COMBATTERE.

Quando entrò a far parte del Consiglio dei Maghi era poco più che un ragazzino. Nato nella Terra della Notte e dotato di una straordinaria potenza magica, sembrava un giovane saggio, dedito al bene e alla giustizia. Fu accolto all’unanimità. Solo quando fu nominato Capo del Consiglio per l’anno in corso rivelò la sua vera natura e iniziò a estromettere i Consiglieri dalle decisioni più importanti.

[…] venne cacciato con disonore, ma il giovane mago aveva progettato tutto alla perfezione. Guidò egli stesso un assalto alla sala del Consiglio, con gli uomini e le armi forniti dai re destituiti da Nammen, smaniosi di riappropriarsi [delle loro terre].

Solo alcuni maghi scamparono all’eccidio e si rifugiarono nella Terra del Sole, ma colui che sarebbe diventato il Tiranno non se ne curò: nel volgere di poche ore era diventato padrone di metà del Mondo Emerso. A poco a poco spodestò anche i regnanti che lo avevano sostenuto, finché non ebbe il controllo su quattro Terre: la Terra dei Giorni, quella del Fuoco, quella delle Rocce e quella della Notte. La guerra tra il Tiranno e le quattro Terre libere divenne permanente da quel momento.

Annali del Consiglio dei Maghi, frammento.

9 La verità.

Non riusciva a muovere nessun muscolo. Non capiva dov’era né cosa stesse accadendo. Sentiva indistintamente una specie di litania. Un senso di calore al fianco. Poi vide solo luce. Nient’altro.


Era l’alba quando Nihal si risvegliò. Una luce fioca filtrava dalla finestra vicino al suo giaciglio. Non riusciva a ricordare quasi nulla. Un lungo viaggio attraverso un percorso buio e stretto, la fuga da qualcosa.

La memoria le tornò lenta e parziale. Ricordò di essere scappata da un esercito e di essere stata catturata, ma la stanza dove si trovava non le sembrava una prigione. Cercò di voltare la testa. Vide qualcuno seduto al suo fianco. Si sforzò di guardare meglio per distinguerne il volto, perché aveva la vista annebbiata. Infine lo riconobbe.

«Nihal, sei sveglia!»

Sennar era pallido e affaticato. Avrebbe voluto fargli delle domande, ma dalla gola non le usciva nessun suono.

«Shhh. Sei a casa di Soana, non c’è nulla da temere. Cerca di riposare,

parleremo quando starai meglio.»

Allora Nihal chiuse gli occhi e scivolò in un sonno senza sogni che durò tutto il giorno e la notte.

Quando la mattina dopo aprì gli occhi il sole era già alto. Nihal ne guardò la luce e le sembrò stranamente pallida. Poi capì. Nell’aria c’era un odore acre e il cielo era completamente offuscato da nubi di fumo denso: dopo il saccheggio l’esercito aveva dato Salazar alle fiamme.

Si sentiva ancora molto stanca, ma ricordava tutto.

Livon è morto. Fu il suo primo pensiero. Rivide con precisione tutta la scena. Il corpo che cadeva sul pavimento, quel mostro che ritraeva la spada. Chiuse gli occhi mentre il petto le scoppiava: Livon è morto.

Sennar era ancora accanto a lei. «Come va?»

«Non lo so» rispose Nihal, e si meravigliò di quanto fosse flebile la sua voce.

«La ferita era molto grave. È un miracolo che tu sia ancora viva.»

Nihal si voltò verso l’amico. «Come hai fatto a salvarti?»

«Con la magia, Nihal. Ma è stato difficile.»


Sennar raccontò a Nihal di aver lanciato un incantesimo di invisibilità e di essersi inoltrato tra i vicoli della città. Salazar sembrava un termitaio impazzito, i soldati del Tiranno erano dappertutto: non c’era nulla che potesse fare. Sicuro che Nihal fosse andata da Livon aveva cercato di raggiungerla, ma l’incantesimo gli richiedeva troppe energie. Si era nascosto in una locanda. Lì c’era un soldato. Morto. Lo aveva spogliato, aveva preso la sua armatura e l’aveva indossata.

«Sono arrivato alla fucina troppo tardi. Ho visto Livon, i due fammin… Poi ho visto la breccia nel muro e ho capito tutto. Sono corso sull’argine del fiume. Quando ti ho ripescata non mi sembrava possibile che tu respirassi ancora.» Sennar sorrise all’amica. «È una fortuna che tu sia così piccola, sai? Ti ho avvolta nel mio mantello, ti ho caricata in spalla come un sacco e mi sono diretto verso la casa di Soana. Lungo la strada non abbiamo incontrato nessuno. L’esercito proveniva da est, non aveva neppure sfiorato la zona della Foresta.» Sennar si sfregò gli occhi arrossati dalla stanchezza. «Da quando siamo arrivati ho usato tutti gli incantesimi di guarigione che conosco. Ho trascorso così la notte, sperando che l’esercito bivaccasse a Salazar e non venisse fin qui. Poi è tornata Soana: lei e Fen erano ai confini della Terra del Vento quando hanno visto l’esercito che avanzava. Si sono precipitati indietro, Fen per radunare le sue truppe e venire a difendere la nostra terra, Soana per avvisare la popolazione. Non hanno fatto in tempo, ma questo lo sai anche tu…»

«Quanto tempo sono rimasta incosciente?»

«Tre giorni, Nihal. Tre giorni senza dare segni di ripresa.» Sennar fece una pausa e guardò serio l’amica. «Ho avuto davvero paura che morissi.»

Soana arrivò nel pomeriggio. Sembrava non avere più nulla della bella maga che Nihal ricordava. Gli occhi gonfi tradivano il pianto, il viso e i capelli erano sporchi di fuliggine, l’abito in disordine. Il suo volto era tirato per lo sforzo di mantenere una barriera magica intorno alla casa. In quel modo l’esercito del Tiranno non poteva vederla: se anche dei soldati fossero passati nelle vicinanze, avrebbero scorto solo il folto degli alberi e una forza ignota li avrebbe spinti ad allontanarsi.

Soana si sedette accanto al letto e provò a sorridere. «Come ti senti?»

«Chi sono i mezzelfi?» chiese Nihal con freddezza.

«Se ti riposi forse ti riprenderai presto e…»

Nihal alzò la voce. «Perché quei due mostri mi hanno chiamata mezzelfo?»

Soana fece un respiro profondo. Una lacrima le rigò la guancia sporca di cenere. «Va bene. Hai il diritto di sapere» le disse e iniziò a raccontare: «Sedici anni fa non facevo ancora parte del Consiglio, ero solo l’assistente di uno dei suoi membri più saggi: la maga Reis, del popolo degli gnomi. Eravamo in missione diplomatica nella Terra del Mare e decidemmo di visitare ciò che rimaneva della comunità dei mezzelfi. Quel che trovammo fu orribile…».


C’era sangue ovunque.

Nell’aria il suo odore metallico e un silenzio pesante, assoluto.

Non un filo di vento, non una voce né lo stormire delle foglie degli alberi o il canto lontano di un uccello. Solo l’immobilità della morte.

Soana si era portata una mano alla bocca. «È arrivato fin qui…»

I piccoli pugni di Reis si stringevano attorno alle pieghe della sua lunga veste. Nei suoi occhi lampeggiava l’odio. «Non finirà mai.»

Le due maghe avevano iniziato ad aggirarsi tra i cadaveri sparsi a terra, tra le case di quel villaggio spopolato a colpi di spada. Camminavano intontite, come in un sogno, sforzandosi di vedere cose che i loro occhi volevano sfuggire: ovunque guardassero non c’erano che volti contratti dal dolore, occhi spalancati sul buio, corpi abbandonati pesantemente al suolo.

Poi un suono, tanto debole da sembrare frutto dell’immaginazione.

Soana si era voltata di scatto, quasi fiutando l’aria. Per qualche secondo aveva sentito solo un assordante silenzio. Poi di nuovo quel lieve lamento. Si era messa a frugare tra i cadaveri, voltandoli, cercando.

«Che cosa c’è?» aveva chiesto fredda Reis.

«Una voce! Ci dev’essere qualcuno ancora vivo!»

A mano a mano che si avvicinava alla fonte di quel gemito, il suono si faceva sempre più chiaro. Non era un lamento di dolore. Non era il pianto sommesso e disperato dei sopravvissuti. Era forte e pieno di vita. Il vagito di un bambino.

Sotto il cadavere di una donna Soana aveva visto spuntare un panno che si muoveva debolmente. Aveva voltato il corpo senza vita con delicatezza. Era una giovane, poco più di una ragazzina, colpita alle spalle da un fendente d’ascia.

Tra le sue braccia c’era una bambina molto piccola, una neonata. Strillava con tono veemente, come fanno i bambini quando hanno fame o vogliono essere cambiati. Soana l’aveva sollevata e aveva scostato il panno sporco di sangue che la copriva. La tunica di cui era vestita era immacolata: la bambina era illesa.

Reis si era avvicinata. «È ferita?» Era sempre così diretta, così gelida. Solo quando parlava del Tiranno i suoi occhi prendevano quella luce cupa, terribile.

Soana guardava incredula la bambina: come poteva la vita sorgere così, pura e imperturbabile, dalla morte? «Sembra che stia bene…»

Reis aveva afferrato il braccio di Soana costringendola a chinarsi alla sua altezza e aveva osservato a lungo la bambina. L’espressione dello gnomo era cambiata all’improvviso.

«Vedi qualcosa?» aveva chiesto Soana, titubante.

«Una bambina viva e illesa fra i cadaveri è un segno. Devo consultare le mie carte, solo allora saprò dirti.»

Soana si era rialzata e aveva iniziato a cullare la piccola, sussurrandole parole dolci per calmarla.

Reis si era guardata intorno. «Non abbiamo altro da fare qui. Non è il caso di attardarci: i fammin potrebbero calare da un momento all’altro. Copri la bambina in modo che non si veda. Torniamo al Consiglio.»

Soana aveva obbedito e le due maghe avevano lasciato il villaggio.


Soana fece una pausa e guardò Nihal, che aveva ascoltato senza dire una parola. «Quella bambina era l’unica sopravvissuta di un intero popolo: l’ultimo mezzelfo del Mondo Emerso. Decidemmo di portarla nella Terra del Vento. Là nessuno avrebbe dato importanza ai suoi tratti…»

Il cuore di Nihal accelerò.

«Aveva grandi occhi viola, orecchie appuntite e capelli blu. Quella bambina eri tu, Nihal.»

Nella stanza calò un silenzio che sembrò infinito.

Soana attese paziente la domanda che prima o poi sarebbe arrivata. La voce della ragazza fu come un soffio.

«Ma allora… Livon…»

«Livon era un uomo eccezionale. Quando ti portai da lui ti accolse senza esitazione e mi giurò che ti avrebbe protetta a costo della vita. Per i primi tempi ti abbiamo cresciuta insieme, ma poi le cose si sono complicate. Reis ha abbandonato il Consiglio. A Salazar la gente ha iniziato a mormorare, ad additarmi come strega. Io sono stata costretta a ritirarmi in questa casa. E Livon ti ha cresciuta da solo. Ti ha amata come una figlia, Nihal. Lo sai.»

Soana allungò la mano a sfiorare la guancia della fanciulla, ma lei spostò la testa con uno scatto rabbioso.

«Perché non mi avete mai detto niente? Perché mi avete tenuta all’oscuro di tutto?»

«Perché volevamo che tu vivessi libera e spensierata il più a lungo possibile. Per sedici anni mi sono illusa che avresti potuto vivere una vita normale. Reis aveva visto qualcosa in te, qualcosa di fondamentale per il futuro di tutto il Mondo Emerso che non ha mai voluto rivelarmi. Ho sperato che si fosse sbagliata, che tu non fossi predestinata a nulla. Ma Reis non si sbagliava mai… Non avrei voluto che tu lo scoprissi in questo modo. Mi dispiace, Nihal.»

Ma Nihal non ascoltava più.

Pensava a Livon, che senza essere suo padre le aveva dedicato la vita fino a sacrificarsi per lei.

Pensava a tutte le volte che aveva fantasticato su sua madre.

Pensava alla sua gente, che non esisteva più.

Pensava allo sterminio di una stirpe intera.

Ecco che cos’erano quelle voci, quei sogni. Erano l’urlo della vendetta che esigeva sangue. E lo esigeva da lei: l’ultima, la sopravvissuta di un popolo, di tutta Salazar e forse anche di se stessa, perché avrebbe preferito mille volte morire insieme a Livon piuttosto che trovarsi lì, in quel letto, annientata dal dolore.

Soana le scostò una ciocca di capelli dalla fronte.

Poi si alzò e si allontanò senza dire nulla.

10 In fuga.

Nihal trascorse i quattro giorni seguenti in completo silenzio. Restò nel suo letto, il dolore al fianco come compagno, a guardare fuori dalla finestra senza dire una parola.

Aveva bisogno di riflettere. Le sembrava di essere stata gettata all’improvviso nell’esistenza di qualcun altro. Fino a quel momento la sua vita era stata svegliarsi, sentire il martello di Livon battere sull’acciaio, vedere la sua schiena curva al lavoro. Andare a conoscere Soana per apprendere la magia e parlare del futuro con Sennar. Impugnare la spada, giocare a fare il guerriero e guardare fiduciosa al domani. In un attimo era cambiato tutto. Aveva ucciso: la spada non era più un gioco. Non avrebbe mai più rivisto Livon, se non nei suoi ricordi come un corpo morto a terra. Ed era colpa sua.

Chi l’aveva distratto per la smania di combattere? Lei. Chi si era comportata come una bambina e aveva considerato un gioco anche la morte? Lei. E non era forse lei un pericolo, ultima rimasta di una razza che il Tiranno aveva cancellato dalla faccia della terra? Non era lei che i fammin volevano uccidere quando erano entrati nella fucina?

Nihal si sentiva portatrice di sventura.

Aveva sempre considerato le stranezze del proprio aspetto scherzi della natura. Invece avevano un significato terribile. I sogni le avevano mostrato quello che era avvenuto con crudezza, come se fosse stata lì, spettatrice dello sterminio di un popolo. Il racconto di Soana lo aveva confermato. Quella strage dimenticata la riguardava da vicino.


Ogni notte di quei quattro giorni le voci del suo popolo trucidato la tormentarono invocando vendetta.

L’ultima notte sognò i volti dei suoi simili: ogni viso le veniva incontro con la sua disperazione, la sua storia, e in quegli sguardi muti Nihal vide l’irreparabilità di ciò che era accaduto. Tra di essi scorse anche quello di Livon. Aveva negli occhi una tristezza profonda e le sussurrava: «Sei tu che mi hai fatto morire, è colpa tua, Nihal…».

Si svegliò in un bagno di sudore, urlando. Sennar le fu subito vicino.

«Un altro incubo?»

Nihal annuì, affannata. «Sono sola, Sennar. Il mio posto non è qui, tra i vivi, ma con la mia stirpe.» Guardò fuori dalla finestra. «Perché sono viva? Perché Livon è morto per me?»

Fino a quel momento Sennar aveva preferito non dirle nulla. Era convinto che Nihal dovesse trovare da sola una via d’uscita. Ricordava ancora i discorsi vuoti che gli avevano fatto i soldati per cercare di consolarlo. Meglio il silenzio. Vedendola in lacrime, però, non poté più tacere.

«Non lo so, Nihal. E non so neppure perché il Tiranno abbia ucciso tutti i mezzelfi. Ma ora sei qui. E devi andare avanti. Per te stessa e per Livon, perché lui ti amava e voleva che tu fossi felice e forte.»

Nihal scosse la testa. «È così difficile… Penso a lui di continuo, a quello che ha fatto per me, e soprattutto a quello che io non ho fatto per lui. E in ogni istante mi dico che è colpa mia. Era bravo con la spada, poteva battere i fammin, poteva farcela. Ma io l’ho distratto, e l’ho ucciso. Sono una stupida… io…»

Nihal cominciò a piangere. Dal giorno della battaglia non aveva versato una sola lacrima. Sennar la strinse a sé, come aveva fatto nella Foresta quella sera, che ormai sembrava lontana secoli.


Il giorno seguente Nihal vide spuntare dall’intelaiatura di legno della finestra un volto piccolo e spaurito. Era Phos. Sennar lo fece entrare, e lui si accomodò sulle lenzuola di Nihal. Ci volle un po’ perché il folletto si decidesse a parlare.

L’esercito del Tiranno, dopo alcuni giorni di scorrerie per la Terra del Vento, era penetrato nella Foresta per fare incetta di legname, aveva scoperto i folletti e si era lanciato alla loro caccia. Era stato terribile. Tanti erano stati catturati, molti altri uccisi.

Phos aveva radunato quanti più folletti poteva e li aveva portati verso l’unico rifugio sicuro: il Padre della Foresta. Non appena i fammin si erano mossi verso il grande albero, il Padre della Foresta li aveva difesi. Con i suoi rami aveva agguantato per la gola quattro o cinque di quegli orrendi mostri e li aveva strangolati. Gli altri si erano dati alla fuga. Phos e i suoi compagni erano rimasti nascosti per giorni, finché non avevano più sentito le grida dei fammin e dei soldati. Quando erano usciti allo scoperto, la Foresta era semidistrutta. Della loro numerosa comunità non era rimasta nemmeno la metà.

«Poi ho incontrato Sennar. Mi ha raccontato tutto. Allora ho deciso di venire da te. Ho pensato che magari, se avessimo pianto insieme, saremmo stati meglio.»

Il folletto cominciò a singhiozzare. Nihal lo prese tra le mani e lo portò a contatto della sua guancia.

«Coraggio. Migrerete e troverete una nuova terra dove vivere.»

«Non capisci. Non possiamo muoverci. Se ci vedono ci cattureranno, sarà la fine.»

Sennar, che aveva ascoltato tutto, intervenne: «Ascolta, Phos. Noi tra poco dovremo partire: Soana è sfinita, non può mantenere la barriera ancora a lungo, e anche io sono esausto. Andremo nella Terra dell’Acqua, dove Nihal sarà al sicuro. Verrete con noi, vi nasconderemo. Là ci sono tanti folletti: vi rifarete una vita».

Phos si alzò in volo dal letto e cinse il collo di Sennar con le sue braccine. «Grazie, grazie… Cosa posso fare per sdebitarmi con voi?»

«Ci servono dei cavalli. E dell’ambrosia per il viaggio» rispose Nihal. «Altrimenti ho paura che sarete costretti a lasciarmi per strada.» La ragazza cominciava a ritrovare la sua presenza di spirito.

Iniziarono a organizzare la partenza. Fu deciso che Sennar indossasse l’armatura che aveva rubato il giorno dell’invasione, così da non destare sospetti, e che il gruppo avrebbe seguito un sentiero nascosto indicato da Phos. Restava solo da stabilire la data.

Nihal non si era ancora alzata: prima di affrontare il cammino doveva almeno rimettersi i piedi. All’inizio fu difficile. Le girava la testa e le sembrava che le gambe non la reggessero, ma si sforzava senza mai lamentarsi. Sennar aveva ragione: bisognava andarsene. Se fossero morti lì niente avrebbe avuto più senso. I sopravvissuti hanno più responsabilità degli altri.


Partirono di notte sotto una piccola falce di luna.

Il buio era quasi totale. Sennar indossava l’armatura, Nihal era avvolta in un mantello nero, Soana portava una cappa di iuta.

A un tratto il buio si illuminò di luci fioche: erano i folletti. Nihal si stupì di quanto pochi fossero: qualche decina, tutti male in arnese, con gli occhi cerchiati e lo sguardo da profughi.

«Ho trovato solo questo, gli altri se li sono presi i fammin» fece Phos indicando un ronzino magro e spaventato. Sennar si girò faticosamente a guardare. Era davvero buffo sotto quella corazza e Nihal si chiedeva come facesse a sopportarne il peso.

«Andrà più che bene. Grazie, Phos.»

I folletti si nascosero dentro due sacchi fissati alla soma del cavallo, dopodiché Nihal montò in sella. La ferita, sebbene quasi rimarginata, era ancora dolorante. Al diavolo! Non siamo nemmeno partiti e già sto male. Bevve un sorso d’ambrosia.

La carovana si mise in movimento.

Iniziarono a costeggiare la Foresta: nascosto sotto il mantello di Nihal, Phos faceva da guida. La notte era fonda, il silenzio assoluto. Neppure gli alberi frusciavano. Tacevano in segno di lutto, e Nihal sentì che il dolore pervadeva la natura.

Camminarono tutta la notte. Sennar apriva la colonna, Soana e Nihal lo seguivano affiancate. Di tanto in tanto dai sacchi uscivano mormorii ed emergeva una testolina colorata. Nei sacchi non si respirava: a turno i folletti si affacciavano per prendere aria.

Soana camminava a fatica, perché in quei giorni non aveva fatto altro che recitare incantesimi, e per Nihal il trotto del cavallo era un supplizio.

Alle prime luci dell’alba si inoltrarono nel folto: avevano deciso che era più sicuro viaggiare di notte e riposare di giorno. Fecero dei turni di guardia, per evitare di essere sorpresi nel sonno. Si svegliarono che era il tramonto e si rimisero in marcia.

Giunsero in vista del Saar solo la notte seguente. Il Grande Fiume era un’immensa distesa d’acqua di cui non si vedeva l’altra sponda. La corrente scorreva con un fragore di tuono. Pochi ardimentosi avevano osato attraversarlo e quasi nessuno ne era uscito incolume: sembrava un essere oscuro e maligno pronto a divorare tra i suoi flutti chiunque avesse tentato di affrontarlo.

Le rive erano totalmente prive di vegetazione: nessun’altra forma di vita osava arrischiarsi là dove il Signore delle Acque aveva il suo regno. Era lo stesso fiume da cui nascevano gli splendidi canali della Terra dell’Acqua, ma in quel luogo mostrava il suo volto più arcigno.

Phos fu perentorio: «Qui siamo allo scoperto, dobbiamo procedere più velocemente. Se andiamo rapidi, possiamo superare la zona brulla della Terra del Vento in una notte».


Il gruppo si predispose a una marcia serrata.

Dopo un lungo tratto di cammino comparve un bagliore: era stata incendiata una torre. Tra le fiamme s’intravedeva la sua sagoma nera. Era una torre come Salazar, e come questa era vittima della follia del Tiranno.

Affrettarono il passo con la morte nel cuore. Una città in fiamme significava nemici vicini, ma la zona brulla sembrava non finire mai: le prime luci dell’alba già coloravano debolmente la pianura.

Erano stremati. Bisognava trovare un riparo, ma sembrava che non ci fosse nulla per miglia e miglia. Poi, quando il sole si era già levato sopra l’orizzonte, scorsero un casale.

Sennar andò in avanscoperta. Quando tornò era scuro in volto.

«Non è il caso di fermarsi. Procediamo.»

Nihal spronò il cavallo all’improvviso.

«No, Nihal. Torna indietro!»

Ma la ragazza galoppava verso la casa, ignorando le urla di Sennar.

Il panorama era desolante: attrezzi abbandonati, un orto incolto, una stalla vuota. Nihal smontò a fatica e si avvicinò alla porta d’ingresso. Era socchiusa e quando la spinse cigolò sui cardini.

Dentro era buio. C’era odore di morte. Un uomo penzolava dal soffitto, mentre una ragazzina e una donna giacevano a terra nel proprio sangue.

Nihal rimase pietrificata: le sembrò che la penombra si popolasse dei volti dei suoi sogni e ricominciò a sentire urla e lamenti. Era la storia che si ripeteva, erano le stragi che si susseguivano. Gridò, cadde in ginocchio.

«Vieni via. Non guardare.»

Soana l’aveva raggiunta.

«E invece bisogna guardare! Bisogna scolpirsi nella mente quello che il Tiranno sta facendo al nostro mondo!» urlò Nihal con rabbia.

La maga la prese per un braccio e la trascinò fuori.


Seppellirono i cadaveri avendo cura che le tracce delle fosse non fossero visibili, poi si apprestarono a dormire nel granaio della casa. Prendere sonno non fu facile per nessuno: le immagini di morte li perseguitavano.

Nonostante le proteste di Sennar, Nihal decise di fare anche lei un turno di guardia. Prese la sua spada e si mise a sedere sulla soglia. Guardando la desolazione dei campi su cui quella famiglia aveva speso giorni di fatica si sentì soffocare.

La giornata trascorse tranquilla.

Verso il tramonto Nihal riuscì a prendere sonno, abbracciata alla sua spada, e per la prima volta da quando aveva scoperto di essere un mezzelfo non ebbe incubi. Sognò invece che Fen arrivava per portarla via. Poi, davanti alla cascata della reggia di Astrea e Galla, le dava un lunghissimo bacio.

È tutto finito, Nihal, ora ci sono io, le diceva.

Al risveglio si domandò come avesse potuto fare un sogno tanto bello in un momento così drammatico. Non aveva più pensato al cavaliere, ma si accorse che quell’amore non era svanito. Chissà dov’era, per chi combatteva, se stava bene…


Il viaggio riprese. Avevano raggiunto una macchia e la copertura degli alberi dava sicurezza alla compagnia. Alcuni folletti uscirono a sgranchirsi le ali stropicciate.

Phos gioì nel vedere che quel piccolo bosco non presentava segni del passaggio dei fammin. «Forse si può sperare! Non tutto è distrutto!»

Sennar si tolse l’elmo e respirò a pieni polmoni l’aria fresca.

«Nihal, qui nessuno ti può vedere. Togliti il mantello.»

La ragazza scosse la testa. «No. Non voglio farvi correre rischi.»

Pallida, magra, vestita di nero, Nihal sembrava una figura diabolica. Per un istante Sennar ne ebbe paura. Non era più la ragazzina che aveva conosciuto a Salazar. Era cambiata, ma ancora non sapeva dire come.

Anche quella notte passò senza problemi. Si fermarono a riposarsi poco prima dell’alba. Dopo l’esperienza del giorno precedente, poter dormire sull’erba fu stupendo.

Nihal decise di fare il primo turno di guardia. Ne approfittò per camminare un po’: voleva rimettersi il più in fretta possibile. Guardò il paesaggio intorno a sé, stupita di quell’angolo di paradiso in mezzo alla desolazione della guerra. Ricordò i giorni della prova nella Foresta: le parvero appartenere a un’altra vita.

Uno scricchiolio la distolse dai suoi pensieri. Si voltò di scatto: Soana. Dal giorno della rivelazione non le aveva più parlato.

«Ti senti meglio?» La maga era tornata quella di sempre, bella e potente.

«Sì, va meglio.»

«Non riesci a perdonarmi, vero?» Soana andava dritta al punto.

Nihal rispose secca e sincera. «No.»

Non voleva ferirla, ma doveva liberarsi di quel groppo di risentimento che le stringeva la gola.

«È giusto così. So come ti senti, so che la morte di Livon è qualcosa che non si potrà mai riparare, ma vorrei che tu sapessi che in questo dolore ti sono compagna. Livon era mio fratello, Nihal.»

«Tu non c’eri quando è morto.»

«Nei tuoi occhi vedo tutto quello che è accaduto.»

La ragazza tacque per un lungo istante, lottando contro le lacrime. «Vorrei non essere in collera con te, Soana, ma non ci riesco. Sono in collera con tutto il mondo. Sono in collera con me. Mi odio perché sono quel che sono.»

Soana chinò il capo. «Lo so, Nihal. Anch’io mi odio: non sono stata capace di salvare la Terra del Vento, ho lasciato morire mio fratello, non ho saputo risparmiarti questo dolore… Ho preso una decisione, sai? Quando saremo nelle Terre libere me ne andrò dal Consiglio. Sennar prenderà il mio posto. Nessuno sentirà la mia mancanza.»

Nihal si riscosse. «Ma perché? Tu sei preziosa per il Consiglio!»

«Il mio compito era vigilare sulla Terra del Vento, scoprire in anticipo le mosse del Tiranno e informarne il Consiglio. Ho fallito, Nihal, semplicemente. Ho sopravvalutato le mie capacità di maga. O forse ho sottovalutato la potenza oscura della magia del Tiranno, non fa differenza: è stato un errore imperdonabile.»

«E cosa farai?»

«Cercherò Reis. Devo sapere, Nihal. Per il Mondo Emerso, ma soprattutto per te.»

Nihal guardò la maga negli occhi. «Tu per me sei sempre stata una guida. Ma ora è come se mi si fosse spezzato qualcosa dentro. Forse non riuscirò più a essere con te come ero prima, ma sappi che ti voglio ancora bene.»

Soana le accarezzò il capo. «Sei diventata una donna, Nihal»


La notte del quattordicesimo giorno di marcia erano ancora lontani dal confine, ma il loro viaggio stava per finire. In lontananza si intravedevano le luci di un accampamento nemico: più di una ventina di tende da campo erano sparse in modo disordinato in una piccola piana. Al centro, una tenda un po’ più grande delle altre: quella del capo di quella guarnigione, probabilmente.

«Pare che il nostro cammino termini qui» disse Sennar togliendosi l’elmo. Nessuno di loro aveva la minima idea di come superare la linea del fronte.

Solo Soana non si lasciò scoraggiare. «Se c’è un accampamento nemico c’è anche un esercito nostro alleato. Non ci resta che cercare di comunicare con loro.»

La maga si accomodò a terra. «Sennar, le pietre del cerchio magico.»

Sennar fu costretto a togliersi la corazza. «Sarà anche utile, ma questa roba è micidiale.»

Dopo essersi liberato dell’armatura si mise a frugare nella sua bisaccia e ne estrasse sei pietre con incise delle rune. Soana le dispose ai vertici di una stella immaginaria, come quella con cui aveva sottoposto Nihal alla prova del fuoco. Dopo un attimo al suo centro risplendette una fiamma azzurra. La maga recitò una litania e dalla stella si innalzò un denso fumo blu, che si disperse rapidamente nell’aria.

«Quando siamo lontani io e Fen comunichiamo così. Non so dove sia, ma è probabile che sia impegnato su questo fronte. Gli ho detto dove ci troviamo. Quando avremo superato l’accampamento, saprà dove venirci a recuperare.»

Sennar sgranò gli occhi. «Quando avremo superato l’accampamento? E come? Sarà pieno di sentinelle!»

«Le sentinelle possono cadere vittime del sonno, Sennar, e tu sai bene in che modo. Ci muoveremo non appena riceveremo notizie da Fen. Ti introdurrai nel campo con la scusa di consegnare un messaggio, dopodiché li addormenterai. I folletti potranno superare la zona in volo, io e Nihal passeremo a piedi.»

Sennar non amava la parte dell’eroe, ma dovette convincersi che era l’unico modo per andarsene.


Dopo due giorni di attesa tutti iniziavano a disperare che il messaggio fosse arrivato a Fen. Solo Soana non aveva dubbi.

«Risponderà.»

La mattina del terzo giorno giunse una colomba. Portava legato a una zampa un foglio: vi erano stati vergati con calligrafia precisa pochi ordini e alcune rune sconosciute. Nihal non poté fare a meno di pensare che probabilmente Fen aveva voluto mandare alla maga un messaggio confidenziale. I sogni sono proprio menzogneri, si disse.

«Agiremo stanotte. Conviene che tu ti incammini, Sennar.»

Per tutta la vita il mago aveva fantasticato sul momento in cui avrebbe compiuto imprese eroiche per liberare il Mondo Emerso dal giogo del Tiranno, ma ora si sentiva ben più pavido di quel che credeva.

Dopo qualche esitazione, si fece coraggio, montò a cavallo e si apprestò ad andare.

«Sennar!» Nihal era in piedi poco lontano da lui. Per la prima volta da giorni sorrideva. «Buona fortuna. Torna tutto intero.»

Sennar le strizzò l’occhio. «Sarà una passeggiata», e si allontanò.


L’attesa non fu affatto serena. L’idea che il suo amico potesse morire sconvolgeva Nihal. Non poteva sopportare il pensiero di un’altra persona cara che se ne andava. Rimase tutto il giorno a rimuginare, tesa e preoccupata.

Phos cercava di distrarla. «Dai! Pensa che fra un po’ ce ne andiamo! Non vedo l’ora di essere nella Terra dell’Acqua! Fiumi, boschi senza fine, altri folletti, pace…»

Nihal non lo ascoltava neppure. Continuava a rosicchiarsi le unghie o a giocherellare nervosamente con la spada.

Dall’accampamento non si sentiva nessun suono, e quello era un buon segno. Se Sennar fosse stato scoperto ci sarebbe sicuramente stata confusione.

Poi calò la notte.

Avevano convenuto con Fen di trovarsi all’alba oltre l’accampamento, lungo il Grande Fiume. I folletti volarono via, librandosi in alto in modo che le piccole luci che emettevano fossero poco visibili. Anche Soana e Nihal si incamminarono.

Quando superarono l’entrata del campo, Nihal evocò con la sua magia un piccolo lampo: era il segnale stabilito con Sennar. Attese la risposta con il cuore in gola. Le sembrò che passasse un’eternità, finché il mago, salvo e tutto intero, sbucò da una tenda. Avrebbe voluto corrergli incontro e abbracciarlo, ma si limitò a bisbigliare: «Dormono tutti?».

«Credo di sì. C’è voluto un sacco di tempo: questo posto è enorme. In compenso, ho preso un paio di cosette…»

Sennar tirò fuori dalla sua veste due lunghe spade, una per sé e una per Soana.

Benché tutti dormissero, strisciarono tra l’erba cercando di fare meno rumore possibile. Nihal rivide i fammin: giacevano intorno ai resti di un falò, profondamente addormentati. Tra loro c’erano anche molti uomini e qualche gnomo. Tutti dormivano beatamente, le mani ancora strette intorno ai boccali colmi di sidro, le bocche aperte a russare sonoramente. Prima di scivolare nel sonno avevano fatto baldoria: quei maledetti avevano festeggiato la morte degli innocenti abitanti della Terra del Vento.

Nihal ebbe fortissimo il desiderio di bruciare quel luogo e di farli morire tutti tra le fiamme, ma un pensiero la trattenne: Non ora. Non c’è fretta. Tutto a tempo debito.

L’accampamento sembrava sterminato. Procedettero lentamente finché non giunsero in vista dell’ultimo avamposto. Ancora quell’ostacolo: poi Fen, e la salvezza. Nihal ebbe perfino il tempo di pensare che era emozionata all’idea di rivedere il cavaliere dopo così tanto tempo.

«Mago malefico! Traditore!»

Un urlo squarciò il silenzio della notte.

Dal buio spuntarono due fammin. Erano lontani, ma guadagnavano rapidamente terreno.

«Ma non li avevi addormentati tutti?» gridò Nihal.

In una frazione di secondo la ragazza fece i suoi calcoli: non aveva senso nascondersi, bisognava disorientarli. Sguainò la spada e si gettò correndo contro i due nemici.

Anche i fammin si lanciarono verso di lei, ma Nihal non si fece intimorire: continuò ad avanzare e solo all’ultimo istante, quando il primo stava caricando il colpo, si abbassò di scatto e lo trafisse dal basso.

Il secondo non si fece cogliere impreparato. Dopo un paio di parate Nihal iniziò a indietreggiare. Le poche forze che aveva recuperato la stavano già abbandonando. Non ce la faccio. Il dolore al fianco era lancinante e la spada le sembrava pesantissima. Non posso farcela.

Un lampo verdognolo le passò sul capo e incenerì il fammin. Nihal si voltò.

Sennar la guardava con ironia. «Conviene che trovi un modo per sdebitarti: è la seconda volta che ti salvo la vita!»

«Poche chiacchiere, mago da strapazzo! Non vorrei che ci fossero altre sorprese» rispose Nihal sorridendo.


Soana e i due ragazzi uscirono correndo dal campo nemico.

Corsero senza mai fermarsi finché non raggiunsero le sponde del Saar, dove i folletti li attendevano da un pezzo. Nihal quasi non riusciva a respirare per il dolore al fianco.

«Fa’ vedere.»

Sennar le sollevò la casacca. La fasciatura era macchiata di sangue.

Nonostante le proteste di Nihal, l’amico la fece stendere e iniziò a recitare formule incomprensibili. Lei si rilassò, il respiro si fece più regolare e in breve fu pervasa da un piacevole senso di benessere.

«Grazie, Sennar. Di tutto.»

Guardò il cielo tra le palpebre socchiuse: si stava colorando di rosa. Nel chiarore dell’alba, vide tre puntini verdi farsi sempre più grandi. Draghi.

Fen e i suoi li avevano trovati.

Erano salvi.


Più tardi il cavaliere sussurrò qualcosa a Nihal. C’entrava Gaart, ma lei era troppo stanca per capire. Il suo primo volo su un drago lo fece dormendo.

11 La decisione di Nihal.

Nihal e gli altri furono portati in un villaggio della Terra dell’Acqua assai prossimo al confine. Era stata Soana a insistere per quella sistemazione modesta: non si sentiva già più membro del Consiglio e non voleva essere ospite di Astrea e Galla a Laodamea.

Il nome del villaggio era Loos ed era uno dei pochi in cui ninfe e uomini convivessero. Era un luogo assai piacevole, progettato per favorire la convivenza di due stirpi così diverse.

Gli uomini avevano bisogno di case, mentre alle ninfe servivano alberi in cui trovare ricovero di notte. Alcune zone del villaggio, quindi, erano affollate di piccole palafitte che si protendevano sull’acqua, altre pullulavano di alberi.

Inizialmente Nihal fu frastornata dal verdeggiante caos di Loos.

Lei e Soana erano alloggiate a casa di un pescatore. L’uomo era prodigo di attenzioni nei confronti della ragazzina: quando la vide arrivare, stanca e malconcia com’era, la costrinse a letto per due giorni di fila senza permetterle di alzare un dito. Ma la notte i sogni le facevano visita puntualmente e al mattino il dolore si rinnovava. Così fece di tutto per rimettersi in fretta e appena le gambe la ressero iniziò a sgattaiolare fuori, andandosene in giro per quella terra stupenda.

Poi c’era Fen.

Il suo accampamento non era lontano dal villaggio e capitava spesso che lui arrivasse a Loos per fare visita a Soana. Nihal attendeva con ansia quelle occasioni. Poco importava che non venisse per lei, ma per la donna che amava. Le fantasticherie erano tutto quello che le rimaneva e la aiutavano a tenere lontani i ricordi.

Il cavaliere la trattava con tenerezza, le parlava, ma soprattutto si prestava a combattere con lei. In duello la mente di Nihal si svuotava. Era meglio di qualsiasi fantasticheria. Prendeva in mano la spada nera, nella quale le sembrava di sentire ancora pulsare la vita di Livon, e il suo corpo iniziava a muoversi da solo, trascinando nell’oblio anche la mente.

Sennar studiava come un forsennato. Si era opposto strenuamente alla decisione di Soana. Certo, sarebbe stato contento di poter accedere immediatamente al Consiglio, ma non in quel modo: era affezionato alla sua maestra e per nulla al mondo avrebbe voluto che rinunciasse al suo ruolo. La maga, però, era stata irremovibile e Sennar dovette farsene una ragione. Decise allora che, se era destino che lui diventasse consigliere, almeno lo facesse al meglio delle proprie possibilità.

Passava le sue giornate immerso nei libri della biblioteca reale e tornava a Loos solo a sera, stanco e affamato. Spesso era talmente sfinito che non andava nemmeno da Nihal. Le loro tradizionali chiacchierate al tramonto si erano fatte sempre più rade, ma il ragazzo non si era scordato di lei.

Un pomeriggio Nihal era andata ad allenarsi nel solito boschetto, dove si erano provvisoriamente sistemati Phos e i suoi. Per i folletti le cose non andavano molto bene.

«Le ninfe ci trattano da servetti: tu le vedi belle e leggiadre, ma ti assicuro che sono insopportabili! “E portami questo, e fammi quest’altro…” Non siamo mica venuti qui per fare i paggi!» si lamentava Phos. Insomma, si capiva che presto sarebbero migrati in qualche nuova terra.

Quel giorno però nel bosco non c’era nessuno: solo Nihal che, concentrata, menava gran fendenti al vuoto. Sennar arrivò silenzioso come al solito, ma la ragazza aveva imparato a percepirne la presenza.

«Niente studio oggi?»

«Niente studio.»

Il mago porse all’amica la pergamena che aveva sotto il braccio.

«Ti ho trovato questa. Era un po’ che la cercavo…»

Era una pagina sgualcita e bruciacchiata. C’era un grande disegno: una città di costruzioni altissime, sulle quali troneggiava una torre bianca. Tra un palazzo e l’altro risaltavano i capelli blu di molti mezzelfi, impegnati nelle più comuni attività quotidiane. Sotto il disegno una scritta vergata con caratteri elaborati recitava: “Città di Seferdi, Terra dei Giorni”.

«Bella, vero? È l’unica testimonianza del tuo popolo che ho trovato nella biblioteca. Ho pensato che ti facesse piacere averla…»

Nihal non rispose. Guardava e riguardava quel foglio consumato dagli anni. Gli occhi le si riempirono di lacrime.

Quando Sennar se ne accorse, si sentì morire. «Sono proprio uno stupido! Scusami, non credevo che ti avrebbe fatto soffrire…»

Ma Nihal si strinse al petto la pergamena e gli sorrise tra le lacrime.


Parlarono del più e del meno, quel pomeriggio: della decisione di Soana, dell’imminente investitura di Sennar a membro del Consiglio, di quella terra verde. Chiacchierarono come se fosse tutto come prima, quando Nihal era ancora una ragazzetta fissata con l’idea di diventare guerriero e Sennar un promettente allievo mago.

Sennar, però, conosceva bene l’amica. «E allora?»

«Allora cosa?»

«Nihal, puoi farla a tutti ma non a me: che cosa stai rimuginando?»

«Niente.»

«Senti: ti sei sforzata di guarire in fretta, non ti sei persa un’occasione per duellare con Fen e passi i pomeriggi a tagliare l’aria con la spada. Si può sapere che cosa ti frulla in testa?»

Una volta di più Nihal si stupì di quanto Sennar la capisse. «Voglio combattere».

Sennar scosse il capo. «Lo sapevo…»

«No, aspetta. Non voglio semplicemente gettarmi nella mischia e morire: se devo morire, dev’essere dopo aver vendicato Livon e il mio popolo.»

«E come pensi di farlo, di grazia?»

«Ho deciso di diventare Cavaliere di Drago.»

«Stai scherzando, vero?»

«Sono serissima.»

«Nihal, l’Ordine dei Cavalieri di Drago della Terra del Sole è l’esercito più potente del Mondo Emerso.»

«Lo so. Per questo ho deciso di farne parte.»

«Intendo dire che non faranno mai entrare una donna in un ordine così importante.»

Nihal sapeva che Sennar aveva ragione: non sarebbe stato facile. L’Ordine dei Cavalieri di Drago era antico e prestigioso.

Anche per un uomo volenteroso e capace era difficile avervi accesso, figurarsi per una ragazzina come lei. Quando anche poi fosse riuscita ad accedere all’Accademia, terminare l’addestramento era comunque difficile: i Cavalieri di Drago erano un paio di centinaia in tutta la Terra del Sole, e ogni anno non più di quattro o cinque aspiranti coronavano il loro sogno. Ma aveva preso la sua decisione e non si sarebbe arresa fino a quando non avesse calcato il campo di battaglia in groppa al suo drago.

«Io non sono una donna, Sennar. E non sono più una bambina. Sono un guerriero. Devo dare un senso alla mia sopravvivenza, e quel senso è nella battaglia. Non è un capriccio, è un’esigenza: devo combattere, per chi è morto e per chi morirà.»

Sennar guardò l’amica. La ragazza che gli stava davanti era davvero un guerriero e la luce che le brillava negli occhi era il fuoco che arde in chi sa ciò che deve fare. Il mago sospirò, poi le prese una mano e gliela strinse.

Nella sua decisione Nihal non era più sola.

Dieci giorni dopo l’arrivo a Loos Nihal si era ripresa completamente. Avevano passato giorni sereni, ma per Sennar, Soana e Nihal era arrivato il momento di lasciare quella Terra. La loro meta era la Terra del Sole, dove quell’anno aveva sede il Consiglio dei Maghi.

Ciascuno dei viaggiatori si avviava verso un futuro incerto.

Soana andava a rinunciare alla sua carica per intraprendere un viaggio senza meta – e probabilmente senza esito – alla ricerca di Reis. Sennar si accingeva a diventare consigliere e si domandava se, con i suoi diciott’anni da poco compiuti, era davvero all’altezza del compito. E Nihal pensava soltanto alla guerra: a quella che avrebbe combattuto sul campo di battaglia, e a quella che già stava combattendo dentro di sé contro la disperazione.

Si misero in viaggio una mattina all’alba.

Approfittando di alcuni giorni di licenza, Fen si era offerto di scortarli. Soana stava per imbarcarsi in chissà quale viaggio e lui voleva approfittare del tempo che rimaneva per starle accanto.

Nihal ne fu felice. Voleva comunicargli di persona la sua decisione.


Erano già lontani dalla Terra dell’Acqua quando la ragazza affrontò il discorso. Si erano fermati nei pressi di un bosco per riposarsi e mangiare qualcosa, e l’atmosfera era rilassata.

Nihal prese coraggio. «Io… ecco, ho una cosa da dirvi. Ci ho pensato molto e… insomma, ho deciso di diventare Cavaliere di Drago. Quando saremo arrivati, mi piacerebbe che Fen mi accompagnasse all’Accademia.»

Le sue parole ebbero l’effetto di un fulmine a ciel sereno.

Dopo qualche secondo di gelo fu Fen, il cavaliere, il suo maestro e mentore, a parlare per primo. «Ma ti rendi conto di quello che dici? Finché si tratta di allenarti non c’è problema, ma qui stiamo parlando di guerra. Guerra vera.»

Nihal sentì la terra franarle sotto i piedi. Si era immaginata che il cavaliere avrebbe accolto con gioia la sua decisione, che l’avrebbe spalleggiata e ammirata. «Io non mi sono mai allenata per giocare…»

Uno sguardo di Soana, e Fen cambiò tono. Il suo volto si addolcì in uno dei soliti sorrisi, ma Nihal vi scorse una nota di condiscendenza che la irritò.

«Non intendevo dire questo.»

Gli occhi di Nihal iniziarono a colmarsi di lacrime. «Non ti sto chiedendo di aiutarmi. Non sto nemmeno chiedendo la tua approvazione.»

«Nihal, ascolta, cerca di ragionare…»

Ma lei scattò in piedi. «Farò da sola. Non ho bisogno di nessuno, io.»

Poi prese la spada e si inoltrò nel folto. Non voleva farsi vedere in lacrime. Mentre scappava, sperando con tutta se stessa che nessuno tentasse di seguirla, si chiedeva perché Fen l’aveva trattata così, perché proprio lui. Era un vero e proprio tradimento, un tentativo di infrangere i suoi sogni.

Si sedette ai piedi di un albero e mise la testa fra le ginocchia. Immaginò allora che Fen la raggiungesse e le dicesse che aveva parlato così perché era preoccupato, perché l’amava, perché voleva stare con lei. Ma chi voglio ingannare? Le lacrime iniziarono a scorrerle sulle guance. Fen ama Soana, e io sono solo una ragazzina.

Quando Fen arrivò, Nihal aveva già versato tutte le sue lacrime.

«Non volevo farti piangere.»

Lei continuò a fissare l’erba.

«Io sono il tuo maestro, e so bene che hai grandi capacità. Il fatto è che l’addestramento è durissimo. E tu sei una ragazza. Ecco tutto.»

«Lo so che sono una ragazza. Non c’è bisogno che continuiate tutti a ricordarmelo» disse Nihal senza sollevare il viso.

«Intendo dire che andrai incontro a mille difficoltà.»

«So anche questo.»

Fen sospirò. «Sei davvero sicura che è quello che vuoi?»

Nihal annuì con decisione.

«E va bene. Ti presenterò a Raven, il Supremo Generale. Gli chiederò di ammetterti. Sei contenta?»

Il cavaliere si piegò per sbirciare il suo volto stretto tra le ginocchia. «Su, non mi piace vedere le donne piangere.»

Nihal sollevò il viso arrossato e lo guardò: nel suo sorriso non c’era più quella nota di compassione. «Grazie» disse sottovoce.

Lui le porse la mano per farla rialzare e Nihal non resistette: appena fu in piedi lo abbracciò stringendosi a lui.


Il resto del viaggio fu breve: avevano buoni cavalli e in cinque giorni giunsero nella Terra del Sole. Il nome evocava nella mente di Nihal l’idea di una terra magnifica e ricca di splendori, ma quella che si trovò davanti fu una regione caotica e intensamente popolata.

Il territorio pullulava di città affollatissime, in cui le case si ammassavano una sull’altra in un dedalo inestricabile. La regione, tuttavia, era anche ricca di boschi rigogliosi, tanto che Nihal pensò che sarebbe stato il posto ideale per Phos e i suoi.

Era una terra opulenta e mostrava tutta la sua ricchezza: gli abitanti sfoggiavano abiti sontuosi e le case erano impreziosite da decori arzigogolati.

Ogni città, grande o piccola che fosse, era organizzata intorno a un imponente palazzo squadrato, sede del governo cittadino. Là si riunivano i delegati e il governatore. Davanti al palazzo si stendeva una vasta piazza, che tutti i giorni accoglieva un mercato straripante di merci. Era l’unico spazio aperto che le città della Terra del Sole conoscessero: per il resto, era un fiorire di viuzze che si dipanavano senza alcun ordine apparente, intercalate da tortuosi viali appena più ampi e piazzette che si aprivano a sorpresa tra il labirinto delle case. Ovunque stucchi dorati, statue, fontane traboccanti d’acqua e un viavai frenetico di gente.

Tutto quello sfoggio di abbondanza infastidiva Nihal, che in tempo di guerra trovava quello sfarzo fuori luogo. La povertà faceva capolino solo nei vicoli più bui, dove in misere baracche vivevano i profughi delle Terre soggette al Tiranno. Nel vederli Nihal non poteva fare a meno di pensare al suo popolo: probabilmente anche i mezzelfi erano stati costretti a vivere così prima di essere definitivamente distrutti, chiedendo l’elemosina a gente che dilapidava le proprie ricchezze incurante della tragedia che la incalzava.

Attraversarono una miriade di città, o almeno a Nihal sembrò che non finissero mai, finché giunsero a Makrat, la capitale, dove avevano sede sia il Consiglio dei Maghi sia l’Accademia dell’Ordine dei Cavalieri di Drago.

L’impressione che Nihal aveva ricevuto da quella Terra non poté che rafforzarsi: case principesche costruite senza ordine, gente che andava e veniva, profughi che assillavano i viandanti a ogni passo. Il tutto dava un senso di caos e di soffocamento.

Fen le indicò una costruzione stranamente sobria per gli standard architettonici della Terra del Sole: la sede dell’Accademia. Nihal se la fissò bene in mente. L’indomani stesso, decise, si sarebbe presentata a Raven.


Quella notte dormirono in una locanda. Le camere erano poche e per un istante Nihal sperò di poter passare la notte con Fen.

Naturalmente le toccò dividere una stanza con Sennar. Il letto era uno solo e il mago fu così costretto a passare la notte sul pavimento.

Nessuno dei due riusciva a prendere sonno.

Fu il mago a rompere il silenzio. «Dormi?»

«No.»

«Mi stavo chiedendo se da domani cambierà tutto. Se io e te finiremo per prendere strade diverse.»

Nihal sorrise. «Io non ho nessuna intenzione di perdere il mio nemico preferito. Piuttosto tu, consigliere: non sarai troppo impegnato per venire a farmi visita?»

«Tra un incantesimo e l’altro… vedrò di trovare il tempo…»

Nihal gli tirò una cuscinata.


Nihal e Fen si diressero al palazzo dell’Accademia di buon’ora, percorrendo le strade di Makrat ancora deserte.

Il cavaliere non era del solito umore. Sembrava teso e la ragazza percepì che, se fosse stato per lui, avrebbe lasciato perdere tutta quella storia assurda. Di tanto in tanto la guardava di sottecchi, ma lei continuava a camminare con decisione, concentrata su quello che stava per fare.

Nihal portava un lungo mantello nero da cui spuntava solo la spada. Un cappuccio le copriva interamente il volto. Non meno cupo era l’abbigliamento che il mantello nascondeva: corsetto e pantaloni in pelle, anch’essi rigorosamente neri. Si sentiva un’anima vendicatrice. Aveva promesso a se stessa che fino a quando l’orrore del Tiranno non fosse cessato non avrebbe smesso quella sorta di lutto.

Il palazzo dell’Accademia era una costruzione squadrata che si allungava su un ampio piazzale. L’ingresso era costituito da un enorme portone a doppio battente.

A guardia, due giovani armati di alabarda.

«Siamo qui per conferire con il Supremo Generale dell’Ordine, il sommo Raven» fece Fen.

Nihal pensò che l’impresa cominciava davvero: quanto avrebbe dovuto mettere in gioco per ottenere quel che voleva?

Una delle due guardie andò a riferire. Tornò poco dopo. «Il Supremo Generale può ricevervi. Potete attendere nel salone dell’udienza.»

Il salone mise soggezione a Nihal: abituata ai piccoli spazi di Salazar, in quell’immensa sala si sentiva piccola come un insetto. Era diviso in tre navate da due ordini di colonne: se lei avesse provato ad abbracciarne una probabilmente non sarebbe riuscita a cingerne neppure la metà. Tutto l’ambiente mirava a far sentire un nulla chi aspettava di essere ricevuto in udienza.

Dovettero attendere quasi un’ora. Nihal iniziava a innervosirsi. «Che tipo è il Supremo Generale?»

«Collerico, altezzoso, poco incline alla comprensione» tagliò corto Fen.

«Un buon inizio…» tentò di scherzare Nihal. Ma non ebbe modo di chiedere altro, perché il fantomatico Raven fece finalmente il suo ingresso.

Indossava un’armatura d’oro tempestata di brillanti. Come si fa a combattere dentro un aggeggio del genere? si chiese Nihal. Come se non fosse bastato, portava in braccio un cagnetto peloso, che vezzeggiava e carezzava di continuo.

Il Supremo Generale andò a sedersi su uno scanno in fondo al salone. «Mio buon Fen» esordì con voce affettata «è per me motivo d’orgoglio che un eroe, quale tu sei, venga a trovarmi. Ho saputo che sul fronte della Terra del Vento le cose vanno migliorando. Me ne compiaccio. La notizia della sua caduta ci aveva dato grosse preoccupazioni. È una fortuna che il nostro Ordine possa contare su

un cavaliere come te.»

Fen fece un rapido inchino. Era meglio arrivare subito al dunque. «Vi ringrazio, Generale. Mi sopravvalutate. Mi sono permesso di disturbarvi perché un mio giovane allievo mi ha chiesto di entrare a far parte dell’Ordine. Io trovo che sia molto promettente. Ecco perché ho avuto l’ardire di…»

Raven era evidentemente compiaciuto da tutta quella ossequiosità. «E hai fatto bene, mio caro Fen. Sai bene che nessuno può sperare di entrare nell’Accademia senza la mia autorizzazione. Ma se il giovane è così dotato come dici… Immagino che l’aspirante sia il ragazzo mascherato che ti sta accanto.»

Era giunto il momento di rivelarsi. Nihal fece un profondo respiro. Poi scoprì il capo. E aprì il mantello.

Espressioni contrastanti attraversarono in pochi istanti il volto del Supremo Generale: lo stupore di trovarsi davanti una ragazzetta pelle e ossa con i capelli blu e le orecchie a punta, il dubbio che quello che vedeva potesse essere illusione e infine una rabbia traboccante. Strinse convulsamente le mani sul cagnolino, che guaì preoccupato, quindi si rivolse a Fen. «È uno scherzo o cosa?» sibilò.

Il cavaliere si sforzò di apparire rispettoso ma risoluto. «Non è uno scherzo, Supremo Generale. Questa ragazza è una dei più abili spadaccini che io abbia mai incontrato.»

Raven si alzò in piedi, imbestialito. «Da te non mi sarei mai aspettato una simile sciocchezza, Fen! Condurmi qui una bambina spacciandomela per un guerriero! Hai dimenticato l’onore dell’Ordine?»

Fen ebbe la tentazione di scusarsi, prendere Nihal per un braccio e portarla via. Tutta quella situazione gli sembrava una follia, ma al tempo stesso voleva bene a quella ragazza ed era convinto del suo valore.

Fu Nihal a toglierlo d’imbarazzo. «È con me che dovete parlare.»

«E tu, chi ti ha dato il permesso di aprire bocca?»

«Sono io l’aspirante, è di me che si parla. Quindi è a me che dovete rivolgervi.»

Raven aveva il volto congestionato. Si girò verso il cavaliere. «Di’ qualcosa a questa intrigante! Non tollero la sua maleducazione!»

«Dovete credere a Fen quando dice che sono un abile spadaccino. Mettetemi alla prova.»

«Bambina, qui addestriamo i guerrieri che difendono le Terre libere. I tuoi passatempi valli a fare da un’altra parte.»

Nihal non si fece intimorire. Quello a cui mirava era troppo importante perché un generale borioso le impedisse di ottenerlo. Lo guardò negli occhi e rispose con voce sicura. «Non sono una bambina. Sono un guerriero e chiedo di essere messa alla prova. Siete solito impedire agli aspiranti di fare mostra della loro abilità?»

Raven si alzò e fece per andarsene.

Nihal alzò la voce. «Sono un mezzelfo, l’ultimo. Sono qui per combattere e vendicare il mio popolo. Non potete rifiutarmi una prova!»

Raven si voltò e la fulminò con lo sguardo. «Non mi interessa chi sei e da dove vieni. Non ci sono donne tra i Cavalieri di Drago. La discussione è conclusa.»

Il Supremo Generale si stava ancora allontanando quando nella sala risuonarono le ultime parole di Nihal. «Non me ne andrò fino a quando non mi metterete alla prova. Ve lo giuro!»

12 Dieci guerrieri.

Nihal fu inamovibile. A nulla valsero i tentativi di Fen di dissuaderla, di farla ragionare, di portarla via con sé.

«Ho preso una decisione» disse lei semplicemente.

Poi si sedette a gambe incrociate sul pavimento della sala, la spada sguainata davanti a sé, in attesa.

All’inizio la lasciarono fare: evidentemente Raven non la prendeva sul serio. Dopo dieci ore, però, arrivarono due guardie. Tentarono di portarla via di peso, ma Nihal non si fece spostare di un millimetro: un breve combattimento, ed ebbe ragione di entrambe.

Di tanto in tanto qualcuno provava ad allontanarla, ma la fine della storia era sempre la stessa: un colpo di spada e via, guardie disarmate.

Al quarto attaccò Nihal si spazientì. Con un balzo saltò sulla gamba di un’imponente statua che raffigurava un guerriero e si arrampicò agilmente fino alla grande testa: lassù nessuno poteva disturbarla.

Poco prima di mezzanotte comparve Raven. «Ancora lì, ragazzina? Vedremo che cosa farai quando avrai fame.»

«Vedrete voi di cosa sono capace quando ho preso una decisione!»

In effetti, però, quello dei viveri era un bel problema: lo stomaco aveva iniziato a brontolare già da un po’. Nihal si appoggiò con la schiena alla parete, raccolse le gambe stringendosele al petto e si assopì.

La svegliò uno strano rumore. Ritmico, insistente.

Si mise a scrutare nell’oscurità del salone, guardinga. Poi lo vide: un falchetto, comparso dal nulla, volteggiava tra le colonne delle navate.

Nihal si stropicciò gli occhi, ma il falchetto restò lì. Anzi, si diresse deciso verso di lei e quando le fu vicino le lasciò cadere in grembo un fagotto, sparendo subito dopo così come era comparso.

La ragazza aprì il pacchetto: pane, formaggio, frutta, una piccola fiasca d’acqua. E una pergamena.


Ciao, guerriera!

Quando mi hanno detto del tuo discorsetto al Supremo Generale non la smettevo più di ridere. Mi immaginavo la sua faccia. Comunque sappi che io sono con te: insisti e conquista!

Quel bietolone del tuo adorato Fen è rimasto molto impressionato dal tuo gesto: te lo dico perché so che sei così invaghita che ne sarai contenta. Soana non ha detto niente, ma si capiva che la cosa non le piaceva molto. Che ci vuoi fare, solo io ti capisco…

Dato che cercheranno di prenderti per fame, eccoti qualche vettovaglia per sopportare l’assedio.

Buon appetito e buonanotte dal tuo mago.


Seguiva, a mo’ di firma, il buffo disegnino di un mago. Nihal non poté fare a meno di sorridere e di essere grata al suo amico. E lo sarebbe stata ancora di più se avesse saputo che in quel momento Sennar aveva ben altro a cui pensare.


Il giorno stesso in cui Nihal si era recata all’Accademia, Soana si era presentata al Consiglio. La maggioranza dei membri aveva cercato di dissuaderla. Soana non si aspettava che la sua decisione venisse osteggiata, ma era stata irremovibile: aveva ripetuto che non si sentiva più in grado di sedere al suo posto e che la ricerca di Reis era molto importante. Poi aveva proposto come suo successore il suo allievo. Il consesso dei maghi aveva reagito con perplessità e Dagon, il Membro Anziano, aveva deciso di parlarne con lei in privato.

«Sennar è troppo giovane, Soana. La sua forza magica è notevole, non lo nego, ma deve maturare. Avrà tutto il tempo di diventare un mago straordinario e di servire il Consiglio al meglio. Sai bene come la fretta nell’accogliere un nuovo componente possa essere fatale.»

Ma Soana aveva insistito: «Lui può anche avere tempo, ma è il Mondo Emerso a non averne. È necessario mettere in campo tutte le forze di cui disponiamo, e Sennar è una carta vincente. L’altra è la giovane mezzelfo: per questo ti chiedo di accettare Sennar tra voi e di lasciarmi andare da Reis. Solo lei può sciogliere l’enigma legato alla vita di Nihal».

Dagon aveva riflettuto a lungo sulle parole della maga. «E sia. Farò esaminare il tuo allievo da tutti i membri del Consiglio, me compreso, e solo se tutti saranno d’accordo sulla sua idoneità verrà accettato. Per quel che ti riguarda, anche se a malincuore non posso che rimettermi alla tua volontà: ritieniti sollevata dai tuoi doveri.»

Sennar aveva iniziato i colloqui quel pomeriggio stesso. Era stato esaminato solo da due Consiglieri, ma a sera era ugualmente sfinito. Gli avevano posto domande sulla sua provenienza, sulle sue aspettative e motivazioni. La sua sapienza, accumulata in ore di studio solitario, era stata analizzata nei minimi particolari. Aveva dovuto provare la sua abilità di mago con incantesimi di ogni genere, al termine dei quali si era ritrovato stremato.

Era stato in quelle condizioni che Sennar aveva pensato alla sua amica e con le ultime forze, prima di crollare addormentato, aveva scritto la lettera e lanciato l’incantesimo sul falchetto.


I tre giorni successivi erano stati difficili sia per il mago sia per Nihal.

Sennar era stato interrogato senza sosta, mentre Nihal era rimasta appollaiata sulla testa della statua, provvedendo di tanto in tanto a difendersi dalle frecce che le guardie le lanciavano. Era indolenzita, ma continuava a resistere: era determinata a ottenere ciò che voleva. Non le interessava il prezzo da pagare.

A Makrat la voce si era sparsa in fretta: una ragazzina con i capelli blu e un paio di orecchie spropositate si era piazzata in cima a una statua nell’Accademia per ripicca contro Raven e nessuno riusciva a tirarla giù. Altrettanto in fretta una folla di curiosi aveva iniziato a radunarsi sul piazzale dell’Accademia chiedendo di poter vedere con i propri occhi quella bizzarria.

Il quarto giorno la situazione sembrò smuoversi. Verso mezzogiorno Raven in persona, in pompa magna e con il solito cagnolino in braccio, fece il suo ingresso nel salone facendosi largo tra la folla.

«Vista la tua perseveranza, ho deciso di accontentarti: domani mattina, nella piazza d’armi dell’Accademia, sosterrai la tua prova. Ora scendi. È un ordine.»

Nihal non fece una piega. «Quali sono le condizioni?»

«Dovrai battere dieci dei nostri più valenti allievi. Tutti e dieci, non uno di meno.»

Un mormorio percorse gli astanti: era un’impresa impossibile.

La reazione del mezzelfo fu inaspettata: scese agilmente dalla statua, si mise proprio di fronte a Raven e lo guardò fisso negli occhi. «Accetto. Ma voglio che voi giuriate davanti a tutti che se li batterò potrò diventare allieva dell’Accademia.»

Raven sorrise beffardo. «Hai la mia parola.»

Nihal trascorse il pomeriggio in solitudine, chiusa nella sua stanza della locanda. Stesa sul letto, la spada al fianco, guardava il soffitto. Di vagare per Makrat non aveva voglia. Sarebbe stata volentieri un po’ con Sennar, ma il mago era impegnato nei colloqui.

Pensò a lungo al giorno seguente. Pensò a Fen: avrebbe assistito alla prova e avrebbe finalmente smesso di considerarla una ragazzina.

Poi tirò fuori la pergamena. La guardò con tanta intensità che le sembrò di essere dentro la scena che vi era raffigurata. Avrebbe voluto con tutto il cuore trovare da qualche parte un altro mezzelfo per condividere con lui il peso dell’eredità lasciatale dal suo popolo. Avrebbe voluto sapere come vivevano i suoi simili, se amavano e soffrivano come lei.

Mai come in quel momento si era sentita sola. Era terribile sapere che del suo popolo non erano rimaste che quella pergamena sgualcita e lei, una ragazzina sperduta in una terra straniera.

I sogni la incitavano alla vendetta, alla guerra, ma soprattutto all’odio. E Nihal odiava: odiava il Tiranno che aveva sterminato la sua stirpe, odiava i fammin che le avevano strappato la sua famiglia, e odiava se stessa perché era sopravvissuta.


Sennar e Soana tornarono a sera. Nihal seppe da loro che Fen se ne era andato: la licenza era finita ed era dovuto tornare sui campi di battaglia. Si sentì abbattuta.

Sennar aveva un’aria stravolta, ma si consolava pensando che l’indomani, dopo l’esame di Dagon, quella tortura sarebbe finita.

«Combattere sarà duro, per carità. Ma anche la vita del mago è uno strazio» disse per scherzare, ma vide che la sua amica non era in vena.

Sennar intuiva quel che si agitava nel cuore di Nihal, e temeva per lei, ma sentiva che nessuno poteva aiutarla: tirarsi fuori dall’abisso era un compito che non poteva delegare a nessuno. Quando si salutarono la abbracciò.

«In bocca al lupo per domani.»

«Grazie. E grazie per tutto quello che hai fatto per me. Quante volte ancora mi vuoi salvare?» Nihal sorrise. «E comunque, in bocca al lupo anche a te.»

Gli era infinitamente riconoscente: perché la capiva, perché l’aiutava, perché c’era. Era il suo amico, ed era anche una delle poche cose che le fossero rimaste.


Quella notte Nihal dormì senza problemi. Si svegliò di buon’ora, riposata e sicura di sé. Prese il mantello e la spada e da sola andò all’Accademia.

Si meravigliò che parecchia gente cercasse di entrare. Le guardie lasciarono passare solo lei, ma un’ora dopo la folla che premeva sul portone d’ingresso era tale che Raven diede l’ordine di farla entrare.

Il Supremo Generale aveva scelto personalmente i dieci allievi guerrieri che si sarebbero battuti. Avevano concluso l’addestramento e sarebbero diventati cavalieri a tutti gli effetti entro breve: non aveva dubbi che avrebbero fatto un solo boccone di quella creaturina presuntuosa.

Nihal entrò nell’arena adibita alla gara. Era un enorme spiazzo circolare in terra battuta. Sul fondo giaceva una rastrelliera su cui erano disposte armi di vario tipo, mentre tutto intorno iniziavano ad ammassarsi gli spettatori: in prima fila c’erano i cavalieri nelle loro sfolgoranti armature, circondati da una turba di ragazzetti tutti vestiti con una sorta di saio marrone. Seguiva la folla di gente comune, spinta dalla curiosità e dall’ammirazione per quella strana ragazza. Poi vide entrare gli sfidanti. Erano alti e robusti, più grandi dei ragazzi in tunica: Raven li aveva scelti tutti superiori a lei fisicamente.


Il Supremo Generale si fece attendere. Quando si presentò sul piccolo palco adibito per l’occasione, rispose alle acclamazioni della folla con un sorriso accondiscendente. Pregustava già il proprio trionfo. Si rivolse a Nihal, che aveva guadagnato il centro del campo.

«Come promesso, ragazza, ho deciso di darti la possibilità di dimostrare ciò che sai fare, perché non si possa dire che ho negato a qualcuno l’opportunità di entrare all’Accademia. Spero che tu ti renda conto della concessione che ti sto facendo.»

Lei si limitò a sorridergli ironica e a fargli un inchino.

«Le regole sono queste: ciascuno combatterà con le armi di cui è in possesso. Gli scontri avverranno uno di seguito all’altro, senza pausa. Dovrai battere tutti e dieci i tuoi avversari. Vince l’incontro chi riesce a far cadere, a ferire o a disarmare l’avversario. Non ti è permesso uccidere i tuoi avversari.»

Era evidente che Raven mirava a spaventarla. Combattere senza sosta contro dieci abili guerrieri, armata della sola spada e priva di corazza, sembrava un’impresa impossibile.

Nihal si tolse il mantello e rispose con voce ferma. «Io, Nihal della torre di Salazar, ultimo mezzelfo di questo mondo, accetto le vostre condizioni, Supremo Generale.»

Tra il pubblico calò il silenzio.

Il primo avversario era una specie di gigante: alto e possente, avanzava con piglio deciso. Era armato di spada, e gran parte del corpo era difeso da una leggera armatura.

Raven alzò il braccio, lo calò e il combattimento ebbe inizio.


Il gigante menò subito su Nihal un fendente dall’alto con l’intento di spezzarle la spada, ma andò a vuoto. Nihal schivò guizzando di lato e sferrò subito il suo attacco. L’avversario non si fece cogliere alla sprovvista e senza fermarsi cercò di colpirla dal lato. Nihal si limitò ad abbassarsi. Il ragazzo si fermò un istante per ricaricare il braccio per il successivo fendente e Nihal, rapida, lo colpì al fianco con la spada. La corazza che gli copriva il petto scivolò dolcemente a terra. Il colpo aveva tranciato i lacci in cuoio. Al gigante sfuggì di mano la spada. Restò perplesso per un istante, guardando stupito il sottile segno rosso che gli segnava il petto.

Nihal piantò a terra la spada dell’avversario. «Questo è il primo!»

Un brusio d’ammirazione serpeggiò tra la folla: il combattimento era durato meno di un minuto.

Raven mascherò il proprio sconcerto. Non immaginava che quella ragazzina potesse essere tanto abile, ma volle credere che la vittoria fosse frutto di un colpo di fortuna.


Anche il secondo avversario era armato di spada e corazza. Vista la misera fine del suo predecessore, pensò di puntare non sulla forza bensì sulla tecnica e sulla velocità. Iniziò a combattere come se stesse leggendo le mosse su un manuale. Dapprima sembrò una scelta vincente. Nihal era così impegnata a rispondere colpo su colpo, che apparentemente non aveva spazio per andare all’assalto. In realtà studiava la tattica dell’avversario. Dopo alcuni minuti poteva prevederne le mosse. Lo lasciò libero di attaccarla per un po’, tanto per dargli l’impressione di avere la meglio. Quando il rivale sentì la vittoria in pugno e si lanciò in un ultimo fendente dall’alto, la mezzelfo si limitò a saltare. Con un unico gesto bloccò la spada nemica al suolo con un piede, puntando la sua al collo del ragazzo. Con un movimento della gamba fece volare in alto l’arma dell’avversario, la raccolse al volo con la mano libera e la piantò in terra come secondo trofeo.

Dalla folla si levò un timido applauso.

Raven iniziò a innervosirsi. C’era poco da dire: Nihal era brava e aveva già sconfitto due abili guerrieri, quando le previsioni erano che non ne battesse nemmeno uno.

Le cose non andarono diversamente per il terzo scontro, né per i tre successivi. Nihal sconfisse gli avversari senza difficoltà. Sei spade erano allineate sull’arena, infisse nella terra. L’entusiasmo del pubblico era via via aumentato: grida d’incitamento, applausi, urla di approvazione. Ma lei non sentiva niente: pensava solo a combattere, il corpo che si muoveva preciso schivando assalti e fendenti.


Si accorse di non avere fatto i conti con la stanchezza solo con il settimo avversario. Era quasi un adulto e la sua tecnica sembrava priva di brecce. Certo, non era veloce, ma ormai neppure Nihal era più in grado di tenere un ritmo serrato. La gara procedette a furia di parate e attacchi in una situazione di apparente equilibrio. A un tratto Nihal fece un passo falso. Un piede messo in fallo rischiò di farle perdere l’equilibrio. Fu allora che vide un lampo baluginare e un pugnale dirigersi rapido verso il suo ventre. Ebbe appena il tempo di spostarsi. Il pugnale le disegnò un ampio strappo sul corpetto di pelle. L’avversario non si diede per vinto e ricominciò ad attaccarla sia con il pugnale sia con la spada. Nihal capì che non poteva farcela. Raggiunse la zona in cui aveva conficcato le spade nel terreno. Non aveva mai combattuto con due spade contemporaneamente, ma più di una volta si era esercitata con la sinistra.

Non se la cavò affatto male. Il pubblico osservava in silenzio quella ragazza che sembrava danzare, ipnotizzato dal moto vorticoso delle spade. Anche Sennar, che aveva raggiunto l’arena dello scontro, non aveva mai visto la sua amica combattere così. Le parve forte e bella come non mai. Parata e attacco, parata e attacco, il corpo teso nello sforzo. Era incantato.

L’avversario di Nihal aveva riposto troppa fiducia nel pugnale, e ora che era stato reso inoffensivo non sapeva più che fare. Iniziò a indietreggiare, poi il pugnale gli sfuggì di mano. Nihal gettò via la seconda spada e prese a incalzarlo finché non lo disarmò del tutto.

Quando Nihal raccolse le due spade e le infisse al suolo, dal pubblico si alzò un boato.

La voce di Raven risuonò all’improvviso. «Dichiaro conclusa la prova. Sei stata ferita, ragazza. Puoi andare.»

Seguirono fischi e grida di disapprovazione.

Nihal non si scompose. Con la spada in pugno si avviò verso lo scanno di Raven e gli mostrò lo squarcio sul corpetto. «Come vedete, Supremo Generale, non mi sono fatta niente.»

Raven era furente. Quella strana creatura stava ridicolizzando i suoi allievi: sembrava non ci fossero trucchi, abilità e colpi segreti che non conoscesse.


L’ottavo avversario era armato d’ascia.

Nihal lo guardò negli occhi con aria di sfida. «L’ultimo che mi ha sfidato con l’ascia era un fammin. Gli ho staccato la testa di netto.»

Il ragazzo non si fece intimorire. «Vorrà dire che dovrò essere veloce a farti fuori.»

Iniziò il combattimento. Il guerriero colpiva per uccidere. Era dotato di una forza poderosa, ma non mancava di agilità né di tecnica. Nihal sapeva di non poter controbattere troppi colpi di ascia, così si limitava a schivare. Ma il suo avversario non demordeva: roteava l’arma in ogni direzione e la costringeva a spostarsi di continuo. La mezzelfo si rendeva conto che non avrebbe potuto sostenere quello scontro a lungo. La lama le fischiava a pochissima distanza dal corpo e alla prima goccia di sangue che fosse caduta a terra la sua speranza di entrare nell’Accademia sarebbe stata perduta per sempre. Fu allora che le venne un’idea.

Nihal iniziò a valutare con attenzione le mosse del rivale. Al momento giusto impugnò la spada con quanta forza aveva e menò un colpo sul manico dell’ascia. Il contraccolpo sui polsi fu forte, ma strinse i denti e aumentò la stretta sull’impugnatura. Quindi si abbassò di scatto.

La lama dell’ascia roteò via come impazzita, abbattendosi al suolo alcuni metri più in là. Il polso sinistro le faceva male, ma il pubblico continuava a osannarla, scandendo ritmicamente il suo nome.


L’ennesimo ragazzone alto e possente, avvolto in una robusta corazza e dotato di scudo, le si avventò contro senza neppure darle il tempo di prepararsi. I suoi assalti si susseguivano impetuosi, senza un attimo di tregua.

Il pubblico era ammutolito. Nihal indietreggiava inesorabilmente, incapace di contrattaccare. Era ormai prossima a toccare con le spalle la rastrelliera delle armi. Decise per un gesto disperato: si avvicinò alla rastrelliera e restò ferma per un istante. Convinto di avere la vittoria in pugno, il suo nemico mise tutta la forza nell’ultimo colpo. Nihal fu veloce come il lampo a piegarsi in basso, mirando con la spada al basso ventre del nemico, che per un breve tratto era scoperto dalla corazza.

Il trucco non funzionò del tutto: la spada del ragazzo si incastrò nella rastrelliera, ma quella di Nihal finì per conficcarsi nello scudo prontamente abbassato. Si trovavano in una posizione di stallo. Quando il suo avversario si accinse a estrarre l’arma, Nihal lo colpì con violenza con un calcio. Il ragazzo cadde rovinosamente a terra mentre lo scudo gli sfuggiva di mano, liberandosi dalla morsa del cristallo nero di Nihal. Anche la penultima spada venne conficcata nel terreno tra gli applausi entusiasti degli astanti.


Nihal si sentiva sfinita: non aveva più risorse fisiche, e anche quelle mentali iniziavano a vacillare. Non avrebbe mai immaginato che combattere potesse prostrarla tanto. Poi si rese conto del boato della folla: presa dalla foga del combattimento, non aveva fatto caso a ciò che la circondava. Ora, però, capì che quello che fino a quel momento le era sembrato un confuso vociare era un incitamento ritmato. Tutti i presenti scandivano il suo nome.

Lei era forte, imbattibile, nulla poteva ostacolare la sua volontà: questo le urlava la folla, e lei ci credette. Alzò in alto la spada e il pubblico si lasciò andare a un grido d’entusiasmo.

Mentre Nihal riguadagnava il centro dell’arena vide di sfuggita Sennar. Il suo amico era lì, non l’avrebbe mai abbandonata, tutto sarebbe andato bene. Gli sorrise e per un attimo le sembrò che il mago le rispondesse.

L’ultimo contendente avanzò con piglio deciso e Nihal sentì una fitta di paura. Non era certo il più impressionante dei nemici che aveva combattuto, ma lo sguardo di quel ragazzo era inquietante. I suoi occhi erano talmente chiari che l’iride sembrava inesistente, e il suo colore sfumava nel bianco della cornea.

Nonostante il dolore al polso Nihal strinse la presa sulla spada. L’avversario si fermò davanti a lei. Sembrava non avere armi. Poi mosse con rapidità un braccio e una lunga frusta nera si adagiò al suolo come un serpente. Nihal non aveva mai visto un’arma del genere. Si preparò allo scontro ma, quando la frusta le guizzò a un niente dal volto per poi ricadere inerte al suolo, impallidì.

«Posso farti a fette quando voglio, ragazzina.»

La frusta guizzò di nuovo a pochissima distanza. Nihal non riusciva a vederla arrivare. Giocava intorno al suo corpo, divertendosi a sfiorarla senza mai colpirla.

«Ricordati il mio nome: Thoren, della Terra del Fuoco. Perché sarò io a ridurti in brandelli.»

Il cerchio disegnato dalla frusta le si stringeva attorno, sempre più preciso e stretto.

Allora Nihal chiuse gli occhi.

Per un attimo fu il buio assoluto, ma presto il nulla si popolò dei sibili della frusta e il suo udito, non più ostacolato dalla vista, poté correrle in aiuto. Ora sentiva i colpi. Capiva da dove provenivano. Iniziò a pararli con precisione meccanica.

Il ragazzo mirava alle gambe, cercando di farle perdere l’equilibrio, ma lei parava e saltava, schivava e volteggiava evitando ogni colpo. La distanza però era troppa. Nihal era bloccata sulla difensiva, non aveva speranza di attaccare.

Poi la frusta iniziò a guizzare più vicino al corpo del suo nemico. A Nihal sembrò un miracolo. Si avvicinò sempre di più, tanto da sentirne l’odore. Odore di lotta, odore di guerra.

Le bastò un colpo per tagliare di netto la frusta del suo avversario. Ma il sorriso di trionfo le morì sulle labbra: attorno alla sua spada era avvolta una catena di ferro. Il ragazzo gettò a terra il moncherino di frusta. Poi le rivolse un ghigno gelido.

«Manchi di esperienza, ragazzina. E per questo morirai.»

Nihal si sentì perduta, ma non volle dare la soddisfazione della vittoria al suo rivale. «Parli troppo: in battaglia solo chi ha vinto può permettersi di perdere tempo in discorsi.»

«Io ho vinto.» Thoren estrasse una spada da un fodero che gli pendeva al fianco. «Vengo io a prenderti o vieni a morire da sola?»

Nihal iniziò a tirare la spada, ma la morsa della catena era forte.

«Ho capito: il pesciolino che ha abboccato non vuole collaborare…»

Thoren era più possente del previsto. Nihal puntò i piedi per non essere trascinata. Il polso le doleva da impazzire, non c’era nulla che potesse fare.

Dall’alto del suo scanno Raven si godeva ogni istante di quel drammatico tiro alla fune che portava Nihal alla morte.

«Risparmiala!», «Ha combattuto lealmente!», «Che sia ammessa all’Accademia!» urlava il pubblico.

Ma Thoren voleva il suo sangue. «Finiamola con questo stupido gioco.»

Nihal vide se stessa stesa a terra, morta. Gli occhi le si riempirono di lacrime e l’assalì una rabbia incontrollabile. Morire lì non aveva senso. Tutta la sua vita fino a quel giorno non avrebbe avuto senso, e con essa la vita di un intero popolo.

Il ragazzo impresse un tremendo strattone alla catena.

Fu allora che Nihal agì: sfruttò la potenza di quello strappo e si lanciò in avanti con la forza della disperazione. Thoren non fece in tempo a capire: il mezzelfo gli piombò addosso e la spada nera gli trapassò il braccio da parte a parte.

Entrambi caddero rovinosamente al suolo e una macchia di sangue si allargò sotto i loro corpi. Poi, lentamente, Nihal tentò di alzarsi. Doveva rimettersi in piedi o non avrebbe vinto.

Malsicura sulle gambe raggiunse il centro dell’arena, levò il volto imbrattato di polvere verso Raven e lo guardò con orgoglio.

Quella ragazza era assolutamente fuori dall’ordinario. Il sommo Raven, Supremo Generale, fu costretto a capitolare. «Hai accesso all’Accademia, ragazza.»

Il pubblico esplose in grida di giubilo.

«Ma aspetta a cantare vittoria. La vera sfida comincia ora.»

La gente circondò Nihal. Centinaia di mani iniziarono a toccarla, ad accarezzarla, a darle pacche amichevoli sulla schiena. Ma la ragazza non si reggeva più in piedi. Si accasciò al suolo come un sacco vuoto.

Quando Sennar la raggiunse, facendosi largo tra la selva di persone, Nihal gli si strinse contro e un sorriso illuminò il suo viso stanco.

13 L’Accademia dei Cavalieri.

Sennar portò Nihal in braccio fino alla locanda. La vegliò per tutto il tempo: il ricordo dei giorni in cui aveva rischiato di morire era ancora vivo e lui era preoccupatissimo.

Ma Nihal dormiva beatamente, sognando a tratti di essere un Cavaliere di Drago, a tratti il suo Fen.

Si svegliò il mattino seguente, quando un sole gagliardo andò a dirle buongiorno direttamente sul cuscino. Si stiracchiò, si mise a sedere e, dopo lungo tempo, si sentì quasi serena.

«Certo che essere tuoi amici è faticoso: tu rischi la vita un giorno sì e l’altro pure!»

Nihal sorrise all’amico. Poi una fitta all’addome la riportò alla realtà.

«Ce l’ho fatta?»

«Sì.»

«Sono nell’Accademia?»

«Ti ho detto di sì!»

«Sono stata ferita?»

«Niente di che. Hai un polso mezzo rotto e per poco non ti facevi bucare la pancia. Bazzecole. E ora a cuccia, guerriero. Devo continuare con la formula.»

Nihal lasciò che Sennar le alzasse la veste e le posasse le mani sull’addome e sul polso.

Non era la prima volta che il mago le praticava incantesimi di guarigione, ma il contatto con la pelle di lei aveva qualcosa di nuovo.

«Sennar! Ma cosa fai, diventi rosso?»

Il mago cambiò discorso. «Ho saputo in giro che il nostro Supremo Generale ha giocato sporco. Il tuo ultimo avversario non era un allievo ma un mercenario pagato da Raven. Comunque, per la cronaca, gli hai quasi staccato un braccio.»

Nihal restò impassibile. D’un tratto non desiderava altro che iniziare l’addestramento: ogni minuto le sembrava sprecato.

«Quando potrò entrare in Accademia?»

«Quando vorrai. Anche se non credo che Raven sia impaziente di vederti.»

Nihal sbuffò. «È un problema suo.»

Sennar terminò di medicarla, poi la guardò serio. «Senti, devo dirti una cosa…»

«Che c’è?»

«Be’, io… sono membro del Consiglio. Ecco.»

Alla notizia Nihal quasi saltò sul letto. Era entusiasta. «Grande Sennar! Fantastico! Siamo una coppia di vincenti! Non siamo ancora adulti e abbiamo già realizzato i nostri sogni!»

«Aspetta, aspetta. Non è così fantastico…»


Sennar le raccontò che dopo le infinite prove a cui era stato sottoposto, dopo i colloqui, gli incantesimi e un’interminabile seduta segreta tra Dagon e Soana, il Membro Anziano aveva finalmente deciso di parlargli.

Lo aveva invitato nel suo studio, uno stanzone circolare completamente in pietra, traboccante di libri di ogni tipo, e l’aveva fatto sedere su un seggio di marmo al centro della stanza.

Sennar si era improvvisamente sentito un ragazzino. Aveva pensato che probabilmente era quello lo scopo di Dagon: farlo sentire piccolo e umile. Si sbagliava.

«Dopo aver vagliato con attenzione le tue capacità e le tue intenzioni siamo giunti a una decisione.»

Il mago aveva le mani che gli tremavano.

«Ti reputiamo degno di entrare nel Consiglio, Sennar. Prenderai il posto di Soana.»

Sennar aveva già aperto la bocca per ringraziare e dire che per lui era un onore, che avrebbe servito al meglio gli interessi del Mondo Emerso e ogni altro genere di stupidaggine formale che potesse venirgli in mente in un momento come quello, ma Dagon lo aveva zittito con un cenno.

«Attenzione, però. Un consigliere non è semplicemente un mago, e non è neppure soltanto un mago potente. Egli è un saggio, un politico, un governante: dalle sue decisioni dipende il futuro di molta gente. Tu per ora sei un promettente mago privo di esperienza. Prima di te solo il Tiranno aveva avuto accesso al Consiglio in età così giovane, dunque capirai perché io abbia tentennato tanto prima di darti questa possibilità. Per un anno seguirai gli insegnamenti di un membro del Consiglio: ti insegnerà i compiti di un consigliere e valuterà il tuo operato. Per i primi sei mesi sarò io il tuo maestro: andremo sul fronte della Terra del Vento, in modo che tu impari cosa deve fare un consigliere in guerra. Gli altri sei mesi li passerai in pace, qui nella Terra del Sole, poiché un consigliere deve imparare ad agire anche in tempi tranquilli. Su questa Terra ha giurisdizione Flogisto: sarà lui a guidarti. Infine, ogni mese parteciperai alle riunioni. È tutto. Benvenuto nel Consiglio dei Maghi.»


«Ma allora… te ne vai…» mormorò Nihal.

Sennar abbassò gli occhi. Avrebbe voluto dirle che quella separazione pesava anche a lui, che tutto quello che voleva era stare con lei, sempre, e liberarla dai fantasmi che la tormentavano, ma non una di quelle parole gli uscì dalle labbra. «È mio dovere.»

«E Soana?»

«Voleva aspettare che tu ti svegliassi per salutarti. Penso che partirà questo pomeriggio.»

Nihal si alzò di scatto e agguantò la sua spada.

«Ehi, dove credi di…»

«Vado a esercitarmi.»


Un attimo dopo era già fuori. Non sapeva neppure lei dove andare e la confusione della città la fece sentire ancora più isolata. Corse finché non si trovò di fronte a un ampio belvedere che dava su un bosco. Oltre la linea dell’orizzonte si stagliava netto il profilo terribile della Rocca del Tiranno.

Si sedette sul parapetto, il vuoto sotto ai piedi. Si disse mille volte sciocca per come si sentiva, per la sensazione di solitudine che iniziava a invaderla: Sennar lontano in mezzo al fragore delle battaglie, Soana persa dietro all’immagine di Reis e lei in quella terra chiassosa e pacchiana, sola con la sua spada.

Guardò la Rocca: quell’edificio nero era un mostro che divorava lentamente la sua vita.

Non devi aver paura. Che importa se sei sola? Sei un guerriero, ora. Devi solo pensare a combattere e a distruggere il Tiranno.

Rimase per un pezzo a contemplare l’orizzonte dall’alto.

Decise che sarebbe entrata in Accademia quel giorno stesso.


Quando tornò alla locanda, Soana era pronta alla partenza. La stava aspettando e a Nihal sembrò bella e ieratica come sempre.

La maga la strinse a sé. «È anche per te che faccio questo viaggio. So che sei forte, e andrai avanti per la tua strada nonostante tutto.»

Anche se non era lei a partire, Nihal si sentì come una figlia che lascia la sua casa per andare via. Capiva che quello era un addio più che un arrivederci.

«Grazie, Soana» fu tutto quel che riuscì a dire.

Poi Soana abbracciò il suo allievo. «Spero che svolgerai il tuo compito meglio di me, Sennar.»

«E io spero che ci rivedremo presto. E che per allora sarò diventato degno delle tue aspettative.»

La maga rivolse ai ragazzi un ultimo sorriso, poi si incamminò senza voltarsi. Una parte della vita di Nihal e Sennar si allontanò con lei su quella strada.


Quando Soana fu un puntino all’orizzonte, Nihal si rivolse all’amico. «Accompagnami all’Accademia, Sennar.»

«Di già? Aspetta almeno che io parta, così stasera staremo insieme…»

Ma Nihal aveva deciso. «No. Scusami. Non ce la faccio a vedere che te ne vai anche tu. E poi non ha senso rimandare.»

Attraversarono Makrat, caotica più che mai. Benché camminassero affiancati, si sentivano già lontani mille miglia. Non si scambiarono una parola finché non giunsero al portone. Nihal aveva con sé solo una bisaccia, un vestito e la pergamena del suo popolo. Al fianco le brillava la spada nera.

«Non è un addio, Nihal. La Terra del Vento non è così lontana. Verrò da te ogni mese, te lo giuro.»

Nihal non rispose.

Calò un silenzio imbarazzato. Per un po’ i due amici rimasero con lo sguardo fisso a terra, poi Sennar prese a parlare precipitosamente.

«Devi tenere duro, non devi mollare. So cosa stai passando, ma devi avere coraggio. Io sarò lontano, ma sono sempre con te. Sempre.»

«Anch’io sarò sempre con te.» La voce le si ruppe. «Non mi dimenticare.»

«Non lo farò.»

Nihal diede a Sennar un rapido bacio su una guancia e si accinse a entrare.

La sentinella la riconobbe subito. «Non ti attendevamo tanto presto. Entra.»

Poi la porta si spalancò e Nihal venne inghiottita dal buio.


Camminò fino al salone delle udienze. Non si aspettava di essere accolta dal Supremo Generale in persona. La sentinella che era con lei le diede una botta sulla schiena e la costrinse a inginocchiarsi. Nihal fece una smorfia.

«Abituati, ragazza. D’ora in avanti dovrai sempre dimostrarmi obbedienza» le disse la guardia.

Raven lasciò il suo scanno e iniziò a passeggiare per il salone, il solito cagnolino fra le braccia. «Insomma ce l’hai fatta. Immagino quanto questo ti inorgoglisca, ti faccia sentire grande e importante… Ebbene, il tuo sarà un breve trionfo. Qui la tua vita non sarà affatto semplice. Io non dimentico chi mi ha messo in imbarazzo, e tu l’hai fatto. Purtroppo devo ammettere che sei un guerriero fuori dell’ordinario. Ma questo non ti faciliterà le cose. Dovrai provare chi sei e quanto vali in ogni momento della tua permanenza qui dentro. E se cadrai a terra, sappi che io sarò sempre pronto a calpestarti.»

Raven tacque per un momento.

«Lahar ti condurrà per la scuola, e ti dirà ciò che devi sapere» concluse sbrigativo. Quindi voltò la schiena a Nihal e se ne andò.

Lei si rimise in piedi. Non credere di avermi spaventata, pensò.

Alle sue spalle era comparso dal nulla un tizio allampanato.

«Seguimi, ragazzina.»


Percorsero un lungo corridoio, la cui altissima volta terminava in un vertiginoso sesto acuto. Sembrava interminabile e buio come la morte. Sbucarono in un enorme salone vuoto.

Lahar trattava Nihal con sufficienza.

L’ostilità nella sua voce era palese.

«Questa è l’arena dei principianti: chi arriva all’Accademia deve prima imparare a maneggiare la spada, poi può passare alla pratica delle altre armi. Ci sono molti saloni come questo, ognuno dedicato a tecniche diverse di combattimento: un Cavaliere di Drago deve saper maneggiare ogni tipo di arma. Oggi non c’è nessuno perché gli allievi hanno un giorno di riposo a settimana. Ma questo non ti riguarda: tu non ne hai diritto.»

Attraverso un altro dedalo di corridoi giunsero in un’arena scoperta.

«Qui gli allievi più anziani prendono confidenza con i loro draghi. Forse questo posto non lo vedrai mai.» Lahar fece una risatina sarcastica.

Nihal non riuscì a trattenersi. «E come mai, di grazia?»

«Non rivolgerti a me con quel tono! Dopo il primo addestramento gli allievi devono provare di aver ben appreso combattendo la loro prima battaglia da fanti. E ti assicuro che i fammin non fanno alcuna distinzione tra ragazzine e uomini.»

«Conosco i fammin. Ne ho ucc…»

«Silenzio! Abituati a parlare solo quando sei interrogata!»

Visitarono poi il refettorio, dove erano disposte in ordine perfetto decine di banchi, quindi raggiunsero una lunga infilata di stanzoni, ciascuno con una ventina di letti. Il dormitorio era spartano: ogni branda aveva accanto un rozzo tavolino dove l’allievo poteva appoggiare i propri effetti personali. Quello era tutto l’arredamento.

Lahar accompagnò Nihal fino a uno stanzino buio e puzzolente di muffa. Per terra c’era un po’ di paglia a mo’ di giaciglio. Una feritoia faceva filtrare una lama di luce.

«Tu dormirai qui, visto che sei una donna.»

Nihal guardò l’insieme con un misto di disgusto e scoramento. «Non c’è aria…»

«Ti aspettavi una reggia? All’Accademia si viene per imparare a combattere, non in villeggiatura. Ora ascolta bene, perché non ho intenzione di ripetere. Ogni mattina ci si leva al sorgere del sole e si fanno le esercitazioni con le armi. Dopo il pranzo, che avviene a mezzogiorno in punto, si studiano teoria e strategia. La cena è al tramonto. Terminata la cena ci si ritira. Dopo il calare del sole non è permesso circolare per l’Accademia. Ti è concesso un giorno di riposo al mese. Finché non avrai finito il tuo primo addestramento devi indossare l’abito degli allievi. Poi sarai affidata a un Cavaliere di Drago. Le regole che dovrai seguire allora saranno quelle dettate dal tuo maestro. Questo è quanto. Fino a domani mattina non hai impegni, ma ti consiglio di startene buona qui. Buon soggiorno.»

Lahar fece per andarsene.

«Ah, dimenticavo. Agli allievi non è permesso possedere armi. Dammi la spada.»

La ragazza strinse la presa sull’elsa. «Sono sicura che per me farai uno strappo alla regola.»

«Per una sgualdrinella mezzosangue? E perché mai?»

Un attimo dopo Nihal puntava la punta di cristallo nero alla gola di Lahar. «Forse non ti hanno informato: mi sono guadagnata l’ingresso in Accademia battendo i dieci migliori allievi… e il mio diritto a vivere uccidendo due fammin nella Terra del Vento.»

L’uomo iniziò a sudare. Conosceva bene tutta la storia. La guardò con odio, sputò per terra e se ne andò sbattendo la porta.

Nihal rinfoderò la spada. Le mancava l’aria.

Provò ad affacciarsi, ma dalla feritoia non si intravedeva che uno spicchio caotico di Makrat.

Si gettò sul mucchio di paglia e guardò il soffitto.

Cercò di fantasticare sulle sue future avventure di guerriero, ma il tentativo fu misero.

Allora pensò a Livon, e toccò il fondo della disperazione.


Si svegliò all’improvviso, destata da un clamore inatteso. Non pensava di essersi addormentata. I rumori venivano dalle camerate.

Nihal si stava alzando quando vide l’uscio dello stanzino socchiudersi lentamente.

Era molto buio, perché nel frattempo era giunto il tramonto. Quando la porta fu aperta, Nihal distinse una sagoma tozza che avanzava zoppicando.

«Chi è?» domandò allarmata.

La figura si arrestò. «Niente di male, niente di male. Qui buio, vuoi luce magari. Io entra, porta luce. Lahar mi ha detto. Non temere, non temere.»

L’essere aveva una voce stridula e lamentosa. Si fece avanti e iniziò ad accarezzarle un braccio.

Nihal scattò in piedi. «Cosa vuoi da me?»

«Niente di male, porta luce per te, così vedi. Chiama per cena, anche.»

Finalmente Nihal lo vide.

Non aveva nulla di umano: era basso e grasso, la testa completamente calva, una gamba di legno. Nel suo corpo non c’era niente di simmetrico. Faceva l’impressione di una bambola di pezza vecchia e rotta. Sul volto si alternavano malizia e servilismo. Aveva in mano una torcia.

«Niente di male, niente di male…»

«Ho capito, piantala! Chi sei?»

«Malerba, servo qui. Niente di male, non temere…» e già allungava di nuovo la mano.

Nihal si ritrasse inorridita: il contatto con quell’essere la disgustava. «Grazie per la luce. Non mi serve più niente. Vattene.»

Malerba fece una faccia contrita e si ritirò camminando all’indietro come un gambero, senza smettere di guardarla.

Nihal appese la torcia al muro. La luce la calmò. Quell’apparizione l’aveva inquietata: le sembrava di avere ancora gli occhietti di quell’essere deforme appiccicati addosso. Decise di andare in refettorio per scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione.


La sala della mensa era piena di ragazzi vocianti seduti ai tavoli.

La vista di suoi coetanei rallegrò un poco Nihal e le fece pensare che in fondo non era davvero sola. Si avviò verso i tavoli, alla ricerca di un posto vuoto.

Alla sua vista la sala ammutolì.

Nihal rallentò il passo. Non capiva.

Molti occhi erano puntati su di lei: occhi stupiti, spaventati, minacciosi, diffidenti. Non le era mai capitato di sentirsi scrutata in quel modo.

Si avvicinò a un posto vuoto. Il ragazzo che sedeva accanto vi pose subito la mano sopra. «È occupato.»

Nihal cercò altrove, ma ovunque andasse la risposta era la stessa: “occupato”.

Poi, nel silenzio del refettorio, tuonò una voce: «Perché sei vestita così, mezzelfo?».

Nihal si guardò intorno. Su una pedana, appartati rispetto ai ragazzi, sedevano i maestri.

«Come dovrei essere vestita?»

«Sei un allievo, o almeno così dicono» disse con un sorriso acido l’uomo che parlava «dunque devi portare i vestiti degli allievi.»

In quell’immensa sala, circondata dall’ostilità, Nihal sentì di aver perso tutta la sua forza. «Nessuno me li ha dati…» si scusò.

«Allora non dovevi scendere. Lahar non ti ha spiegato le regole?»

«Sì, ma io…»

«Rimedierai alla tua mancanza con un turno di guardia fino all’alba. Per quel che riguarda i vestiti, te li porterà più tardi Malerba.»

Qualcuno tra i ragazzi rise.

«Ora siediti e mangia.»

Anche i ragazzi ripresero a mangiare.

Nihal si avviò verso l’ultimo posto che le sembrava disponibile. Non ebbe neppure il tempo di chiedere.

«Niente mostri né femminucce» le disse truce un ragazzetto.

Nihal si allontanò. Che cosa significava quell’uscita? Il Mondo Emerso era pieno di razze: ninfe, folletti, gnomi, uomini. Che cosa voleva dire che non c’era posto per i mostri?

Cresciuta in una terra meticcia, a Nihal non era mai pesato il fatto di essere diversa. Ma lì, tra l’elite degli uomini, sembrava uno scherzo di natura.

Si sedette in un posto isolato, lontano da tutti, e mangiò in silenzio, il cuore pieno di amarezza.


Dopo cena tornò nel suo bugigattolo in fretta, cercando di non farsi notare troppo. Sulla soglia l’attendeva Malerba, un fagotto informe in mano, il suo sorriso ebete in faccia.

Nihal prese i vestiti senza guardarlo, ma quello già stava per varcare la soglia.

«Puoi andare» scattò Nihal.

Il servo fece di nuovo una faccia mortificata e si allontanò.

Nihal si chiuse dentro. Sapere che fuori c’era quell’essere ad attenderla la faceva impazzire. Incastrò con furia la spada di traverso nella chiusura della porta in modo che nessuno potesse entrare, che fosse Malerba o uno di quei boriosi allievi che l’avevano umiliata.

Fu sola. La luce della fiaccola tremolava pallida, e stagliava più netti i contorni di quello stanzino, che ora sembrava davvero una cella.

Prese i vestiti: erano composti da un paio di brache e da una larga casacca di tela. Li buttò in un angolo e si distese sulla paglia con i suoi abiti. Oltre la porta sentiva il vociare degli altri allievi inframmezzato da risate. Lei ne era esclusa.

Per la prima volta ebbe la profonda consapevolezza di non essere umana. Era una straniera lì, nessun altro era come lei. Era l’Ultima, una cosa vecchia che apparteneva a un’epoca passata.

Che ci faceva là? I mezzelfi erano tutti morti, il suo posto non era fra i vivi. Non erano pensieri nuovi, ma ora erano legati a una sensazione che quella sera aveva provato sulla sua pelle: era una diversa.

Pianse a lungo, cercando di soffocare i singhiozzi e asciugandosi con rabbia le lacrime, che si strappava dal volto con il dorso della mano. Si assopì piangendo.

Prima dell’alba qualcuno cercò di forzare la porta. Nihal si svegliò di soprassalto, impaurita. «Chi è là?»

Dall’esterno giungeva la voce indistinta di Malerba: parlava di guardia, di turni. Nihal si ricordò della punizione e si accorse che il senso di umiliazione non era passato.

Si vestì in tutta fretta. La casacca era larga e la infagottava, facendola sembrare ancora più piccola. Prese la spada e il mantello e uscì.

Al vederla Malerba si illuminò e le mise una mano sul braccio. «Portone, lì aspettano…»

«Non toccarmi!» ringhiò la ragazza.

Al portone d’ingresso dell’Accademia Nihal trovò ad attenderla una guardia insonnolita.

«Ti è andata bene, mancano solo due ore all’alba» le disse, quindi sbadigliò.

Era quasi cortese, ma non appena la riconobbe alla luce della torcia non mancò di guardarla con astio.

Nihal prese in consegna la lancia del suo predecessore. Il freddo era pungente. Quei panni assurdi che le avevano dato non riscaldavano nemmeno un po’; se non fosse stato per il suo mantello sarebbe morta congelata. Rabbrividì. Gli occhi le si chiudevano. Non c’era che dire: un ottimo inizio.


Il resto della giornata non fu migliore.

Mangiò da sola come la sera precedente, quindi andò nella sala in cui si svolgeva l’addestramento. Molti ragazzi avevano già iniziato e notò che erano organizzati per gruppi. Si stava guardando intorno, cercando quale potesse essere il suo, quando un uomo le fece cenno di avvicinarsi.

«Tu devi essere la nuova allieva. Sono Parsel, il tuo maestro. Vieni.»

Nihal lo seguì fino a uno spiazzo dove erano radunati alcuni ragazzini, tutti approssimativamente della sua età.

«Questa è la nostra squadra più giovane. Qui si imparano i primi rudimenti della spada e le tecniche fondamentali.»

Nihal rimase incredula «Come i primi rudimenti? Io sono stata accettata all’Accademia perché ho sconfitto dieci dei migliori spadaccini di questo posto!»

«Davvero? Be’, a me è stato ordinato di insegnarti, perciò starai qui con noi.»

Nihal non voleva arrendersi. «Va bene, allora combattiamo! Così capirai qual è il mio livello e saprai dove mandarmi.»

Stava già per sguainare la spada, ma Parsel la bloccò. Iniziava a irritarsi. «Senti, ragazzina. Per me è già abbastanza esotico che una donna impari a maneggiare la spada, quindi ti consiglio di abbassare la cresta e di fare quel che ti dico.»

Nihal si arrese.

Dovette ascoltare per tutta la mattina cose che già sapeva ed esercitarsi come una novellina, disarmando puntualmente il ragazzetto di turno che si allenava con lei.

Pensò a come aveva immaginato la sua vita all’Accademia.

Paragonò i suoi sogni a quella realtà.

L’assalì la tristezza.

14 La recluta Nihal.

Quel giorno non fu che il primo di una lunga serie di giorni tristi, segnati dal grigio dell’inverno che calava sulla Terra del Sole e dalla solitudine.

La consuetudine non cambiò l’atteggiamento degli altri allievi nei confronti di Nihal. Era una donna, aveva un aspetto bizzarro e a poco a poco tutti cominciarono anche a temerla.

Più il tempo passava più Nihal mostrava le sue capacità, e la storia del modo in cui si era conquistata l’accesso all’Accademia si diffuse anche tra coloro che mai l’avevano sentita.

Iniziò a girare voce che fosse una specie di strega, discendente di una razza malvagia dedita alle stragi e alla guerra. Qualcuno insinuò addirittura che fosse una spia inviata dal Tiranno in persona per distruggere l’Accademia dalle fondamenta. Il risultato di quelle dicerie fu che tutti si tenevano alla larga da Nihal: quando attraversava i corridoi i ragazzi si aprivano in due ali e accompagnavano il suo passaggio con mormorii ostili e sguardi di riprovazione.

Il timore nei suoi confronti fu acuito da un episodio.

Capitava spesso che, nottetempo, i ragazzi arrivassero fino alla sua porta, fuggendo non appena la sentivano muoversi.

Una sera, immersa nel consueto sonno agitato, Nihal non si accorse che qualcuno era riuscito a entrare. Mentre dormiva i volti supplichevoli che popolavano il suo incubo le si fecero tanto vicini che le sembrò di soffocare.

Poi si sentì toccare.

Chino su di lei c’era Malerba, con un orrido sorriso sul volto, intento a carezzarla biascicando un’incomprensibile litania.

Nihal strillò, agguantò la spada e gliela puntò alla gola.

Il servo scoppiò in lacrime implorando perdono, ma Nihal era furente. Lo afferrò e lo trascinò fuori, dove si era radunata una piccola folla di ragazzi assonnati. Alla vista di quella furia con la spada in mano, indietreggiarono tutti.

«Guardate bene, bastardi! Questo è quello che succede a chi cerca di farmi del male!»

Poi passò la lama sulla gola di Malerba, che strillava come un maiale. Gli fece solo un graffio, ma da quella sera il viavai davanti alla sua stanza cessò per sempre.


Le notti di Nihal non erano comunque tranquille.

La solitudine e l’astio da cui era circondata la fecero sprofondare sempre di più nei suoi incubi. Non passava notte in cui i volti dei mezzelfi non la perseguitassero. Si svegliava terrorizzata e la visione di quella stanza, anziché calmarla, l’agitava. Si sentiva chiusa in una bara. Allora si metteva seduta, le braccia intorno alle ginocchia, e guardava lo spicchio di cielo che si intravedeva dalla feritoia sforzandosi di scacciare l’angoscia.

Ma la notte successiva ricominciava tutto daccapo.

Il pensiero di vendicare suo padre e il suo popolo si fece sempre più ossessivo. Il dolore la indurì. All’inizio aveva sofferto per l’odio dei suoi compagni, ma finì per abituarcisi e, con il passare del tempo, ad amarlo. La paura degli altri allievi le piaceva.

Sennar non andò a trovarla il primo mese, né il secondo, né il terzo.

Nihal aveva un bisogno disperato di parlare con lui, di sentirsi dire ancora una volta che tutto andava bene, che la notte sarebbe passata. Ma ricevette solo un messaggio laconico, arrivatole con il falchetto che ormai aveva imparato a riconoscere: “Sono morto di stanchezza, non ho un attimo di pausa, ma sto bene. Non ti ho dimenticata”.

Nihal diventò un essere cupo e taciturno.

Si gettò anima e corpo nello studio.

Il suo modo di battersi si fece sempre più rabbioso e violento.

E lei sempre più abile, veloce, spietata.


Parsel, il maestro di spada, aveva capito le potenzialità di Nihal e soffriva a vederla sacrificata in mezzo a quei ragazzini che non sapevano neppure maneggiare un’arma.

Un giorno la prese in disparte. «Ho visto come ti muovi, come combatti. Sei brava, Nihal.»

Lei lo guardò sospettosa: non sapeva se fidarsi. Quel discorso poteva significare tutto e niente.

«Hai già avuto esperienze di guerra?»

Nihal gli raccontò delle lezioni di Livon e di Fen, dell’uccisione dei tre fammin, due a Salazar e uno ai confini della Terra del Vento.

«L’avevo immaginato. Allora non raccontavi frottole, il primo giorno!»

Il maestro le sorrise e Nihal, che manteneva sempre un atteggiamento fiero e composto, abbassò gli occhi.

Parsel era convinto che sarebbe stato più proficuo che si addestrasse nell’uso delle armi di cui era totalmente digiuna.

«Ho proposto a Raven di lasciarti iniziare con le altre tecniche di combattimento, ma per il momento la mia richiesta non ha dato risultati.»

Nihal sospirò. In pochi istanti aveva visto la porta della sua prigione aprirsi di uno spiraglio e poi subito richiudersi.

«Quell’uomo mi odia…»

«Non devi parlare così del Supremo Generale. Tu non l’hai conosciuto quando combatteva. Era un guerriero straordinario. Ora si è infiacchito nel comando ma, credimi, nel profondo è ancora un valoroso. Sa riconoscere un guerriero. Non appena gli proverai quanto vali in battaglia, cambierà idea. Perché la guerra è tutt’altra cosa da quel che si fa qui dentro.»


Quando Parsel le propose di addestrarla all’uso della lancia fuori dall’orario delle lezioni, Nihal si sentì come liberata da una lunga prigionia. Combattevano quasi ogni sera, e lei poteva finalmente utilizzare al massimo la sua abilità. L’uso della lancia, poi, la entusiasmò: imparò a combattere corpo a corpo e a portare assalti da cavallo. Tutte quelle novità la facevano sentire di nuovo viva.

Parsel, da parte sua, aveva preso a cuore il destino di quella ragazza: la apprezzava per la sua incrollabile dedizione e per la tenacia, ed era sempre più stupito del suo talento.

Intuiva però in lei una profonda tristezza, insolita in una persona tanto giovane. Proprio lui, che non aveva mai avuto affetti o famiglia perché si era sempre dedicato solo alla guerra, sentiva per quella ragazzina un senso di protezione quasi paterno.

I due giunsero a una strana intimità.

L’unica forma di comunicazione che li legava era il combattimento.

Parlavano con le armi: Nihal era chiusa, schiva, e l’unico modo in cui permetteva ai suoi sentimenti di emergere era lo scontro.

Il maestro aveva imparato a leggere nei movimenti dell’allieva i suoi stati d’animo e le rispondeva, cercando di incrinare la barriera di risentimento che Nihal aveva eretto intorno a sé.

Non furono mai propriamente amici. Solo una volta Nihal gli fece una confidenza: una sera gli raccontò di Malerba, del timore che provava per lui, dell’episodio avvenuto nella sua stanza.

Parsel la ascoltò, poi scosse il capo. «Non dovresti odiarlo, sai? Ha alle spalle una storia terribile.»

Nihal si fece attenta.

«È uno gnomo, non sappiamo da quale Terra provenga. Lo trovammo alcuni anni fa a languire in prigione: all’epoca eravamo riusciti a conquistare un importante avamposto del Tiranno nella Terra dei Giorni. Era ferito ovunque, e portava sulla pelle i segni della tortura. Nella stessa segreta giacevano altri suoi simili, maschi e femmine, tutti in fin di vita. Li portammo via con la speranza di poterli salvare, ma non ci fu nulla da fare. Lui fu l’unico sopravvissuto. La dedizione con cui accudiva i suoi compagni di cella e il dolore che gli provocò la loro morte ci fecero pensare che fossero i suoi familiari. Per qualche tempo Malerba fu un mistero: che cosa faceva là sotto, e perché era stato torturato in modo così atroce? Non conoscevamo ancora gli abissi di orrore in cui il Tiranno trascina i popoli che sottomette. In seguito, quando ci trovammo di fronte a molti casi analoghi, capimmo. I fammin non sono una razza, come dire, naturale. Sono creature del Tiranno: li ha plasmati con la sua magia, e ora vuole perfezionare altri esseri che lo servano a occhi chiusi. Per questo fa esperimenti sui prigionieri. Malerba ne è la prova vivente: il suo corpo martoriato è frutto dei tentativi del Tiranno di trasformare gli gnomi in guerrieri perfetti. Non sappiamo quanti siano gli esseri coinvolti, né quanti siano già morti. Potrebbero essere popoli interi.»

Nihal ebbe un brivido.

«È probabile che Malerba ti abbia preso, come dire, in simpatia, o che tu gli ricordi qualcuno. Nella cella c’era anche una giovane. Chissà, forse era sua figlia… Non vuole farti del male, cerca di trattarlo con tolleranza. Ha già dovuto subire molto dalla vita.»

Nihal non riuscì ad avere meno paura di Malerba, ma lo guardò con altri occhi. Si sforzò di reprimere il suo ribrezzo e cercò di trattarlo con gentilezza, ringraziandolo per i suoi servigi e rispondendo ai suoi sorrisi ripugnanti, in cui riusciva a intravedere il fioco lume della riconoscenza. In un certo senso erano simili: due diversi odiati, temuti e profondamente soli.


Cinque mesi dopo il suo arrivo nell’Accademia, Nihal fu convocata da Raven. Si recò nel salone delle udienze pronta alla solita snervante attesa, ma il Supremo Generale era già sul suo scanno.

«Mi hanno riferito che sei brava e che progredisci alla svelta, ragazza.»

Nihal non credeva alle proprie orecchie.

«Il tuo maestro mi ha chiesto ripetutamente di lasciarti iniziare la fase più avanzata dell’addestramento. Ebbene, credo che il momento sia giunto: potrai apprendere l’uso delle altre armi. Puoi andare.»

Poi Raven abbandonò la sala, trascinandosi dietro il lungo strascico del mantello e lasciando Nihal incredula. E felice.


Nel nuovo gruppo si sentì subito a suo agio.

I compagni erano arroganti come i precedenti, ma finalmente non era più costretta a combattere con metà delle sue capacità. E poi, da quando si era allenata con Parsel all’uso della lancia, era incuriosita dalle altre armi. Le ore di addestramento volavano e Nihal era stimolata da tutte quelle novità.

Imparò i modi in cui un pugnale può tornare utile in un corpo a corpo, capì fino in fondo le potenzialità della lancia e, sebbene fosse minuta, si misurò anche con la mazza ferrata e l’ascia.

Con la prima non si trovò particolarmente bene. L’attrezzo pesava molto: le riusciva difficile già solo alzarlo, figurarsi sferrare colpi mirati. L’ascia invece le piaceva molto, per certi versi le ricordava la spada: era un’arma potente e semplice, adatta a sfogare la sua rabbia.

Le misero in mano anche la frusta, con la quale il famigerato Thoren l’aveva quasi uccisa, e si accorse di quanto fosse difficile da maneggiare.

Infine prese dimestichezza con l’arco.

L’approccio non fu dei migliori: della battaglia Nihal amava la furia, il corpo a corpo, il sudore e la fatica. L’arco richiedeva invece concentrazione e sangue freddo, due doti che non le appartenevano.

«Proprio per questo devi imparare a usarlo» le diceva il maestro quando la ragazza si spazientiva.

Dopo le iniziali difficoltà, però, Nihal prese confidenza con quell’arma insolita. La forza non era fondamentale per usarla e, superata la frustrazione per i bersagli mancati, prese a darle grandi soddisfazioni. Scoprì di avere ottima mira, un dono che pochi altri condividevano nel suo gruppo, e si impratichì nel tirare anche in movimento.

La sua arma prediletta, comunque, restava la spada. Non c’era nulla in cui eccellesse come nella scherma, e solo quando impugnava la sua lama nera si sentiva davvero a suo agio.

Nihal imparava con facilità. Non ci volle molto perché superasse gran parte dei suoi commilitoni: la sua bravura le procurò molta ammirazione e la diffidenza di cui era oggetto iniziò a venarsi di rispetto.

Gli allievi erano tutti più grandi di lei, che in Accademia aveva compiuto diciassette anni, a eccezione di un ragazzetto minuto, con una testa di ricci biondi, gli occhi grigi e le guance paffute.

Nihal l’aveva a malapena notato, perché aveva smesso da tempo di tentare di socializzare. Finché una mattina, in refettorio, lui non la andò a cercare.

Nihal stava consumando il suo pasto sola, come al solito, quando udì una vocina sottile: «Scusa, è libero?».

La cosa era talmente insolita che prima di rispondere Nihal si voltò verso lo sconosciuto interlocutore per essere sicura di aver sentito bene. E questo chi diavolo è? L’ho già visto… Ma dove?

«Be’, se non c’è nessuno mi siedo.»

Nihal continuò a guardarlo incredula, il cucchiaio a mezz’aria.

Il biondino si accomodò, prese una cucchiaiata di minestra, ne prese un’altra, cincischiò un po’ con il pane, poi si schiarì la voce e iniziò a parlare come un torrente in piena. «Tu sei Nihal, il mezzelfo, vero? È da quando sei qui che ti osservo. Cioè, veramente da quando ti hanno messo con noi in squadra.

Be’, se proprio vogliamo dirla tutta, ti avevo già vista nell’arena con quei dieci tizi. Oh, sei stata straordinaria! Hai combattuto in un modo… Nessuno combatte come te! Ti giuro, io ero come… ipnotizzato, ecco. E poi che spada! Ma di che cosa è fatta? Sembra impossibile che non si rompa! Ah, che sbadato, non mi sono neppure presentato: io sono Laio, della Terra della Notte.»

Il ragazzino tese la mano e Nihal gliela strinse senza avere il tempo di aprire bocca.

Laio continuò a parlare per tutto il pranzo, riempiendola di complimenti, raccontandole della sua vita e facendo di tanto in tanto qualche domanda a cui Nihal riusciva giusto a rispondere con un sì o con un no. Il suo entusiasmo era quello di un bambino e Nihal ne rimase travolta.

Le disse di avere quindici anni e di essere nell’Accademia da un anno e mezzo. Poi le raccontò della sua terra d’origine. Lui non l’aveva praticamente mai vista, dato che la sua famiglia l’aveva lasciata quando aveva un paio di anni, ma conosceva la sua strana storia.

Durante la guerra dei Duecento Anni un mago aveva avuto un’idea che sulle prime era sembrata geniale: con un incantesimo aveva evocato la notte eterna sulla sua terra, in modo tale da mettere in difficoltà gli eserciti nemici, dando al contempo agli abitanti della regione la capacità di vedere al buio. Poi però il mago era morto prematuramente, e alla fine della guerra nessuno era stato in grado di sciogliere l’incantesimo.

«Perché non era un incantesimo normale, capisci? Era un sigillo! Sai cos’è un sigillo? Be’, è un sortilegio irrevocabile, una roba eterna. No, scusa, non proprio eterna. Cioè, eterna se il mago muore. Perché solo il mago che aveva evocato il sigillo può spezzarlo. Ecco, adesso si capisce.»

Il ragazzino concluse quel profluvio di parole con un sospiro soddisfatto. Fu allora che Nihal iniziò a ridere. Prima timidamente, poi sempre più forte. La sua risata contagiò anche Laio e in breve avevano entrambi le lacrime agli occhi.

La loro amicizia iniziò così.

Laio non la abbandonava un attimo. Nihal non sapeva se essere contenta di tanta venerazione e non faceva niente per incoraggiarla, ma non poteva negare che le faceva piacere. Era il primo allievo che non la temeva, non la odiava e neppure la disprezzava. Il loro legame non aveva niente a che vedere con l’amicizia profonda che la legava a Sennar. Però, pur con tutta la sua ingenuità e la sua esagerata ammirazione, Laio le scaldava il cuore.

Sempre più spesso, di sera, la raggiungeva nel suo bugigattolo per chiacchierare. Nihal venne così a sapere che Laio era entrato in Accademia per volere del padre, un grande generale che sperava di farne un valoroso guerriero.

Lui però aveva tutt’altre aspirazioni. «Viaggiare, capisci? Girare il Mondo Emerso in lungo e in largo, scoprire territori inesplorati, nuove terre. Ecco cosa mi piacerebbe. Se fosse per me… ti giuro, lascerei le armi anche domani!»

Nihal non capiva come si potesse essere costretti a fare qualcosa contro il proprio volere.

«Se non ti piace combattere, smetti. Quella del guerriero non è una bella vita, Laio. Non ha senso farla senza esserne convinti.»

Lui scrollava le spalle. «E cos’altro posso fare? Mio padre non riuscirebbe mai ad accettare un figlio viaggiatore. Anzi “vagabondo”, come direbbe lui.

Ha sempre voluto che diventassi un guerriero. Quindi io farò il guerriero.»

Era una realtà nuova per Nihal: aveva sempre preso da sola le sue decisioni, aveva scelto da sé la strada da intraprendere, ed era convinta che fosse così per tutti. Ora scopriva invece che c’erano persone la cui strada era già stata tracciata da altri, che non potevano scegliere cosa fare della propria vita.

Quando protestava, Laio rispondeva semplicemente: «Abbiamo tutti un destino. Per qualcuno coincide con quello che ha sempre sognato, per altri no. È così. Che ci vuoi fare?».

Dopo quei discorsi, quando Laio se ne tornava a dormire in camerata, Nihal finiva spesso per chiedersi quale fosse il suo, di destino.

Anche il suo giovane amico, naturalmente, voleva sapere qualcosa di lei. La prima volta che le fece qualche domanda sul suo passato, Nihal lo mise di peso fuori dalla stanza e si trincerò dietro un silenzio che durò alcuni giorni.

Ci volle tempo prima che Nihal raccontasse a Laio delle suo origini e di Livon. Lo fece con indicibile fatica: il dolore per la morte del padre e per lo sterminio del suo popolo erano ancora vivi e lei si sentiva colpevole come il primo giorno.

Nihal gli parlò anche di Sennar, di quanto fosse legata a quel giovane mago, di quanto le mancasse. E in un momento di confidenza gli rivelò anche che era innamorata da tempo di un uomo straordinario, che però non la considerava nemmeno lontanamente.

Laio accolse la notizia con perplessità. «Contenta tu… A me l’amore non interessa. Le femmine frignano, fanno le ritrose… Non ci trovo niente di interessante, insomma.»

«Io sono una femmina, nel caso tu non te ne fossi accorto.»

«Sì, ma sei un guerriero. È un’altra cosa.»

A quell’uscita, Nihal non seppe se sentirsi lusingata nel suo animo guerriero o offesa nella sua femminilità.


Erano passati sette mesi dall’ingresso di Nihal in Accademia quando Sennar cercò di andare a trovare l’amica.

Nihal era totalmente ignara degli sforzi che il mago stava facendo per riuscire a vederla. Il Supremo Generale si ostinava a negargli il permesso e Sennar, dopo una serie di attese infinite e udienze infruttuose, si era deciso a chiedere aiuto al suo maestro.

Dagon aveva sempre preferito tenere ben distinti il potere politico e quello militare, ma era affezionato a Sennar e sapeva quanto fosse importante per lui rivedere Nihal.

Il Membro Anziano del Consiglio dei Maghi si presentò a Raven una mattina, accompagnato dal suo allievo. «Mi hanno detto che da quando è entrata in Accademia non è mai uscita: non credi sia ora di farle vedere la luce?»

Il Supremo Generale restò sulle sue, sdegnato per quell’intrusione nella sua giurisdizione.

«Raven, quella ragazza è molto importante: è l’unica sopravvissuta del popolo dei mezzelfi, e Reis vide qualcosa di grande nel suo destino. È come un’arma. E tu hai cura delle tue armi. O no?»

L’udienza fu lunga, ma Dagon era paziente.

Dopo qualche ora di contrattazione, Raven si arrese e aprì le porte dell’Accademia, maledicendo per l’ennesima volta quella ragazzina che l’aveva sempre vinta.


Quando Sennar la vide andargli incontro quasi non la riconobbe: dimagrita, infagottata nella divisa degli allievi, Nihal avanzava decisa nel piazzale dell’Accademia, nel suo passo la cadenza militaresca.

Non può essere lei si disse. Voleva a tutti i costi che la sua amica fosse tornata quella di un tempo, che avesse finalmente superato il suo dolore. Quando gli fu abbastanza vicina le sorrise commosso e fece per abbracciarla. Nihal si tirò indietro, sottraendosi alla stretta.

«Che cosa vuoi?»

Sennar rimase spiazzato. «Come, che cosa voglio? Sono venuto a trovarti…»

«Avevi detto che saresti venuto ogni mese. Me lo avevi promesso.»

«Lo so, ma è stato più difficile del previsto, non ho…»

«Anche per me è stata dura, e questo è quanto. Non c’è altro da dirsi.»

Nihal si girò per andarsene ma Sennar l’afferrò per un braccio e la costrinse a fermarsi. Lei si liberò dalla stretta, poi esplose in un pianto rabbioso.

«Hai una vaga idea di che cosa siano stati per me questi mesi? Di quanto sia stata sola, di quanto mi sia sentita abbandonata? Ho pensato di tutto! Che fossi morto, che fossi partito per qualche posto irraggiungibile, che ti fossi dimenticato di me!»

Sennar la strinse al petto. «Perdonami.»

Lei si divincolò, ma le braccia del mago non la lasciarono.

«Perdonami. Ora sono qui.»

Solo allora Nihal si abbandonò all’abbraccio dell’amico. «Ti odio» gli disse sottovoce. «Mi sei mancato.»


Arrivati nello stanzino Sennar si sentì un verme per aver lasciato Nihal, la sua Nihal, in un posto tanto orribile.

Si sedettero. Avevano molte cose da dirsi.

«Avrei voluto venire da te subito, il primo mese, ma non ho avuto un attimo di requie. Venivo a Makrat solo il tempo necessario alle riunioni del Consiglio e poi dovevo scappare, perché nella Terra del Vento la situazione è insostenibile.»

Nihal quasi desiderava non sapere altro. Preferiva non sapere com’era ridotta la terra vivace in cui aveva vissuto.

Sennar invece le raccontò tutto. «Il primo giorno non volevo crederci: non riuscivo a capire come quel posto desolato potesse essere la Terra del Vento.

È stato molto brutto: volevo andare via, ma Dagon mi ha fatto coraggio. È stato come diventare di nuovo bambino: guerra, desolazione, la morte sempre al fianco, disperazione. Mi sembrava di essere tornato indietro di anni, e mi sentivo indifeso e sperduto come allora. Ma la cosa peggiore era ricordare com’era quel posto. L’aria fresca del mattino, la vita che brulicava nelle torri… Quei tramonti, ti ricordi?»

A Nihal sembrò di essere trascinata indietro nel tempo. «Erano magici. Si alzava il vento, il sole si tuffava nell’erba, la pianura si tingeva di rosso e…» La voce le morì in gola.

Sennar riprese con tono grave. «Non c’è più niente, Nihal. Tutto è avvolto dal fumo e dalla caligine. Ovunque avvampano incendi. Il sole quasi non si vede.

C’è un’atmosfera irreale. Spesso, dopo gli scontri, si vedono spuntare esseri delle razze più disparate. Si aggirano tra le macerie come fantasmi. Hanno perso tutto e vagano in cerca di salvezza. O forse della morte, chissà. E poi, il silenzio… Quando non si combatte tutto è avvolto dal silenzio. Ti ricordi che a Salazar non si riusciva mai a stare in pace? Il chiasso delle botteghe, il vocio della gente che parlava dei fatti suoi, la musica che usciva dalle taverne… Ora non si sente nessun suono che ricordi la vita.»

Il mago prese fiato.

«Il paese è spaccato a metà: da un lato c’è il nostro esercito, dall’altro la zona sotto il controllo del Tiranno. Di preciso non sappiamo cosa succeda lì, ma alcuni fortunati sono riusciti a superare il fronte senza essere uccisi. I loro racconti sono stati terribili. Pare che tutta la popolazione sia ridotta in schiavitù e lavori per sfamare l’esercito del Tiranno. Quel maledetto sta abbattendo la Foresta: con il legname costruisce armi e fa coltivare la terra diboscata dagli schiavi. Lavorano giorno e notte: quando non ce la fanno più spariscono e non se ne sa più niente. La zona è governata da un certo Dola, un despota che gode nel vedere la sofferenza della gente. Comanda anche l’esercito: è un guerriero imbattibile. Spesso combatte in prima linea, in groppa a un drago nero. Si dice che il Tiranno gli abbia dato il dono dell’immortalità: niente riesce a colpirlo, eppure è sempre in prima fila a decimare le nostre legioni. Il suo esercito è potente. Ci sono fammin, uomini, gnomi: combattono senza remore… sembrano avere in spregio anche la propria vita. Se finora abbiamo resistito è stato grazie all’abnegazione dei Cavalieri di Drago. Purtroppo, però, in questi sei mesi non siamo riusciti a riconquistare un solo brandello di terra.»

Quando Nihal parlò le tremava la voce: «Dimmi di Salazar…».

«Salazar non esiste più, semplicemente. Dopo il primo attaccò Dola ci ha rinchiuso i nemici che aveva catturato e l’ha fatta incendiare. Ha lasciato che bruciasse per giorni. Raccontano che prima dell’incendio abbia fatto mettere in fila i prigionieri. Ha chiesto loro di prostrarsi ai suoi piedi e di implorare pietà, perché avrebbe salvato la vita solo a chi si fosse sottomesso. Chi non ha obbedito subito è stato spedito nella torre. Degli altri una decina sono stati giustiziati comunque. A caso, pescati nel mucchio. Questo è Dola.»

Sennar guardò lo spicchio di cielo dalla feritoia.

«Ho creduto a lungo che il Tiranno volesse il potere. Pensavo che volesse regnare su tutto il Mondo Emerso. Ma dopo quello che ho visto ho capito che il potere non c’entra niente. Lui vuole la distruzione fine a se stessa.»

Le mani di Nihal erano serrate al punto che le nocche erano bianche. Il mago le prese tra le sue e le strinse con tenerezza.

«So cosa provi.»

Sennar le raccontò anche di sé e del suo ruolo nella Terra del Vento.

«Lavoravo a stretto contatto con l’esercito. Pensa che il mio diretto interlocutore era Fen! Con lui e con Dagon abbiamo pianificato molti attacchi per conquistare terreno, per indebolire il nemico. Tutto inutile, purtroppo. Ho dovuto usare spesso la magia: incantesimi collettivi sulle truppe, soprattutto, o sulle armi. È stato molto faticoso. Ci si svegliava all’alba e si finiva a notte fonda. E a volte di notte dovevamo spostarci o organizzare una difesa improvvisa. Non credere che non ti abbia pensato, Nihal. Ogni volta che arrivavo a Makrat speravo di riuscire a trovare il tempo di venire da te, ma poi il Consiglio, le riunioni, i maghi… e la guerra, che mi trascinava di nuovo nel suo turbine… e i miei occhi erano pieni solo di morte…»

Nihal lo ascoltava in silenzio. In compagnia di Sennar si sentiva come quattro anni prima, nel bosco. Non era più sola. I fantasmi che l’avevano ossessionata per tutto quel tempo sembravano essersi dileguati. Gli parlò dei giorni tutti uguali, dell’odio di Raven, dell’amicizia di Parsel, delle nuove armi che aveva imparato a usare.

Ma soprattutto dei sogni che continuavano a perseguitarla.

«Capisci, Sennar? È gente che è morta, che è vissuta, che è esistita davvero! Come posso ignorare il loro lamento?»

Sennar aveva sperato che il tempo l’avrebbe liberata dalle sue ossessioni, ma vedeva che Nihal non aveva ancora trovato il suo posto nel mondo.


A un certo punto sentirono bussare.

Dalla porta fece capolino un viso sorridente. Quando Laio vide che nella stanza di Nihal c’era un ragazzo restò di sasso. «Ah, hai visite, me ne vado.»

Sennar non fu meno stupito: aveva messo in conto che Nihal si facesse delle amicizie, ma l’arrivo di quel tipo lo incupì ugualmente. Che voleva?

«No, no, vieni. Lui è il famoso Sennar.»

Nihal si alzò e lo fece entrare. «E lui è Laio, mio compagno d’armi!»

Laio e Sennar si strinsero la mano con circospezione.

La mente del mago galoppava a briglia sciolta. Come si permetteva quel ragazzino di entrare nella stanza di Nihal senza preavviso? Erano in rapporti così stretti? Lei aveva detto che erano amici: amici quanto? Più lo guardava e meno gli piaceva.

Nella stanza ci fu un attimo di gelo. Improvvisamente Nihal provò qualcosa di strano: un senso di disagio, che però sembrava non appartenere a lei, ma a qualcun altro. Era come quando si ascolta il suono della propria voce: sappiamo che ci appartiene, eppure ci sembra estranea. Rimase interdetta.

«Sentite, perché non usciamo un po’? È o non è il mio giorno di riposo mensile?»


Andarono in giro per tutto il pomeriggio, nel frastuono di Makrat.

Nihal detestava tutta quella confusione e si sentì forestiera come il primo giorno. Sennar continuò a fare il sostenuto e a Laio parve d’essere di troppo.

Fu uno spiacevole pomeriggio.


Per Sennar giunse l’ora di andarsene. Lui e Nihal rimasero soli di fronte al grosso portone dell’Accademia.

«Così per un po’ resterai qui…» esordì Nihal.

«Sì. D’ora in poi cercherò di capire come si muove un consigliere in zona di pace. Ti potrò venire a trovare più spesso…»

«Be’, allora ci vediamo.»

Nihal detestava i saluti lunghi. Gli diede un bacio sulla guancia e fece per entrare, ma Sennar, in un impeto di coraggio, la fermò.

«Senti ma… in fin dei conti… chi sarebbe questo Laio?»

Nihal lo guardò stupita, poi scoppiò a ridere. «Cos’è, hai paura di essere sostituito? Laio è un ragazzino. E mi adora. Mi ha fatto sentire meno sola, e non gli interessa niente se io sia umana o mezzelfo. È una gran cosa, sai?»

«Sì, no, certo… Insomma, ero solo curioso. Tutto qui.»

Nihal rise ancora scuotendo la testa. Si salutarono contenti.


Nei mesi che seguirono la vita di Nihal migliorò decisamente.

Dopo quell’approccio burrascoso si era affezionata a Malerba. Lui era gentile: le teneva in serbo dalla mensa qualche boccone speciale, le riordinava la stanza e ogni tanto le portava qualche fiore di campo che Nihal accettava col sorriso sulle labbra, perché da tempo nessuno era così premuroso nei suoi confronti.

Talvolta parlavano. Lo gnomo, tra lacrime e frasi sconnesse, le raccontava gli stessi orrori che Nihal vedeva nei suoi sogni. E lei si lasciava andare, confessandogli le sue paure e il suo desiderio di vendetta. Le sembrava che Malerba, a dispetto dell’apparente demenza, con la ragione del cuore capisse il dolore e il senso di spaesamento che lei provava. E poi non riusciva più a tenersi tutto dentro.

Anche la presenza di Laio era diventata importante. Sapere che c’era qualcuno pronto ad ascoltarla e a consolarla nei momenti bui rassicurava Nihal.

I mesi di addestramento e la rigida disciplina dell’Accademia non lo avevano cambiato. Laio era rimasto un bambino, con gli occhi spalancati su un futuro che vedeva tutto rose e fiori. La sua vicinanza ricordava a Nihal i giorni felici in cui viveva ancora a Salazar con Livon.

Formavano una strana coppia: lei era il più promettente allievo della scuola, lui il più debole e il meno dotato. Ma erano sempre insieme.

Ogni mese, puntualissimo, Sennar si presentava in Accademia.

Qualche volta si univa anche Fen, e allora Nihal si lasciava andare alla sua parte più femminile e si crogiolava nel suo eterno e infelice amore.

Il cavaliere era fiero di lei: più il tempo passava, più si rendeva conto che era destinata a grandi cose.

Tiravano di spada nell’arena centrale, quella dei draghi, quando gli altri allievi non c’erano. Erano capaci di combattere per ore. Lei non si stancava mai di stargli vicino e lui provava un insolito piacere a combattere con quella ragazzina.


Era passato un anno dal giorno in cui Nihal aveva varcato la porta dell’Accademia dell’Ordine dei Cavalieri di Drago della Terra del Sole.

Ormai padroneggiava perfettamente tutte le armi con le quali si era cimentata e con la spada superava di gran lunga i suoi compagni.

Persino Raven dovette capitolare di fronte alla testimonianza dei vari maestri che giuravano che un combattente così non capitava tutti i giorni e che conveniva farla scendere in campo il prima possibile.

In anticipo sui tempi dell’addestramento, Nihal era ormai pronta per la prova più importante: la battaglia.

15 Finalmente in battaglia.

Erano una trentina in tutto. Sarebbero stati divisi in piccoli gruppi e assegnati a plotoni dislocati sui diversi fronti.

Ogni gruppetto sarebbe stato alle dirette dipendenze di un veterano, che aveva il compito di giudicarne il comportamento sul campo, oltre a quello di salvare la pelle a chi si fosse messo nei guai.

A ciascuno di loro sarebbe stato dato un corpetto a colori sgargianti, che permettesse di identificarli come allievi dell’Accademia. In quel modo per il supervisore sarebbe stato più facile controllare il comportamento dei ragazzi in battaglia.


Prima della prova gli addestramenti si susseguirono a ritmo serrato.

A partire dall’alba gli aspiranti cavalieri combattevano nell’arena, approfondivano le tecniche di ogni singola arma, correggevano gli errori, affinavano il comportamento da tenere in battaglia.

Quando il sole calava erano distrutti. Tutti, tranne Nihal.

Sola nella sua stanza, si rigirava sotto le coperte senza riuscire a prendere sonno. Con la mente era già proiettata verso la guerra. Il suo sogno stava per realizzarsi: finalmente avrebbe potuto contribuire alla distruzione del Tiranno. Non riusciva a credere di essere riuscita ad arrivare fino a quel punto. E non vedeva l’ora di combattere: le sembrava che in quella battaglia avrebbe finalmente trovato il senso della sua esistenza. Combattendo avrebbe riscattato la colpa di essere sopravvissuta ai suoi simili, la colpa di non aver amato abbastanza Livon e di averlo lasciato morire. Contava i giorni.


Non tutti erano altrettanto contenti.

Laio era stato ammesso alla prova grazie alle pressioni di suo padre, ma era terrorizzato. Fino ad allora aveva accettato con noncuranza il destino che la sua famiglia aveva scelto per lui: vedeva il giorno in cui sarebbe sceso sul campo di battaglia così lontano che non se ne preoccupava. Ma ora di notte gli sembrava di sentire il clangore delle armi risuonargli in testa. Forse non sarebbe morto in combattimento, ma di spavento di sicuro.

Nihal cercava di tirarlo su, con scarsi risultati.

Alla fine lo costrinse a fare un patto. «Ascoltami bene, Laio. Io ti giuro che se le cose si mettono male ci penserò io a salvarti. Ma tu devi promettermi che parlerai a tuo padre e lo convincerai a lasciarti fare quello che vuoi.»

Lui aveva annuito, sperando con tutto se stesso che Nihal mantenesse il suo giuramento.


Sennar era in ansia per Nihal, ma la prova non lo colse impreparato: sapeva da sempre che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse assaggiato la polvere del campo di battaglia.

I mesi trascorsi nella Terra del Sole gli avevano fatto bene. Dopo gli orrori della guerra, poter finalmente vivere in pace era stato meraviglioso. Quella terra disordinata cominciava quasi a piacergli. Flogisto, poi, il mago sotto la cui guida aveva continuato a perfezionarsi, era un personaggio straordinario: un vecchietto dall’età indefinita, piegato in due dagli acciacchi e afflitto da una tendenza a dimenticare tutto. Gli anni erano passati su di lui lasciandogli in dono saggezza e capacità di capire gli altri.

Sennar imparò da lui pazienza, diplomazia, comprensione, empatia.

Poi fu pronto per entrare ufficialmente a far parte del Consiglio dei Maghi.


Per l’occasione venne organizzata una solenne cerimonia nel palazzo reale della Terra del Sole, con tanto di investitura, presentazione ufficiale all’alta società e faraonico banchetto finale. Tutti i cuochi del Palazzo furono impegnati per giorni nella preparazione del simposio e la grande sala centrale venne addobbata con cornucopie d’oro da cui fuoriuscivano frutti proveniente dai più remoti anfratti del Mondo Emerso, arazzi antichi e stoffe pregiate.

La nomina di un consigliere era un’occasione importante: a Makrat convennero non solo i maggiorenti della Terra del Sole, ma anche svariati rappresentanti dei regnanti di altre Terre. Senza contare i generali in alta uniforme e i curiosi, tutti vestiti in pompa magna, che non si lasciavano sfuggire nessuna occasione mondana.

Dopo infinite insistenze, Nihal riuscì a strappare a Raven il permesso di partecipare. Il giorno dell’investitura indossò i suoi abiti: le erano così mancati! Senza quell’orribile saio informe si sentiva bella come non mai.

Lucidò la spada fino a farla scintillare, si intrecciò i capelli con cura e si recò al palazzo reale con il sorriso sulle labbra.

Quando fece il suo ingresso nella sala centrale, sfavillante di luci e ridondante di stucchi e di affreschi, furono in molti ad ammutolire.

Tra dame eleganti, maghi in alta uniforme e ospiti di ogni grado di nobiltà, una ragazza in abiti da guerriero, con i capelli blu e l’incedere militaresco non passava inosservata.

Con tutti quegli occhi puntati addosso, Nihal si sentì improvvisamente fuori posto. Per la prima volta in vita sua desiderò un vestito da donna, una gonna lunga, una bella scollatura, dei gioielli. Accidenti. Ma che ci faccio qui?

Poi però vide Sennar.

Aveva i capelli lunghi e arruffati e non si era fatto la barba. Per di più, portava la sua vecchia tunica nera, quella della sua prima investitura, con l’occhio rosso ricamato sul petto. Avevano cercato in tutti i modi di convincerlo a togliersela.

«E perché mai? Questo non è un vestito, è la mia seconda pelle. E non è mia abitudine cambiarla come i serpenti!» aveva risposto.

Allora lo avevano scongiurato di legarsi i capelli, di farsi la barba, perché aveva l’aspetto di un naufrago, ma lui aveva riso: gli piaceva sovvertire certe stupide regole, e si divertiva un mondo a farlo ogni volta che poteva.

Salutò Nihal con una strizzatina d’occhio, poi si sottopose a una cerimonia assurdamente pomposa.

Aprì le danze uno dei cortigiani, insignito per quell’occasione del ruolo di ciambellano, con un lungo e inutile discorso sull’importanza di quell’evento.

Poi fu la volta dei Consiglieri: a uno a uno si alzarono e fecero la loro orazione, elencando le motivazioni che li avevano spinti a reputare Sennar degno della loro carica.

Al terzo consigliere gli astanti boccheggiavano già per la noia. Sembrava non finire mai: discorsi, salamelecchi, altri discorsi, attestazioni di stima, ancora discorsi.

Nihal, annoiata, si guardava intorno scrutando gli invitati.

La sua attenzione fu attirata da una ragazzina.

Doveva avere qualche anno meno di lei. Sembrava una bambina capitata per errore nei panni di una donna: bellissima, seria, piena di dignità. Sedeva su una specie di trono e Nihal pensò che fosse la figlia del re, che però non riusciva a scorgere da nessuna parte.

Lo stupore fu massimo quando, nel momento cruciale della cerimonia, la vide alzarsi, andare verso Sennar e fermarsi davanti a lui con un medaglione in mano.

«Io, Sulana, regnante della Terra del Sole, ti fregio del contrassegno dei servitori della libertà e della pace nel Mondo Emerso perché mai, da oggi, tu dimentichi per cosa operi.»

Così disse la ragazzina.

Poi ci fu un applauso. Sennar si inchinò, baciò la mano della regina e lei tornò al suo scanno con incedere lento e grazioso.

Sicché la regnante di quella terra era una bambina.

Nihal era sconcertata.

Un suo vicino, una sorta di damerino incipriato, notò il dubbio che le si era dipinto sul viso. «Stupita della giovane età della regina?»

«In effetti… credevo che ci fosse un re, o qualcosa del genere…»

Il cortigiano sospirò e assunse un’espressione patetica. «Un re ce l’avevamo, ma è morto in battaglia. Ah, che re! Combattivo ma attento alla pace, forte ma diplomatico… Ah, che perdita!»

Quel tipo era smorfioso in maniera irritante, ma Nihal era troppo curiosa. «E non c’era nessuno che potesse prendere la reggenza?»

«Oh, certo! Per un po’ fu il fratello del re a gestire il potere, ma il giorno del suo quattordicesimo compleanno, davanti a tutti i dignitari di corte riuniti in udienza davanti al reggente, Sulana dichiarò di voler salire al trono. Lo zio cercò di dissuaderla, ma lei non desistette: lo accusò di affamare il popolo e di speculare sulla guerra.»

«Ed era vero?»

Il cortigiano si chinò e le parlò in un sussurro, come se le stesse rivelando un segreto: «A dire il vero, sì».

Poi riprese il suo contegno affettato. «La regina disse che si sentiva pronta. Suo padre le era apparso in sogno e le aveva detto di prendere il potere per il bene della Terra del Sole. E in effetti, va detto, la regina governa in modo esemplare.»

Nihal era ammirata: una ragazza tanto saggia e matura da regnare su una terra intera!

«E voi? Sembrereste un guerriero. E di qualche razza sconosciuta, per di più!»

«Sì, sì, è una lunga storia. Vi prego di scusarmi, ma devo andare incontro a una persona…»

Nihal sgattaiolò via rapida come la folgore. Si avvicinò a Sennar, finalmente consigliere, e lo abbracciò sorridendo.

«Complimenti, mago da strapazzo! Il tuo sogno si è realizzato, alla fine!»

«Be’, sì. Anche se purtroppo niente è come nei sogni.»

«In che senso?»

«Il Consiglio non è proprio come l’avevo immaginato, sai? Anche lì c’è chi pensa solo al potere, o ai propri interessi. Non tutti, certo. Ma a volte la ristrettezza di vedute di alcuni Consiglieri mi avvilisce… Comunque per il momento non ci voglio pensare. Ora mi aspetta il fronte della Terra del Vento. Là c’è da rimboccarsi le maniche. Le beghe diplomatiche le affronterò a tempo debito.»

Nihal non capì esattamente cosa intendesse il suo amico. Per lei i Consiglieri erano tutti eroi dediti alla salvezza del Mondo Emerso, ma le parole di Sennar le lasciarono un vago senso di inquietudine.


La settimana seguente Nihal seppe che lei e Laio sarebbero partiti a giorni per la Terra del Vento. Sospettò quasi che Sennar ci avesse masso lo zampino e avesse fatto pressione perché lei fosse spedita nel suo territorio. La cosa non le dispiacque: c’era la probabilità di combattere sotto il comando di Fen, e questo la esaltava.

Si misero in cammino una mattina di fine estate.

Li caricarono tutti su un grosso carro in legno, coperto da un ampio telone sorretto da sostegni in ferro, in modo che non dovessero soffrire le avversità del tempo.

Il carro si accodò a una carovana di vettovagliamenti e soldati diretti al fronte e il viaggio ebbe inizio.

Attraversarono terre e paesi. Al loro passaggio la gente usciva incuriosita dalle case e i bambini li salutavano. I loro sguardi erano ignari, come se quel carro non fosse un segnale della guerra imminente ma una semplice bizzarria.

Ai villaggi si sostituirono i boschi della Terra del Mare, poi i verdissimi campi della Terra dell’Acqua. Nihal stringeva la spada e pensava a Livon.

Lo ricordava nella fucina, quando ancora le sembrava un gigante, nero di fuliggine e circondato dalle scintille del metallo battuto. Ripensava alle sue sere di bambina, quando le raccontava storie di guerra. E ricordava i loro combattimenti, grazie ai quali aveva iniziato ad amare la spada. Infine rivide la scena della sua morte e, in viaggio verso le incognite e i rischi della battaglia, si aggrappò alla sua rabbia.


Dai dolci panorami della Terra dell’Acqua si passò alla steppa.

Per un istante Nihal credette che la sua Terra fosse lì ad attenderla, esattamente com’era quando lei l’aveva lasciata più di un anno prima, ma le parole di Sennar le ronzavano nel cervello: Il primo giorno non volevo crederci: non riuscivo a capire come quel posto desolato potesse essere la Terra del Vento. Ma la cosa peggiore era ricordare com’era…

Ben presto ne capì davvero il senso.

Prima fu il vuoto e il silenzio. Leghe e leghe di pianura deserta, coperta di erba gialla, come bruciata dal sole. La luce era poca anche a mezzogiorno e filtrava a stento attraverso coltri spesse di fumo.

Poi iniziarono a comparire le prime rovine. Moncherini di torri annerite dalle fiamme, pezzi di muri abbattuti e, tra le rovine, occhi sperduti che scrutavano terrorizzati la carovana. Campi abbandonati in balia dei corvi, appezzamenti bruciati da cui si levavano tronchi carbonizzati.

Infine, i cadaveri. Contadini, per lo più, e bambini, e donne. A volte soldati. Attorno a quei corpi morti, i vivi frugavano saccheggiando tutto ciò che trovavano.

La piana che Nihal aveva ammirato tante volte dal tetto di Salazar ora era gravata da una cappa di morte.

Non appena la carovana aveva iniziato a inoltrarsi in territorio di guerra, gli aspiranti cavalieri a bordo del carro erano ammutoliti.

Anche Laio guardava fuori sempre più spaventato. Tutta quella distruzione gli era quasi incomprensibile.

«Era qui che abitavi?»

Nihal aveva annuito in silenzio.


Dopo molte leghe di viaggio giunsero in vista delle prime fortificazioni e degli accampamenti dell’esercito. Attorno a ciascuna di esse erano sorte piccole comunità di sopravvissuti. Bambini cenciosi smettevano di aggirarsi stanchi intorno alle tende per lanciarsi al seguito della carovana, chiedendo qualcosa da mangiare.

La prima volta i ragazzi nel carro avevano gettato loro parte delle scorte, ma un comandante li aveva ripresi duramente.

«Piantatela! Ce ne sono a migliaia da qui all’accampamento. E questa non è roba vostra. Se avete il cuore tenero, avete sbagliato mestiere.»

Fino a quel momento avevano dormito nel carro, fermandosi lungo la strada. Ma ora che si trovavano in territorio di guerra viaggiavano finché non incontravano un accampamento dove trascorrere la notte, per poi ripartire alle prime luci dell’alba.

Fu un viaggio snervante e terribile.

All’inizio gli aspiranti cavalieri l’avevano preso come un gita: parlavano tra di loro allegramente, discutendo della prova come se non si trattasse di una questione di vita o di morte, ma di un gioco.

Ora che avevano visto la crudezza della guerra, nessuno aveva più il coraggio di scherzare.

Alcuni smisero di guardare fuori.

Altri cercarono di distrarsi chiacchierando.

Solo Nihal non distolse mai lo sguardo da quel panorama di desolazione. Riempiti gli occhi di questo orrore, si diceva, e ricordatene quando sarai in battaglia.


Il tramonto del ventesimo giorno di viaggio giunsero alla piana di Therorn. L’aspetto del luogo non era incoraggiante: le tende malmesse sorgevano nei pressi delle macerie di una torre e c’erano parecchi feriti.

Era la prima volta che Nihal vedeva un accampamento, ma si stupì di quanto quello spettacolo le sembrasse familiare.

Sennar non si trovava lì: aveva chiesto di lui, scoprendo che risiedeva nel campo principale, che era piuttosto distante. Le truppe sotto il comando di Fen, in compenso, non erano lontane, e l’azione del giorno seguente sarebbe stata condotta unitamente a esse. A quella notizia Nihal sentì il classico tuffo al cuore, ma non ebbe tempo di pensarci: lei e gli altri cinque ragazzi del suo gruppo vennero immediatamente condotti nella tenda del generale preposto a quell’area di combattimento.

Il generale era un uomo ruvido. Cominciò subito con l’impaurirli. «Questo non è un gioco. Quello che vi insegnano in Accademia sono scemenze da damerini. La guerra è un’altra cosa: non c’è posto per i convenevoli, né per i manuali di spada. Quando siete nella mischia valgono solo l’ordine del vostro superiore e quanti nemici fate fuori. Quindi non pensiate che siamo qui a farvi da balia. Il vostro primo dovere è obbedire. Se non rispettate gli ordini e finite nei guai, sta a voi tirarvi fuori. Ed evitate di contare troppo sul vostro supervisore: in combattimento la sopravvivenza è affar vostro. Per quel che riguarda la battaglia di domani, si tratta di un assalto a una fortezza che teniamo sotto assedio da tempo: le loro scorte di cibo e acqua sono quasi terminate, dunque è il momento giusto per attaccare. Inizieremo un’ora prima dell’alba. Gli arcieri creeranno un po’ di scompiglio all’interno, poi i Cavalieri di Drago attaccheranno dal cielo, mentre la prima linea di fanti darà l’assalto alle mura e al portone. Voi sarete in seconda linea: dopo lo sfondamento entrerete con gli altri e a quel punto non dovrete far altro che penetrare nel castello. I particolari vi saranno dati prima dell’attacco. La sveglia è per la terza ora dalla mezzanotte, quindi vi consiglio di farvi un buon sonno. Il rancio è tra due ore. Nel frattempo incontrerete il vostro supervisore, poi potrete fare quel che vorrete. Vi sconsiglio vivamente di uscire dall’accampamento. E non voglio vedervi ficcare il naso dappertutto.»

Il generale alzò i tacchi e se ne andò. I sei aspiranti rimasero interdetti e scoraggiati al centro della tenda. Laio era a un passo dalle lacrime.

«Coraggio» gli sussurrò Nihal.


Il supervisore era abbastanza giovane da non aver dimenticato le emozioni di un allievo dell’Accademia alla sua prima battaglia.

Spiegò nuovamente la missione, disse loro che era a lui che dovevano far riferimento, che lui era responsabile delle loro vite. Gli mostrò le armi e le armature con cui avrebbero combattuto, quindi li congedò tutti tranne Nihal.

«Tu sei il mezzelfo.»

Nihal annuì.

«È di fondamentale importanza che il nemico non sappia della tua esistenza. Sarà il caso che in battaglia tu sia ben camuffata.»

«Perché? Non penso che al Tiranno importi molto di sapermi qui.»

«Il Tiranno ha fatto sterminare la tua gente. Non sappiamo il perché, ma sappiamo che tu sei l’ultima. Se sapesse della tua esistenza tutto l’accampamento potrebbe essere in pericolo. Aver sbandierato il tuo nome ai quattro venti come mi hanno detto che hai fatto a Makrat è stato un errore. In guerra si può perdere un uomo, non un’intera divisione.»

Nihal si sentì di nuovo una minaccia. Quello che aveva pensato dopo la morte di Livon era vero, allora: la sua esistenza era un pericolo per chi le stava a fianco.

Il supervisore le diede un elmo che le coprisse interamente la testa: era fondamentale che non fossero visibili né i capelli né le orecchie.

Fu il primo problema: l’elmo le stringeva dolorosamente.

Il secondo fu l’armatura: le corazze in dotazione erano inadatte al fisico minuto di Nihal. Non ce n’era una che andasse bene.

Il supervisore si spazientì. «Donne! Ci sarà un motivo per cui devono stare a casa a badare ai figli!»

Nihal gettò la corazza a terra.

«Non ho bisogno di tutta questa roba.»

«Ah, sì? Ma bene! Allora appartieni alla categoria degli eroi, che vengono qui pieni d’orgoglio, convinti di compiere imprese straordinarie, giusto? In ogni gruppo di allievi c’è qualcuno così. E sai cosa ti dico? Sono quelli che durano di meno: o muoiono in battaglia o al primo assalto si rintanano in un cantuccio morti di paura.»

«Io non sono qui per giocare, signore, ma per combattere.»

Il supervisore tagliò corto. «Fa’ come vuoi. Bada solo a non mettere in pericolo la vita degli altri.»


Nihal gironzolò per il campo, osservando come anche in quel luogo di guerra scorresse lenta la vita di tutti i giorni. Chi scriveva lettere, chi dormiva, chi lavava le sue cose. C’era una strana assenza di rumori, come una sospensione: sembrava di trovarsi in un luogo fuori dal mondo, in attesa di non si sapeva che cosa.

Il rancio fu parco e consumato in silenzio. Nihal si chiese se fosse sempre così, prima di una battaglia. Pensavano tutti all’indomani? O forse anche a rischiare la vita si fa l’abitudine e alla fine non fa più paura? Per quel che la riguardava, non vedeva l’ora di combattere.

Dopo cena si rinchiusero tutti nelle loro tende. Nihal aspettò che Laio si addormentasse. Quando sentì che il suo respiro si era fatto regolare, si coricò anche lei. Ma dormire non era facile: appena chiudeva gli occhi le vorticavano nel cervello immagini di battaglia, stralci dei suoi incubi, ricordi di quando era bambina. Si sentiva scoppiare la testa. Si tirò su sconfitta e uscì dall’alloggiamento.

Fuori fu assalita dal freddo. Si avvolse nel mantello e si incamminò per il campo addormentato, avvolto nella foschia. C’era una calma perfetta, irreale. Un’atmosfera di pace che stonava con la distruzione che aveva visto durante il viaggio.

Nihal camminò a lungo, finché dalla notte non emerse la sagoma della torre diroccata. I mattoni di quella città sconosciuta e ormai morta le rivolgevano una specie di richiamo. La raggiunse e si arrampicò su quel che restava di una scala. Si era miracolosamente salvata dalla distruzione, ma era sconnessa e mancavano alcuni gradini: si avvolgeva incerta di piano in piano, conducendo fin quasi alla sommità della torre. Poco prima della cima, dove un tempo doveva essere la terrazza, si arrestava: i piani alti erano crollati del tutto.

Le pietre della torre sembravano parlare a Nihal della sua vita nella Terra del Vento. In quei muri sfigurati dal fuoco e dalla violenza degli uomini riconobbe i negozi, le case, le sale delle assemblee.

C’era anche una fucina come quella di Livon. Alcuni ambienti erano ancora intatti, molti altri erano sventrati e davano sul vuoto. Giunse in una stanza più grande, spaccata in due da un crollo. Si affacciò e vide i resti del giardino interno della torre, quello in cui un tempo gli abitanti coltivavano i loro orti e all’ombra dei cui alberi amavano prendere il fresco d’estate. Per gran parte era distrutto, ma nel mezzo c’era ancora un ulivo. Il suo tronco ritorto narrava la storia di una vita lunga, travagliata, ma che resisteva. A Nihal sembrò bello come una scultura.

Quell’immagine aprì il passo ai ricordi. Le tornò in mente l’iniziazione nel bosco, quando aveva sentito battere il cuore della terra. E quel battito segreto Nihal ora lo risentiva, a dimostrazione che, nonostante lei avesse scelto la via della guerra, il patto con la natura non era rotto.

Allora fu travolta da un oceano di sensazioni: nostalgia, assenza, rimpianto. Rivoleva indietro l’infanzia, i giochi, l’innocenza, la pace. D’un tratto la sua vita le parve meravigliosa. Ebbe paura di morire, di perdere tutto quel che aveva avuto fino allora.

Prima di quella notte aveva guardato alla sua vita con tristezza: il dolore dell’ultimo anno, gli incubi, la condanna a essere l’ultima di un popolo intero.

Ma ora non voleva morire.

Ora guardava la luna piena, brillante quasi da ferire gli occhi, e pensava a come sarebbe stato bello rinunciare alla guerra e tornare a essere la ragazza che in realtà non era mai stata. Che c’era di male? Basta con le armi, la morte, i doveri. Sarebbe potuta andare a vivere nella Terra del Sole, e magari pensare all’amore, trovare un ragazzo con cui vivere, fare figli e morire di vecchiaia, felici di aver vissuto una vita piena.

Che cosa c’era di sbagliato? Nulla.

Eppure non poteva. Non poteva vivere in pace quando tutta la sua gente, uomini, donne, bambini, era stata spazzata via da un odio feroce e immotivato. Non poteva guardare la vita scorrerle sotto gli occhi quando nel Mondo Emerso continuavano a compiersi le peggiori crudeltà.

Poi tutto ridivenne reale: la torre riebbe il suo aspetto di rudere, l’ulivo tornò a essere un albero in mezzo alle erbacce.

Il sogno di una vita normale era finito.

Nihal seppe che quella notte sarebbe diventata un guerriero.

Si sciolse la lunga treccia blu, che per anni non aveva visto le forbici. Guardò quel fiume di capelli che le scendeva oltre i fianchi. Erano capelli da regina, quelli di cui cantano i menestrelli, in cui gli amanti annegano dolcemente.

Prese la spada.

Le ciocche caddero a terra una per volta, lentamente.

Quando ebbe finito, in testa aveva una zazzera corta e arruffata.

Gettò i capelli in fondo al giardino.


Laio si svegliò al secondo suono del corno e la vide in piedi di fronte alla sua branda. Rimase a bocca aperta.

«Nihal! Che cosa hai fatto?»

«I capelli lunghi sono scomodi in battaglia. Ora alzati, o non sarai pronto per la rivista.»

Poi Nihal si sedette in un angolo. Si sentiva stranamente serena: aveva preso la sua decisione, nulla poteva più smuoverla. Prese un lungo drappo di stoffa nera e si mise davanti lo scudo che avrebbe usato in battaglia. Anche se un po’ deformata, riusciva a scorgere la sua immagine riflessa: quando si guardò le venne un groppo in gola. Sciocchezze. Finiscila di fare la stupida.

Iniziò a fasciarsi strettamente la testa fino a quando non se ne riuscirono più a intravedere i dettagli. Di sicuro l’avrebbero notata, perché era mascherata e perché era una donna, ma nessuno avrebbe potuto riconoscere in lei un mezzelfo.

Il ragazzino era ancora seduto sulla branda e la osservava con gli occhi sgranati.

Nihal si guardò per un’ultima volta: i suoi occhi spiccavano sul nero della stoffa. Non si era mai accorta di quanto fossero belli. Insomma, Nihal! Basta con la vanità.


Quando le truppe si misero in marcia era ancora notte fonda.

Dovevano raggiungere l’accampamento stanziato sotto le mura della fortezza da espugnare. Per Nihal significava solo una cosa: andare da Fen.

Marciarono nel più assoluto silenzio e nel giro di un’ora furono in vista del campo: era ben più grande e organizzato di quello in cui avevano passato la notte. Al suo interno si respirava un’aria di efficienza mista a tensione. Fra i molti che giravano per l’accampamento preparandosi all’attacco, Nihal cercò Fen scrutando chiunque incrociasse.

Infine lo vide uscire da una tenda, l’armatura dorata e un’espressione seria sul volto. Sgattaiolò dalla fila cercando di non farsi vedere dal suo supervisore e gli si avvicinò. «Fen?»

Il cavaliere guardò sospettoso la figura mascherata che gli si parava davanti. Per un attimo Nihal aveva sperato che lui la riconoscesse anche così bardata. Aprì il mantello e gli mostrò il corpetto che la qualificava come recluta.

«Sono io…»

«Nihal!»

Il cavaliere le porse la mano e gliela tenne stretta a lungo. «È la tua prima battaglia, vero?»

La ragazza annuì. Si sentiva le ginocchia molli.

«Cerca di non rischiare più del dovuto, Nihal. Avrai mille occasioni per metterti in luce in futuro. Ti penserò, quando sarò in volo.»

A Nihal sembrava di sognare, ma l’urlo del suo supervisore la richiamò alla realtà. «Devo andare…»

Fen le lasciò la mano. «Buona fortuna.»


Le reclute si accodarono agli altri fanti di seconda linea.

Era un gruppo piuttosto eterogeneo: c’erano uomini, gnomi, perfino folletti che prestavano servizio come spie. Poi c’erano guerrieri di tutte le età: giovani di primo pelo, ma anche adulti e addirittura qualcuno che si avviava verso la vecchiaia.

Venne loro ripetuta la strategia: avrebbero atteso l’inizio dell’attacco e sarebbero entrati solo dopo l’azione della prima linea, introducendosi nel castello.

Nihal era concentrata. La sua testa andava lentamente svuotandosi. Aveva un unico pensiero: la battaglia. Non aveva più paura, non era emozionata né impaziente: pensava solo a quello che avrebbe dovuto fare.

Si appostarono.

Sotto la linea dell’orizzonte un debolissimo chiarore segnalò che l’alba stava per sorgere. Subito dopo gli arcieri Nihal intravide i cavalieri sui propri draghi, immobili in attesa del segnale.

La roccaforte non era che una torre meno malmessa delle altre; era stata fortificata con vari contrafforti che ne rendevano la sagoma tozza e minacciosa. Al suo interno tutto sembrava tacere: lo stesso silenzio teso accomunava i due schieramenti nemici.

Poi, all’unisono, gli arcieri scoccarono le loro frecce e i cavalieri si alzarono rapidi in volo.

Gli istanti che separarono l’inizio dell’attacco dal momento in cui le frecce e i cavalieri raggiunsero la fortezza sembrarono interminabili.

All’improvviso dalla roccaforte iniziarono a partire enormi proiettili di fuoco lanciati dalle catapulte e si abbatterono a pochi metri dalla prima linea. Poi uno stormo di esseri volanti si alzò dalle mura della torre.

«Maledetti uccellacci!» imprecò il vicino di Nihal.

«Che cosa sono?»

«Non lo sappiamo neanche noi. Li chiamiamo “uccelli di fuoco”. Non sono particolarmente pericolosi, ma sputano fiamme e impegnano gli arcieri. E quando i fanti entrano in azione sono meno coperti.»

La strategia d’attacco venne rivista immediatamente: il generale che li aveva accolti la sera precedente ordinò alla prima fila di fanti di attaccare subito. La seconda fila rimase in attesa, pronta a scattare.

Il fragore aumentò a dismisura. Poi, all’improvviso, numerose zolle di terreno parvero deformarsi e infine sollevarsi: dalla terra emersero come scarafaggi centinaia di fammin urlanti. Le bestie invasero in un attimo tutto lo spazio antistante la torre, prendendo i soldati alle spalle.

Incalzata dal rumore della battaglia, il cuore che le scoppiava in petto, Nihal sentì fortissimo l’impulso a combattere. L’attesa era snervante, ma senza un ordine non potevano partire all’attacco. Era la prima cosa che le avevano insegnato: rispettare gli ordini. Vide i cavalieri impegnati sulle loro creature alate e le sembrò quasi di distinguere Fen. Poi guardò Laio, che le era accanto: tremava e stringeva i denti sulle labbra fino a farle sanguinare.

«Stai calmo, non temere» gli disse, ma anche lei non riusciva a tenere a bada quel misto di paura, voglia di combattere ed esaltazione.

Poi, improvviso, giunse l’ordine.

Un grido e la loro truppa partì all’attacco.

Nihal iniziò una folle corsa lungo tutto il campo.

Vide confusamente centinaia di persone davanti alla torre.

Vide i fammin avvicinarsi sempre più.

Ritrovò in sé tutto il furore, l’odio, la rabbia. E iniziò a combattere.

Nihal sapeva bene che in duello si dimentica tutto, ma lì, sul campo di battaglia, era una cosa completamente diversa.

Non aveva fisicamente il tempo per pensare: si muoveva come una macchina, dominata dalla furia. Tutta la sua esistenza si riduceva al suo solo essere fisico, al trovarsi lì e all’uccidere. I fammin le venivano incontro da ogni lato. La spada nera roteava in tutte le direzioni, colpendo con precisione: Nihal sapeva in ogni istante chi aveva vicino, chi doveva colpire e in che modo.

Abbatté il primo nemico di slancio, spinta dall’impeto della corsa. Quindi ne vennero infiniti altri, senza interruzione.

Non aveva coscienza che di sé. Avanzava sul campo passo dopo passo, abbatteva nemico dopo nemico. Era una mischia infernale. Uomini si gettavano su altri uomini, fammin saltavano al collo dei soldati. Quelle bestie non si limitavano a colpire con le spade e le asce: dilaniavano con i denti, laceravano con gli artigli, infierivano persino su chi era già stato abbattuto.

A terra centinaia di corpi: uomini, fammin, gnomi. L’erba era rossa e viscida. Fiotti vermigli cadevano sul campo come pioggia. Ma Nihal pensava solo a combattere, a uccidere, a guadagnare la pianura metro dopo metro insieme agli altri soldati, calpestando i caduti e sporcandosi del loro sangue.

Non aveva paura, non era inorridita da ciò che vedeva, dalla morte che la circondava, dalla sofferenza dei feriti. Avanzava menando fendenti e abbattendo nemici: nient’altro aveva importanza.

Poi iniziò a percepire anche quello che le accadeva intorno.

Dalle ombre proiettate sul suolo riuscì a capire la posizione dei Cavalieri di Drago e delle creature alate che provenivano dalla torre.

Nel clamore della battaglia cominciò a distinguere sempre più chiaramente gli ordini che venivano urlati dal generale.


Dopo un tempo indefinito si ritrovò sotto le mura. Una colata di olio bollente le sfiorò un braccio.

Aveva le spalle momentaneamente coperte, così ebbe il tempo di guardare in alto: a intervalli regolari i fammin svuotavano enormi pentoloni di olio sui combattenti. Si sentivano al sicuro: la pioggia di frecce si era diradata, gli arcieri iniziavano a non avere più munizioni.

Nihal corse intorno alla torre fino a trovare una sorta di nicchia in cui si nascose. Riprese fiato, quindi si sporse fuori dal suo rifugio.

Riusciva a vedere un fammin, ma colpirne uno non bastava: per avere accesso alle mura bisognava sguarnire almeno un lato della torre.

Si guardò febbrilmente intorno.

Non lontano da lei c’era un soldato caduto dalla torre. Accanto a lui, un arco. Nihal corse fuori dal nascondiglio, evitando con agilità l’olio bollente che pioveva a intervalli regolari, quindi tornò a ripararsi.

Parecchie frecce giacevano al suolo o infisse negli interstizi tra le pietre delle mura. Nihal prese le più vicine e se le assicurò alla cintura. Poi incoccò la prima e scattò fuori. Quando uno dei fammin entrò nel suo campo visivo, la freccia lo colpì in pieno. La bestia cadde verso l’interno.

Incoccò immediatamente un’altra freccia.

Anche il secondo colpo andò a segno, ma Nihal non ebbe il tempo di esultare. Alle sue spalle un fammin ringhiava e brandiva un’ascia insanguinata. La ragazza si mise l’arco a tracolla cercando freneticamente l’elsa della spada con la mano libera.

Il mostro le fu subito addosso. La incalzava senza darle il tempo di attaccare. Nihal cominciò a retrocedere. Parava un colpo dopo l’altro incespicando all’indietro.

Poi il generale planò rapido con il suo drago.

Trafisse il mostro con una lancia, agguantò Nihal per un braccio e la caricò sulla sella.

L’animale batté le ali potenti. Si innalzarono.


Stretta al pomolo dell’arcione la ragazza riprese fiato e osservò il campo di battaglia dall’alto: i fammin impedivano di avvicinarsi alle mura e la pioggia di frecce scemava sempre di più.

«Farò un giro largo intorno alla torre e tu li colpirai» le disse il generale.

«Sono pronta.»

Nihal incoccò la freccia e prese la mira. Il colpo andò a segno.

Tirò ancora, e ancora, e altri due nemici caddero dalla torre.

Poi sentì un senso di bruciore a una gamba. Una freccia l’aveva ferita di striscio.

«Hanno capito cosa vogliamo fare, dannazione! Tienili impegnati. Io mi occupo dell’olio bollente.»

Nihal prese dal cinturone le ultime due frecce che le restavano e le scoccò una dopo l’altra.

Il cavaliere non perse tempo. Scagliò con violenza la sua lancia contro uno dei pentoloni, che cadde verso l’interno del pozzo centrale della torre. Si udirono urla disperate di dolore.

Il drago tornò subito verso i fammin.

«Generale…» urlò Nihal.

«Ancora un fammin!»

«Non ho più frecce, generale…»

Il militare si lasciò sfuggire un’imprecazione. «D’accordo, ti riporto a terra.»


Nihal si ritrovò di nuovo sotto le mura, nel mezzo della battaglia. Sfoderò la spada e riprese a combattere.

Si unì al gruppo che stava dando l’assalto all’ingresso. Alcuni tentavano di sfondare il portone di legno con l’ariete, ma erano continuamente intralciati dai fammin.

Nihal si stava battendo con uno di loro quando sentì un suono inaspettato su un campo di battaglia: sembrava l’urlo di un bambino.

«Laio!»

Anche il ragazzino si trovava sotto le mura.

Iniziata la battaglia era partito all’attacco come tutti, ma poi si era ritirato dietro un cespuglio, tremante. Il supervisore l’aveva visto e l’aveva costretto ad andare all’attacco del portone insieme agli altri fanti. Ora era lì, come inebetito. La spada gli era sfuggita dalle mani.

«Scappa!»

Nihal lo raggiunse.

«Vuoi scappare sì o no?» gli urlò furiosa.

Laio si riscosse e prese a fuggire verso l’accampamento. Non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo se il supervisore non avesse avuto pietà di quel ragazzino, sbattuto in guerra contro il suo volere. Lo raccolse al volo e lo caricò sul suo drago.

«È tutto finito. Sei salvo. È tutto finito.»

Laio si strinse a lui e iniziò a piangere disperato.


Nihal aveva raccolto la spada dell’amico e stava combattendo con due lame. Era stanca e piena di ferite.

Sentì uno schianto. Il portone iniziava a cedere. Presto avrebbero preso la fortezza. Il campo di battaglia era pieno di fammin abbattuti, e l’esercito si avviava a conquistare l’avamposto.

Si fece forza, ma le bruciavano gli occhi. Improvvisamente sembrava essere calata una fitta nebbia. Faceva un caldo infernale. L’aria era impregnata di un forte odore di fumo. Iniziò a tossire. Non si respirava più.

«Che diavolo…»

Un ultimo colpo d’ariete e il portone si spalancò.

Dall’apertura si sprigionò un’immensa fiammata.

I fanti di prima linea furono arsi vivi, come pure i soldati che reggevano l’ariete.

Gli occupanti della fortezza avevano preferito incendiarla piuttosto che lasciarla in mano nemica.

L’esercito batté in ritirata.

I Cavalieri di Drago si allontanarono a uno a uno incalzati dalla catapulta.

Mentre correva con gli altri verso l’accampamento, Nihal non vide che alcuni di loro, colpiti dalle palle di fuoco, precipitavano rovinosamente oltre la torre.

16 Un nuovo dolore.

Il fuoco abbracciò la torre come una creatura vivente. La strinse sempre di più avvolgendosi intorno al suo profilo e infine la fece sua del tutto. Le fiamme levarono i loro tentacoli al cielo. I mattoni cedettero e la costruzione si ripiegò su se stessa dissolvendosi in una nube di fumo e polvere.


L’esercito osservò la scena dall’accampamento e quando l’edificio crollò levò un grido di vittoria. Anche Nihal alzò la sua spada al cielo. Di fronte a quello spettacolo di distruzione le si dipinse un sorriso sul volto.

Il generale la affiancò. «Hai svolto bene il tuo compito» le disse rudemente, e Nihal seppe di avercela fatta. Ora avrebbe avuto il suo drago, avrebbe imparato a governarlo e si sarebbe consacrata totalmente alla battaglia. In quel momento pensava solo ai nemici che aveva ucciso e al suo trionfo: non pensava a Sennar lontano, né a Laio che era scampato alla morte, né a Fen. Pensava alla vendetta: quel giorno i mezzelfi si erano presi la loro prima rivincita.

Anche il supervisore le si avvicinò. «Sarai contenta, hai superato la prova. Devo ammettere che ti sei comportata bene sul campo. Il tuo amico, però… non è molto in sé, ecco. Vai a dargli un’occhiata.»

«Sì, signore. Grazie, signore» rispose in fretta Nihal. Poi si mise a correre.

Trovò Laio rannicchiato in un angolo della tenda. Singhiozzava e tirava su col naso. Si avvicinò cauta, ma egli sussultò ugualmente. Gli si accoccolò a fianco e prese ad accarezzargli la testa.

«È tutto finito, piccolo. Non devi avere paura. Ora potrai parlare con tuo padre. Gli spiegherai quello che provi. Andrà tutto bene.»

Lui la guardò: aveva gli occhi gonfi e arrossati dal pianto. «È stato terribile. Non credevo che potesse essere così: tutta quella gente che moriva… i fammin che correvano dappertutto… e i ragazzi che venivano uccisi, e cadevano a terra uno dopo l’altro… È orribile, Nihal! Orribile!»

Nihal non sapeva cosa dirgli. Era tutto vero. Era davvero orribile: la morte, il sangue, i fammin. Ma era la guerra.

«Perché deve accadere tutto questo? Perché il Tiranno ci odia? Perché odia anche chi non gli ha fatto nulla?»

«Non c’è un perché, Laio. Ci odia e basta. Per questo si combatte.»

«Già, si combatte… Di’ piuttosto che voi combattete, perché io non ho il coraggio di farlo! Ho avuto paura, ho messo in pericolo la tua vita… Mi odio! So che bisogna combattere, ma so anche che non ce la faccio. Mi sento un codardo. Come posso vivere in pace dopo quello che ho visto oggi?»

«Non tutti sono tenuti a combattere, Laio. Si può aiutare il nostro mondo in tanti modi: pensa ai Consiglieri, o ai regnanti delle Terre libere. Loro non usano le armi, ma lo stesso fanno tanto per la libertà del Mondo Emerso. Anche tu troverai il modo di essere utile.»

Laio riprese a piangere sommessamente.


All’improvviso il campo sembrò in preda all’agitazione.

Nihal la percepì dallo scalpiccio frenetico di passi appena fuori dalla tenda. Si affacciò. I soldati erano tutti fuori dai loro alloggiamenti.

«Ehi, tu! Cosa succede?»

Il giovane scudiero non si fermò neppure.

«Abbiamo perso dei cavalieri» rispose affannosamente, e riprese il suo cammino.

Un pensiero attraversò la mente di Nihal come un lampo: Fen. Non l’aveva visto dopo la battaglia. Non essere ridicola. Non gli è successo niente. Ma una strana irrequietezza si impadronì di lei. Uscì dalla tenda e vagò per il campo, tra il viavai di soldati e scudieri sempre più agitati, finché non vide una piccola folla che si accalcava davanti alla tenda del comando generale.

Si avvicinò anche lei pregando di sentire, tra le altre che provenivano dall’interno, la voce di Fen. Udì parole indistinte, voci concitate che si sovrapponevano, ma nessuna che avesse il timbro di quella di Fen.

Si rivolse a una delle reclute. «Sai cosa è successo?»

«Credo che parlino della battaglia. Non è andata bene come sembrava. Sono morti un sacco di fanti, un Cavaliere di Drago è ferito gravemente e altri quattro sono dispersi.»

Nihal si sentì il cuore in gola.

«Sai il nome dei cavalieri?»

«Uno è un certo Dhuval… un altro mi pare si chiami Pen, Ben, qualcosa del genere… e mancano anche…»

Nihal agguantò il ragazzo per il collo senza dargli neppure il tempo di finire la frase. «È Fen?»

«Ehi! Che accidenti ti piglia!»

«È Fen il nome?» ripeté alzando la voce.

«Può essere, non lo so!»

Nihal lasciò la presa e corse come un’invasata verso l’infermeria.

Non sapeva di preciso dove si trovasse, ma continuava a correre perché sentiva che se si fosse fermata sarebbe uscita di senno.

Passò in rassegna tutte le tende finché non giunse a un grande padiglione. Entrò. Un mago recitava incantesimi di guarigione accanto a un moribondo. Nihal lo afferrò per una spalla, interrompendolo.

«Chi è il cavaliere ferito?»

«Sei per caso impazzita?»

«Chi è? Ti prego, dimmi il suo nome!»

Il mago la guardò: quella ragazzina era fuori di sé. «È Dhuval, un veterano. Ma ferito lo sarà ancora per poco: gli incantesimi non stanno sortendo alcun effetto.»


Nihal uscì di corsa. Non sapeva se gioire o disperarsi. Finché non si trova c’è speranza. Può darsi che si sia attardato nella battaglia… o che Gaart sia ferito e non possa riportarlo indietro… Non gli è successo niente. È sano e salvo. Non gli è successo niente. Continuò a correre a perdifiato. Correva e pregava che Fen non fosse morto. Quando raggiunse la tenda del comando, il generale stava interrogando un giovane.

«E quando l’avresti visto?»

«Quando il portone è stato abbattuto e l’esercito ha iniziato a ritirarsi. C’erano dei cavalieri che sorvolavano la torre.»

«Sei sicuro di quel che dici?»

«L’abbiamo visto in tanti, signore: la catapulta lo ha colpito ed è caduto sulla torre in fiamme.»

«Sei sicuro che fosse lui?»

«Sì, signore. Ho riconosciuto chiaramente il suo drago. Era Fen.»

Fu allora che Nihal iniziò a gridare facendosi largo tra i soldati. «No! Non è possibile! Fen ha combattuto migliaia di battaglie e ne è sempre uscito illeso.

Non è morto! Non può essere morto! Lo hanno fatto prigioniero! Sì, lo hanno preso, dobbiamo cercarlo! Lui è il mio maestro! Non è morto! Non è morto!»

Continuò a urlare, la voce rotta dai singhiozzi, le guance solcate dalle lacrime.

Il generale l’afferrò con forza per le spalle e la scosse. «Sta’ buona!

Calmati!»

Allora Nihal crollò in ginocchio, lasciandosi andare a un pianto disperato. Il generale la guardò con pietà, poi la fece accompagnare alla sua tenda da un giovane soldato, perché vegliasse su di lei.


Nihal pianse senza ritegno. Quando si fu calmata si rannicchiò in un angolo, la testa fra le ginocchia, in silenzio. Voleva rinchiudersi in se stessa, non pensare a niente. Ma le immagini di Fen la tormentavano: rivedeva il suo sorriso, risentiva la sua voce. Le tornavano in mente i momenti che avevano passato insieme negli ultimi mesi, il modo in cui l’aveva salutata prima di iniziare la sua ultima battaglia, la prima volta che si erano incontrati, i loro duelli e una miriade di altri momenti insignificanti.

Il soldato che stava con lei la guardava impietosito.

Aveva sentito parlare di lei: una specie di strega che apparteneva a una razza estinta e combatteva come un uomo, leggiadra come una ninfa e letale come uno scorpione. Quando l’aveva vista per la prima volta era rimasto colpito da quanto fosse esile. Era una strana creatura, ma era bella come dicevano. Poi l’aveva vista sul campo e aveva quasi creduto che fosse davvero una strega: non gli pareva possibile che una ragazza sapesse tirare di spada in quel modo.

Ma ora che la vedeva lì, disperata, gli sembrava semplicemente una ragazzina indifesa.

Per un po’ di tempo si limitò a guardarla, poi crebbe in lui la voglia di confortarla, di parlarle. «Era il tuo maestro, vero?»

Non ebbe risposta.

«Ho sentito dire così. Mi dispiace per lui. E anche per te. Dev’essere davvero triste.»

Nihal non alzò neppure la testa.

«Io non ho avuto maestri, però credo di capirti. Ho ventidue anni e combatto da quando ne avevo sedici. Ho visto morire tanti amici. Le prime volte stavo come te ora. Poi ci ho fatto l’abitudine. La guerra è così: si muore di continuo e purtroppo le lacrime non servono a niente.»

Nihal non aprì bocca, non si mosse. Non c’erano parole per consolarla, né voleva essere consolata. Desiderava solo fondersi con la terra sotto i suoi piedi e perdere coscienza di sé.

«Io ci credo a quello che dicono i sacerdoti: sono sicuro che dopo questa vita ci attende un mondo senza guerre e senza dolore. I miei amici sono tutti lì, me lo sento. E lì ci sarà anche il tuo maestro, orgoglioso di te. Ti ho vista combattere, sai? Diventerai un Cavaliere di Drago fortissimo. Ma ora devi cercare di farti forza: sono certo che il tuo maestro…»

Nihal non poté più tollerare quel fiume di banalità. Sollevò la testa dalle ginocchia e piantò i suoi occhi viola in quelli del ragazzo. «Lasciami in pace!»

Il soldato rimase interdetto. Abbassò lo sguardo. «Fatti coraggio» le mormorò. Non riuscì ad aggiungere altro.


A sera Laio si propose per dare il cambio al soldato.

Un ragazzo che aveva assistito alla disperazione di Nihal gli aveva riferito quanto era accaduto. Laio aveva capito subito che il misterioso cavaliere di cui lei gli parlava sempre era Fen e aveva deciso che quella notte le sarebbe stato vicino, come lei era stata vicino a lui la notte prima.

Quando entrò nella tenda rimase turbato nel vedere la ragazza forte che conosceva raggomitolata sulla branda.

Era pallida. Aveva gli occhi vuoti. Sembrava morta.

Laio non le disse una parola. Si stese accanto a lei, la abbracciò e scivolò lentamente nel sonno.


Nihal non si era arresa. Superata la disperazione, un’idea aveva iniziato di nuovo a farsi strada nella sua mente: Fen era disperso. Non era morto. Certo, c’era la testimonianza di quel soldato, ma da lontano non poteva aver riconosciuto Fen. Si era sbagliato. Fen era vivo. Fen doveva essere vivo, prigioniero del nemico o ferito nella torre, e ogni ora che passava rischiava sempre più la vita.

Fu presa da una smania incontrollabile. Doveva andare a cercarlo. Lo avrebbe trovato, lo avrebbe riportato sano e salvo all’accampamento e il giorno seguente avrebbero riso insieme di quell’avventura e dell’assurda paura che le aveva fatto prendere.

Un sorriso disperato le si disegnò sulle labbra.

Fen è vivo, e io lo salverò.

La notte era buia. Dall’oscurità emergeva la sagoma della torre, illuminata dalle braci del fuoco che l’aveva distrutta.

A Nihal non importava che l’incendio non fosse del tutto spento. Non le interessava che qualche nemico potesse vederla mentre cavalcava sulla piana. Fen era tutto ciò che le restava, era la sua stessa vita, e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di fermarla. Sgattaiolò per l’accampamento addormentato finché raggiunse il recinto dei cavalli. Un attimo dopo galoppava selvaggiamente nella pianura.


La porta giaceva a terra carbonizzata e il fuoco divampava ancora in molti punti della fortezza. Nihal guardò il rosso delle fiamme. Non aveva paura. Entrò decisa. L’odore acre del fumo la prese alla gola. Tossì. L’interno era disseminato di corpi, molti schiacciati dai crolli causati dall’incendio, altri inceneriti.

Nihal si muoveva a stento tra grossi pezzi di mura rovinati al suolo. Faceva caldo, l’aria era irrespirabile, ma la ragazza avanzava decisa scrutando il terreno.

Un fragore la fece trasalire: un nuovo crollo, non distante da lei.

Continuò ad avanzare.

Iniziò a chiamare il nome di Fen. Le rispose solo l’eco lugubre della sua stessa voce.

Si mise a urlare più forte. Nulla. Solo l’eco e il crepitio del fuoco.

Allora si fermò e iniziò a smuovere le macerie. Sollevò mattoni, calcinacci, grosse pietre ancora calde.

«Fen!»

Si ferì le palme.

«Fen, dove sei?»

Si ruppe le unghie fino a farle sanguinare ma non smise di scavare.

Improvvisamente lacrime calde iniziarono a rigarle le guance.

«Rispondi, Fen! Sono io! Sono Nihal!»

La sua voce si fece lamento, la vista le si appannò di pianto.

Si rimise in marcia. Non è morto, non è morto.

Poi la vide. Un’enorme carcassa nera in lontananza.

Un drago bruciato.

Urlò, corse verso la creatura.

Poteva essere un animale qualunque, ma Nihal seppe nel suo cuore che era Gaart. Qualcosa in lei si ruppe. Iniziò a singhiozzare.

Gaart giaceva con le grandi ali stese.

Nihal si infilò d’istinto sotto una di esse.

Fen era lì, sdraiato a terra, supino, intatto. Un’ampia macchia di sangue si allargava nera sotto la sua testa, infradiciando i capelli.

Nihal rimase senza fiato, incredula. Lo guardava ipnotizzata. Com’è pallido. Persino le lacrime avevano smesso di scendere.

Si chinò, allungò una mano e gli toccò delicatamente un braccio, scuotendolo come per svegliarlo. La sua pelle, in quell’inferno di fuoco, era fredda.

Allora si inginocchiò accanto a lui e provò a scrollarlo ancora, e ancora, sempre più forte, gridando il suo nome. L’indomani, quando il supervisore entrò nella tenda, trovò Laio in lacrime. «Mi sono addormentato… Mi sono addormentato e lei se n’è andata…» ripeteva tra i singhiozzi.

La cercarono per tutto l’accampamento, e poi nelle zone limitrofe, ma senza risultato. La squadra di ricognizione che doveva occuparsi di Fen e degli altri dispersi fu incaricata anche di trovare Nihal.

Gli allievi dell’Accademia furono comunque tutti radunati e venne loro comunicato l’esito della prova. Erano stati fortunati: nessun morto, un solo ferito. Tre su sei avevano passato la prova: per il coraggio dimostrato in battaglia, la perizia in combattimento e la capacità di cavarsela da soli senza ricorrere all’aiuto del supervisore. Tra essi c’era anche Nihal.

Il gruppo di ricognizione non tardò a trovare il corpo di Fen.

Due dei tre dispersi vennero trovati gravemente feriti nella boscaglia intorno alla torre. Il quarto cavaliere invece era sparito nel nulla. Probabilmente era stato fatto prigioniero, un destino peggiore della morte: i pochi prigionieri che erano riusciti a sfuggire a Dola avevano raccontato di torture terribili.

Di Nihal non venne trovata alcuna traccia.

All’accampamento conclusero che era semplicemente scappata.


Avvisato della morte di Fen, Sennar aveva preso un cavallo ed era partito immediatamente. Per tutto il viaggio non aveva fatto che pensare a cosa quella morte significasse per Nihal. Quando giunse all’accampamento scoprì che i suoi timori erano fondati.

«Che diamine vuol dire che è andata via?»

«Che la sera dopo la morte di quel cavaliere ha preso la sua roba, ha rubato un cavallo e se ne è andata. Tutto qui» gli rispose un soldato.

Sennar corse dal generale. Era furibondo. «Mi hanno detto che l’allieva dell’Accademia è scappata.»

Il militare annuì. «Vi hanno riferito bene.»

«Bene un corno, dannazione! Non eravate stato informato che è l’ultimo mezzelfo del Mondo Emerso e che la sua esistenza è importante?»

Il generale non si scompose. «Per quel che mi riguarda, era una recluta. Dopo che ha affrontato la prova quel che le succede non è più affar mio.»

«La vita delle reclute è sotto la vostra responsabilità, generale!»

«Avete detto bene: la vita. Quella ragazzina è uscita dalla prova sana e salva.

Poi se ne è andata. E di questo non ho alcuna responsabilità, consigliere.»

«Sì, ma era da considerarsi un membro dell’esercito. Non li cercate i soldati dispersi?»

Il generale si spazientì.

«Sentite, voi siete giovane e siete qui da poco, quindi non venite a dirmi come compiere il mio mestiere: l’ho fatta cercare per un giorno intero, cos’altro dovevo fare? Se proprio la volete sapere tutta, ho chiuso un occhio perché ho capito la situazione. Se mi fossi attenuto alle regole, la vostra amica adesso sarebbe già stata espulsa dall’Accademia.»

Sennar non si diede per vinto. «Voglio che organizziate subito una squadra di ricerca! Magari è ancora nei dintorni, la possiamo trovare. Sarà confusa, per questo è scappata, e…»

«Sarò chiaro con voi: non ho nessuna intenzione di tenere occupati i miei uomini a cercare la vostra amica. Lasciate fare il soldato a chi lo sa fare. E ora, scusatemi» tagliò corto il generale e uscì dalla tenda.

Sennar batté con violenza i pugni sul tavolo che gli stava davanti.

Il generale aveva ragione.


Sennar si ritirò nella tenda che gli era stata allestita. Posò a terra una bacinella colma d’acqua e vi si sedette accanto.

Un incantesimo di localizzazione richiedeva la massima concentrazione. Il giovane mago iniziò a escludere tutti i rumori: le voci dei soldati, i fabbri al lavoro sulle armature devastate dalla battaglia, le urla e i comandi che si rincorrevano per il campo. Respirò profondamente, cercando di calmarsi. Dove sei, Nihal? Mosse lentamente le mani sopra la bacinella. Lascia che io ti veda.

Dopo qualche istante la superficie dell’acqua cominciò a incresparsi. Una figura ammantata di nero cavalcava su una piana. Dammi un segno. Dove sei? L’immagine svanì per un attimo. Nihal! Il volto della giovane mezzelfo rigato dalle lacrime apparve sullo specchio dell’acqua per sparire subito dopo. Nihal!

Sennar imprecò. Non riusciva a controllare le proprie emozioni. La preoccupazione per l’amica gli impediva di svuotare la mente e lasciar fluire liberamente la magia. La bacinella non gli avrebbe mostrato altro.


Quella sera stessa, ancora sconvolto, dovette avere un incontro con i vertici dell’accampamento e i Cavalieri di Drago per stabilire la linea da seguire nei futuri attacchi all’esercito del Tiranno.

Per lui fu particolarmente penoso: fin dal primo giorno aveva capito che i militari, vista la sua giovane età, non gli davano credito. Gli sguardi che gli indirizzavano lo irritavano: lo fissavano come fosse un pivello, e non appena interveniva scorgeva sempre sul volto di qualcuno degli astanti un’espressione di scherno.

Fu così anche in quell’occasione: una serata di interminabili discussioni in cui le sue parole cadevano nel vuoto.

Sennar partì dagli errori commessi sul campo di battaglia per proporre una serie di innovazioni tattiche. Non aveva ancora finito di parlare che già uno dei colonnelli lo interrompeva scuotendo la testa, con un sorriso di sufficienza stampato in faccia.

«Permettete, consigliere, ma voi non eravate presente, pertanto non potete conoscere l’esatto svolgersi dei fatti. D’altronde questa è la vostra prima esperienza di guerra. E non siete uno stratega. Ritengo che sarebbe più opportuno lasciar parlare noi, prima di lanciarvi con le vostre proposte.»

Fu solo l’inizio di un’infinita controversia che cominciò su toni cauti ma che finì per snervare Sennar e fargli perdere la pazienza.

Non servì a nulla dire che il confronto con gli strateghi l’aveva già avuto, che si era fatto una sua idea della situazione del fronte, che le sue proposte erano frutto di studio: i suoi consigli vennero sistematicamente scartati. Poi ci fu la classica goccia che fece traboccare il vaso della sopportazione di Sennar.

«Forse al momento non siete in grado di giudicare correttamente la situazione. Del resto, la fuga della vostra amica deve avervi colpito molto» insinuò con malizia uno dei presenti.

Sennar si alzò di scatto. «Per quanto mi riguarda, la riunione è chiusa.»


Andò via senza salutare nessuno.

Detestava quella situazione. Tra militari e Consiglieri c’era una continua lotta. Sennar aveva l’impressione sempre più netta che la posta in gioco fosse il potere: i soldati rivendicavano la loro fetta sostenendo che senza di loro l’intero Mondo Emerso sarebbe stato conquistato dal Tiranno, mentre i Consiglieri facevano leva sul fatto che le loro risoluzioni strategiche, e spesso anche la magia, erano state decisive in tante battaglie fondamentali.

Lui desiderava semplicemente liberare gli oppressi, riportare la pace in quel mondo, e vivere lui stesso in pace, ma la grettezza di alcuni membri del Consiglio e di molti militari lo disgustava.

Rientrò nella sua tenda e si sedette al tavolo.

Gli avevano portato del cibo, ma aveva lo stomaco serrato. Non riusciva a non pensare a Nihal. Se la immaginava a passare la notte all’addiaccio. Aveva voglia di vederla, così com’era solo un anno prima: contenta, vivace, piena di vita. Si domandò perché il destino si accanisse contro di lei. Si incupì ancora di più pensando che probabilmente non l’avrebbe mai più ritrovata.

Poi dall’ingresso della tenda fece capolino un viso. Sennar lo riconobbe immediatamente. E questo qui ora che vuole?

«Posso?» chiese Laio timidamente.

Il mago cercò di combattere l’antipatia che provava nei confronti di quel ragazzino. «Entra. Come ti è andata la prova?»

Laio si avvicinò al tavolo, intimidito. «Male, non l’ho superata. Se sono vivo lo devo a Nihal.»

Sennar non capiva cosa volesse da lui quel ragazzino. Una raccomandazione, forse? «Insomma, non sei diventato un guerriero. Mi dispiace, ma io non posso farci niente.»

Laio fece un profondo respiro. «È colpa mia se Nihal è scappata.»

Sennar si alzò facendo cadere la sedia su cui era seduto. «Che cosa significa?»

«La notte dopo la morte di Fen sono stato con lei. Era tanto triste, non parlava, non si muoveva. Non ho avuto la forza di dirle niente, quando lei invece aveva bisogno di qualcuno che la consolasse. Non sono stato neppure capace di restare sveglio. La mattina dopo non c’era più.»

Sennar tacque per un lungo istante, poi sospirò. «Non è colpa tua, Laio. Nihal è fatta così, quando sta male si chiude in se stessa. Se tu le avessi parlato, non ti avrebbe ascoltato. E sarebbe scappata anche se tu non ti fossi addormentato, credimi.»

«Ma io ero suo amico, e gli amici devono almeno essere capaci di consolare!»

«Ti ripeto che tu non hai nessuna colpa. Torna nella tua tenda, Laio, vai a dormire.»

Quando Laio si diresse a capo chino verso l’uscita, Sennar si rese conto che il ragazzino aveva passato tanto tempo con Nihal. Sentì una fitta di nostalgia per i giorni in cui lui e la sua amica erano una cosa sola, inseparabili. Non poteva lasciarlo andare via così.

«No, aspetta!» lo fermò. «Dimmi ancora di Nihal prima che partisse…»

Laio gli raccontò tutto: della battaglia, del coraggio che aveva dimostrato, di come lo aveva salvato e poi consolato a fine battaglia, quando si era sentito un incapace.

«Lei… lei è eccezionale, Sennar. Per questo sento che tornerà. Perché è forte, e non scappa così. Ha sempre voluto combattere. Tornerà, ne sono sicuro.»

Ascoltando quelle parole al mago sembrò quasi che Nihal fosse lì. «Che cosa farai ora?» chiese alla fine.

«Ci ho pensato molto, in questi giorni. Se non posso essere utile in battaglia, voglio almeno esserlo a chi combatte: ho deciso di fare lo scudiero.»

Sennar sorrise. «Sarai un ottimo scudiero. Ne sono certo.»

I due giovani si strinsero la mano, poi Laio uscì dalla tenda.

Sì, si disse il mago, Nihal sarebbe tornata: non per lui, né per altri, ma perché il dolore le dava una ragione di più per combattere.


Sennar e gli allievi partirono il giorno seguente portando con sé i corpi di Dhuval e Fen.

Il mago si fermò per un po’ davanti all’accampamento, nella speranza che Nihal li vedesse: voleva credere che fosse rimasta in zona e che, accorgendosi che portavano via il corpo di Fen, si sarebbe fatta viva.

Ma Nihal non comparve.

Per tutta la durata del viaggio Sennar scrutò la pianura, poi i boschi della Terra dell’Acqua e infine le periferie disordinate della Terra del Sole. Non poteva credere che Nihal si fosse arresa. Quella era una fuga, e Nihal non fuggiva.

Giunsero fino all’Accademia senza incontrarla.

Il mago sperava solo che la notizia della sparizione di Nihal non fosse ancora giunta. Il sommo Raven non sarebbe stato comprensivo come il generale dell’accampamento.


Sennar chiese udienza al Supremo Generale prima che fosse lui a convocarlo.

«Sono lieto che vi presentiate al mio cospetto, consigliere. È indispensabile iniziare a concertare da subito le azioni future…»

«Veramente non sono qui per questo.»

Raven lo guardò sorpreso: era già sul punto di inalberarsi.

«Cioè, intendo dire che non sono qui per questo ora. Naturalmente avevo pensato di consultarvi nei prossimi giorni. Il vostro parere mi è prezioso.»

Il generale si rasserenò. Sennar capì come mai quel borioso signore odiasse tanto la poco diplomatica Nihal.

«Il fatto è che nella Terra di mia giurisdizione, durante la prova degli allievi, è successo un increscioso incidente. Ve ne hanno già parlato?» domandò il giovane mago, poi trattenne il fiato.

«Non so di cosa parliate.»

«Immagino che vi ricordiate della giovane mezzelfo…»

Raven sbuffò annoiato e fece segno al consigliere di proseguire.

«Ecco, quando sono arrivato all’accampamento mi è stato riferito che era scomparsa. Fuggita, per la precisione.»

«Dannata ragazzina! Io lo sapevo che…»

«Aspettate, Generale. Ho le prove che Nihal non è scappata. Mi ha lasciato un messaggio. Dice che tornerà all’Accademia da sola. Fen era il suo maestro, lo sapete. E lei è rimasta profondamente addolorata dalla sua morte. È comprensibile che volesse…»

Il Supremo Generale si alzò in piedi. «Quella femmina non fa altro che darmi noie! Maledico il giorno che è entrata all’Accademia! Sarà anche un bravo guerriero, ma non può fare tutto quello che vuole. La sua è insubordinazione. È già arrivata?»

«Non ancora. Temo che possa essersi persa, o avere incontrato dei nemici. Sarebbe un gesto magnanimo da parte vostra mandare una squadra a…»

Il Supremo Generale alzò gli occhi al cielo. Sennar capì che stava chiedendo troppo.

«Provvederò a punirla quando tornerà in Accademia. Ora non ho tempo per queste sciocchezze. Due dei miei uomini migliori sono morti. Vi prego di lasciarmi solo, consigliere.»

Sennar uscì, incerto tra l’ansia e la soddisfazione. Non era riuscito a convincere Raven a farla cercare, ma almeno Nihal era ancora allieva dell’Accademia.


La cerimonia funebre per Dhuval e Fen si tenne quel pomeriggio.

Vi assistettero i maggiorenti della Terra del Sole, tutti gli allievi dell’Accademia e l’intero ordine dei Cavalieri di Drago.

I corpi dei cavalieri, in tenuta da battaglia, furono deposti su due grandi pire. Su quella di Fen c’erano anche i resti di Gaart: il drago avrebbe accompagnato il padrone nel suo ultimo volo.

Il discorso di Raven fu insolitamente pacato.

Parlò di Fen con particolare affetto, ricordando come egli fosse stimato da tutti, dentro e fuori dall’esercito, per le sue doti di guerriero, la sua integrità morale, la sua calma.

Sennar assistette alla cerimonia con tristezza.

Il cavaliere non aveva mai riscosso le sue simpatie: era troppo rigoroso e dedito alla guerra per i suoi gusti, ma non poteva negare che nei mesi di apprendistato si era trovato bene con lui. Fen aveva sempre tenuto in considerazione le sue idee, senza farsi condizionare dalla sua giovane età o dal fatto che fosse l’allievo della donna che amava. E poi era stato vicino a Nihal nei momenti più difficili. Il mago pensò anche a Soana, che viaggiava ignara del fatto che il suo uomo era morto in battaglia.

Poi le pire vennero accese e le fiamme consumarono ciò che restava dei due cavalieri, consegnandolo al vento e alle nuvole.

Era usanza che chi aveva amato il defunto accendesse una torcia al falò. Sennar sentì di dover compiere quel gesto: per Soana, per Nihal, ma in fondo anche per sé. Si avvicinò al fuoco insieme a tantissimi altri: soldati, cavalieri, civili.

Fu allora che intravide una figura ammantata di nero. Aveva in mano un ramoscello sulla cui cima brillava una piccola fiamma.

Nel suo cuore si accese la speranza. Si fece largo tra la folla, ma un istante dopo quell’apparizione era scomparsa.

Era impossibile trovarla in quella calca.

Quando la pira fu in gran parte bruciata e la gente iniziò ad allontanarsi, Sennar si rimise alla ricerca. Il mantello nero continuava ad apparirgli per poi sparire subito dopo. Eppure era lì, a pochi passi da lui.

Accelerò il passo. Schivò allievi e militari. Raggiunse la figura. Le sfiorò una spalla. «Nihal!»

Era davvero lei, pallida e sporca come se fosse reduce da un lungo viaggio. Si guardarono per un istante.

«Non qui, seguimi» gli disse.


Dal belvedere rimasero a osservare la Rocca del Tiranno, fianco a fianco, in silenzio. Sennar le accarezzò con dolcezza i capelli corti. Sembra un pulcino, pensò.

«Vuoi parlare?»

Nihal scosse la testa.

«Vuoi dirmi almeno dove sei stata?»

«Avevo bisogno di pensare.»

«Lo capisco, ma dove sei stata, cosa hai fatto?»

Nihal non rispose.

«Cosa pensi di fare, adesso?»

«Devo tornare all’Accademia. Ho superato la prova e ho diritto al mio drago. Cosa ha detto Raven?»

«Ha detto che ti punirà. Nient’altro.»

Nihal si alzò e si avviò verso l’Accademia senza una parola.

Sennar la seguì, esasperato. Si sentiva totalmente impotente. «Perché non vuoi parlare? Perché non ti sfoghi, non piangi, non fai una cosa qualunque per farmi capire cosa ti passa per la testa?»

Nihal continuò a camminare.

«Reagisci, Nihal. Non lasciarti divorare dall’odio. Di’ qualcosa. Ti prego.»

La ragazza si fermò e guardò l’amico negli occhi. «Non c’è niente da dire, Sennar. Fen è morto, questo è tutto. Ora devo andare all’Accademia.»


Raven si era preparato il discorso.

Fu feroce e aggressivo, sarcastico e minaccioso, ma la reazione di Nihal lo prese alla sprovvista.

«So di aver sbagliato e vi imploro di perdonarmi. Accetterò qualunque punizione vorrete infliggermi. Vi giuro che non accadrà mai più. Tutto quello che desidero è continuare il mio addestramento.»

La ragazza si inginocchiò davanti al suo scanno e chinò la testa. «Ve ne prego,

Supremo Generale.»

Raven rimase colpito dal comportamento di Nihal, ma ancora di più dal suo sguardo. Vi lesse tutta la determinazione di cui quella creatura era capace. Aveva scelto la sua strada e avrebbe fatto qualunque cosa pur di raggiungere la meta: anche umiliarsi di fronte a lui.

Ma vi lesse anche la disperazione di chi ha smarrito se stesso, di chi non riesce a rassegnarsi a una perdita. Per un istante l’uomo che era stato ebbe il sopravvento. Scese dal suo scanno e, per la prima volta, le si avvicinò. Le mise una mano sulla spalla. «Mi dispiace per Fen. È stato un mio compagno d’armi, anni fa. Anche per me è un’immensa perdita.»

Poi ritrasse la mano e assunse il suo solito tono.

«Puoi continuare il tuo addestramento, ma dovrai passare una settimana in cella. Un guerriero deve essere capace di controllare i propri sentimenti.»

Nihal strinse i pugni. «Vi ringrazio, Generale.» Quindi si alzò, fece un inchino e andò a scontare la sua punizione.

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