaro su eventuali pigioni. L’unico inconveniente era un po’ di confusione, accentuata dall’assenza di una presenza femminile degna di quel nome. Inoltre faceva l’armaiolo: la casa era stracolma di attrezzi, armi, blocchi di metallo e pezzi di carbone.

Nihal spalancò la porta. «Sono tornata!» gridò a gran voce. «E sono anche affamata!»

Le sue parole furono inghiottite dal frastuono. In un angolo Livon batteva una grosso martello su un pezzo di metallo arroventato, mentre migliaia di scintille sfuggivano all’acciaio e si gettavano a cascata sul pavimento. Era un omone, coperto di fuliggine, una zazzera di capelli corvini sulla testa. Solo gli occhi rilucevano su un volto che sembrava un pezzo di carbone.

«Vecchio!» urlò Nihal con quanto fiato aveva nei polmoni.

«Ah, sei tu…» disse Livon tergendosi il sudore dalla fronte. «Visto che non arrivavi mi ero messo a finire un lavoro per domani.»

«Vuoi dire che non hai preparato niente?»

«Non s’era stabilito che una volta a settimana toccava a te cucinare?»

«Sì, però… sono così stanca!»

«Aspetta, aspetta. Non mi dire niente. Scommetto che sei stata come al solito a giocare con quegli scalmanati.»

Silenzio.

«E come al solito al piano delle case abbandonate.»

Ancora silenzio.

«E magari siete finiti per l’ennesima volta nel campo di Baar…»

Il silenzio si fece colpevole. Nihal aprì la dispensa e prese una mela.

«Comunque non ti preoccupare. Mangio questa» disse saltellando e mettendosi fuori dalla portata di Livon.

«Accidenti, Nihal! Quante volte ti ho detto di non giocare negli orti centrali?

Qui è tutto un via vai di gente che viene a lamentarsi e a chiedere riparazioni gratis!»

Nihal si sedette con aria compunta. «È che quando si combatte…»

Livon sbuffò spazientito e si mise a tagliare un po’ di verdure prese dalla dispensa. «Non venirmi a parlare di queste sciocchezze! Se vuoi giocare, gioca. Ma non dare fastidio a nessuno!»

Nihal alzò gli occhi al cielo: sempre le stesse storie… «Non farmi la lagna, Vecchio…»

L’uomo le lanciò un’occhiataccia. «Ma chiamarmi papà, di tanto in tanto?»

Nihal sfoderò un sorrisetto malizioso. «E dai, papà! Tanto lo so che sei contento che io sia brava con la spada…»

Livon le mise davanti con malagrazia un piatto di verdure crude.

«È il pranzo?»

«Questo è ciò che mangiano le signorine che si ostinano a fare i maschiacci. Se avessi rispettato i patti e avessi cucinato tu avremmo mangiato qualcosa di caldo.»

Si sedette e iniziò a mangiare anche lui. Per un po’ ruminò pensieroso, poi riprese: «Comunque no che non sono contento!».

Nihal ridacchiò fra sé. Livon resistette ancora per qualche istante, poi si mise a ridere.

«E va bene! Hai ragione. Io ti adoro così come sei, ma gli altri… hai già tredici anni… insomma, le donne devono sposarsi, prima o poi!»

«E chi l’ha detto? Io a chiudermi in casa a fare la calza non ci penso nemmeno. Io voglio essere un guerriero!»

«Non esistono guerrieri donne» disse Livon, ma la sua voce tradiva un malcelato orgoglio.

«Vorrà dire che sarò la prima.»

Livon sorrise e con una mano scompigliò i capelli della figlia.

«Sei proprio una maledetta! È solo che a volte penso che una madre ti ci sarebbe voluta…»

«Non è colpa tua se la mamma è morta» fece Nihal con semplicità.

«No» disse Livon arrossendo «no.»

Sulla moglie di Livon aleggiava il più oscuro mistero. Nihal s’era accorta presto che tutti a Salazar avevano un papà e una mamma e lei invece solo il papà.

Ancora molto piccola, aveva iniziato a fare domande a cui Livon aveva sempre dato risposte vaghe e confuse. La mamma era morta, non era dato di sapere come né quando. Ma com’era? Bella. Sì, ma come? Come te, occhi viola e capelli blu. Ogni volta che si tirava fuori l’argomento, Livon andava in crisi e Nihal aveva imparato, con il tempo, a evitare il discorso.

«Mi hai sempre detto che volevi che diventassi una persona forte, che seguissi i miei desideri… Io cerco di farlo.»

Con sua figlia Livon aveva il cuore tenero: a quelle parole gli vennero le lacrime agli occhi.

«Vieni qui» disse, e la abbracciò tanto stretta da farle male.

«Mi soffochi, Vecchio…»

Nihal provò a divincolarsi, ma in realtà godeva di quell’abbraccio più di quanto non volesse mostrare.


Nel pomeriggio si dettero alla solita occupazione: forgiare armi.

Livon non era solo il miglior armaiolo del mondo noto e probabilmente anche di quello ignoto: era un artista. Le sue spade erano armi incredibili, di una bellezza così fulgida da mozzare il fiato, armi che sapevano adattarsi al proprietario ed esaltarne le capacità.

Realizzava lance appuntite come aculei e taglienti come rasoi, ornate di fregi sinuosi che non ne appesantivano la linea come inutili orpelli, bensì ne esaltavano il disegno. Livon era in grado di sposare il massimo della funzionalità con lo splendore dell’eleganza. Trattava le armi come figli, le considerava sue creature e come tali le amava. Adorava quel lavoro perché gli permetteva di esprimere il suo estro creativo, che sembrava inesauribile, e al contempo lo esaltava mettere alla prova le sue capacità tecniche.

Ogni nuova arma era una sfida alla sua perizia di artigiano, e così di volta in volta tentava arditi esperimenti, utilizzava nuovi materiali, cercava forme sempre più complesse e le mescolava con soluzioni tecniche sempre più complicate.

La fama di Livon era così vasta che il lavoro non mancava mai, e da sempre, un po’ per necessità un po’ per puro piacere, si faceva aiutare da Nihal. E mentre lei gli porgeva il maglio o azionava il mantice, lui le regalava perle della saggezza dei guerrieri.

«Un’arma non è solo un oggetto: per un guerriero la spada è come un arto, una compagna fedele e inseparabile. È la sua spada, e non la cambierebbe con nessun’altra al mondo. E per un armaiolo è come un figlio: come la natura dà vita alle creature di questo mondo, così l’armaiolo dal fuoco e dal ferro forgia la lama» diceva Livon e chiudeva la frase con una fragorosa risata.

Non c’era dunque da meravigliarsi che, con un padre che viveva per le spade e che aveva tra i suoi avventori soldati, cavalieri e avventurieri, Nihal fosse cresciuta così ribelle e poco femminile.


Erano impegnati con una spada quando Nihal tirò fuori una questione annosa. «Vecchio?»

«Mmm…»

Livon abbatté il maglio sulla lama.

«Volevo chiederti…»

Un altro colpo.

Nihal assunse un’aria innocente e svagata. «Quand’è che mi dai una spada vera?»

Il maglio di Livon restò fermo a mezz’aria. Un sospiro, poi l’omone riprese a battere l’acciaio. «Tieni ferma quella pinza.»

«Non cambiare argomento» insistette Nihal.

«Sei troppo piccola.»

«Ah, sì? Però non sono troppo piccola per cercarmi marito!»

Livon posò il maglio e si lasciò cadere su una sedia, rassegnato. «Nihal, ne abbiamo già parlato. Una spada non è un giocattolo.»

«Questo lo so benissimo, e so anche come si usa, molto meglio di tutti i ragazzi di questa città!»

Livon sospirò. Aveva pensato spesso di regalare a Nihal una delle sue spade, ma poi il timore che potesse farsi del male l’aveva sempre frenato. D’altro canto, si rendeva conto che con la sua spada di legno Nihal faceva prodigi e che più di una volta aveva preso in mano spade vere, dimostrando di conoscerne bene sia i rischi sia le potenzialità.

Nihal s’accorse dell’indecisione del padre e ripartì alla carica. «Allora, Vecchio? Eh?»

Livon si guardò attorno. «Vediamo» disse sibillino. Si alzò e andò verso gli scaffali su cui teneva i suoi lavori meglio riusciti, quelli che realizzava senza alcuna commissione, solo per se stesso. Prese un pugnale e lo mostrò a Nihal. «Questo l’ho fatto un paio di mesi fa…»

Era un’arma molto bella: l’impugnatura era forgiata a formare un tronco d’albero, con le radici a un estremo e due rami contorti che sporgevano da quello opposto allargandosi verso l’esterno. Le altre frasche si avvinghiavano ancora per un piccolo tratto, fino a fondersi nella lama.

Gli occhi di Nihal brillarono. «È mio?»

«È tuo se mi batti. Ma se vinco io cucini e rassetti tu per un mese.»

«Ci sto! Ma tu sei grande e grosso, mentre io sono ancora una bambina, no? Lo dici sempre anche tu! Quindi per pareggiare i conti dovrai restare nello spazio di tre assi del pavimento.»

Livon ridacchiò. «Mi sembra legittimo.»

«Dammi una spada, allora» disse Nihal, già eccitata di poter mettere le mani sull’acciaio.

«Non se ne parla neanche! Userò il legno anch’io.»

Si misero entrambi al centro della sala, Nihal con la sua spada di legno in pugno e Livon con un bastone.

«Pronta?»

«Naturalmente!»


La sfida ebbe inizio.

Nihal non era dotata di grande resistenza, e la sua tecnica era tutt’altro che impeccabile, ma sopperiva alle lacune con l’intuito e la fantasia. Parava e scartava ogni assalto, sceglieva i tempi giusti per l’attacco e saltava a destra e a manca con grande agilità. Il suo vantaggio era tutto lì, e lei lo sapeva.

Improvvisamente Livon si sentì fiero di quel maschiaccio con le trecce blu. L’asta di legno gli sfuggì di mano, andando a cozzare su un gruppo di lance appoggiate in un angolo.

Nihal gli puntò la sua arma alla gola. «Che fai, Vecchio, mi cadi sui fondamentali? Farsi disarmare così da una ragazzina…»

Livon scostò la spada di legno, prese il pugnale e lo porse alla figlia. «Tieni, te lo sei meritato.»

Nihal si rigirò a lungo il pugnale tra le mani, soppesandolo e provandone il filo sul dito, dissimulando che era pazza di gioia. La sua prima arma!

«Però ricordati: mai fare i gradassi con il nemico battuto. È di pessimo gusto.»

Nihal guardò il padre con occhi furbi. «Grazie, Vecchio.»

Era già abbastanza smaliziata da capire quando la lasciavano vincere.

2 Sennar.

Fin da piccola Nihal aveva bazzicato la banda di ragazzini con cui andava in giro per Salazar a combinare danni d’ogni sorta. E se all’inizio era stata accolta con una certa diffidenza, sia perché era femmina sia per il suo strano aspetto, le era bastato poco per farsi accettare.

Un paio di duelli e aveva provato che quanto a esuberanza, sebbene fosse una ragazzina, non aveva nulla da invidiare agli altri membri della combriccola.

Da quando entrò nel gruppo fu via via più benvoluta. Poi batté Barod, il capo, in uno scontro con la spada: da quel momento venne addirittura idolatrata e diventò lei il capo della banda.

Nonostante la compagnia non le mancasse, a volte, però, Nihal si sentiva sola. Allora saliva sulla cima di Salazar e guardava il panorama dall’ampia terrazza che dava sulla steppa: l’occhio poteva spaziare senza limite per la pianura, e le uniche cose che si intravedevano erano l’onnipresente Rocca del Tiranno e le sagome sbiadite delle altre città.

Davanti a quello spettacolo Nihal si calmava e per un attimo la sua indole guerriera taceva. Era strano: quando il tramonto incendiava, in un unico rogo, cielo e steppa riusciva a non pensare a nulla. Sentiva solo un mormorio provenirle dal fondo dell’anima, come un bisbiglio in una lingua che non conosceva.

Da quando aveva conquistato il pugnale di Livon, Nihal era ancora più ammirata: se ne andava in giro con la lama che le pendeva al fianco, sentendosi forte come un cavaliere. Varie volte l’aveva messo in palio come premio in qualche zuffa e si vantava di non aver mai perso un incontro.

Una mattina del suo tredicesimo autunno Barod andò a chiamarla proprio per quel motivo: un ragazzo mai visto voleva sfidarla per il possesso del pugnale. Nihal non se lo fece ripetere due volte e si recò baldanzosa sul tetto di Salazar, luogo deputato allo svolgimento di tutti i suoi duelli.

Quando vide il suo avversario quasi le venne da ridere: alto e magro, doveva avere un paio di anni più di lei e sfoggiava una spettinatissima zazzera rossa. Le bastò un’occhiata per capire che la carta vincente del suo avversario non era certo la forza. E tanto meno l’agilità, visto che indossava una sorta di ingombrante casacca che gli cadeva giù fino ai piedi, fregiata con un ricamo geometrico sul petto. Come si poteva combattere vestiti in quel modo?

L’unica arma segreta di quel tizio poteva essere una certa astuzia, che Nihal intravide nei suoi chiarissimi occhi azzurri, ma non se ne preoccupò: di nemici sleali ne aveva battuti non pochi.

«Sei tu che mi hai fatta chiamare?»

«In persona.»

«E mi vorresti sfidare.»

«Esattamente.»

«Sei di poche parole. Non ti ho mai visto qui: di dove sei?»

«Vengo dal margine della Foresta, ma la mia patria è la Terra del Mare. Mi chiamo Sennar, per rispondere alla tua prossima domanda.»

Nihal non capiva perché quel tizio fosse così sicuro di sé: la conosceva di fama, altrimenti non l’avrebbe sfidata, quindi era da escludere che la sottovalutasse.

«Chi ti ha parlato di me, e perché mi vuoi sfidare?»

«Qui tutti parlano del demone con le orecchie a punta e i capelli blu che picchia come un fabbro. Di’ un po’, hai per caso scordato di essere una ragazza?»

Nihal strinse i pugni: sapeva che era controproducente perdere le staffe prima della battaglia e Sennar, con quel tono canzonatorio e quel sorrisetto sarcastico stampato sulle labbra, mirava proprio a quello.

«Quel che faccio sono affari miei, e poi non mi hai ancora risposto: perché mi sfidi?»

«Guarda, non mi interessa un fico secco di tutte le sciocchezze di gloria e onore che frullano per la testa ai bambini che si azzuffano con te. Io voglio il tuo pugnale, perché è bello e perché l’ha fatto Livon, che è il miglior armaiolo del Mondo Emerso. Se per averlo devo giocare con te, ben venga.»

A Nihal prudevano le mani, ma non rispose alle provocazioni. Si accordò con Sennar per le modalità dello scontro. Una volta iniziato il duello avrebbe potuto dargliene quante voleva.

Decisero di battersi coi bastoni: il primo a essere disarmato o a cadere a terra sarebbe stato sconfitto. Il pugnale, trofeo della contesa, fu solennemente consegnato al più giovane tra gli astanti.

«Ti toglierai la tunica, immagino.»

«Ci sono abituato. Per cui, se non ti senti umiliata a essere sconfitta da uno bardato così…»

Nihal ingoiò l’ennesimo rospo. Poi la lotta ebbe inizio.

Come previsto, Sennar non era forte, non era agile e quanto a tecnica era inferiore a lei. E allora cosa accidenti lo rendeva così sicuro?

Nihal fu presto in vantaggio: approfittava della sua rapidità per spostarsi di continuo, disorientando l’avversario. I ragazzini intorno la incitavano con urla e fischi. A poco a poco sentì che la battaglia la eccitava sempre di più, finché la foga non la travolse: aumentò la velocità dei movimenti, parò, si girò, colpì Sennar al fianco e si preparò a spezzare il bastone che il ragazzo sconosciuto aveva levato in alto per proteggersi dal colpo imminente.

È fatta! si disse trionfante.

Bastò quell’attimo di sicurezza per farle sfuggire la vittoria dalle mani.

Sennar la guardò negli occhi con uno sguardo gelido, abbozzò un sorriso e mormorò qualcosa che Nihal non comprese.

Proprio mentre si accingeva a calarlo su Sennar, la ragazzina sentì il bastone afflosciarsi tra le sue mani e farsi viscido e strisciante. Alzò gli occhi: al posto della sua arma c’era un grosso serpente che si contorceva soffiando.

Nihal cacciò un urlo e mollò la presa. Fu un istante, ma Sennar non se lo lasciò sfuggire: uno sgambetto e la ragazzina cadde a terra, sconfitta per la prima volta in vita sua.

«Mi pare che ci sia un vincitore.»

Sennar prese il pugnale dalle mani del bambino che lo custodiva.

Per un po’ Nihal rimase come impietrita. Poi si riscosse e si guardò attorno. Di serpenti non c’era traccia.

«Stramaledettissimo baro, sei un mago! Non me lo avevi detto! Sei sleale! Rivoglio il mio pugnale!»

Si rialzò di scatto per saltargli addosso ma Sennar la fermò con una mano. «Invece di urlare dovresti ringraziarmi per la lezione. Mi hai chiesto se ero un mago? No. Hai detto: “Io coi maghi non mi batto”? No. Hai posto come regola del combattimento di non usare la magia? No. E allora se hai perso è solo colpa tua. Oggi hai imparato che prima di battersi bisogna conoscere bene il proprio nemico. E che la forza non è niente senza l’intelligenza. E ora smettila di piagnucolare: Livon te ne farà di sicuro un altro.»

Mentre si allontanava aggiunse: «Comunque sei forte, non c’è che dire» e se ne andò con la stessa flemma con cui era arrivato.

Nihal rimase immobile. Poi dal silenzio imbarazzato del pubblico si levò la voce di Barod: «Mi dispiace, Nihal, ma quel tizio ha proprio ragione».

Per tutta risposta Nihal gli sferrò un sonoro pugno sul naso e scappò via in lacrime.

Scese lungo la torre correndo a perdifiato. Urtò passanti, scavalcò bancarelle, abbatté una giara d’olio fuori da una locanda. Tutto quello che voleva era rifugiarsi tra le braccia consolatrici di Livon: lui l’avrebbe capita e difesa, avrebbe concordato con lei che quel ragazzino era stato un vile e le avrebbe dato un pugnale mille volte più bello di quello che aveva perso.


Livon ascoltò in silenzio tutta la storia, che Nihal snocciolò tra lacrime e singhiozzi, e alla fine se ne uscì con un commento del tutto inatteso: «E allora?».

Ci volle un po’ perché Nihal incassasse il colpo. «Come sarebbe “e allora”? Mi ha imbrogliata!»

«Non mi sembra proprio. Piuttosto, lui è stato furbo e tu ingenua.» Nihal sgranò gli occhi indignata.

«Oggi hai imparato due cose. Primo, se tieni davvero molto a una cosa, devi tenertela stretta.»

«Ma…»

«Secondo, quando si duella bisogna mettere bene in chiaro le cose e conoscere il proprio nemico.»

Le stesse identiche parole che le aveva detto quella serpe.

«Perdere fa parte della vita, Nihal, è meglio che ti ci abitui. Bisogna saper accettare anche le sconfitte.»

Nihal si sedette in malo modo su una sedia, imbronciata. «Almeno mi darai una spada…»

«Una spada? Non è colpa mia se hai perso il pugnale che ti avevo dato. La prossima volta farai più attenzione.»

«Ma l’avevo conquistato con tanta fatica! E poi tu hai tante di quelle spade che…»

Livon la zittì con un gesto. La sua faccia era seria. «Non voglio più sentir parlare di questa storia, chiaro?»

Nihal si chiuse in un silenzio astioso, mentre calde lacrime di rabbia le solcavano le guance.


Rimase pensierosa per tutta la notte. La sconfitta le bruciava terribilmente, ma soprattutto non si perdonava di essersi messa a piangere. Si girava e rigirava nel letto. Il desiderio di cancellare quell’onta non le dava tregua. Avrebbe quasi voluto saltare fuori dalle lenzuola e mettersi a cercare quel tizio ovunque fosse, dovesse pure arrivare in capo al mondo.

Fu proprio mentre si macerava tra un progetto di vendetta e l’altro che le venne l’idea: tutta quella storia in fin dei conti provava che un guerriero era tenuto a padroneggiare almeno un po’ le arti magiche. Urgeva dunque apprendere la magia.

In realtà Nihal non aveva mai provato alcun interesse per la magia. Il fascino di una spada le sembrava infinitamente più grande di quello effimero di un incantesimo ben riuscito. Ora però si rendeva conto che poteva tornarle utile. E poi, battere quella canaglia sul suo stesso terreno sarebbe stata una soddisfazione somma.

A Nihal sembrava già di vedere la scena: Sennar, avvinto nelle spire di chissà quale potente sortilegio da lei evocato, che le chiedeva pietà e le porgeva supplicante il pugnale…

Sì, avrebbe fatto così. Forse per imparare la magia le ci sarebbero voluti anni, ma che importava? Anche dopo un secolo avrebbe cercato quel ragazzino e l’avrebbe battuto.

Restava solo da trovare un mago disposto a insegnarle. Lei non ne conosceva ma, con tutta la gente che circolava per la bottega, Livon sicuramente ne conosceva qualcuno che fosse disposto a prendersi un allievo.


L’indomani mattina Nihal comunicò la sua decisione al padre, che la prese tutt’altro che bene.

«Perché stai montando questa assurda baraonda per una ragazzata? Ti ho già detto che bisogna saper perdere, e prima lo imparerai meglio sarà.»

«Le mie non sono ragazzate» ribatté Nihal piccata. «Io voglio davvero essere un guerriero, un grande guerriero, e per farlo ho bisogno della magia. Che ti costa dirmi il nome di qualcuno che mi insegni?»

«Non ne conosco» sbottò spazientito Livon, e sperò che il discorso finisse lì.

Nihal però non si arrese. «Non è vero. Lo so benissimo che ogni tanto vendi armi con sopra un incantesimo. Da qualcuno te li farai fare questi incantesimi, no?»

Messo di fronte all’evidenza dei fatti Livon si irritò ancora di più. Batté un pugno sul tavolo da lavoro. «Dannazione! Non mi va che impari la magia!»

«Ma perché?»

«Non sono tenuto a darti spiegazioni!» tagliò corto lui, e si chiuse in un ostinato silenzio.

«Se tu non mi aiuti, me lo cercherò da sola!»

«A Salazar non ce ne sono.»

«Me ne andrò in qualche altra torre. Non ho paura di viaggiare, io!»

«Allora fa’ quel che ti pare e vattene!» urlò Livon.

Nihal sentì le lacrime pungerle gli occhi. Non era solo per il fatto che dopo anni di pacifica e felice convivenza stavano litigando per la prima volta. Era che d’un tratto si era sentita incompresa proprio da Livon, che aveva creduto fosse l’unico in grado di capire sempre quel che lei pensava e provava. La stava trattando come una ragazzina capricciosa.

Ricacciò indietro le lacrime e guardò la grossa schiena del padre, irrimediabilmente girata.

«Benissimo!» disse con stizza.

Ma quando fece per andarsene la voce profonda di Livon la bloccò. «Aspetta…» bofonchiò l’armaiolo, voltandosi verso di lei. «Nihal, è solo che ho paura. Ecco, l’ho detto. Ho paura che tu te ne vada. Finché vuoi fare il guerriero ci sono qui io. Ma apprendere la magia…»

Un groppo in gola gli bloccò le parole.

«Ma sei impazzito? E dove dovrei andare? Io ho solo te al mondo!»

Nihal lo abbracciò. «Vecchio, tu sarai sempre la mia casa.»

Livon si commosse, ma quelle parole non riuscirono a rasserenare il suo animo. Strinse Nihal tra le braccia ancora per qualche istante, poi la scostò da sé. «Una maga ci sarebbe» disse esitante.

«Lo sapevo! Fantastico!» Nihal sprizzava gioia da tutti i pori. «E dove?»

«Al confine con la Foresta.»

«Ah…»

La Foresta era l’unico bosco della Terra del Vento. In una terra di steppe e spazi aperti come quella, l’unico bosco faceva paura: non c’era abitante di Salazar che non temesse quel luogo. E Nihal non faceva eccezione.

«Sì, insomma, lì c’è una casa. Ci abita tua zia.»

Nihal rimase di stucco. In tredici anni non aveva mai sentito parlare di parenti di sorta.

«Si chiama Soana, è mia sorella. Ed è una maga molto potente.»

«Avevamo parentele tanto interessanti e non me l’avevi mai detto? Perché tutto questo mistero?»

Livon abbassò istintivamente la voce. «Al Tiranno non piace che si pratichi la magia nelle sue terre o in quelle a lui alleate. Tua zia ha dovuto andarsene da Salazar. Diciamo che… è molto amica dei nemici del Tiranno, ecco.»

Nihal si sentì fremere di eccitazione: una cospiratrice! «Accidenti, Vecchio!»

«Inutile dire che gradirei che tu non andassi a vantartene in giro. Con nessuno. Chiaro?»

«Io? Ma per chi mi hai presa?»

3 Soana.

Il giorno successivo Nihal era impaziente di partire. Aveva con sé un piccolo bagaglio e una scorta di pane, formaggio e frutta che Livon le aveva imposto di portarsi dietro nonostante il viaggio fosse breve.

In piedi in mezzo alla bottega ascoltava per l’ennesima volta le indicazioni e raccomandazioni di Livon. «La strada è quella che dalla città conduce fuori verso sud, non puoi sbagliare.»

«Sì, me l’hai già detto.»

«E comportati a modo. Soana è una persona severa, non credere che te le lascerebbe passare lisce come me.»

«Non mi perderò, sarò brava e ti farò fare bella figura. Va bene?»

Livon le schioccò un bacio in fronte. «Va bene. Ora vai, prima che cambi idea.»

«Ciao, Vecchio. Quando torno, con una magia metterò in ordine tutta la casa!»

Dirigendosi verso la porta, Nihal prese con noncuranza una spada a caso dal mucchio di quelle appena forgiate.

«Nihal?»

La ragazzina si voltò con aria innocente. «Sì?»

«La spada. Non mi sembra di averti dato il permesso di prenderla.»

«E tu vorresti farmi andare in giro tutta sola senza nemmeno un’arma per difendermi?»

Livon sospirò e si arrese. «È solo un prestito.»

«Ovvio!» disse Nihal, e uscì dalla bottega saltellando.

La via si srotolava dritta e sicura, senza possibilità d’errore. La sua nuova spada le difendeva il fianco e, a mano a mano che si addentrava nella steppa, Nihal iniziava a sentirsi in pace con se stessa; anche il pensiero della rivalsa, che fino a quel momento aveva dominato la sua mente, iniziava a sbiadire.

Avanzava tra l’erba, nella lieve foschia mattutina, e sentiva l’autunno penetrarle nelle ossa. Da sempre lo spettacolo della natura aveva il potere di calmarla. Al tempo stesso però, quando era sola, la avvolgeva la consueta sottile malinconia e quello strano mormorio interiore reclamava ascolto. Anche quella mattina, mentre camminava nella bruma e l’unico suono che l’accompagnava era lo scricchiolio dei suoi passi sulle foglie secche, era come se voci lontane le rivolgessero deboli richiami. Ma quelle sensazioni erano diventate compagne abituali per Nihal. E lei non se ne preoccupava: aveva imparato ad amare quei sussurri come vecchi amici.

Le prime propaggini della Foresta si presentarono minacciose dopo qualche ora di cammino spedito, e proprio nei pressi dei primi alberi si intravide una casupola. Era fatta di semplici assi di legno ed era veramente piccola. Nihal rimase delusa: s’aspettava qualcosa di meglio per una grande maga.

Si avvicinò alla porta un po’ intimorita. Rimase lì davanti per qualche secondo. Dall’interno non proveniva alcun rumore: forse non c’era nessuno, si trovò a sperare. Poi scrollò le spalle per dare un taglio agli indugi e bussò.

«Chi è?» chiese una voce dall’interno.

«Sono Nihal.»

Silenzio, quindi un rumore di passi leggeri verso l’uscio, infine il cigolio della porta che si apriva.

A Nihal si presentò una donna davvero molto bella. Alta e femminile, capelli scuri a incorniciare un volto a cui un lieve pallore donava una nota di solennità, occhi neri come carbone, labbra piene e rosate. Portava una lunga tunica di velluto rosso.

Dunque quella era sua zia? Possibile che fosse la sorella di Livon?

La donna la guardò con un sorriso enigmatico. «Sei cresciuta. Vieni, entra.»

All’interno regnava un ordine esemplare.

La porta d’ingresso si apriva su una saletta, sulla quale si affacciavano due piccole camere da letto. Chissà, forse c’era anche uno zio… La stanza principale era quasi completamente tappezzata di scaffali: su una parete c’erano esclusivamente libri, sull’altra sia tomi voluminosi sia recipienti colmi di erbe e di strani intrugli. Poi un piccolo caminetto e al centro del locale un tavolo, anch’esso coperto di libri.

Nihal si sentì intimidita sia dall’aspetto della zia sia da quella casa così diversa dalla rassicurante bottega di Livon.

«Siediti.»

Nihal obbedì. Anche Soana si sedette.

«Immagino che ti abbia mandato Livon.»

La ragazzina annuì.

«Ti ricordi di me?»

Nihal era sempre più confusa. Si erano già conosciute, allora!

«Quando tua madre è morta, per un po’ ho aiutato Livon a occuparsi di te. Ma è normale che non lo ricordi. Me ne sono andata che non avevi neppure due anni, e questi tempi bui non mi hanno permesso di starti accanto.»

Seguì qualche minuto di imbarazzato silenzio. Nihal avrebbe preferito avere a che fare con un perfetto estraneo, piuttosto che con una che l’aveva cresciuta quando era piccola; e poi quella donna era tanto bella da farla sentire a disagio. D’un tratto il motivo per cui era andata da lei le sembrò infinitamente stupido.

«Dimmi, Nihal. Che cosa ti ha portato da me?»

Nihal prese coraggio. «Ecco, io… sono venuta perché vorrei che tu mi addestrassi.»

«Capisco.»

«In realtà io vorrei diventare un guerriero, in futuro» si sentì in dovere di chiarire.

«Lo so. Livon mi parla molto di te.»

La cosa innervosì Nihal: non sospettava neppure l’esistenza di quella donna e lei invece sapeva tutto.

«Però vorrei apprendere anche la magia perché credo che sia utile. Per un guerriero, intendo.»

Soana annuì impassibile. «E posso sapere come hai raggiunto questa consapevolezza?»

A Nihal la domanda parve sibillina, ma decise di rispondere con sincerità. Le raccontò tutta la storia, cercando però di colorare la verità in modo da farla apparire più accettabile. Ebbe nondimeno la curiosa impressione che quel che stava dicendo non risultasse affatto nuovo a Soana. Alla fine del racconto, la maga fu lapidaria.

«E non ti pare che questo sia un motivo quanto mai sciocco per apprendere la magia?»

Il tono era così duro che Nihal cominciò a rimpiangere la sua decisione.

«È importante che la tua motivazione sia forte, Nihal, perché lo studio della magia è arduo. Inoltre, il mago padroneggia grandi poteri ed è dunque indispensabile che sia saggio e usi le sue potenzialità per alti fini. Il Tiranno è tale proprio perché usa la magia per il male.»

Nihal tentò un’autodifesa: «Io non voglio conoscere la magia per il male o per un motivo stupido. Voglio solo essere un guerriero completo». In fondo, non era quasi la verità?

«Non sono del tutto convinta, ma voglio darti la possibilità di dimostrarmi che dici il vero. Fra poco arriverà qui Sennar».

Nihal sobbalzò sulla sedia. «Come Sennar?»

«È mio allievo. Voglio che tu gli stringa la mano e prometta di non esigere vendetta su di lui tramite la magia.»

Per Nihal fu come se nella stanza si fosse alzato un vento gelido: ecco perché Soana sembrava conoscere tutta la storia! Che stupida era stata! E sì che Sennar l’aveva detto che veniva dal limitare del bosco. Così quella serpe era stata nutrita in seno alla sua stessa famiglia.

Un dubbio atroce le si profilò nella mente, e con un filo di voce chiese: «L’hai mandato tu a sfidarmi?».

«E perché? Ho saputo di questa storia solo poco fa, quando Sennar me l’ha confessata. E comunque non mi metterei mai in mezzo a questioni di ragazzini.»

Nihal temette che la maga si fosse offesa. Era così difficile riuscire a capire cosa pensasse…

«Dovrebbe essere qui a momenti» disse Soana gettando uno sguardo fuori dalla finestra.

Nihal rimase sola con i propri pensieri. Certo, stringere la mano a Sennar era come accettare la sconfitta, e l’onore andava decisamente a farsi benedire. D’altra parte rifiutarsi equivaleva ad ammettere di aver raccontato a Soana una frottola.

Alla fine decise di accettare: avrebbe promesso, per il momento.

La sua vendetta se la sarebbe presa con comodo.


Sennar fece il suo ingresso carico di erbe di ogni tipo.

«Ho raccolto tutto quello che ti serviva, Soana. Spero che adesso mi perdon…»

La sorpresa gli fece morire la frase in gola, ma dopo un attimo di disorientamento esclamò con tono gaio: «Oh, ciao. Sei venuta a prendere la mia testa?».

«Ti sbagli, Sennar. Nihal è qui per diventare mia allieva e per rappacificarsi con te. Non è vero, Nihal?»

La ragazzina represse il disgusto e si preparò al supremo sacrificio. Si alzò in piedi riluttante, guardò Sennar dritto negli occhi e gli strinse con vigore la mano. «Nessun rancore, ho perso in un combattimento leale.»

E con questo l’amaro calice è stato bevuto fino in fondo, si disse.

«Bene. Meglio così. Vado a smistare le erbe» disse Sennar, e si ritirò dalla stanza con tutto il suo raccolto.

Nihal fece un profondo respiro e Soana finalmente le sorrise.

«Hai fatto la cosa giusta. Adesso puoi affrontare la prova.»

Una prova? Non era già una prova quella che aveva appena sostenuto?

Nihal sentì la sua decisione vacillare.

«Ma ne parleremo a suo tempo.»


Fu la maga stessa a cucinare. Dietro la casa c’erano un piccolo orto e qualche gallina.

Soana raccolse un po’ di verdura fresca e si mise a preparare una zuppa. Nihal stava a guardare: a vederla lì, intenta a tagliare zucchine, la zia sembrava una donna del tutto normale. L’unico momento di vera sorpresa fu quando Soana si avvicinò al focolare, stese una mano e mormorò qualche parola strana: la legna prese fuoco da sola.

«Accidenti! Saprò farlo anch’io?»

«Forse, Nihal. Forse.»

Il pranzo trascorse in silenzio. Soana sembrava a suo agio, ma Sennar non faceva altro che spostare gli occhi dalla ragazzina alla maga e viceversa, e Nihal teneva la faccia quasi immersa nella scodella.

Solo dopo aver mangiato l’atmosfera sembrò sciogliersi un po’.

Soana doveva aver capito che la presenza di Sennar metteva a disagio la sua ospite e lo mandò fuori a provare un incantesimo. Rimasero sole, sedute ai due estremi della tavola. Nihal avrebbe voluto sprofondare tanto si sentiva in imbarazzo. Mentre il silenzio del primo pomeriggio riempiva la casa, la maga iniziò a farle domande. D’un tratto sembrava molto interessata alla nipote e la ascoltava con interesse.

Nihal si disse che se voleva sapere qualcosa di più su sua madre, forse quello era il momento giusto. «Cosa sai di mia madre?»

«Non molto. È stata con noi così poco…»

«Papà non me ne parla mai.»

Soana parve non raccogliere. Era sempre così quando si parlava di sua madre. Ma perché, poi?

«A me basta anche solo sapere com’era, visto che a quanto pare ho preso tutto da lei.»

«Era molto giovane, più di tuo padre, e molto bella.» Soana parlava senza guardare la ragazzina, con lo sguardo perso verso la Foresta. «Morì che tu eri nata da pochi giorni.»

«E questi capelli, questi occhi? Queste cavolo di orecchie a punta?»

«Di persone con queste caratteristiche, come te e tua madre, ne nascono pochissime. Una ogni mille anni, si dice. Devi ritenerti fortunata.»

Soana sorrise, e la ragazzina si sentì di contraccambiare.


Passarono il resto del pomeriggio a parlare dell’infanzia di Soana e Livon a Salazar. Nihal si divertì molto. La maga era schiva e riusciva a controllare le proprie emozioni, però a tratti i sentimenti emergevano sul suo volto, che si colorava di tenerezza o di ilarità. In quei momenti Nihal riusciva a vedere quanto in realtà essa assomigliasse al fratello.

Sennar tornò che era già buio. Nihal e Soana avevano preparato la cena insieme. Fu buffo: quando si trattava di maneggiare una spada non aveva rivali, ma in cucina Nihal era un disastro.

A cena l’atmosfera di complicità che s’era instaurata fra zia e nipote parve spezzarsi: la maga non fece che parlare di arti magiche con Sennar e Nihal si annoiò. A quanto pareva Soana era disposta a lasciar trasparire qualcosa di sé solo in casi eccezionali.

Quando fu il momento di andare al letto, scoppiò il dramma.

«Dividerai la stanza con Sennar» disse Soana. «Gentilmente ti cede il suo letto. Lui starà sul pavimento.»

Nihal divenne rossa come un peperone. «Io dormo da sola.»

«Guarda che non mordo…» ribatté il ragazzo mentre portava le coperte per il suo giaciglio.

«Buonanotte, Nihal. Buonanotte, Sennar.»

Soana si ritirò nella sua stanza. La questione era chiusa.

Nihal si sedette sul letto di Sennar con aria truce.

«Devi cambiarti? Vuoi che esca?» le chiese lui.

Nihal lo fulminò con lo sguardo. «Dormo vestita.»

«Be’, io no. Ti spiacerebbe voltarti?»

La ragazzina non se lo fece ripetere due volte. Affondò la testa nel cuscino più che poteva.

«Fatto!»

Quando si girò, Sennar era sdraiato sul pavimento sotto uno strato di coperte. Al centro della stanza brillava un fuocherello azzurro che la rischiarava piacevolmente. Nihal non poté impedirsi di guardare con ammirazione l’incantesimo.

«Ti dà fastidio?»

Nessuna risposta.

«Be’, allora lo lascio acceso. Buonanotte.»

Per un po’ Sennar stette zitto, poi non riuscì a trattenersi. «Guarda che lo so che mi detesti. Mi hai stretto la mano solo perché te l’ha chiesto Soana. Comunque mi hai stupito: credevo che mi avresti picchiato pur di riavere il tuo pugnale. Non avrei mai immaginato che avresti deciso di imparare la magia.»

Nihal si ostinava a tacere; no, non avrebbe detto neppure una parola.

«Va bene, lo ammetto: ho approfittato di una tua debolezza, sono stato un po’ vile. Va bene così? Però il pugnale mi serviva: ci sono molte magie che hanno bisogno di lame appuntite. Magari te ne faccio vedere qualcuna.»

Nihal era muta come un pesce, ma Sennar non si fece scoraggiare. Scostò le coperte, si mise seduto e incrociò le gambe. «Senti, io non ho sonno. Se ti do noia, interrompimi.»

Da quel momento in poi non tacque un attimo.

Raccontò di quanto amasse il tempo uggioso dell’autunno; di come trovasse Soana straordinaria, come donna e come maga; del fatto che Soana ogni tanto parlasse di lei e di una quantità di cose più o meno futili.

Nihal taceva e si sforzava di disinteressarsi a quel cicaleccio, ma non ci riusciva. Un po’ voleva saperne di più di sua zia, un po’ doveva ammettere che le piaceva ascoltare quel tizio che la subissava di aneddoti.

Dopo un tempo indefinito si decise a fermare il monologo di Sennar. «Senti un po’, si può sapere che cosa ti ho fatto? Perché hai voluto umiliarmi di fronte a tutti?»

Sennar si fece serio. «Perché? Perché tu giochi alla guerra senza conoscerla, Nihal.»

«E tu che ne sai della guerra?»

«Io sono nato e cresciuto sui campi di battaglia tra la Terra del Mare e la Grande Terra. E, credimi, la guerra non è come la immagini. È tutt’altro che un gioco e non ha nulla di divertente.»

A quelle parole Nihal non seppe come controbattere.

«E comunque adesso è davvero tardi. Domani dovrai fare la tua prova, è bene che tu dorma. Buonanotte.» Il ragazzo con i capelli rossi si seppellì sotto le coperte.

Nihal rimase per un po’ ad ascoltare il suo respiro nel buio.

4 La Grande Foresta.

Quando Nihal si svegliò il cielo era limpido e il sole splendente. Era una di quelle giornate in cui sembra che la natura voglia prendersi la sua rivalsa sull’autunno, ma invano, perché il freddo dell’inverno incipiente la incalza e ne soffoca gli ardori.

Sennar non era in camera e Nihal tirò un sospiro di sollievo: le parole del ragazzo pungevano ancora.

Indugiò nel letto ancora qualche minuto, quindi si alzò e raggiunse Soana nella sala principale.

La maga era seduta al tavolo, immersa nella lettura. Accanto a lei c’era una tazza di coccio fumante e una fetta di pane nero.

«Buongiorno, Nihal. Siediti, fai colazione.»

L’infuso era ottimo e sapeva di miele, e il pane ancora caldo. A Nihal tornò il buonumore.

«Se sei pronta ti parlo della prova» le disse Soana, e Nihal si concentrò sulle sue parole.

«Per decidere se addestrarti ho bisogno di capire quali sono le tue potenzialità. La magia è in parte una capacità innata, e se in te manca questa predisposizione, io non potrò insegnarti nulla. Vedi, Nihal, il mago è colui che sa entrare in sintonia con gli spiriti primigeni della natura: da essi trae la sua forza e i suoi poteri. Egli prega la forza vitale che permea il mondo e, se sa farsi accettare, ne riceve in dono i suoi beni. La capacità di comunicare con la natura può essere affinata ed educata, ed è questo il ruolo del maestro, ma deve essere innata. La prova serve proprio a misurare questa capacità.»

Nihal aveva iniziato a interessarsi al discorso, e interruppe Soana: «Mi stai dicendo che il mago è tale solo perché gli spiriti naturali lo vogliono?».

«All’inizio è così» rispose la maga, contenta della luce di curiosità che intravedeva negli occhi della ragazzina. «Le formule per gli incantesimi più semplici non sono altro che preghiere agli spiriti naturali. A questa categoria appartengono gli incantesimi di guarigione più blandi e qualche semplice incantesimo di difesa. Quando le si riesce a padroneggiare con disinvoltura, si passa alla fase successiva.» Il tono di Soana si fece grave. «Lo scopo finale è quello di riuscire a dominare la natura e piegarla al proprio volere: allora non saranno più gli spiriti a guidare la mano del mago, bensì lui a dominare gli elementi con la sua volontà. A questa seconda categoria appartengono tutte le formule offensive, comprese quelle che vengono imposte sulle armi. Solo quando si è in grado di far ciò si può essere degni di essere chiamati maghi.»

«E ci vuole molto tempo?»

«Dipende. Sennar è mio allievo da quando aveva otto anni e non è ancora pronto. Eppure, tra i maghi che ho conosciuto, nessuno ha una così spiccata propensione per la magia. Io stessa studio ancora oggi, perché la natura è un libro infinito, ricco di mistero e di potere.»

Quelle parole entusiasmarono Nihal, facendole dimenticare che Soana aveva parlato di anni di addestramento. Si sentiva pronta a tutto. «Va bene, dimmi qual è la prova.»

«Devi andare nella Foresta e lì, nel luogo più profondo e più folto, cercare dentro te stessa la comunione con la natura. Ti concederò due giorni e due notti: se non riuscirai in questo tempo, vuol dire che la magia non ti appartiene e dovrai rinunciare. In caso contrario, inizieremo l’addestramento.»

Tutta la determinazione di Nihal si sciolse come neve al sole. Aveva immaginato che la prova sarebbe stata dura, ma quel che le proponeva Soana era spaventoso. Le ritornarono in mente tutte le storie che aveva sentito sul conto di quel bosco, sul fatto che nessuno ne fosse mai uscito vivo e sui terribili spiriti maligni che lo popolavano. Per non parlare dei criminali o della peggior feccia umana che ne aveva fatto il proprio regno.

Un’idea rassicurante diradò la sua paura. «Be’, se siamo io e te…»

«No, Nihal. Sarai sola.»

Il terrore la riagguantò. «Ma… ma perché devo essere sola? Girano brutte voci sulla Foresta e io, ecco…»

«Pensi che proprio io, la sorella di tuo padre, ti manderei sola in un luogo pericoloso? Credimi, la Foresta è forse uno dei luoghi più sicuri di tutta la regione: il timore tiene lontani sia i malintenzionati sia la gente onesta, e bestie feroci non ce ne sono. Quelle che hai sentito sono favole per spaventare i bambini. Io non posso rimanere con te: devi essere sola per poterti meglio concentrare.»

Nihal balbettò ancora qualcosa: «Io non… ti prego…».

Soana le sorrise. «Su, fatti coraggio e affronta questa prova da bravo guerriero.»

La discussione si estinse nei preparativi per la partenza: Soana predispose una bisaccia con lo stretto necessario e solo dopo le insistenze di Nihal le permise di portare con sé la spada.


Si incamminarono nel silenzio del bosco.

Il sole filtrava tra gli scarni rami giocando a proiettare macchie di luce sulle foglie secche del sottobosco. La paura avvolgeva ancora Nihal, ma a tratti scemava di fronte a quello spettacolo. Il bosco però era anche pieno di ombre e fruscii, ciascuno dei quali le riportava subito alla mente timori e dicerie.

Nihal iniziò a sentirsi scrutata da mille occhi, quasi che le foglie stesse avessero sguardi maligni. Si voltava a ogni rumore e camminava con passo malcerto dietro a Soana, che invece procedeva spedita. Più di una volta le venne voglia di dire che rinunciava, alla magia e a tutto il resto: non c’era nulla che valesse un simile sacrificio. Ma alla fine l’orgoglio fu più forte del terrore.

Camminarono per un’ora buona, finché giunsero in una piccola radura circolare, lambita da una polla di acqua limpida. Al centro della radura c’era una specie di rozzo sedile di pietra.

«È qui» disse Soana.

Nihal si guardò intorno col cuore in gola. «Ma cosa devo fare?»

«Siediti sulla roccia, libera la mente da ogni preoccupazione e pensa solo alla vita che ti cresce intorno. A un tratto la sentirai fluire attraverso il tuo corpo e quello sarà il segno che hai raggiunto la comunione.» La maga si incamminò sulla via del ritorno. «Ci vediamo tra due giorni.»

«Aspetta! E poi?» chiese Nihal nel disperato tentativo di trattenerla ancora.

«E poi io verrò e ti chiederò di mostrarmi il tuo potere. È tutto. A presto, Nihal.»

La ragazza cercò ancora di chiamarla, con voce sempre più alta e disperata, ma il bosco aveva già inghiottito la maga. Allora cadde in ginocchio e lo sconforto l’attanagliò così forte che iniziò a piangere.

Era sola. E aveva paura. Quanta non ne aveva mai avuta in vita sua.

Gli alberi spogli le parvero scheletri pronti ad assalirla e la radura una prigione di legno. Se gli spiriti maligni l’avessero visitata, chi l’avrebbe sentita urlare in quella solitudine immensa? Pianse per quasi un’ora. Poi, più per stanchezza che per altro, si calmò.

Un uccellino ritardatario si era posato poco lontano da lei e beveva dalla pozza con rapidi guizzi del capo. La scena la distolse dalle sue paure; cercando di fare il minor rumore possibile afferrò la bisaccia e ne estrasse un pezzettino di pane. Lo sbriciolò e lo gettò nei pressi dell’uccellino – doveva essere un piccolo migrante della specie dettatestaquadra – che dapprima sembrò spaventarsi, poi si convinse che non c’era pericolo e si buttò con foga sulle molliche.

Nihal mise qualche briciola sulla palma e lo tese all’uccellino, che le guardò sospettoso per qualche minuto prima di saltarle in mano. Nihal pensò che se nel bosco vivevano creature come quella, forse gli spiriti maligni non erano poi così numerosi come si diceva. D’altronde, indietro non poteva tornare, visto che non conosceva la strada.

Tanto valeva cercare di superare la prova.

Quando l’uccellino volò via Nihal fu di nuovo sola. Si accomodò sulla pietra e pose la spada al suo fianco, pronta per ogni evenienza.

Cercò di concentrarsi, ma si accorse che non era facile: scattava a ogni minimo fruscio e la mano correva subito all’arma. Purtroppo la Foresta era piena di scricchiolii di ogni sorta: se Nihal chiudeva gli occhi le sembrava di udire passi furtivi e l’unico modo per tranquillizzarsi era riaprirli e guardarsi intorno. Era assolutamente impossibile cercare di entrare in contatto con la natura in quelle condizioni, perché Nihal quella natura la sentiva nemica.

All’ora di pranzo era esausta.

Cercò di mangiare, ma aveva lo stomaco chiuso.

Tentò di dormire, perché si sentiva mortalmente stanca, ma non ci riuscì: la paura non le dava tregua.

Allora si gettò sull’erba e guardò il cielo al di sopra della radura: fantasticò di essere un uccello per poter volare via da lì, lontano, verso straordinarie avventure. Riprese a piangere sommessamente: sentiva il disperato bisogno di avere vicino qualcuno con cui parlare.

I guerrieri non piangono, i guerrieri non hanno paura, si ripeteva, e a poco a poco quella litania ebbe il potere di calmarla.

Si disse che avrebbe affrontato la prova con coraggio.

Si accomodò di nuovo sulla pietra e provò a concentrarsi. Le cose andarono meglio: si era abituata agli scricchiolii e non dava loro più peso. Iniziò persino a percepire la vita della natura, ma sentiva che quella vita scorreva accanto a lei senza neppure sfiorarla.


Quando iniziò a calare la notte si rese conto di non essere capace di accendere un fuoco. Il buio avanzava inesorabile e Nihal si sentiva sempre più sperduta: sgranava disperatamente gli occhi per cercare di vedere, ma l’oscurità la avvolgeva sempre più velocemente.

D’un tratto, uno scricchiolio diverso dal solito. Nihal tese le orecchie. Passi. Prese la spada e si mise in posizione di attacco.

«Chi è là?» domandò incerta.

Nessuna risposta. I passi continuarono a risuonare ritmici.

«Chi è?» chiese più forte.

Silenzio.

Allora si lasciò prendere dal panico. «Chi diavolo è? Rispondete! Rispondete!» urlò a squarciagola, mentre i passi erano ormai a pochi metri da lei.

«Zitta, Nihal, sono io!»

Sennar. Era la sua voce.

Nihal gettò via la spada e gli si avventò contro piangendo. Lo tempestò di pugni sul petto, ma quando sentì le sue braccia che la stringevano lo abbracciò con forza, singhiozzando senza ritegno e dimenticando che si trattava del suo più acerrimo nemico.

«Su, su, non piangere. Ora ci sono qui io. È tutto finito.»


Per prima cosa Sennar accese il fuoco. Cercò qualche bastoncino secco, ne fece un mucchietto e vi pose sopra la mano. Essa divenne insolitamente luminosa e poco dopo il fuoco avvampò allegro e scoppiettante. Nihal si era asciugata le lacrime ma singhiozzava ancora rannicchiata in disparte.

«Sono venuto di nascosto, non credo che Soana avrebbe approvato.» Sennar ridacchiò. «È che so quanta paura ha la gente della Terra del Vento della Foresta e immaginavo che fossi terrorizzata. Scusami se ti ho spaventata, non volevo.»

Nihal tirò su col naso. «Grazie.»

«E di che? I nemici bisogna tenerseli cari!»

La ragazzina sorrise. Era felice di non essere più sola. Il fuoco crepitante le dava sicurezza e improvvisamente la radura le sembrava una stanzetta accogliente.

Sennar si mise a preparare la cena. «Non devi aver paura, Nihal. Credimi, non c’è niente di malvagio nella natura; niente spiriti maligni né mostri.

Sono gli uomini a essere malvagi. La natura ti sarà nemica finché tu la sentirai tale: quando smetterai di temerla ti accoglierà tra le sue braccia. È questo il segreto della prova.»

Le porse un pezzetto di carne arrostita. Era deliziosa.

Il cibo e lo scampato pericolo ammorbidirono la ragazzina. «Anche tu hai sostenuto questa prova?»

«No» rispose Sennar a bocca piena «non ce n’è stato bisogno.»

Nihal si incuriosì, e lasciò cadere anche l’ultima barriera. «Perché non ce n’è stato bisogno? E perché hai deciso di fare il mago? Sei misterioso!»

«Vuoi sentire la mia storia, insomma.»

Nihal annuì.

«Sei fortunata. Non si può dire che la mia vita sia stata noiosa. Niente di strabiliante, ma mi sono successe un po’ di cose, e mi sono mosso parecchio.»

Sennar incrociò le gambe e iniziò a raccontare.

«Come già sai, sono nato nella Terra del Mare e sono vissuto a lungo su un campo di battaglia. Mio padre era scudiero di un Cavaliere di Drago e mia madre era l’unica donna della guarnigione.»

«Era una guerriera!» lo interruppe Nihal con gli occhi che brillavano.

Sennar rise. «No, era solo innamorata. Aveva conosciuto mio padre perché abitavano nello stesso villaggio e quando lui volle fare lo scudiero lei lo seguì. Così, fin da piccolo sono stato in mezzo alle armi. Un po’ come te.» Si stese sull’erba: il cielo era limpido e le stelle chiare. «Hai mai visto un Drago del Mare?»

Nihal scosse la testa.

«È la più incredibile creatura che tu possa immaginare: è una specie di serpente con le scaglie di un blu intensissimo che a seconda della luce cambia di sfumatura, fino a diventare quasi verde. E poi vola. È… è straordinario!» disse Sennar.

Guardava il cielo come se fosse solcato da draghi.

«Be’, per farla breve, io adoravo i draghi. E soprattutto sapevo comunicare con loro. Tutti sono convinti che solo un cavaliere possa parlare col suo drago, ma io ero in grado di comunicare con tutti i draghi, e giocavo coi loro piccoli.

Sapevo entrare in contatto con tutti gli animali. Un giorno, avevo otto anni, Soana passò nel nostro accampamento. Non so se ne sei al corrente, ma lei fa parte del Consiglio dei Maghi, che guida la resistenza al Tiranno. Sono ormai quasi quarant’anni che il Tiranno è in guerra con le Terra del Mare, dell’Acqua e del Sole…»

Nihal fece una faccia scandalizzata. «Lo so, cosa credi?»

«Oh, guarda che sei proprio permalosa!» la prese in giro Sennar. «Insomma, Soana mi notò e volle parlare con i miei: disse che in me vedeva un’enorme forza magica e che se mi avessero lasciato andare con lei avrebbe fatto di me un mago potentissimo. La decisione per i miei genitori non fu facile, ma alla fine permisero che io seguissi la maga. Del resto, un campo di battaglia non è il posto più adatto per un bambino. Per tutta la vita non avevo visto altro che armi, morti, feriti, miseria. All’inizio l’idea di stare con Soana non mi piacque neanche un po’. Poi però quando iniziai ad assaporare il gusto della pace, qui nella Terra del Vento, le cose cambiarono. Certo, mi mancavano mio padre, mia madre, mia sorella Kala… ma allo stesso tempo ero contento di non dover più vedere gli uomini intorno a me morire come mosche. Quando compii dieci anni Soana mi lasciò libero di scegliere: restare con lei e continuare l’addestramento o tornare a casa e dimenticare la magia.»

«E tu?»

«Io, prima di decidere, le chiesi di tornare nella Terra del Mare per rivedere la mia famiglia.»

Sennar si interruppe e trasse un profondo respiro.

«Quello che trovai fu terribile: la guarnigione di mio padre era stata praticamente spazzata via, quasi tutti quelli che conoscevo erano morti. Mio padre, mi dissero, aveva protetto con il suo corpo Parel, il cavaliere di cui era scudiero, salvandogli la vita.»

Sennar si fermò ancora. Nihal lo guardò senza parlare.

«Versai tutte le mie lacrime: cercarono di consolarmi dicendo che ero figlio di un eroe, ma a me cosa importava? Mio padre era morto, non l’avrei più rivisto.» La voce gli si incrinò. «Alla fine decisi: sarei tornato con Soana e avrei appreso la magia. Una volta diventato mago avrei messo il mio potere al servizio della pace e avrei combattuto contro il Tiranno, per mio padre e per tutti gli innocenti che questa guerra sta massacrando. Capisci ora perché me la sono presa con te? La guerra non è un gioco, è morte, e solo la pace può riscattarla.»

Nihal guardò Sennar con ammirazione: quel ragazzino le parve all’improvviso forte, maturo e saggio come un vero guerriero.

«Stupita, eh?» disse Sennar facendole l’occhiolino. «Credevi che fossi uno stupido qualunque venuto ad attaccar briga e invece ti trovi davanti un uomo vissuto, con la sua triste storia alle spalle.»

Risero entrambi.

«E tu? Parlami un po’ di te: perché vuoi fare il guerriero?»

Anche Nihal si gettò sull’erba. Sopra di lei il cielo srotolava tutto intero l’ordito delle stelle.

«Voglio fare il guerriero per vivere tante avventure. Voglio girare il mondo e conoscere popoli e genti. E poi mi piace combattere: quando ho un’arma in pugno mi sento al sicuro da tutto, mi sento forte. Quando combatto mi sembra di essere leggera come l’aria. Di essere libera. Non so per chi combatterò, ma so che la pace è bella per tutti, e allora forse combatterò per la pace. E poi voglio essere un guerriero per Livon, lui per me è tutto. Padre, madre, fratello.»

Sennar si rimise a sedere e guardò la ragazzina con affetto. «Stanotte sto qui con te, così potrai dormire tranquilla. Ma domattina me ne vado: devi o non devi sostenere una prova? Per cui ora cerca di dormire, che domani sarà una giornata faticosa.»

Nihal seguì il consiglio di Sennar e si coricò sul mantello che lui stesso le aveva approntato a mo’ di letto.

Si sentiva incredibilmente calma.

Prima di scivolare nel sonno ringraziò ancora Sennar, ma già dormiva quando lui le rispose: «E di che cosa? Siamo soli in questa terra, e possiamo andare avanti solo aiutandoci. Dormi bene Nihal» e le tirò la coperta sulle spalle.

5 Sogni, visioni e spade.

Era in una terra mai vista, ne era sicura, eppure la sentiva come patria. Si trovava in una grande città e si muoveva con disinvoltura tra le sue mille strade. Un’enorme quantità di gente, un continuo via vai, un caotico sottofondo di voci e rumori. Benché fosse circondata da una moltitudine di persone, non riusciva a distinguere nessun volto. Forse era in compagnia di qualcuno.

In fondo a una strada piuttosto larga vedeva una torre di cristallo, accecante al sole del mattino. Alta, bianchissima, sembrava elevarsi fino a sfiorare il cielo.

All’improvviso la gente che la circondava iniziò a urlare.

Sul selciato si stese un’immensa macchia nera. Sembrava inchiostro. Guardò meglio. Era sangue. Vermiglio, denso, viscoso. Sangue che copriva ogni cosa, tingendo il paesaggio e la torre.

Un baratro senza fondo si spalancò ai suoi piedi e lei iniziò a cadere. Urlò con quanto fiato aveva in gola.

Precipitava con furia verso il fondo, ma sapeva che il fondo non c’era e che la caduta sarebbe stata eterna. Mentre cadeva, nella testa le rimbombavano lamenti, urla, pianti strazianti di bambini. Vendicaci! Riscatta il nostro popolo! Non voleva ascoltare, ma le voci la incalzavano, la tormentavano. Uccidilo! Distruggi quel mostro!

Poi, rapidamente come era giunta, quella visione di morte si dissolse.

Nihal si trovò a volare sulle ali di un drago. Il vento le solleticava il volto e si sentiva libera. Indossava un’armatura nera e aveva i capelli molto corti. Dietro di lei c’era Sennar. Sentiva di averlo ritrovato dopo lungo tempo ed era felice, poiché in qualche modo era legata a lui.


L’immagine si dissolse in un bianco accecante.

Nihal sbatté le palpebre. Era la mattina di un’altra splendida giornata di sole, e lei era ancora nella piccola radura. Aveva sognato, dunque. Ma chi era quella gente? Che cosa gli era successo? E perché lei cavalcava un drago? Con Sennar, poi! Forse si stava facendo troppe domande: in fin dei conti, era solo un sogno.

Si stiracchiò, si levò a sedere e il rumoroso sbadiglio che stava facendo si mozzò a metà, lasciandola senza fiato. La radura era gremita di creature grandi poco più di una mano. Avevano capigliature di mille colori e le svolazzavano intorno sbattendo le loro fragili ali iridescenti.

Nihal non poteva credere a quel che vedeva. Sto ancora sognando, si disse, e strizzò gli occhi un paio di volte.

Uno di quegli esserini le si parò davanti, la scrutò con i suoi occhi blu privi di pupilla, quindi si allontanò un po’. «Sei un’umana?» le chiese.

Nihal ci mise un attimo a rispondere: «Sì che lo sono».

«Strano, me li ricordavo diversi, gli umani. Mica con le orecchione come noi!»

«A me sembra identica a un…» ribatté uno più lontano. «Hai capito chi intendo, no?»

«Impossibile! Non ce ne sono più» fece eco un altro.

Un terzo si unì alla discussione. «E già. Il Tiranno li…»

«Silenzio!» urlò quello davanti a Nihal, e tutti tacquero. «Può essere che sia un umano. Ci sono tanti di quegli umani strani nella Terra del Vento!»

Nihal si era parzialmente ripresa dallo stupore. «Chi sei tu? E tutti questi altri… cosi, come te? Che cosa ci fate qui?»

Quello fece una faccia stizzita. «Signorina, piano con le parole. Non siamo “cosi”. Siamo folletti. Io mi chiamo Phos e sono il capo della comunità della Foresta. E qui ci abitiamo, se non ti dispiace. Tu, piuttosto? Voi umani non avevate paura della Foresta?»

«Io sono Nihal e vengo da Salazar. Sono qui perché voglio diventare maga. Devo superare una prova.»

«Ah, ecco!» fece Phos, col tono di chi ha capito tutto. «Sei una di quelli di Soana.»

A quelle parole si levò un mormorio generale di approvazione.

«Allora sei amica. Brava umana, Soana. Ti confesso che quando ti abbiamo vista ci siamo spaventati. E poi ieri sera hai fatto un tale baccano!»

Phos si avvicinò all’orecchio di Nihal con una piroetta. «Molti di noi sono scampati alle persecuzioni del Tiranno e non si fidano più di nessuno.»

A Nihal quell’esserino iniziava a piacere: era buffo e la trattava come se la conoscesse da sempre. «Senti, non so tu, ma io sono affamata. Ho qualcosa da mangiare. Se volete tu e tuoi amici potete fare colazione con me.»

Phos e i suoi non si fecero pregare. La radura si riempì di vocine e risate; i folletti volavano ovunque e molti ringraziavano Nihal con mille moine. La ragazza fece accomodare Phos sul suo ginocchio.

«Così tu sei il capo di tutti i folletti.»

«Be’, non di tutti, ma di quelli della Foresta sì. Sai, la nostra è la comunità più numerosa del Mondo Emerso. È che ormai le foreste diminuiscono a vista d’occhio, così i nostri simili muoiono o sono costretti a scappare.»

«Perché, vivete solo nei boschi?»

«Scherzi? Noi siamo i boschi! Un folletto senza un bosco è come un pesce all’asciutto. Alcuni di noi hanno provato a vivere altrove, anche con gli umani, ma pian piano sono come… avvizziti, ecco. E alla fine sono morti, perché senza boschi da vedere e profumo di alberi da respirare non possiamo sopravvivere. Cosa c’è di più bello di un bosco? D’inverno giochi a nascondino tra i rami secchi e canti la ninna nanna agli animali che vanno in letargo. Con la bella stagione ti godi l’ombra delle foglie e fai il bagno con gli acquazzoni estivi.»

«A me sembra che la Foresta goda di ottima salute!» disse Nihal.

Gli occhi di Phos si fecero tristi e le sue orecchie si abbassarono come quelle di un cane bastonato. «È il Tiranno. Distrugge le foreste delle terre che conquista per fare le armi. E i suoi servi, quei maledetti fammin, ci odiano. Tanti di noi sono stati catturati e costretti a diventare i loro giullari. È una fine triste, sai? Noi siamo liberi come l’aria, tutto quello che vogliamo è un po’ di verde per vivere.»

«Come ti capisco! Anch’io voglio essere libera, volare di avventura in avventura…»

Nihal si tirò su di scatto. «Sai che ti dico? Io sono un guerriero – o meglio, lo diventerò – e combatterò contro il Tiranno! Diventerò il difensore di tutti i folletti, mi unirò a qualche esercito, vi libererò da questa schiavitù e voi tornerete a vivere nei boschi.»

Phos la guardò con disincanto. «Sarebbe bello, ma il mondo come lo conosciamo sta sparendo. Tutto quello che possiamo fare è rintanarci qui e difendere la nostra esistenza.»

A gambe incrociate sul ginocchio di Nihal, Phos guardava lontano, e nei suoi occhi si rispecchiava l’antica Foresta. La ragazza si sentiva stranamente vicina a quel popolo minacciato. Per un istante le sembrò che le sue voci interiori piangessero all’unisono con il cuore ferito del folletto.

«Forse hai ragione. Ma il male non può regnare per sempre. Nel futuro ci sarà di sicuro un posto per il tuo popolo.»

Phos le sorrise e un attimo dopo tornò a essere gioviale e allegro, come se quel discorso non fosse mai stato fatto. «Insomma, perché sei qui? Una prova, dicevi…»

«Soana ha detto che devo entrare in contatto con la natura e farmi accettare da lei.»

«In che senso entrare in contatto con la natura?»

«Be’, sentirla dentro, che ti scorre nel cuore… almeno, credo.»

«Tutto qui? Per noi folletti è naturale.»

«E come si fa?»

«Non è che si fa. La senti e basta.»

Nihal si buttò sull’erba, scoraggiata. «Accidenti. Soana dice che devo concentrarmi, ma io non ci riesco. Con tutti questi fruscii… insomma, ho paura.»

Phos iniziò a ridere a crepapelle. «Paura?»

«Ah, bene! Io ho un problema e tu ridi!»

Phos si ricompose. «E va bene. Mi sei simpatica e ci hai offerto la colazione: ti darò una mano. Pregheremo gli alberi e i prati di aiutarti. Tu, di tuo, devi solo… come hai detto? Ah, sì, concentrarti.»

Nihal non smetteva più di ringraziarlo.


Phos chiamò a raccolta i suoi. Quando l’adunata si sciolse i folletti si dileguarono e Phos fece a Nihal un gesto d’incoraggiamento.

Sulla radura scese il silenzio.

Nihal si avviò alla pietra e si sedette, pronta a concentrarsi: decise che stavolta niente e nessuno l’avrebbero distolta dal suo intento.

Fu meno facile del previsto. Nonostante l’aiuto dei folletti a Nihal sembrava di non sentire altro che i semplici rumori del bosco: il vento tra gli alberi, il frullio delle ali degli uccelli, l’acqua della polla che si increspava. Poi, lentamente, si accorse che in quei rumori c’era una musica nascosta. All’inizio pensò che fosse solo una sua impressione, una fantasia causata dalla fatica di stare ferma su quel masso. Poi però la musica si fece più insistente: i suoni della natura sembravano seguire una loro melodia. Il vento tra i rami era il basso e il tamburo. La brina notturna, che sciogliendosi cadeva nella polla, l’arpa. Il cinguettio degli uccelli era il canto. Persino l’erba partecipava: Nihal la sentiva crescere, e quel sussurro faceva da controcanto a tutto il resto.

Fu allora che Nihal sentì forte sotto di sé la sensazione della roccia, e poi della terra. Ne sentiva il pulsare ritmico, come di arterie invisibili che la irrorassero al ritmo dei battiti di un cuore che palpitava in ogni ramo.

La natura parlava con parole arcane che Nihal non capiva, eppure ne comprendeva il significato nascosto. Dicevano che tutto è uno e uno è tutto. Che ogni cosa inizia e finisce nella bellezza della natura. Che tutti gli esseri del mondo sono parte del grande corpo del creato.

Nihal si sentì pervasa da una luce immensa, da un tepore avvolgente. Sentì che il suo cuore non poteva contenere tutta quella bellezza sovrumana ed ebbe paura di perdersi. Ma fu come se braccia materne la stringessero, la confortassero, le insegnassero che nel fulgore della bellezza ognuno mantiene la propria identità pur facendo parte di un tutto indivisibile. E allora iniziò a viaggiare sulle ali del vento, a cavallo di nuvole multiformi.

Vide terre dove i boschi non finivano mai e tutto era d’un verde accecante. Poi le sembrò di essere erba, fiore, di stendere i suoi petali delicati al tocco dei raggi del sole. E poi fu albero, e sentì le sue fronde penetrare il cielo e tendere le foglie al soffio dei venti. Fu frutto e fu uccello, fu pesce e animale. E infine nuda terra, da cui ogni seme riceve vita e da cui ogni essere proviene.

In un attimo le sembrò di aver compreso il senso dell’esistenza.

Si sentì vecchia di mille anni e saggia.

Sentì di essere nata, vissuta e morta miliardi di volte in ciascuno degli esseri che avevano calcato il Mondo Emerso.

Sentì che la vita non sarebbe mai finita.


Nihal riaprì gli occhi e fu come tornare a terra all’improvviso.

Era notte fonda. Seduta immobile su quella roccia aveva viaggiato nel cuore della natura per un giorno intero. Si appoggiò esausta allo schienale di pietra e solo allora si accorse che i folletti faceva cerchio ai suoi piedi. Ciascuno di loro irradiava una tenue luce colorata. In mezzo a tutti stava Phos: steso a pancia in giù, il mento tra le mani, la guardava sorridente.

«Come è stato?»

«Meraviglioso» rispose Nihal con gli occhi e il cuore ancora pieni di stupore.


Alla cena aveva provveduto Phos.

«Tu stattene qui buona. Noi cerchiamo qualcosa da mettere sotto i denti» le aveva detto, e rapido era scomparso nel folto con un nutrito codazzo di suoi simili. Quando era riapparso portava con sé, avvolto in un panno tenuto per i quattro lembi da altrettanti folletti, un grosso mucchio delle migliori primizie dell’autunno.

Dopo che si furono abbuffati di frutta secca, Phos porse a Nihal una ciotola colma di un liquido denso e trasparente. «Assaggia.»

Nihal annusò perplessa.

«Assaggia, ti dico. È buonissimo, e poi aiuta a riprendersi dalle grandi fatiche.»

Nihal ne portò un po’ alle labbra: effettivamente era squisito.

«È ambrosia, la resina del Padre della Foresta, l’albero più grande di questo bosco. Mica male, vero?»

Nihal ne bevve a sazietà, tra le chiacchiere di Phos e degli altri folletti. Quando alla fine si accoccolò sull’erba, con l’idea di guardare le stelle, si addormentò all’istante.

Quella notte il suo sonno fu del tutto privo di sogni.

Il mattino seguente si svegliò perfettamente riposata. Phos era accanto a lei, solo.

«Oggi vai via?»

Nihal si stropicciò gli occhi. «Credo di sì. Dovrebbe arrivare Soana a prendermi.»

«Ora siamo amici, vero?»

«Certo che lo siamo!»

«Ho una cosa per te. Un pegno d’amicizia.»

Il folletto le porse una gemma: era bianca, ma al suo interno brillavano migliaia di pagliuzze di tutti i colori dell’arcobaleno. Nihal se la girò e rigirò tra le mani guardandola con ammirazione.

«È una Lacrima» spiegò Phos. «Si trova ai piedi del Padre della Foresta: quando l’ambrosia si secca forma queste pietre. È una specie di catalizzatore naturale, che potenzia e aumenta la durata delle magie. Ho pensato che fosse un bel regalo da farti, per quando sarai maga. E poi è un segno di riconoscimento: di alberi come il Padre della Foresta ce ne sono in ogni bosco, quindi le Lacrime sono il simbolo del nostro popolo. Dovunque andrai, i folletti ti riconosceranno come amica.»

«Grazie, Phos. È… è bellissima.»

Nihal era commossa. Avrebbe voluto ricambiare quel dono, ma non aveva nulla di altrettanto significativo. Poi vide la sua spada, ancora appoggiata al trono di roccia. «Io non ho oggetti così preziosi da darti» disse al folletto. «Però la cosa che mi sta più a cuore è la mia spada. La farò fondere da mio padre e ti porterò uno spadino adatto alle tue dimensioni.»

Phos sbatté le ali con entusiasmo. «Vedrai, imparerò a tirare di spada e diventerò il più forte folletto spadaccino del Mondo Emerso.»

Risero insieme, poi Phos drizzò le orecchie.

«Sta arrivando Soana. Meglio che non mi veda. Non sarebbe contenta di sapere che ti ho aiutata.»

Le sorrise un’ultima volta e si dileguò veloce come un lampo.

Soana giunse poco dopo, accompagnata da Sennar. Era ancora più bella del solito. Per l’occasione indossava una sontuosa tunica viola con rune e simboli magici ricamati in nero e oro. «Come è andata?» le chiese.

Nihal pregustava già il trionfo. «Bene. Sono entrata in comunione con la natura. È stata un’esperienza fantastica.»

Soana sorrise misteriosa e fece un cenno a Sennar. «Vedremo.»

Il giovane mago estrasse dalla sua sacca sei pietre, le dispose a terra secondo un ordine preciso e si concentrò: all’improvviso si formarono sei scie luminose a congiungere le pietre a coppie, formando una stella. Quindi pose la sua mano al centro e il fuoco divampò alto.

Solo allora Soana si fece avanti. Chiuse gli occhi e allargò le braccia, tenendo le palme delle mani rivolte verso il cielo. «Per l’aria e l’acqua, per il mare e il sole, per i giorni e le notti, per il fuoco e la terra, invoco te, spirito supremo, perché l’animo del mio discepolo sia temprato dalle lingue del tuo fuoco.»

La fiamma si fece più vivida.

Soana aprì gli occhi e guardò intensamente la sua aspirante allieva.

«Metti la mano nel fuoco, Nihal.»

Nihal credette di non aver capito. «Scusa?»

«Ho detto di mettere la mano nel fuoco» ripeté Soana, seria. Nihal si sentì morire. «Come, la mano nel…»

«Nihal. Obbedisci.»

Lo sguardo di Soana non ammetteva repliche, ma a Nihal tremavano le gambe e il suo braccio si rifiutava di muoversi. Toccò a lei chiudere gli occhi e pregare disperatamente che la natura l’avesse accettata davvero. Tutto è uno e uno è tutto, la fiamma non brucia perché è parte di me e io sono parte di lei, si ripeteva mentre tendeva la mano. Quando sentì avvicinarsi il calore, il coraggio le venne meno. Aveva la bocca secca e il cuore le batteva all’impazzata. Tutto è uno e uno è tutto. Tutto è uno e uno è tutto… Adesso, o mai più! Nihal trattenne il fiato e le lacrime e immerse la mano nel fuoco.

Nessun dolore. Neppure il calore che aveva sentito poco prima.

Quando ebbe il coraggio di riaprire gli occhi rimase incantata: la sua mano era circondata da lingue di fiamma che la avvolgevano come un guanto.

Poi Soana batté una volta le mani, il fuoco scomparve, la fiamma si dissolse e tutto tornò come prima.

Nihal si guardò stupefatta la mano: era rosea e fresca.

«È un miracolo…» sussurrò, come parlando a se stessa.

«No, Nihal. È un fuoco magico. Se tu mi avessi mentito, la tua mano ora sarebbe cenere.»

Soana le cinse le spalle con un braccio. «Sei stata davvero brava, mia allieva.»

E Nihal sentì d’aver vinto.


Iniziò il tempo dell’addestramento.

Per Nihal fu un periodo faticoso ma affascinante. Imparò ad apprezzare la magia a poco a poco. Ogni nuovo incantesimo la faceva sentire sempre più parte della vita che pulsa in ogni cosa e che aveva sentito nella radura.

Certo, la meditazione la annoiava e i mille esercizi preparatori, indispensabili all’apprendimento di un nuovo sortilegio, la snervavano. Ma al tempo stesso cominciava ad appassionarsi a quegli sforzi e sentiva scendere nel suo spirito una calma a cui non era abituata.

Non ci volle molto, tuttavia, perché fosse chiaro che il suo destino non era quello. Nihal imparava con facilità, ma le mancava la prepotenza della forza magica tipica dei grandi maghi, che in Sennar invece era ben evidente.

Dalla notte in cui le era venuto in soccorso nel bosco i loro rapporti erano migliorati. Per qualche tempo Nihal aveva continuato a fare la sostenuta e a lanciargli occhiate di fuoco, ma non era riuscita a mantenere quell’atteggiamento a lungo. Lentamente, quasi senza accorgersene, aveva finito per considerarlo il suo migliore amico.

Passavano tutto il tempo insieme, tanto che Nihal smise persino di frequentare la sua banda di Salazar: in quel ragazzo con i capelli rossi aveva trovato l’amico che le era sempre mancato.

Oltre all’addestramento di Soana, li univa il fatto di sentirsi diversi dagli altri: lui era un mago, e sotto il Tiranno i maghi godevano di una pessima reputazione, e lei una guerriera, ed era opinione comune che il destino delle femmine fosse chiudersi in casa a fare figli e compiacere il marito. Si sentivano ribelli, facevano quello che volevano e favoleggiavano delle loro eroiche imprese future. Perché per Nihal era diventata una certezza: si sarebbe unita alle truppe che combattevano il Tiranno.

Soana e Sennar le parlavano spesso del Tiranno: di come usurpasse con la forza i troni dei regni del Mondo Emerso e vi istituisse governi retti sul terrore; di come sulle Terre che conquistava scendessero la decadenza e la miseria; di come odiasse tutte le razze e volesse raccoglierle sotto il suo oscuro dominio.

Nell’ultimo periodo, poi, sempre più spesso giungevano nella fucina di Livon uomini sconosciuti che, in nome di un certo accordo tra il Tiranno e re Darnel, facevano man bassa di armi senza pagare. Il fabbro pareva temerli e quando arrivavano faceva nascondere Nihal, che era costretta ad assistere impotente alla scena di quei figuri che mettevano sottosopra il negozio e maltrattavano suo padre. In quelle occasioni la rabbia le ribolliva in corpo. E la mano correva subito alla spada.

Ne aveva una nuova: come promesso, dalla vecchia aveva fatto forgiare uno spadino di cui Phos era stato entusiasta.

A suo padre, invece, aveva dato la Lacrima.

«Vecchio, mi faresti una spada con incastonata questa?»

Livon non se l’era fatto ripetere due volte. Aveva avuto modo, nei giorni di assenza di sua figlia, di pensare al loro rapporto. Era evidente che Nihal iniziava a crescere, e non era giusto tarparle le ali solo perché lui desiderava tenerla con sé. Fino a quel momento aveva seguito il suo istinto, ma ricordava con chiarezza la smania di libertà che lo animava quando era giovane e che spesso lo portava ad opporsi a suo padre. Aveva capito che la cosa giusta da fare era lasciarla libera e limitarsi a osservare il suo volo da lontano, pronto a sostenerla in caso di difficoltà e a evitarle cadute rovinose.

Voleva dimostrare a Nihal che era deciso a lasciarla crescere: gli sembrò che forgiarle una spada fosse un buon modo per farlo.


Livon si diede tempo. Voleva creare una spada straordinaria, che non avrebbe mai abbandonato Nihal e che in ogni istante le avrebbe ricordato suo padre.

Il caso volle che un suo fornitore, uno gnomo scaltro e con uno spiccato senso degli affari, gli vendesse a un prezzo ragionevole un grosso blocco di cristallo nero, il materiale più duro esistente in tutto il Mondo Emerso. Se ne trovava solo nella Terra delle Rocce, ed era lo stesso con cui era stata costruita la Rocca. Livon non l’aveva mai lavorato, ma conosceva la tecnica. L’idea di una spada nera, poi, lo entusiasmava. Restava solo da scovare un’idea.

L’armaiolo pensò allora a Nihal, al suo modo di essere, a ciò che le piaceva, e decise che avrebbe realizzato qualcosa con l’effigie di un drago: gli sembrava di gran lunga l’animale più adatto a rappresentare l’indole di sua figlia. E poi Nihal amava i cavalieri, e i più potenti del Mondo Emerso erano proprio i Cavalieri di Drago.

La spada andò formandosi nella sua mente in tutti i particolari: alla fine non restò che trarla fuori dal cristallo. Vi lavorò a lungo, soprattutto di notte, in modo che per Nihal fosse una sorpresa. Chino sul blocco nero, trascorreva ore sudando con lo scalpello in mano. Iniziò ad approfittare di tutti i momenti in cui Nihal non c’era, tanto che trascurò il solito lavoro e i suoi acquirenti presero a lamentarsi.

«Si batte la fiacca, eh?» lo canzonava Nihal. Poi però diventava seria. «Hai bisogno di una mano, Vecchio?»

Livon scuoteva la testa e rispondeva che un certo lavoro molto importante richiedeva tutta la sua concentrazione. Non poteva dirle che era proprio per lei, e che non poteva dedicarsi ad altro.

Tutti gli armaioli, tutti gli artigiani, tutti gli artisti attendono un momento come quello che stava vivendo lui mentre vedeva nascere quell’arma.

La spada di cristallo sarebbe stata il suo capolavoro.


Poi, una mattina, Livon chiamò Nihal. Aveva il volto tirato di chi ha lavorato tutta la notte e il grembiule sudicio.

«Stai bene?» gli chiese Nihal preoccupata.

«Non sono mai stato meglio. È uno dei momenti più belli della mia vita» rispose Livon e le porse un involto di pelle.

Quando Nihal vide il contenuto rimase senza respiro. Alla chiara luce del mattino sfavillava una lunga spada nera, brillante come fosse di vetro, materiale del quale sembrava condividere la trasparenza. La lama piatta era affilata come un rasoio e si restringeva leggermente verso l’elsa. Intorno a quest’ultima, di sezione rettangolare, si avvolgeva sinuosamente un drago. Sul nero dell’arma si stagliava la sua testa bianca: la Lacrima. Le fauci dell’animale erano spalancate, e altrettanto le grandi ali che si dispiegavano verso i lati della lama, lavorate al punto che vi si potevano intravedere i rilievi delle vene e tanto sottili da essere trasparenti.

Era un’arma meravigliosa. Nihal non aveva neppure il coraggio di prenderla in mano. Livon aveva realizzato molti bei lavori, ma quella era una vera opera d’arte.

«Mi avevi chiesto una spada. Eccola. Questa non è un giocattolo: è la tua spada. L’ho fatta pensando a te. È un’arma che può difendere e attaccare: una vera arma per un vero guerriero.»

Livon sorrise, e Nihal lo guardò con gli occhi lucidi.

«Almeno prendila in mano, su!»

Quando finalmente Nihal la sollevò, si stupì di come si adattasse alla sua palma e di quanto fosse leggera e maneggevole.

Livon rise. «Guarda che non è mica di vetro! Quello è cristallo nero, il materiale più duro che si conosca. Sta’ a vedere.»

Tolse la spada dalle mani di Nihal e la posò sul tavolo da lavoro; quindi prese un mazzuolo e colpì con forza le ali del drago.

Nihal sussultò, ma vide che neppure una scalfittura l’aveva segnata.

«Con questa potrai andare in cerca di avventure quanto vorrai.»

Nihal saltò al collo di Livon abbracciandolo con foga. Poi si staccò e prese in mano la sua nuova spada, levandola in alto. «Questa è la mia spada! E non me ne separerò mai!»

Livon rise ancora. «Be’, posso morire in pace.»

Nihal guardò sorridendo la lama scintillante.


La spada divenne la sua inseparabile compagna: non c’era giorno che non le pendesse al fianco. Spesso la usava per esercitarsi da sola, perché non aveva nessuno con cui tirare di scherma. Sennar era troppo impegnato con i suoi studi, e quando acconsentiva a combattere non era decisamente all’altezza di Nihal. Qualche volta Nihal duellava con Livon, ma ormai lo batteva facilmente. E poi, dormiva quasi sempre a casa di Soana.

Nelle pause dall’addestramento, allora, Nihal andava nella Foresta e cercava di esercitarsi con l’aiuto di Phos: il folletto le lanciava semi che la ragazza cercava di colpire al volo, oppure menava fendenti ai rami secchi. Non era granché come allenamento, e non era neppure divertente, ma almeno aveva modo di tenersi in esercizio e di aumentare agilità e potenza dei colpi. Cercava di farsi bastare quel po’ di pratica perché sentiva uno spasmodico bisogno di usare la spada.

L’occasione si fece attendere a lungo, ma alla fine arrivò.

6 Il Cavaliere di Drago.

Erano passati due anni da quando Nihal si era recata ai margini della Foresta per conoscere Soana e chiederle di accettarla come allieva. Due anni di studio, di crescita, di legami che erano andati rinsaldandosi. Primo tra tutti quello con Sennar: amico, confidente, complice e, finalmente, mago a tutti gli effetti.

La cerimonia di investitura doveva aver luogo presso il Consiglio dei Maghi, e sarebbe stata ancora più solenne, poiché Sennar aveva deciso di continuare i suoi studi per diventare consigliere.

Il Consiglio dei Maghi spostava la propria sede ogni anno, in modo che a turno ogni Terra avesse l’onore di ospitarlo, ed era composto dagli otto maghi più potenti – sia per capacità magiche sia per sapienza – di ciascuna delle otto Terre.

Era tutto quello che restava della democrazia del Mondo Emerso. In passato ne aveva indirizzato la vita culturale e scientifica, ma da quasi quarant’anni, coadiuvato dal consesso dei regnanti delle Terre libere, organizzava e guidava la guerra di resistenza al Tiranno.

Il Consiglio dirigeva anche la comunità dei maghi del Mondo Emerso, e a esso ciascun mago doveva fare riferimento per la propria investitura. Da quando il Tiranno aveva fatto la sua comparsa, infatti, capitava sempre più di frequente che tra le file dell’esercito ci fosse almeno un mago che imponeva incantesimi sulle armi o addirittura, nei casi più disperati, scendeva a combattere con la forza della sua magia.

Per Nihal era il primo vero viaggio della sua vita. Non che fino ad allora fosse rimasta rinchiusa tra le mura di Salazar: accompagnando Livon dai suoi fornitori aveva avuto modo di visitare altre torri della Terra del Vento, ma non si era mai allontanata per più di mezza giornata di viaggio. E al tramonto era sempre a casa.

Quella volta era diverso: avrebbero dormito all’aperto, camminato per leghe e leghe e infine sarebbero arrivati in una Terra che non aveva mai visto e di cui aveva sentito favoleggiare.

A questa prospettiva Nihal si sentiva molto eccitata, e continuò a esserlo per tutto il viaggio. Mentre le miglia scorrevano sotto i suoi piedi, o quando riposavano la sera intorno al fuoco, con le gambe doloranti e la mente svuotata dalla fatica, pensava che le sarebbe piaciuta una vita così, trascorsa di viaggio in viaggio, di Terra in Terra, vivendo mille avventure con la sua spada.

Sennar era di ben altro umore. Tutto compreso nel suo nuovo ruolo, non faceva che pensare alla sua imminente iniziazione. Non sapeva se fosse più forte il desiderio di essere presto mago o la paura del rito: da una parte temeva di non essere all’altezza, dall’altra non vedeva l’ora di ricevere l’investitura.

Poi c’era Soana, che aveva un comportamento davvero strano. Lei, in genere così misurata e imperscrutabile, era improvvisamente solare, serena, addirittura ridanciana. Nihal aveva imparato a conoscerla e ad amarla, ma poche volte l’aveva vista mostrare così apertamente la propria gioia. Sembrava che l’attesa di qualcosa la illuminasse di luce nuova, una luce che faceva risplendere la sua bellezza.


Giunsero in vista del confine al decimo giorno di marcia.

La Terra del Vento, seppur con qualche riserva, era considerata dalle Terre libere un territorio amico: il confine non era ancora sorvegliato e il passaggio di uomini, e in una certa misura anche di merci, non era sottoposto a controlli.

Nihal camminava con gli altri, catturata come al solito dal suo mormorio interiore, quando la sua attenzione venne attirata da un’ombra enorme, troppo veloce per essere quella di una nuvola. Levò d’istinto lo sguardo al cielo e quel che vide la inchiodò sul posto, con la testa per aria e gli occhi colmi di meraviglia.

Poco sopra di loro volteggiava un drago. L’animale descriveva pigri giri nell’aria ferma del mattino e i raggi di sole trafiggevano le sue ali sottili. Era proprio come il drago della sua spada: stessa possanza, stesso vigore, stessa bellezza. Aveva finimenti e sella dorati ed era cavalcato da un uomo completamente ricoperto da una fulgida armatura.

Dopo un giro più ampio degli altri il drago planò con delicatezza sull’erba, poco discosto dalla comitiva. Nihal lo guardava con gli occhi spalancati, quasi volesse colmarsi la vista e il cuore di quello spettacolo. Non si accorse che, con slancio inconsueto, Soana era corsa incontro al cavaliere. L’uomo smontò agilmente dal drago, si tolse l’elmo, prese la mano di Soana tra le proprie e vi posò un lungo bacio.

Soana sorrise. «Mio adorato.»

Il cavaliere rivolse alla maga uno sguardo complice. «Mi sembra un’eternità che non ci vediamo.»

E Soana, che di solito sosteneva lo sguardo di chiunque, e anzi costringeva gli altri ad abbassare il proprio, chinò gli occhi.

«Un drago! Hai visto? Un drago!»

L’esclamazione di Sennar riportò Nihal tra i mortali. Il giovane mago era entusiasta e si muoveva deciso verso quell’immenso animale.

Dopo un attimo di esitazione Nihal si decise a seguirlo. A mano a mano che si avvicinava al drago ne coglieva i dettagli: aveva penetranti occhi rossi, che la scrutavano da ere dimenticate, e le sue ali erano ripiegate a coprire i fianchi maestosi, pulsanti di vita. Immobile come una scultura, di una scultura aveva la fierezza. Era verde chiaro, ma di un verde pieno di sfumature sorprendenti: ai lati della testa stemperava nel rosso, si scuriva sulla sporgenza della colonna vertebrale e nelle venature delle ali e si schiariva sul petto imponente.

Nihal si disse che non esisteva niente di altrettanto bello e forte, niente di così grandioso e possente: cosa doveva essere poterlo cavalcare, sentire il battito del suo cuore, solcare con lui il cielo…

Quando Sennar iniziò ad accarezzare il drago sul muso, il cavaliere si riscosse immediatamente. «Sta’ attento, ragazzo!»

«Non ti preoccupare» rispose Sennar senza fermarsi.

Il cavaliere rimase a guardare con circospezione, pronto a scattare al minimo segno di pericolo, ma si rese conto, non senza una certa sorpresa, che il suo drago era tranquillo. Anzi, era decisamente a suo agio.

Nihal non resistette. Si avvicinò ancora un po’ e allungò a sua volta la mano. La voce di Soana gliela bloccò a mezz’aria.

«Tu no, Nihal!» le ingiunse. «Un drago è devoto solo al suo cavaliere e non si lascia avvicinare da estranei. Sennar può farlo in virtù dei suoi poteri.»

Nihal abbassò la mano, delusa: desiderava enormemente sfiorare quella creatura. I Cavalieri di Drago rappresentavano tutto ciò che lei avrebbe voluto essere. Erano guerrieri, i più forti del Mondo Emerso, e lottavano con le Terre libere contro il Tiranno. E poi volavano nel cielo in contatto telepatico con i loro draghi, fusi in un’unica entità.

«Ragazzi, questo è Fen, generale dei Cavalieri di Drago, della Terra del Sole. Fen, lascia che ti presenti Sennar, il mio allievo. E lei invece è Nihal… Nihal?»

Ora che aveva di fronte un vero drago, Nihal non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Era completamente imbambolata, tanto che si rese conto a malapena che Soana stava parlando.

Una gomitata di Sennar la costrinse a spostare l’attenzione dal drago al cavaliere. E fu una folgorazione.

Fen era un uomo giovane, sebbene non proprio un ragazzo. Alto, imponente, di una bellezza che Nihal credeva esistesse solo nelle statue. Sotto l’armatura si indovinava un fisico asciutto e forte come quello di un atleta. I capelli castani si avvolgevano in riccioli intorno al suo capo. Il volto era un ovale perfetto, le labbra ben disegnate e carnose, incurvate in un sorriso spavaldo, e gli occhi di un verde intenso. In quegli occhi c’era il colore della Foresta in primavera, il verde di tutti gli smeraldi del Mondo Emerso.

A Nihal quel cavaliere parve bello, forte e coraggioso come un eroe. Si sentì improvvisamente arrossire e balbettò qualcosa, ma le sembrava che le parole le fossero fuggite in massa dalle labbra.

Fen sorrise ai due ragazzi. «È un piacere conoscervi. Soana mi ha tanto parlato di voi» disse. «E devo proprio dirtelo, Sennar: non avevo mai visto nessuno accarezzare Gaart come fosse un gattino!»

Poi si rivolse di nuovo a Soana, e le strinse dolcemente un braccio. «È stato duro il viaggio?»

«Per nulla. Ci siamo divertiti. È una bella estate.»

«Non mi piace che tu vada in giro da sola in tempi come questi.»

«Sciocchezze!» disse lei con un cenno della mano. «Sai bene che so difendermi.»

«Comunque, ora sarò io a condurti fino al palazzo reale.»

Il cavaliere non aggiunse altro: nonostante la divertita protesta di Soana, Fen la prese in braccio e la depose galantemente sulla sella di Gaart in modo che cavalcasse all’amazzone.

«Per voi, ragazzi, mi sono procurato due cavalli: un mio scudiero vi aspetta al confine.»

Nihal ritrovò le parole tutto a un tratto: «Posso salire anch’io sul drago?».

«Mi dispiace, Nihal, ma Gaart non sopporta più di due persone sul suo dorso.»

«È che… è così bello…» farfugliò Nihal, e subito dopo si maledisse per non essersi morsa la lingua.

Fen rise di gusto. «Hai sentito, Gaart? È il tuo giorno fortunato!» Poi guardò con attenzione il fianco di Nihal. «Piuttosto, la tua spada: quella sì che è bella.»

«Quale… quale spada?»

«Questa» disse il cavaliere e, accompagnando il gesto alle parole, toccò l’elsa della spada.

Non appena la mano di Fen le sfiorò il fianco, Nihal si sentì le orecchie in fiamme.

«Soana mi ha detto che vuoi diventare guerriero: come tiri di scherma?»

Nihal rivolse al cavaliere uno sguardo sperduto. «Chi, io?»

Sennar alzò gli occhi al cielo e mollò all’amica una seconda gomitata.

«Me la cavo» si decise a rispondere la ragazza «Ottimo. Allora quando saremo a Laodamea, nel palazzo reale, ci scambieremo qualche colpo. Così mi farai vedere di cosa sei capace.»

Quindi Fen montò su Gaart, avvolse le braccia attorno al corpo di Soana e spiccò il volo.

A Nihal parve di ritrovare il respiro dopo una lunga apnea.

Sennar le mise una mano su una spalla. «I cavalli ce li dobbiamo andare a prendere: meglio avviarci.»

«Certo, certo…» disse Nihal riscuotendosi e cercando di ritrovare la calma.


Mentre cavalcavano nel cuore della Terra dell’Acqua, Nihal non fece che pensare a Fen. Persino Gaart si era eclissato al suo confronto.

Si chiedeva cosa le fosse preso: diamine, in fin dei conti nella sua vita aveva visto molti più uomini che donne. E Fen non era altro che un guerriero, punto. Eppure, se ripensava a quegli occhi…

«Non fa per te» disse Sennar con un sorriso furbo.

«Come, scusa?»

«Cosa credi, che non mi sia accorto di come guardavi Fen? Uno sguardo, te lo giuro, davvero impudico» aggiunse ironico.

Nihal arrossì. «Ma… ma che cavolo dici? E come ti permetti, poi? Io stavo guardando il drago!»

«E dai, di’ la verità al tuo cordiale nemico…»

«Io non guardavo Fen!» ribatté Nihal risentita. «È che lui è un Cavaliere di Drago… e io voglio essere una guerriera… e poi il suo drago è bellissimo… e la sua armatura… le armi…» Quella patetica giustificazione morì in un balbettio.

«Guarda che non è mica uno scandalo se ti piace: è alto, imponente, forte. Ed è cavaliere, come a dire un eroe, no? Certo che non ti si può neppure prendere un po’ in giro!»

Nihal non si degnò di rispondere. Strinse le briglie del suo cavallo e cercò di pensare ad altro. Ma se chiudeva gli occhi continuava a rivedere Fen, e il suo cuore accelerava i battiti.

Dopo qualche minuto di silenzio, Nihal tolse il broncio e chiese a Sennar: «Tuo padre era scudiero di un cavaliere: che cosa sai dell’Ordine?».

«Il cavaliere che mio padre serviva cavalcava un Drago Azzurro: è un animale diverso, più piccolo, simile a un grosso serpente. Fen appartiene all’Ordine dei Cavalieri della Terra del Sole, un ordine antichissimo. I loro draghi vengono allevati solo nella Terra del Sole, ma un tempo non era così: i draghi venivano da diverse Terre e i cavalieri non erano soggetti ad alcun potentato. Erano legati solo al proprio drago e all’Ordine e vivevano per lo più come mercenari, mettendo le loro capacità al servizio del miglior offerente. Durante la guerra dei Duecento Anni quasi ogni esercito contava tra le proprie file un Cavaliere di Drago.»

Nihal ascoltava con attenzione.

«Quando si stabilì la pace, l’Ordine sembrò disperdersi. Alcuni cavalieri rimasero nella Terra del Sole per fondarvi l’Accademia, mentre altri abbandonarono il Mondo Emerso, varcando le correnti del Saar o attraversando il Grande Deserto. Da quando poi è iniziata la guerra con il Tiranno e tutte le Terre libere hanno unito i loro eserciti in un’unica grande armata, i Cavalieri di Drago sono impegnati più che altro come generali e comandanti di quelle truppe. Oggi sono al servizio del Consiglio dei Maghi. Questo è tutto quel che so. Comunque, posso darti un consiglio? Se fossi in te non penserei troppo a Fen…»

Ma quelle ultime parole di Sennar furono gettate al vento.

Nihal era di nuovo persa nello sguardo del Cavaliere di Drago.

7 Nella Terra dell’Acqua.

Lo stupore crebbe a poco a poco. Parecchie leghe all’interno della Terra dell’Acqua non sembrava esserci alcuna reale mutazione nel territorio: ancora steppe, forse più verdi di quelle che circondavano Salazar, ma pur sempre il solito, sconfinato, piatto oceano d’erba.

Poi, dal nulla, iniziarono a spuntare ruscelli. Sembravano emergere dalla terra come sangue che sgorghi lento da una ferita. Dapprima non furono altro che rigagnoli, larghi quanto un braccio e poco profondi, ma ben presto presero ad allargarsi in corsi d’acqua più copiosi fino a confluire in fiumi veri e propri.

L’acqua divenne padrona assoluta del paesaggio: c’erano fiumi ovunque, e polle limpide, e ancora piccoli ruscelli che rigavano la terra come lacrime. I corsi d’acqua sembravano di cristallo: pesci multicolori facevano la gimcana tra i giunchi e lunghe alghe si piegavano al soffio lieve delle correnti. Il colore dell’erba era di un’intensità accecante. Quel luogo era il regno del verde e dell’acqua: una terra pura, lavata da mille fiumi e adorna di migliaia di alberi.

Nihal si guardava intorno a occhi sgranati. Le tornò alla mente la visione che aveva avuto nella radura: forse era quella la Terra dove gli spiriti della natura manifestavano tutto il loro potere, il luogo dove le foreste si estendevano all’infinito.

«Chiudi la bocca, Nihal» scherzò Sennar, ma anche lui era colpito da tutto quello splendore.


Lentamente comparvero anche i primi villaggi: sorgevano su isolette create dalle anse dei vari corsi d’acqua, e spesso si protendevano con palafitte fin sui fiumi. Sembrava che in quella Terra gli uomini avessero trovato il modo più simbiotico per convivere con una natura lussureggiante.

Sennar e Nihal passavano di meraviglia in meraviglia, ma il meglio doveva ancora arrivare. Dopo mezza mattinata di trotto i due viaggiatori giunsero infine dinanzi al palazzo più straordinario che avessero mai visto.

Era una sorta di castello piuttosto massiccio, fatto di pietroni squadrati, che si sviluppava interamente sul ciglio di un’immensa cascata. L’acqua scorreva sui suoi contrafforti, separandosi in migliaia di rivoli che si gettavano con furia verso l’abisso e precipitavano per una sessantina di braccia, per poi finire in un lago di un blu profondissimo. L’ingresso principale si apriva proprio sulla parte centrale della cascata. Lì, davanti al castello, li attendevano Fen e Soana.


I visitatori vennero accolti da alcuni paggi, che dettero loro il benvenuto e li scortarono nelle loro stanze, tutte contigue e affacciate a strapiombo sulla cascata.

La vista che si godeva dalla finestra era da mozzare il fiato: affacciandosi Nihal non capì se quello che vedeva fossero le acque del lago o piuttosto il cielo che, per un qualche capriccio degli dèi, avesse deciso di capovolgersi e scendere in terra.

Rimase lì, incantata, finché Soana non bussò alla sua porta: era arrivato il momento di conoscere i regnanti della Terra dell’Acqua.

Soana condusse Sennar e Nihal nel cuore del palazzo reale: una sala perfettamente circolare, sormontata da un tetto semisferico di cristallo sul quale scorreva l’acqua della cascata.

Sembrava di stare in un altro mondo. Sennar e Nihal, naso all’insù, non si stancavano di guardare il movimento dell’acqua che deformava e ridisegnava i contorni di quel che c’era fuori, tanto che quando Galla e Astrea fecero il loro ingresso furono quasi presi alla sprovvista.

Nihal non aveva mai visto una ninfa dell’acqua. Astrea camminava come trasportata da una brezza leggera e sembrava non toccare terra: era scalza e il suo corpo sottile era avvolto da una veste impalpabile. Aveva capelli trasparenti, simili ad acqua pura, che si dissolvevano lunghissimi nell’aria circostante dopo avervi descritto ampie volute. Era evidente che il suo mondo non era quello degli uomini. La regina della Terra dell’Acqua era una diretta emanazione della natura, una sua figlia prediletta.

Galla la teneva per mano. Il re era un semplice umano: una certa delicatezza nei tratti lo faceva sembrare molto giovane, ma al braccio della ninfa sembrava uno dei soliti, grevi abitanti della terraferma.

Da sempre nella Terra dell’Acqua vivevano entrambi i popoli. Per lungo tempo si erano sopportati a vicenda, cercando di avere meno contatti possibili: gli uomini abitavano in graziosi borghi nelle radure o su palafitte, le ninfe appartate nei loro boschi.

Il matrimonio di Astrea e di Galla, però, fu il primo matrimonio misto della regione e inaugurò una nuova era.

Galla faceva parte della famiglia reale. Nonostante la coabitazione i due popoli non avevano un’organizzazione comune: la Terra dell’Acqua era governata dagli uomini, che sedevano nel Consiglio dei Re, mentre le ninfe avevano una loro regina, a malapena riconosciuta dagli umani. Finché il giovane Galla non ebbe il cattivo gusto d’innamorarsi di Astrea.

L’unione fu osteggiata da ambo le parti. I genitori di Galla lamentavano che non si era mai visto un uomo sposare una di quelle creature diaboliche. Astrea, poi, non era né regina né principessa. Era una plebea qualunque, dedita a scorrazzare mezzo nuda per i boschi.

Le ninfe, dal canto loro, vietarono ad Astrea ulteriori contatti con quell’uomo: era un umano, ovvero un essere rozzo, incapace di vivere in armonia con gli spiriti primigeni.

Ma Galla e Astrea non si diedero per vinti: continuarono a vedersi nonostante i divieti, non smisero di sognare una vita insieme e infransero tutte le regole non scritte sulla convivenza tra ninfe e uomini.

Dal giorno del loro matrimonio cambiarono molte cose.

Il re e la regina stabilirono che non ci fossero più divisioni e che le due razze dovessero cooperare. A tal fine fecero costruire alcuni villaggi in cui uomini e ninfe vivessero gli uni accanto alle altre. Fu un esperimento riuscito: all’inizio i due popoli si guardarono con sospetto, ma la vita in comune li spinse lentamente ad accettarsi.


Astrea si rivolse a Soana: «Mia maga, sono lieta che tu torni a farci visita dopo una così lunga assenza. Il mio popolo e il Consiglio hanno bisogno della tua saggezza: circolano voci terribili e sento nel mio cuore che la potenza del Tiranno cresce sempre più».

A quelle parole il suo consorte le strinse la mano e la guardò con dolcezza.

«Ti ringrazio, regina» rispose Soana «ma sai bene che il mio contributo alle decisioni del Consiglio è poca cosa. Per questo ho condotto fin qui il mio miglior allievo, Sennar. Ho avuto modo di vedere e affinare le sue enormi capacità. E sono certa che sarà di grande aiuto al nostro mondo oppresso dalla tirannide.»

Galla guardò Sennar con simpatia. «Credo che tu abbia ragione, Soana: forse questo giovane è ciò che il Consiglio attende da tempo, dal giorno in cui Reis lo ha abbandonato. Una guida forte e sicura che sappia mostrarci la via per la libertà.»

Il giovane mago si schiarì la voce. «Tutto quello che spero, per ora, è di poter dare il mio contributo alla lotta di tutte le Terre libere contro il Tiranno.

Non so quali piani il destino abbia in serbo per me, ma sono lusingato della fiducia che voi tutti mi dimostrate.»

Mentre quel discorso si svolgeva, però, l’attenzione di Astrea era tutta per Nihal. La fissava con curiosità, tanto che la ragazza iniziò a sentirsi a disagio.

«Ma questa fanciulla al tuo seguito, Soana…» La regina non ebbe modo di continuare: uno sguardo di Soana la pregò di fermarsi.

Nihal era confusa. Si domandò cosa stesse per dire la regina, e perché la guardasse così intensamente. Fu tentata di chiedere spiegazioni a Soana, ma la compagnia si era già sciolta e ciascuno prendeva posto alla lunga tavola apparecchiata al centro del salone.

Nihal seguì gli altri, ancora pensierosa, finché la vista della grande tavola imbandita non spazzò via ogni riflessione. Era rimasto un solo posto libero, e quel posto era accanto a Fen.

Nihal sentì un sussulto allo stomaco. Il cuore iniziò a batterle con forza e per un attimo temette che quel pulsare fosse percepibile anche dagli altri commensali. Si avvicinò al suo posto con artificiosa compostezza, ma non appena fece per spostare la sedia Fen le rivolse un sorriso luminoso.

Maledette orecchie, pensò Nihal, sentendosele in fiamme. E maledette ginocchia. Perché diavolo state tremando?

Sennar, che era seduto proprio di fronte a lei, le strizzò l’occhio per prenderla affettuosamente in giro.

All’altro fianco di Fen c’era Soana. Per tutta la durata del pranzo parlò con Astrea e Galla della guerra e del Tiranno. Solo di rado si girava verso il cavaliere, ma lui non le risparmiava alcuna premura. Le versava da bere, le sorrideva e di tanto in tanto le sfiorava un ginocchio sotto la tovaglia.

Nihal cercò di mantenere la calma. Piantò gli occhi nel piatto e si mise a mangiare in fretta e furia. Non gustava il sapore del cibo. Non partecipava alla conversazione. Percepiva solo la presenza del cavaliere al suo fianco. Le faceva lo stesso effetto di stare accanto al fuoco. E poi sentiva il suo profumo: non una fragranza particolare, il semplice odore della sua pelle. Sì, accanto al fuoco, e a testa in giù.

Nonostante i suoi sforzi, tuttavia, Nihal non riuscì a evitare Fen e il suo sguardo per tutto il pranzo.

«Ebbene, vuoi rivelarmi il tuo segreto?»

Nihal deglutì troppo in fretta il boccone che stava masticando, ci versò sopra un’abbondante razione d’acqua e si voltò verso il cavaliere con l’aria dell’agnello che va incontro al lupo.

«Quale… quale segreto?»

«Quello della tua spada, intendo. Da dove arriva un’arma così bella?»

«Da dove arriva?»

Fen scoppiò a ridere. «Senti un po’, ma tu rispondi sempre alle domande con altre domande?»

«Sì. Cioè, no. Non sempre. A volte.»

«Ho capito, non vuoi rivelarmi il nome del tuo armaiolo di fiducia. Ma è giusto così. A ogni guerriero il suo mistero.»

Nihal borbottò un «Certo, esatto…» finché la voce provvidenziale di Soana non interruppe quella patetica conversazione.

«Nihal, Sennar ha bisogno di un assistente per questa notte. Resterà in meditazione per prepararsi alla prova di domani e ci vuole qualcuno non del tutto digiuno di magia che lo aiuti. Ho pensato a te. Che ne dici?»

Nihal non vedeva l’ora che quel supplizio di pranzo terminasse. «Sì, sì. Certo. Lo farò con piacere.»

«Vorrà dire che dovremo sbrigarci nel pomeriggio a tirare di spada» concluse Fen. E le orecchie di Nihal ebbero un’ultima, definitiva vampata.


Terminato il pranzo Astrea e Galla si congedarono e gli ospiti si ritirarono. Percorrendo il lungo corridoio che li conduceva alle loro stanze, Sennar si mise a punzecchiare Nihal.

«Allora?»

«Allora cosa?»

«Sei pronta a un bel sonno ristoratore?»

«Certo. Perché?»

«No, niente. È che stanotte ci aspetta una lunga veglia, per cui ci conviene riposarci un po’ adesso. E non vorrei che tu, con tutti i pensieri che hai…»

Nihal si indispettì. «Guarda che mi farò il sonno più placido della mia vita. Non ho proprio nessun pensiero.»

Sennar sorrise. «Meglio così. Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi.»

Nihal aprì la porta della sua stanza e la richiuse sul naso dell’amico.

Se quel pomeriggio Nihal avesse bussato alla porta di Sennar non sarebbe stata una novità. In più di un’occasione era capitato che, durante le lunghe notti passate nella casa sul limitare della Foresta, Nihal mettesse da parte il suo orgoglio e andasse a cercare l’amico.

Le era successo spesso di avere incubi simili a quello della prima notte nella Foresta e di sentire nel sonno mille voci cariche di disperazione.

Da quei sogni si svegliava terrorizzata. Le prime volte era rimasta a piangere nel buio, ma una notte si era fatta coraggio e si era risolta ad andare da Sennar. Da allora si era sempre appoggiata all’amico per superare quei momenti spaventosi, anche se non gli aveva mai svelato la natura dei suoi incubi.

Quel pomeriggio, però, Nihal non ebbe bisogno di Sennar: semplicemente non riuscì a chiudere occhio.

Fen le aveva dato appuntamento per qualche ora più tardi e lei non riusciva a pensare ad altro. Stava per affrontare un Cavaliere di Drago, ovvero uno dei più forti combattenti al mondo: era giunto il momento di provare se aveva davvero la stoffa del guerriero. Ma non era solo quello che la tormentava. E se davvero Sennar avesse ragione e io mi fossi innamorata?, si chiedeva. L’eventualità le sembrava assai poco dignitosa: i guerrieri combattono, non si perdono in romanticherie.

Ciò nonostante, continuò a pensare a Fen e al modo in cui le aveva sorriso quando si era seduta a tavola.


Sebbene non si fosse addormentata, l’ora del combattimento la colse di sorpresa:

lo scudiero di Fen, un ragazzetto più piccolo di lei, venne a bussare alla sua porta per condurla nella sala d’armi del palazzo.

Il cavaliere la attendeva già pronto per il duello. Fermo al centro della sala, coperto eccetto che per il capo dalla sua armatura dorata, aveva un’espressione del tutto diversa da quella di qualche ora prima. Il sorriso gli era scomparso dalle labbra e nei suoi occhi si leggeva una concentrazione assoluta.

Di fronte a quell’uomo Nihal si sentì piccola e spaesata. Ebbe la tentazione di scappare a gambe levate, ma si trattenne, ripetendosi che la prima dote di un guerriero è il coraggio.

«Non hai di che proteggerti il corpo?» le chiese Fen appena la vide.

«No. È che in realtà finora non ho mai combattuto. Sul serio, intendo» rispose Nihal.

«Poco male. Vorrà dire che avrai dalla tua l’agilità.»

Nihal annuì con aria sicura, ma aveva un nodo alla gola che non andava né su né giù e la mente ingombra di pensieri.

«In guardia» intimò Fen.

E Nihal non seppe più che fare.

Cercò di calmarsi e di ripassare tutto quel che aveva imparato sull’arte delle armi nella sua breve vita, quindi si dispose all’attacco.

L’assalto di Fen fu travolgente e inatteso: combatteva di forza, mirando scopertamente a stancare e confondere l’avversario. Ebbe gioco facile: Nihal era terrorizzata, confusa e poco concentrata. Come se non bastasse, non riusciva a staccare gli occhi dal volto di Fen. Le sembrava che il mondo finisse e iniziasse in quell’uomo, che con movimenti precisi avanzava verso di lei con la spada in pugno.

Nihal iniziò a retrocedere da subito. Non riuscì a organizzare nemmeno un mezzo assalto: dopo un paio di battute la spada le volò via di mano e lei cadde rovinosamente a terra.

Fen la guardò stupito. «Be’? Vuoi combattere o cosa? Non mi dirai che è tutto ciò che sai fare!»

Nihal sentì che stava per mettersi a piangere.

«Soana mi ha detto che sei brava. Non avere paura. Fammi vedere di cosa sei capace.»

Non pensare a niente. Combatti. Combatti e basta! Nihal si alzò, decisa a fare sul serio. Chiuse gli occhi. Svuotò la mente. Chi ti sta davanti, Nihal? Un nemico. Nient’altro che un nemico. È bello, certo, e forse te ne stai innamorando. Ma questo non ha nulla a che fare con il combattimento. Del resto, vuoi far colpo su di lui? E allora dimostragli quanto sei brava con la spada. Perché sei brava, lo sai. Tu sei brava. Devi solo farglielo vedere.

Nihal restò a occhi chiusi finché non sentì il colpo di Fen che calava su di lei. Solo allora fu pronta per iniziare davvero. Lo schivò all’ultimo momento con uno spostamento laterale e iniziò a prendere confidenza con lo spazio in cui si muoveva. Non parava, non assaltava. Si limitava a schivare con precisione ogni colpo di Fen.

Chiuse di nuovo gli occhi e ascoltò il ritmo dei passi del suo avversario. Ne indovinò la cadenza, capì quali erano i suoi movimenti abituali. Poi iniziò ad attaccare.


Il punto debole di Fen era la prevedibilità: aveva una tecnica impeccabile ma proprio per questo scontata. In breve tempo Nihal fu in grado di anticiparne le mosse. Allora iniziò a muoversi con velocità. Parò ogni singolo colpo. Prese ad attaccare con ampi fendenti dall’alto, costringendo Fen a indietreggiare. Poi fece un paio di finte e si portò molto vicino all’avversario, costringendolo a levare in alto la spada. Era quello che lei aspettava: si piegò sulle ginocchia e si accinse a colpire dal basso. Ma il cavaliere non era tanto sprovveduto. Nihal non aveva notato che da un po’ teneva la spada con una mano sola. Fen aveva una mano libera e con quella, in un lampo, le afferrò il braccio torcendole il polso: era disarmata.

Rimasero in quella posizione per qualche istante, immobili e ansimanti. Tutto a un tratto Nihal fu consapevole di essere a un soffio dalle labbra di Fen. Arrossì, si liberò e con un balzo riguadagnò la distanza di sicurezza.

Fen si deterse il sudore dalla fronte. «Allora Soana aveva ragione!»

Nihal trattenne un sorriso d’orgoglio. Combattere con quell’uomo le piaceva. Non era affatto prevedibile. Era preciso. Aveva la capacità di restare lucido. Ed era pronto a tutto pur di vincere.

«Pronta a ricominciare?» le chiese Fen.

Nihal aveva superato la paura. «Non chiedo di meglio.»

I due contendenti passarono il pomeriggio in esercizio, combattendo ininterrottamente. Nihal si sentiva libera e felice: non pensava a nulla, il suo corpo scattava preciso e sembrava muoversi autonomamente. La grinta e la foga dello scontro la inebriavano, e più combatteva più si sentiva eccitata. Non si accorse nemmeno che Sennar li aveva raggiunti e li osservava da un angolo. Alla fine si sedettero sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete, sudati e sfiniti.

«Con chi ti alleni di solito?» chiese Fen.

«Con nessuno.»

«Come sarebbe a dire “con nessuno”?»

«Be’, sai… Sennar con la spada è un disastro…»

«Allora ascolta, Nihal. Ho una proposta da farti. Tu hai un talento naturale che non va sprecato. Soana spesso viene a trovarmi. Vorrei che venissi anche tu e ti facessi allenare da me.»

A Nihal parve che il cuore le si fermasse.

Si immaginò di trascorrere insieme a Fen migliaia di pomeriggi come quello, e magari altri ancora passati solo a parlare. Traboccante di gioia, cercò di mascherare l’emozione assumendo un’aria navigata. «Per me… sì, credo che per me possa andare.»

Fen rise di gusto. Poi le tese la mano e l’aiutò a rialzarsi.

Fu così che Nihal iniziò la sua carriera di guerriero.

Non vedeva l’ora di raccontare tutto a Sennar, ma ebbe la sorpresa di vederselo davanti appena uscita dalla sala d’armi, nero in volto.

«Sennar, non sai cosa mi ha appena…»

Sennar non la lasciò proseguire. «Lo so, invece. E permettimi di dire che ti stai mettendo nei guai.»

«Ma che diavolo dici?»

«Nihal, non farti venire strane idee su Fen.»

«Oh, insomma. Ancora? Ma allora è un chiodo fisso!»

«Guarda che qui se c’è qualcuno che ha un chiodo fisso sei tu.»

La ragazza sbuffò. «E se anche fosse?»

«Nihal…»

«Ti lamenti sempre che sembro un ragazzo. Se mi sono presa una cotta significa che non ho scordato qual è il dovere di una brava signorina…»

«Nihal, ascoltami…»

«… Trovare qualcuno che la sposi!» concluse Nihal con un sorriso smagliante.

«Senti, Nihal. Voglio essere chiaro con te. Fen ama Soana. E Soana ama lui.»

Il sorriso scomparve lentamente dalle labbra della fanciulla.

«Mi dispiace. Non so come hai fatto a non accorgertene. Ma è così, credimi.»

Tutto a un tratto Nihal si sentì immensamente stupida. Già, come aveva fatto a non accorgersene? Era chiaro come il sole. La gioia di Soana durante il viaggio. Il loro incontro. La mano di Fen sul ginocchio di lei durante il pranzo.

Nihal non disse una parola. Strinse l’elsa della spada e si diresse verso la sua stanza a testa alta.


La notte prima dell’iniziazione di Sennar fu lunga e insonne.

Nihal assistette l’amico con premura. Cercò di non pensare a niente e di stargli vicina, ma verso le prime luci dell’alba non resistette più. «Sennar, posso farti una domanda?»

«Dimmi.»

«Sei mai stato innamorato?»

«Be’… credo di sì.»

«E com’è?»

«Non è uguale per tutti, ma in generale pensi di continuo alla persona che ti piace, appena la vedi ti si chiude lo stomaco, ti batte forte il cuore… roba del genere, insomma. Possibile che tu non lo sappia?»

«Sennar…»

«Nihal, per favore! Lasciami concentrare!»

«Mi sa che avevi ragione tu.»


La cerimonia di iniziazione ebbe luogo a porte chiuse, con sommo dispiacere di Nihal, che era molto curiosa di vedere come si svolgeva. Invece dovette accontentarsi di una fugace sbirciatina alla sala del Consiglio mentre Sennar ne varcava la soglia: ebbe appena il tempo di vedere una grande stanza buia, e otto tra maghi e maghe di razze diverse seduti solennemente su altrettanti scanni di pietra.

Poi la porta fu chiusa, e Nihal rimase fuori a rodersi nei suoi pensieri.

Non sapeva cosa fare. Non aveva il coraggio di andare a cercare Fen. Non conosceva quella Terra, dunque non sapeva neppure dove recarsi per fare una passeggiata. Alla fine tornò nella sua stanza dove, inevitabilmente, si mise a rimuginare sulle sue pene d’amore.

Sapere che Fen aveva già una donna la faceva soffrire, e versò anche qualche lacrima da amante disperata. Però quel dolore era anche immensamente dolce e Nihal ci si crogiolò senza ritegno. Improvvisamente amava l’amore. E amava la sensazione di essere innamorata.

L’idea di dimenticare Fen perché era il compagno di Soana non la sfiorò neppure. Quel pomeriggio Nihal chiuse gelosamente quei sentimenti dentro di sé e li alimentò di speranze e di sogni, di lieve disperazione e di fugaci esaltazioni.


La cerimonia di iniziazione fu un successo. I membri del Consiglio dei Maghi rimasero profondamente colpiti da quel ragazzetto alto e magro e dalla sua prepotente forza magica.

Sennar uscì dalla sala esausto, pallido e sudato, e da quel momento fu mago. Ebbe in dono una veste nera che da allora non abbandonò mai: una tunica dal taglio simile a quella che indossava da novizio, ma ornata da intricati fregi rossi che culminavano in un enorme occhio spalancato sul ventre.

«Accidenti. È davvero inquietante» commentò Nihal.

Soana, Sennar e Nihal partirono quel pomeriggio stesso, dopo essersi congedati da Astrea e da Galla.

Davanti all’ingresso del palazzo, circondati dal fragore della cascata, Soana e Fen si abbracciarono brevemente.

Sennar e Nihal si erano già allontanati di qualche passo quando la voce del cavaliere sovrastò il rumore dell’acqua.

«Nihal!»

La ragazza si voltò.

«A presto! E tieniti in esercizio!»

Appena giunta a casa, Nihal iniziò a contare i giorni.

8 La fine di una favola.

Tornati nella Terra del Vento, le cose ripresero con il solito ritmo: Nihal si dedicava svogliatamente alla magia, Sennar studiava giorno e notte.

Gli otto maghi avevano deliberato che il ragazzo rimanesse ancora per un anno con Soana, per apprendere i doveri e i compiti di un membro del Consiglio. Terminato quel periodo, Soana avrebbe fatto rapporto sulle capacità del suo allievo e Sennar avrebbe potuto aspirare a diventare consigliere.

Da quando era stato nominato mago, il ragazzo era totalmente assorbito dal suo nuovo ruolo. Passava ore chino sui libri, e dopo che ebbe letto tutti quelli della biblioteca di Soana iniziò a girovagare per la Terra del Vento alla ricerca di nuovi tomi.

Dopo il viaggio nella Terra dell’Acqua Nihal era diventata insofferente alla vita inattiva di Salazar e ansiosa di conoscere nuovi paesi. Così, con il pretesto che in quei brevi viaggi l’amico poteva aver bisogno di protezione, lo accompagnava sempre.

Nihal ammirava la perseveranza di Sennar. Anche lei avrebbe voluto essere così: determinata, forte, con lo sguardo sempre volto verso la meta. Era vero, non era portata per la magia, ma decise che doveva imparare almeno quegli incantesimi che potevano tornare utili a un guerriero. Fu così che prese a impegnarsi soprattutto sulle formule di guarigione, utili nel caso si venisse feriti, e su qualche semplicissima formula di offesa, che in caso disperato poteva servire a salvarle la pelle. Inaspettatamente Soana la lasciò fare, insistendo però che imparasse a fondo a mettersi in contatto con gli spiriti naturali.


Fen allenava Nihal una volta al mese. In genere era lei a raggiungerlo insieme a Soana, ma qualche volta il cavaliere faceva loro un’improvvisata. Quando arrivava inaspettato per Nihal era una gioia.

Più il tempo passava, più sentiva di amarlo. Adorava ogni suo gesto, conosceva ogni sua espressione. Era convinta che l’avrebbe amato per sempre. Che importava se non avrebbe mai potuto essere suo? L’amore non si basa sul possesso, si diceva, l’amore non si ferma davanti a nulla. E io lo amo.

Fen sembrava non essersi accorto della dedizione della sua giovane allieva. Era evidente che aveva iniziato quella sorta di addestramento per far piacere a Soana, ma in breve tempo aveva cominciato a divertirsi: combattere con quello scricciolo di ragazza era un vero piacere. E poi era un’occasione in più per vedere la maga.

Da quegli incontri Nihal apprendeva moltissimo. Il maestro non si risparmiava e l’allieva era come una spugna. Assimilava consigli, insegnamenti, tecniche e rielaborava tutto con inesauribile fantasia: inventava mosse, studiava nuovi colpi, adattava con efficacia l’arte delle armi alla sua corporatura.

Fen era colpito da quella fanciulla e non perdeva occasione di complimentarsi con lei: la sua era una danza mortale. Non aveva mai visto nessuno combattere così.

Nihal naturalmente era lusingata, ma in fondo al cuore sperava che un giorno lui si accorgesse di lei anche in un altro senso e capisse che, sebbene combattesse meglio di un uomo, rimaneva pur sempre una ragazza. A volte si sentiva come l’infelice protagonista di tante ballate, innamorata dell’uomo sbagliato ma eroica nel perseverare nel suo sentimento. Ormai sapeva perfettamente che Sennar aveva ragione: Soana e Fen erano come una persona sola. In presenza del cavaliere gli occhi della maga brillavano di una nuova luce, e lui aveva nei suoi riguardi una premura che Nihal sognava per sé. Vederli insieme era una sofferenza e qualche volta, in totale solitudine, Nihal scoppiava in lacrime, ma non avrebbe rinunciato a quell’amore per nulla al mondo.

Se c’era qualcuno in grado di contendere a Fen parte dei sogni di Nihal, questi era Gaart.

Con lui aveva forse ancor meno speranze che con il suo cavaliere. Un pomeriggio aveva provato ad avvicinarlo: dapprima il drago si era mostrato infastidito, poi aveva iniziato a dar segni di nervosismo e per finire aveva emesso una fiammata dalle narici.

Nihal aveva capito una volta per tutte che non era il caso di insistere, ma non aveva rinunciato all’idea di cavalcare un drago, magari tutto suo. Da quel giorno si era tenuta alla larga da Gaart, continuando però ad ammirarlo da lontano e a fantasticare di interminabili voli sulla sua groppa.


«Perché vai da quel tizio? Che cos’ha di tanto speciale? Io non ti basto?»

Livon non aveva preso bene le lezioni del cavaliere e a nulla gli serviva ricordarsi che era stato proprio lui a lasciarla libera di seguire la sua strada.

Quando Nihal restava a Salazar per qualche giorno, all’armaiolo sembrava che tutto fosse tornato come una volta: la sua Nihal era ancora la bimbetta che gli passava i ferri del mestiere, nera per la polvere che c’era nel negozio.

Poi però la figlia tornava da Soana e lui ne soffriva immensamente. La bambina che aveva allevato gli mancava e avrebbe voluto che la donna che Nihal stava diventando restasse con lui per sempre.


A un anno dall’investitura di Sennar, nella Terra del Vento la vita quotidiana continuava a trascorrere tranquilla. I mercanti mercanteggiavano, gli osti mescevano vino e ragazzini di tutte le razze scorrazzavano su e giù per le città-torre.

Alcuni segni premonitori, però, avrebbero dovuto far riflettere la popolazione. Re Darnel blandiva il Tiranno in tutti i modi: i dazi che dovevano essergli versati erano aumentati a dismisura, gran parte dei raccolti finivano direttamente nei suoi granai e molte terre giacevano incolte, perché il Tiranno richiedeva gente abile per combattere la sua eterna guerra con le Terre libere.

Durante i suoi viaggi con Sennar, Nihal si accorgeva che la miseria iniziava lentamente a diffondersi tra la popolazione. Gli abitanti della Terra del Vento, tuttavia, erano convinti che il servilismo di Darnel li avrebbe tenuti al sicuro ancora per un po’ e continuavano le loro pacifiche esistenze.

Finché un giorno accadde un episodio inquietante.

In città giunse un vecchio contadino dall’aria sconvolta. Girava coperto di cenci per le scale di Salazar urlando tra le lacrime che i fammin avevano saccheggiato il suo villaggio e molti altri vicini e che gli uomini al loro seguito avevano rapito tutte le ragazze, uccidendo chiunque osasse porsi sul loro cammino.

Quando qualcuno aveva provato a fargli delle domande, il vecchio aveva continuato a ripetere: «Lada, la mia povera Lada…», come se non comprendesse ciò che gli si stava chiedendo.

I più lo presero per pazzo e smisero di prestargli attenzione, ma Sennar e Nihal si affrettarono ad avvisare Soana.

In breve tempo la maga decise di mettersi in viaggio verso i confini, per scoprire se c’era davvero qualcosa da temere.

Per la prima volta da quando i loro destini si erano incrociati, sarebbe partita senza di loro.

«È bene che in città resti qualcuno in grado di combattere, all’evenienza. Mi raccomando, Nihal» disse sorridendo «Salazar è anche un po’ nelle tue mani.»

Soana si fece accompagnare da Fen, e lasciò Nihal triste e contenta al tempo stesso: l’idea della maga e del cavaliere del suo cuore in viaggio insieme non le piaceva neanche un po’, ma essere stata promossa paladina della città la riempiva d’orgoglio.

Il giorno dopo la partenza di Soana, Nihal e Sennar si incontrarono come sempre sul tetto di Salazar.

Avevano preso l’abitudine di andarci a fine giornata, per rilassarsi e godersi il tramonto sulla steppa. Stavano lì a guardare il disco del sole che, da giallo che era, virava lentamente al rosso, tingendo di quel colore sanguigno anche il cielo, fino a scomparire nella vastità verde cupo della pianura. Parlavano del più e del meno, scambiandosi opinioni e chiacchierando di tutto.

Quella sera, però, Nihal sembrava diversa dal solito. Era seria e guardava Sennar di sottecchi. Quando il mago se ne accorse alzò gli occhi al cielo.

«E va bene, Nihal. È partito. Però non mi sembra il caso di…»

Nihal non lo lasciò terminare la frase. «Ti ho mai detto che venivo qui già prima che ci conoscessimo?»

«Be’, non direttamente. Perché?»

«Sennar, c’è una cosa che non ti ho mai detto. Non ne ho mai parlato con nessuno.»

Sennar si fece curioso. «E sarebbe?»

«Ecco, io sento delle voci.»

Per un attimo Sennar rimase in silenzio, poi scoppiò a ridere.

La cosa fece infuriare Nihal. «Guarda che non c’è niente da ridere! Se mi vuoi ascoltare, bene, se no va bene lo stesso e chiudiamo il discorso.»

«No, no, perdonami! È che sentirsi dire “sento le voci”… Comunque dimmi, ti ascolto.»

Nihal gli raccontò tutta la storia: la strana malinconia che da sempre la assaliva quando era da sola, le voci lontane che sembravano chiamarla, le immagini di morte che durante tante notti avevano popolato i suoi sogni. Non sapeva perché sentiva di doverne parlare proprio in quel momento, visto che avevano rappresentato un enigma per tutta la durata della sua breve vita, ma quella sera aveva sperato che forse Sennar avrebbe potuto darle una risposta.

Alla fine del racconto il mago rimase silenzioso per qualche istante, quindi si decise a parlare. «Sono confuso, Nihal. Non so davvero cosa dirti. Forse sei una veggente, e i tuoi sono sogni premonitori. Però non mi sembra si sia avverato niente di quello che mi hai raccontato, quindi… Insomma, non lo so. Forse faresti bene a parlarne con Soana.»

«Sì, ci avevo pensato, solo che…»

Nihal lasciò la frase a metà e guardò un punto lontano della pianura. «Che cos’è?» sussurrò.


Ai margini della steppa si vedeva una piccola linea scura, come un tratto di matita che segnasse il profilo dell’orizzonte. Si stendeva lunga e sinuosa, e lentamente si ispessiva, fino a prendere le proporzioni di una macchia: sembrava inchiostro che si spande su un foglio, un lenzuolo nero che calava a coprire la terra.

Nihal e Sennar continuarono a scrutare l’orizzonte, ma il bagliore del sole al tramonto li accecava. Piano piano crebbe in loro una paura oscura, un timore sordo. Poi capirono.

Un esercito. Un esercito immenso di guerrieri neri come la pece.

I due giovani rimasero attoniti: era l’immagine della fine del mondo, eppure aveva in sé un fascino inspiegabile. Era uno spettacolo bello e terribile insieme: migliaia di formiche si gettavano di corsa verso la città. La tetra distesa era punteggiata dal brillio di centinaia di migliaia di lance puntate contro il sole, e su quella moltitudine di esseri urlanti si levava una figura alata: un enorme drago nero, cavalcato da un uomo interamente coperto da un’armatura bruna. Nel silenzio assorto del tramonto iniziarono a risuonare come un’eco lontana migliaia di grida selvagge che parlavano di morte.

Nihal sentì in sé il riverbero di un ricordo. Fu come se avesse già visto quella scena non una, ma mille volte. Le voci le attraversarono la mente con un fragore di tuono. Si portò le mani alle orecchie con un gemito di dolore.

Quel lamento sembrò riscuotere Sennar. La afferrò per le spalle e la costrinse ad ascoltarlo. «È il Tiranno, Nihal! È il Tiranno che viene a prendersi Salazar! Dobbiamo avvisare la popolazione, dobbiamo dire a tutti di fuggire…»

Nihal lo guardava con gli occhi vuoti. L’eco delle voci rimbombava ancora nella sua testa. Le urla dell’esercito erano sempre più incombenti e vicine.

«Mi hai capito, Nihal? Corri!»

E Nihal corse. Si buttò nella botola che conduceva al tetto e con un balzo si calò giù. Si precipitò per le scale cercando di scacciare dal cuore il gelido terrore che aveva provato poco prima. Urlò con quanto fiato aveva in corpo: «È arrivato il Tiranno! Il suo esercito è alle porte!».

Ma la notizia si era già diffusa perché qualcun altro aveva visto.

Fu il panico. Salazar riecheggiava di voci sgomente, la gente si ammassava per i vicoli e le scalinate. Ovunque non si vedeva altro che disperati che cercavano di scappare. In pochi istanti i corridoi s’erano colmati di gente urlante che si accalcava verso impossibili vie di fuga. Nihal non aveva mai visto le strade della sua città così zeppe, neppure quella volta che il re in persona era giunto in visita. Ma quel caos non era colmo di vita. Sapeva già di morte. Le urla si sovrapponevano, voci di donne, uomini, bambini, un fiume impetuoso che s’infrangeva sulle pareti e travolgeva tutto ciò che incontrava.

Certo, alcuni intimavano la calma. Altri chiamavano a raccolta chi sapeva combattere, provavano a organizzare una resistenza. Ma la verità era che non avevano via di scampo. Non c’era nulla che potessero tentare, né difesa né altro. Darnel aveva messo il suo esercito al servizio del Tiranno anni e anni addietro e gli abitanti di Salazar, rifugiati dalle guerre di altre Terre, uomini fuggiti alle crudezze del combattimento, che cosa potevano fare? Morire con onore, forse, cercando di difendersi? A che pro, se infine si doveva morire?

Per questo ciascuno cercava un’improbabile salvezza nella fuga impossibile: divorata a velocità folle la pianura, l’esercito era già sotto le mura e circondava la città.

Il terrore ormai dominava la torre: donne che urlavano tenendo stretti i loro bambini, uomini che si gettavano dalle finestre nel vuoto, pochi coraggiosi che si facevano largo tra la massa impazzita con le armi in pugno.


Nihal cercò di raggiungere Livon. Bisognava scappare insieme. Lei conosceva tutte le scorciatoie di Salazar, ci aveva giocato per anni da bambina. Avrebbero trovato una via di fuga. Sì, si sarebbero salvati. Non doveva avere paura. Doveva essere fredda. E concentrata.

La bottega non era distante, ma Nihal era in balia della folla. Sentiva le urla dell’esercito sotto le mura, e poco dopo i colpi dell’ariete che cercava di sfondare la porta centrale di Salazar.

Non c’è scampo, si disse, ma scacciò quel pensiero con tutta la forza del suo animo e continuò a procedere, schiacciata da decine di corpi.

Un colpo, un altro colpo.

Ancora pochi metri. Vedo l’insegna. La vedo!

Uno schianto: l’ingresso della città aveva ceduto.

I grossi cardini in ferro si piegarono come steli d’erba.

Il legno millenario della porta si frantumò in enormi schegge.

I soldati del Tiranno invasero Salazar con urla belluine.

Nihal si catapultò nella bottega. «Dobbiamo scappare, Vecchio! Andiamo via, presto!»

Livon aveva già preparato un fagotto di vestiti e stava radunando le sue spade. Guardò fugacemente Nihal e si diresse verso il retrobottega.

«Aspetta, devi coprirti. Ti prendo un mantello.»

«Ma cosa dici? Andiamo via, presto!»

«Non devono vederti, Nihal!»

La ragazza si mise a urlare: «Non c’è tempo, non capisci? Dobbiamo scappare, nasconderci!».

«Sei tu che non capisci! Se ti vedono è finita! Ti uccideranno!»

All’esterno risuonavano grida, risate sguaiate e suoni gutturali, inumani. I soldati erano entrati in città.

Nihal non sapeva cosa fare. Livon le sembrava impazzito. Decise che era ora di finirla: si gettò su di lui cercando di trascinarlo. «Vieni via, dannazione! Vieni via!»

Troppo tardi. La porta della bottega si spalancò con uno schianto.

Sulla soglia apparvero due esseri mostruosi: avevano lunghe zanne ricurve che dalla mascella salivano verso l’alto ed erano totalmente ricoperti di ispidi peli rossicci. Mani e piedi erano identici, con quattro dita armate di lunghi artigli. Il primo dei due stringeva un’ascia, il secondo una spada rozza ed enorme. Le loro voci sembrano venire direttamente dall’inferno.

«Guarda guarda che sorpresa. Un vecchio e un mezzelfo! Cosa ci fai ancora viva, bastardella?»

Nihal non ascoltava. Tutti i suoi sensi erano pronti all’attacco. Mise mano alla spada. Fece per lanciarsi contro i fammin, ma Livon la agguantò per un braccio e la sollevò di peso, gettandola lontano.

La ragazza cadde battendo la testa. Per un attimo credette di perdere i sensi. Era tutto buio. In sottofondo un clangore di lame. Quando riaprì gli occhi vide che Livon cercava di tenere testa a entrambi quegli esseri. Allora si alzò e corse verso di lui.

Livon la spinse con violenza. «Scappa, Nihal! Scappa!»

Fu un attimo. Un battito di ciglia. Uno dei due fammin trapassò Livon da parte a parte.

Nihal vide suo padre accasciarsi al suolo come un sacco vuoto.

Vide il sangue spandersi sul pavimento.

Vide quel demone strappare via la spada dal corpo di Livon.

Non sentì nulla. Semplicemente guardò la scena, con gli occhi sbarrati e le membra paralizzate.

Poi arrivò la disperazione, e subito dopo una rabbia animale, che non aveva mai provato prima. Con un urlo disumano si scagliò sull’assassino di suo padre. Bastò un solo fendente per staccargli di netto la testa.

Per un istante l’altro fammin rimase impietrito, ma si riprese in fretta, vibrando la sua ascia contro Nihal. La ragazza sentì la corrente d’aria causata dal colpo in arrivo. Scartò di lato e si mise al riparo dietro il tavolo da lavoro, ma il fammin avanzò verso di lei ringhiando e roteando l’arma. Il bancone di legno andò in pezzi in un’esplosione di schegge.

Il mostro ormai la sovrastava, ma Nihal ebbe la prontezza di agguantare il maglio che tante volte aveva visto usare da Livon. Si abbassò di scatto e lo vibrò contro le ginocchia del mostro. Cedettero di schianto. Solo allora lo colpì con violenza, trafiggendolo. La stoccata fu sufficiente a finirlo.

Poi Nihal sentì una strana sensazione al fianco sinistro. Un freddo metallico, e un calore umido giù lungo la coscia. Si guardò. Aveva una ferita profonda. Sanguinava copiosamente. Osservò Livon: giaceva a terra, gli occhi chiusi come se dormisse.

Sdraiarsi accanto a lui. Chiudere gli occhi. Riposarsi. L’idea si stava facendo strada nella sua mente confusa quando dalla strada un urlo acuto e straziante la riportò alla realtà: doveva andare via, doveva salvarsi.


Pensa, Nihal. Respira. Pensa. Una via di fuga. Tutto quello che ti serve è una via di fuga.

Il condotto! Era ancora una bambina quando, giocando, l’aveva scoperto. Passava esattamente dietro la bottega e anticamente veniva usato per la manutenzione delle mura: un cunicolo scuro e senz’aria costruito nell’intercapedine del muro di cinta.

Nihal prese dalla fucina un grosso mazzuolo. Sollevarlo le richiese uno sforzo immane, ma quando lo scagliò contro il muro, accompagnando il colpo con una spallata, la parete cedette facilmente: il condotto esisteva ancora. Ci si infilò a fatica e iniziò a scenderne i gradini.

Era buio. Nihal aveva lo sguardo appannato e il cuore lanciato al galoppo. Il sangue continuava a inzupparle la gamba, ogni passo le costava enorme fatica. Attraverso le mura udiva le grida dei soldati, le urla strazianti delle donne, il pianto dei bambini, il tonfo dei corpi che cadevano a terra, il sibilare delle asce.

Ben presto i gradini iniziarono a farsi sconnessi. Il dolore al fianco aumentò fino a diventare quasi insopportabile. Nihal iniziò a piangere. Le lacrime le sgorgavano dagli occhi, senza che lei riuscisse a trattenerle. La scala prese direzioni sconosciute. A mano a mano che scendeva il caldo aumentava.

Nihal non capiva più dov’era: a volte la scala saliva, a volte diventava una specie di stradina, a volte scendeva. Si sentiva soffocare, non aveva quasi più coscienza di se stessa. La tentazione di abbandonarsi al suolo e lasciarsi trovare era forte. Le sembrava che se avesse fatto un altro passo sarebbe morta. Ma continuò ad avanzare nell’oscurità trascinando la gamba sinistra.

Doveva andare avanti senza fermarsi e senza pensare. Livon era morto per salvarla. E lei doveva vivere.

Non sapeva per quanto aveva camminato. Ore? Pochi minuti? Quando sentì un refolo d’aria fresca sul viso accelerò il passo, istintivamente. Ancora minuti di marcia, o forse ore. Finché non la trovò.

Sul muro c’era una fenditura che dava all’esterno. verso la salvezza. Verso la libertà. Nihal si avvicinò e si sporse: sotto di lei scorreva un fiume di liquami. La ragazza chiamò a raccolta le sue ultime forze. Raspò con le mani tra un mattone e l’altro fino ad aprire un varco abbastanza grande. Poi prese una boccata d’aria fresca e, semplicemente, si lasciò cadere.


L’impatto con l’acqua fu sgradevole. Nihal aveva freddo e si sentiva debole. Non riusciva a coordinare i movimenti. Le sembrò di essere sul punto di affogare. Allora si abbandonò del tutto e fu la corrente a trascinarla per un tratto che le parve molto lungo. Di tanto in tanto si accorgeva di essere vicinissima alla riva, ma non aveva più risorse. Voleva solo galleggiare a occhi chiusi. Riposarsi. Dimenticare.

Improvvisamente si sentì afferrare per un braccio.

Ecco. È finita, si disse. Finalmente è finita.

Qualcuno la stava trasportando sull’argine, ma lei non riusciva a distinguerne il volto.

«Nihal!»

Una voce sembrò provenire da un luogo lontanissimo.

«Sono Sennar, Nihal!»

La ragazza socchiuse gli occhi. «Livon… Livon è morto» sussurrò.

Poi fu come nel suo sogno.

Scivolò all’indietro, e il buio l’avvolse.

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