— Si chiama Henry Dorsett Case. — Poi la ragazza snocciolò l’anno e il luogo di nascita, il numero d’identificazione BAMA, e una sfilza di nomi che, un po’ per volta, riconobbe come gli pseudonimi da lui usati in passato.
— È qui da molto? — Case vide il contenuto della propria borsa sparpagliato sul letto, gli abiti sporchi divisi per tipo. La shuriken se ne stava sola soletta, fra i jeans e la biancheria intima, sulla termopiuma color sabbia.
— Dov’è Kolodny? — I due uomini sedevano affiancati sul divano, le braccia conserte sul petto abbronzato, catene d’oro identiche appese al collo. Case si avvide che la loro giovinezza era contraffatta, tradita da una certa rugosità delle nocche, un dettaglio che i chirurghi erano incapaci di eliminare.
— Chi è Kolodny?
— Era il nome sul registro. Dov’è?
— Non lo so — rispose Case, raggiungendo il frigobar per versarsi un bicchiere di acqua minerale. — Se n’è andata.
— Dov’è stato stanotte, Case? — La ragazza raccolse la pistola e se l’appoggiò sulla coscia, senza puntarla contro di lui.
— In un paio di bar sulla Jules Verne… E voi? — Si sentiva tremare le ginocchia. L’acqua minerale era calda e stantia.
— Non credo che lei afferri la sua situazione — disse l’uomo alla sua sinistra, tirando fuori un pacchetto di Gitanes dal taschino della camicia bianca di maglia. — Lei è finito, Case. Le imputazioni citano una cospirazione per incrementare un’intelligenza artificiale. — Estrasse un accendino Dunhill d’oro dallo stesso taschino e lo cullò nel palmo della mano. — L’uomo che lei chiama Armitage è già stato arrestato.
— Corto?
L’agente fece tanto d’occhi. — Sì. Come fa a sapere che è quello il suo nome?
Un millimetro di fiamma guizzò dall’accendino.
— Me lo sono scordato — rispose Case.
— Se lo ricorderà — disse la ragazza.
I loro nomi, veri o ufficiali, erano Michèle, Roland e Pierre. Case decise che Pierre avrebbe recitato la parte del cattivo. Roland avrebbe preso invece le sue parti, non rifiutandogli qualche gentilezza (trovò un pacchetto ancora intero di Yeheyuan quando Case rifiutò una Gitane) e in generale avrebbe arginato la fredda ostilità di Pierre. Michèle sarebbe stata l’angelo impassibile, provvedendo a reindirizzare, se e quando si fosse reso necessario, il corso dell’interrogatorio. Era certo che uno di loro, o tutti, fossero dotati di audio, molto probabilmente di simstim, e qualunque cosa lui avesse fatto o detto sarebbe stata giudicata una prova. Prova, si chiese durante la stressante procedura, ma di cosa?
Sapendo che lui non avrebbe potuto seguire il loro francese, parlavano liberamente fra loro. O almeno davano l’impressione di farlo. Ma anche in queste condizioni Case poté afferrare abbastanza: nomi come Pauley, Armitage, Senso/Rete, Pantere Moderne, spuntavano come iceberg dal mare agitato del loro francese di Parigi. Ma era senz’altro possibile che quei nomi venissero buttati là apposta. Riferendosi a Molly, la chiamavano sempre Kolodny.
— Lei sostiene di essere stato assoldato per compiere un’operazione, Case, e di non essere consapevole della natura dell’obiettivo — disse Roland, con una cadenza pigra che intendeva infondere una nota di ragionevolezza. — Non è insolito nel suo mestiere? Una volta penetrate le difese, non si troverebbe poi in condizioni di non poter svolgere il compito richiesto? E certamente le sarà stato chiesto di svolgere un’operazione d’un qualche tipo, no? — Si sporse in avanti, con i gomiti appoggiati su quelle sue ginocchia abbronzate a stencil, il palmo delle mani spalancato per ricevere ogni spiegazione. Intanto Pierre si aggirava per la stanza: un momento si trovava accanto alla finestra, un istante dopo accanto alla porta. Case decise che era Michèle quella collegata all’audio e al simstim. I suoi occhi non lo abbandonavano mai.
— Posso mettermi qualcosa addosso? — chiese. Pierre aveva insistito perché si spogliasse, esaminando poi ogni cucitura dei suoi jeans. Adesso Case sedeva nudo su uno sgabello di vimini, con un piede oscenamente pallido.
Roland domandò qualcosa a Pierre, in francese. Pierre, di nuovo alla finestra, stava guardando fuori con l’aiuto di un piccolo binocolo piatto. — Non - rispose con aria assente, e Roland scrollò le spalle, guardando Case con un’alzata di sopracciglia. Case decise che era il momento buono per sorridere. Roland gli restituì il sorriso.
La più vecchia pagliacciata del manuale dello sbirro, secondo Case. — Sentite, sto male. Ho preso quell’orrenda droga lì al bar, sapete. Voglio stendermi. Mi avete già pizzicato. Avete detto di aver già beccato Armitage. Avete lui, chiedetelo a lui. Io sono stato assunto soltanto come spalla.
Roland annuì. — E Kolodny?
— Era con Armitage quando mi ha assoldato. Soltanto muscoli, una ragazza-rasoio… per quanto ne so. E non è molto.
— Lei sa che il vero nome di Armitage è Corto — interloquì Pierre, con gli occhi ancora nascosti dalle flange di plastica morbida del binocolo. — Come fa a saperlo, amico mio?
— Immagino che sia stato lui a dirmelo — rispose Case, seccato per quella svista. — Tutti hanno un paio di nomi. Lei si chiama davvero Pierre?
— Sappiamo che lei è stato riparato a Chiba — intervenne Michèle. — Potrebbe essere stato il primo errore di Invernomuto. — Case la fissò con l’aria meno espressiva che gli riusciva. Quel nome non era mai stato fatto prima. — Il procedimento impiegato su di lei ha portato il proprietario della clinica a richiedere sette brevetti fondamentali. Sa cosa vuol dire?
— No.
— Significa che il gestore d’una clinica clandestina a Chiba City adesso possiede abbastanza capitale per controllare tre fra i più importanti consorzi di ricerca medica. Vede, questo rovescia il normale ordine delle cose. Ha attirato una certa attenzione. — La donna incrociò le braccia abbronzate sulle mammelle piccole e alte e si lasciò cadere sul cuscino stampato. Case si chiese quanti anni potesse avere, in realtà. La gente diceva che l’età si poteva sempre capire dagli occhi, ma lui non c’era mai riuscito. Julie Deane aveva gli occhi d’un ragazzino distratto di dieci anni dietro al quarzo rosa degli occhiali. E non c’era niente di vecchio in Michèle, salvo le nocche. — L’avevamo rintracciata nello Sprawl, poi l’abbiamo persa di nuovo, poi l’abbiamo ritrovata mentre stava partendo per Istanbul. Abbiamo ricostruito il suo tragitto attraverso la griglia, scoprendo che lei aveva istigato una sommossa nella Senso/Rete. La Senso/Rete era più che desiderosa di collaborare. Hanno fatto un inventario per noi. Hanno scoperto che la personalità ROM di McCoy Pauley era sparita.
— A Istanbul è stato molto facile. La donna si era inimicata il contatto di Armitage con i servizi segreti — intervenne Roland, quasi scusandosi.
— E poi siete venuti qui — disse Pierre, facendo scivolare il binocolo in una tasca dei calzoncini. — Ne siamo stati felicissimi.
— Per la possibilità di migliorare le vostre abbronzature?
— Lei sa cosa vogliamo intendiamo — ribatté Michèle. — Se preferisce fingere di non saperlo, non farà altro che rendere più difficili le cose per lei. C’è ancora la faccenda dell’estradizione. Lei tornerà con noi, Case, come Armitage. Ma con esattezza, dove andremo tutti quanti? In Svizzera, dove lei sarà soltanto una pedina nel processo contro un’intelligenza artificiale? Oppure al BAMA, dove sì potrà dimostrare che lei ha partecipato non soltanto al furto e all’invasione di dati, ma a un attentato all’ordine pubblico costato quattordici vite innocenti? La scelta è sua.
Case prese una Yeheyuan dal pacchetto. Pierre gliela accese col suo Dunhill d’oro. — Lei è ancora convinto che Armitage possa proteggerla? — La domanda fu sottolineata dalle fauci luccicanti dell’accendino che si chiudevano di scatto.
Case posò lo sguardo su di lui attraverso il dolore e l’amarezza della betafenetilammina. — E lei, quanti anni ha, capo?
— Sono vecchio abbastanza per sapere che lei è fottuto, bruciato, che questa storia è finita, sì, e che lei è solo un intralcio.
— Una cosa — replicò Case, mentre aspirava una boccata dalla sigaretta. Soffiò il fumo in su, verso l’agente del registro del Turing. — Voi ragazzi avete una vera giurisdizione, da queste parti? Voglio dire, la squadra della sicurezza del Freeside non dovrebbe essere qui insieme a voi? Questo è il loro territorio, no? — Vide gli occhi duri su quel magro volto di ragazzo indurirsi ancora di più e tese ogni muscolo per prepararsi al colpo, ma Pierre si limitò a scrollare le spalle.
— Non conta — rispose Roland. — Lei verrà con noi. Siamo abituati alle situazioni di ambiguità legale. I trattati in base ai quali opera questo ramo del registro ci consentono un’abbondante flessibilità. E siamo noi a creare la flessibilità, nelle situazioni in cui è richiesta. — Tutt’a un tratto la maschera di bonomia era scomparsa. Gli occhi di Roland erano diventati duri quanto quelli di Pierre.
— Lei è molto stupido, anzi peggio — proseguì Michèle, alzandosi in piedi, con la pistola in mano. — Non ha la minima considerazione per la sua specie. Per migliaia d’anni gli uomini hanno sognato di fare patti con il diavolo. Soltanto adesso cose del genere sono diventate possibili. E con che cosa verrebbe pagato? Quale sarebbe il prezzo per fare in modo che questa cosa si sviluppi finalmente in piena libertà? — C’era una stanca consapevolezza nella sua giovane voce, che nessun diciannovenne avrebbe potuto esprimere. — Adesso lei si vestirà e verrà con noi. Insieme a quello che lei chiama Armitage tornerà con noi a Ginevra e testimonierà al processo contro questa intelligenza. Altrimenti noi la uccideremo. Adesso. — Sollevò la pistola, una Walther liscia e nera con un silenziatore integrale.
— Mi sto già vestendo — precisò Case, avvicinandosi al letto con passo barcollante. Le gambe erano ancora intorpidite, impacciate. Armeggiò con una maglietta pulita.
— Abbiamo una nave pronta a partire. Cancelleremo il costrutto di Pauley con un’arma a impulsi.
— La Senso/Rete non la prenderà molto bene — osservò Case, pensando: “e tutte le prove nell’Hosaka?”.
— Sono già in difficoltà per aver posseduto una cosa del genere.
Mentre Case s’infilava la maglietta dalla testa vide la shuriken sul letto, una stella di metallo senza vita. Cercò la sua rabbia: era scomparsa. Era giunto il momento di arrendersi, di abbandonarsi alle circostanze… Pensò alle sacche di tossina. — Ecco che arriva la carne — borbottò.
Nell’ascensore che portava al prato pensò a Molly. Poteva già essere a villa Straylight, impegnata a dare la caccia a Riviera. Forse braccata da Hideo, che quasi certamente era il clone ninja della storia di Finn, quello che era andato a recuperare la testa parlante.
Case appoggiò la fronte sulla plastica nera della parete, e chiuse gli occhi. Sentiva le membra legnose, vecchie, contorte e appesantite dalla pioggia.
Sotto gli alberi stavano servendo il pranzo, tra gli ombrelloni dai vivaci colori. Roland e Michèle recitarono la parte dei turisti, mettendosi a chiacchierare animatamente in francese. Pierre li tallonava. Michèle tenne la bocca della pistola premuta contro le costole di Case, nascondendola sotto una giacca bianca di tela olona che teneva al braccio.
Mentre attraversava il prato, zigzagando fra tavoli e alberelli, Case si chiese se Michèle gli avrebbe sparato nel caso lui si fosse accasciato al suolo. Una pelliccia nera ribollì ai margini del suo campo visivo. Quando sollevò lo sguardo sulla fascia incandescente dell’armatura Lado-Acheson vide una gigantesca farfalla che volteggiava con grazia sullo sfondo del cielo registrato.
Giunsero al limitare del prato, di fronte al dirupo: fiori selvatici danzavano oltre la ringhiera sotto la spinta delle correnti ascensionali che salivano dal canyon conosciuto come Desiderata. Michèle scrollò i corti capelli scuri e puntò il dito, dicendo qualcosa in francese a Roland. Pareva sinceramente felice. Quando Case seguì la direzione del suo gesto vide la curva dei laghi pianeggianti, il bianco luccichio dei casinò, i rettangoli turchese di migliaia di piscine, i corpi dei bagnanti, minuscoli geroglifici di bronzo, il tutto trattenuto dalla placida simulazione della gravità contro l’interminabile curva del guscio del Freeside.
Seguirono la ringhiera fino a un ponte di ferro battuto che varcava Desiderata. Michèle lo pungolò con la bocca della Walther.
— Andate piano… oggi ce la faccio appena a camminare.
Avevano percorso poco più di un quarto del tragitto quando l’ultraleggero colpì, con il motore elettrico completamente silenzioso fino a quando l’elica di fibra di carbonio non tranciò di netto la sommità del cranio di Pierre.
Per un istante si trovarono all’ombra dell’oggetto volante. Case sentì uno spruzzo di sangue caldo inondargli la faccia, poi qualcuno gli fece lo sgambetto. Rotolò su se stesso, e vide Michèle supina, con le ginocchia alzate, che impugnava la Walther con entrambe le mani, prendendo la mira. “Che spreco di energia” fu il suo primo pensiero, con una bizzarra lucidità dovuta allo shock. La ragazza stava tentando di abbattere l’ultraleggero.
Quindi Case si mise a correre. Si voltò a lanciare un’occhiata solo quando passò accanto al primo albero. Roland lo stava inseguendo. Vide il fragile biplano colpire la ringhiera di ferro battuto del ponte, accartocciarsi, fare una capriola trascinando con sé la ragazza in fondo a Desiderata.
Roland non s’era nemmeno voltato a guardare. Il suo volto era irrigidito, d’un pallore mortale, i denti scoperti. E aveva qualcosa in mano.
Il robot giardiniere colse Roland al volo quando passò accanto allo stesso albero, abbattendosi dai rami potati come un grosso granchio a strisce diagonali gialle e nere.
— Li hai uccisi — ansimò Case, continuando la sua corsa. — Pazzo figlio di puttana… li hai ammazzati tutti!
Il piccolo treno sfrecciava attraverso la galleria a ottanta chilometri all’ora. Case teneva gli occhi chiusi. La doccia era servita, ma aveva rimesso la colazione quando aveva guardato in giù e aveva visto il sangue di Pierre che scorreva sulle piastrelle bianche.
La gravità diminuiva a mano a mano che il fuso si restringeva. Case si sentiva ribollire lo stomaco.
Aerol lo stava aspettando con lo scooter accanto al molo.
— Case, amico, grosso problema. — Quella voce morbida risuonò debole negli auricolari. Case regolò con il mento il volume e scrutò dietro la visiera Lexan del casco di Aerol.
— Devo arrivare al Garvey, Aerol.
— Yo. Sali e tieniti forte, capo. Ma Garvey prigioniero. Yacht, già venuto prima, adesso tornato. Adesso è agganciato fianco Garvey.
I Turing? Già arrivati? Case montò sul telaio dello scooter e cominciò ad allacciarsi le cinture. — Yacht del Giappone. Ti ha portato un pacco…
Armitage.
Immagini confuse di vespe e ragni affiorarono nella mente di Case quando arrivarono in vista del Marcus Garvey. Il piccolo rimorchiatore era rannicchiato contro il grigio torace di una nave liscia come un insetto, almeno cinque volte più grande. I verricelli d’attracco risaltavano contro lo scafo rattoppato del Garvey con la strana nitidezza dovuta al vuoto e alla cruda luce solare. Una pallida passerella di eternit spuntava dallo yacht, sinuosa come un serpente per evitare i motori del rimorchiatore, andando a coprire il boccaporto di poppa. C’era qualcosa di osceno in quella disposizione, ma aveva più a che vedere con l’idea del cibo che con il sesso.
— Cos’è successo a Maelcum?
— Maelcum sta bene. Nessuno è sceso lungo il tubo. Il pilota dello yacht gli ha detto di stare tranquillo.
Mentre scivolavano accanto alla grande nave, Case vide il nome HANIWA in bianche e nitide maiuscole sotto un grappolo di caratteri giapponesi.
— Non mi piace questa faccenda, amico. Stavo pensando che, comunque, sarebbe ora che alzassimo il culo da questo posto.
— Maelcum pensa giusto stessa cosa, amico. Ma Garvey non arriva lontano, questo modo.
Maelcum stava sussurrando nella radio in un patois concitato quando Case fece il suo ingresso dalla camera stagna di prua, togliendosi il casco.
— Aerol è tornato al Rocker - l’informò Case.
Maelcum annuì, senza smettere di parlottare nel microfono.
Case si issò oltre il groviglio di dreadlock del pilota e cominciò a togliersi la tuta. Adesso Maelcum aveva gli occhi chiusi e annuiva mentre prestava orecchio a una qualche risposta che gli stava giungendo tramite un paio di auricolari con i tamponcini color arancio vivo, la fronte aggrottata per la concentrazione. Indossava dei jeans sbrindellati e una vecchia giubba verde di nylon con le maniche strappate. Case ficcò la tuta rossa della Sanyo in un’amaca portabagagli e si calò fino alla rete-g.
— Vedi un po’ cosa dice quel fantasma, amico — propose Maelcum. — Il computer continua a chiedere di te.
— Ma allora chi c’è sopra quell’affare?
— Lo stesso giapponese già venuto prima. E adesso c’è con lui il tuo signor Armitage, uscito dal Freeside…
Case si applicò gli elettrodi e si inserì.
— Dixie?
La matrice gli mostrò le sfere rosa dell’acciaieria del Sikkim.
— Cosa stai combinando, ragazzo? Ho sentito delle storie sensazionali. Adesso l’Hosaka è collegato a un a tastiera gemella sulla barca del tuo capo. Va a mille. Hai attirato l’attenzione dei Turing?
— Sì, ma Invernomuto li ha ammazzati.
— Be’, questo non li fermerà a lungo. Ce ne sono ancora molti di quella razza. Verranno quassù in forze. Scommetto che i loro deck stanno già ronzando per tutto questo settore della griglia come le mosche sulla merda. E il tuo capo, Case, lui dice che è ora di andare. Di partire… e di partire adesso.
Case digitò le coordinate del Freeside.
— Mi ci vorrà un secondo, Case… — La matrice si offuscò ed entrò in fase quando il Flatline eseguì un’intricata serie di balzi con una velocità e una precisione che fecero trasalire Case per l’invidia.
— Merda, Dixie…
— Ehi, ragazzo, anch’io ero parecchio in gamba quand’ero al mondo. Non hai ancora visto niente. Senza mani!
— È quello, eh? Quel grosso rettangolo verde sulla sinistra?
— Ci sei. Il nucleo dei dati societari della Tessier-Ashpool S.A., e quell’ice è generato dalle loro due amichevoli IA. Mi pare che siano all’altezza di quelle militari. È un ice formato gigante quello, Case, un ice d’inferno, nero come una tomba e liscio come il ghiaccio. Ti frigge il cervello appena ti guarda. Se adesso ti avvicini un po’ di più, ti pianterà dei traccianti nel culo che ti usciranno da tutte e due le orecchie mentre lui fa sapere ai ragazzi della sala di controllo della T-A il tuo numero di scarpe e quanto ce l’hai lungo.
— Non ti pare che scotti un po’ troppo ’sta faccenda? Voglio dire, con quelli del Turing fra i piedi. Stavo pensando che forse dovremmo cercare di squagliarcela. Posso portarti con me.
— Sì? Davvero. Non vuoi vedere cosa può fare quel programma cinese?
— Be’, io… — Case studiò le pareti verdi dell’ice della T-A. — Ma sì, proviamo.
— Lancialo.
— Ehi, Maelcum — disse Case, scollegandosi. — È probabile che mi tocchi rimanere sotto gli elettrodi per otto ore filate. — Maelcum stava fumando di nuovo. La cabina era invasa dal fumo. — Così non potrò arrivare a…
— Nessun problema, amico. — Lo zionita eseguì un’acrobatica capriola in avanti per andare a rovistare nel contenuto di una borsa a maglia chiusa da una cerniera. Ne tirò fuori un rotolo di tubo trasparente e qualcos’altro, sigillato in un pacchetto a bolla sterile.
Spiegò che era un catetere texano, e a Case non piacque per niente.
Quest’ultimo lanciò il virus cinese, fece una pausa, poi completò l’operazione.
— Va bene. Ci siamo. Stammi a sentire, Maelcum: se la cosa si fa seria, puoi afferrarmi il polso sinistro. Lo sentirò. Altrimenti credo che dovrai fare quello che ti dice l’Hosaka, d’accordo?
— Sicuro, capo. — Maelcum s’accese un altro spinello.
— E accendi il depuratore. Non voglio che quella merda di fumo mi mandi a puttane i neurotrasmettitori. Già così ho un tremendo mal di testa.
Maelcum sogghignò.
Case si ricollegò.
— Cristo santo — disse il Flatline. — Guarda un po’ che roba.
Il virus cinese si stava propagando tutt’intorno a loro. Ombre policrome, innumerevoli strati alabastrini che si spostavano e si ricombinavano. Proteiforme, immenso, torreggiava su di loro, cancellando il vuoto.
— Grande madre — disse il Flatline.
— Vado a controllare Molly — dichiarò Case, attivando il pulsante del simstim.
Caduta libera. La sensazione di un tuffo nell’acqua perfettamente limpida. Molly stava cadendo-salendo attraverso un ampio tubo scanalato di cemento lunare, illuminato a intervalli di due metri da anelli di neon bianco. Il collegamento era a senso unico. Case non poteva parlarle.
Disattivò.
— Ragazzi, questo sì che è un pezzo di software davvero carogna. La più grossa novità dopo l’invenzione dei toast. Quel dannato affare è invisibile. Proprio adesso ho affittato venti secondi su quella scatoletta rosa, quattro salti a sinistra sull’ice della T-A, per dare un’occhiata a come apparivamo. Be’, non appariamo affatto. Non ci siamo.
Case esplorò la matrice intorno all’ice della Tessier-Ashpool fino a quando non trovò la struttura rosa, un’unità commerciale standard, e si digitò il più possibile vicino a essa. — Forse è difettosa.
— Forse, ma ne dubito. È una creatura dei militari, comunque. Ed è nuova. Banalmente, non fa registrare la sua presenza. Se lo facesse, avremmo letto i dati relativi a qualche genere di attacco cinese a sorpresa, invece nessuno si è agitato di un millimetro nonostante la nostra presenza. Forse neppure la gente a Straylight.
Case osservò la parete vuota che schermava villa Straylight. — Be’, è un vantaggio, giusto?
— Forse. — Il costrutto fece la vaga imitazione d’una risata. Case trasalì a quella sensazione. — Ho ricontrollato il vecchio Kuang Undici per te, ragazzo. Puoi fidarti… fintanto che sei dalla parte del grilletto è quanto di più cortese e servizievole si possa immaginare. Parla anche un discreto inglese. Hai mai sentito parlare di virus ad azione lenta?
— No.
— Io sì, una volta. All’epoca era soltanto un’ipotesi. Comunque è proprio di questo che si tratta. Qui non è questione di perforare e iniettare, ma è piuttosto come se ci interfacciassimo con l’ice in modo così lento che l’ice non se ne accorge neppure. In un certo senso la configurazione logica del Kuang si avvicina subdola al bersaglio, e poi muta in modo da diventare esattamente come il tessuto dell’ice. Poi noi ci agganciamo e subentrano i programmi principali, cominciando a menare per il naso i sistemi logici dell’ice. E diventiamo fratelli siamesi prima ancora che inizino ad agitarsi. — Il Flatline scoppiò nuovamente a ridere.
— Vorrei che non fossi così maledettamente allegro oggi, amico. Non so perché, ma quella tua risata mi fa correre i brividi lungo la schiena.
— Peggio per te — rispose il Flatline. — Il vecchio cadavere ha bisogno delle sue risate. — Case fece scattare l’interruttore del simstim.
E si schiantò in mezzo al metallo contorto e all’odore della polvere. Le mani scivolarono sulla carta liscia. Qualcosa alle sue spalle cadde con fracasso.
— Suvvia — disse Finn. — Tirati su un po’.
Case era riverso su una pila di riviste ingiallite, con le ragazze che lo guardavano raggianti nella penombra della Metro Holografix, una languida galassia di dolci denti bianchi. Giacque così fino a quando il suo cuore non ebbe rallentato il ritmo, respirando l’odore delle vecchie riviste.
— Invernomuto — disse.
— Sì — confermò Finn, da qualche punto dietro le sue spalle. — Hai fatto centro.
— Vai a farti fottere. — Case si rizzò a sedere, sfregandosi i polsi.
— Suvvia — replicò Finn, uscendo da una specie di alcova dentro quella parete di cianfrusaglie. — In questo modo è meglio per te, amico. — Estrasse i suoi Partagas da una tasca della giacca e ne accese uno. L’odore del tabacco cubano invase il negozio. — Vuoi che ti appaia nella matrice come un roveto ardente? Non ti perdi niente, stando laggiù. Un’ora qui ti costerà soltanto un paio di secondi.
— Ti è mai venuto in mente che possa darmi sui nervi il fatto che tu mi compaia nei panni di gente che conosco? — Case si alzò, spazzolandosi la polvere biancastra dai jeans, quindi si voltò guardando storto le vetrine impolverate del negozio, la porta chiusa che dava sulla strada. — Cosa c’è là fuori? New York, oppure finisce lì?
— Be’, è come quell’albero, no? È lì in mezzo al bosco, sì, proprio in mezzo, ma chi può vederlo, anche se esiste? — Finn mostrò a Case gli enormi incisivi e tirò una boccata dalla sigaretta. — Puoi uscire a fare una passeggiata, se vuoi. C’è tutto là fuori. Tutte le parti che tu hai visto, comunque. Questa è la memoria, giusto? Io l’attingo da te, la riordino e la reinserisco.
— Io non ho una memoria così buona — affermò Case, guardandosi intorno. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, girandole, e cercò di ricordare come fossero le linee del palmo, ma non ci riuscì.
— Tutti ce l’hanno, ma non molti di voi possono accedervi — disse Finn, lasciando cadere la sigaretta e schiacciandola sotto il tacco. — Gli artisti invece possono, per la maggior parte, se sono davvero in gamba. Se tu potessi stendere questo costrutto sopra la realtà, cioè l’abitazione di Finn nella parte bassa di Manhattan, noteresti una differenza, ma forse non tanto grande come te la immagini. Per te la memoria è olografica. — Finn si tormentò una delle sue piccole orecchie. — Io sono diverso.
— Cosa intendi con olografica? — Quella parola gli faceva pensare a Riviera.
— Il paradigma olografico è quanto di meglio abbiate elaborato per rappresentare la memoria umana. Ma non avete mai fatto niente in proposito. La gente, voglio dire. — Finn fece un passo avanti e inclinò il cranio aerodinamico per scrutare Case dal basso. — Forse, se l’aveste fatto, io non sarei mai esistito.
— Questo cosa vorrebbe dire?
Finn scrollò le spalle. Il tweed sbrindellato gli stava troppo largo sulle spalle, perciò non tornò del tutto alla posizione di partenza. — Sto cercando di aiutarti, Case.
— Perché?
— Perché ho bisogno di te. — I grossi denti gialli lampeggiarono di nuovo. — E perché tu hai bisogno di me.
— Balle. Non sai leggermi nel pensiero, Finn? — Case fece una smorfia. — Invernomuto, mi correggo.
— Le menti non vengono lette. Vedi, tu hai ancora i paradigmi che l’imprinting ti ha dato, eppure stai muovendo i primi passi. Io posso accedere alla tua memoria, ma non è la tua mente, non è la stessa cosa. — Finn allungò la mano dentro il telaio aperto di un antico televisore per prelevare una valvola color nero e argento. — Vedi questa? Fa parte del mio DNA, in un certo senso… — Quando gettò la valvola nell’oscurità Case la sentì esplodere e tintinnare. — Voi costruite modelli in continuazione. Cerchi di megaliti. Cattedrali. Organi a canne. Macchine calcolatrici. Io non ho la minima idea del motivo per cui mi trovo qui adesso, lo sai? Ma se l’operazione di stanotte andrà in porto, tu avrai finalmente raggiunto lo scopo.
— Non so di cosa stai parlando.
— Ho usato il tu in senso collettivo. Riferendomi alla tua specie.
— Hai ucciso quei Turing.
Finn scrollò le spalle. — Dovevo, dovevo. A te non dovrebbe importare un cazzo: ti avrebbero fatto fuori senza pensarci due volte. Comunque, visto che ti ho portato qui, dobbiamo discutere ancora. Ti ricordi di questo? — Ora la sua mano destra reggeva il nido di vespe carbonizzate del sogno di Case, fetore di combustibile nel chiuso del negozio immerso nell’oscurità. Case arretrò incespicando, appoggiandosi a una parete di cianfrusaglie. — Sì. Sono stato io. L’ho realizzato con l’apparecchiatura olo incorporata nella finestra. Un altro tuo ricordo al quale ho attinto quando ti ho ridotto linea piatta quella prima volta. Sai perché è importante?
Case scosse la testa.
— Perché — intanto non si sa come il nido era scomparso — è la cosa che assomiglia più da vicino a ciò che la Tessier-Ashpool vorrebbe essere. L’equivalente umano. Straylight è come quel nido, o per lo meno avrebbe dovuto risultare tale. Immagino che questo ti faccia sentire meglio.
— Sentirmi meglio?
— Sapere come sono quelli. Per un po’ avevi cominciato a odiarmi a morte. D’accordo. Ma sono loro che devi odiare. C’è la medesima differenza.
— Ascolta non mi hanno mai fatto niente di schifoso. Con te, è diverso… — replicò Case, facendo un passo avanti. Eppure non riusciva a sentire la rabbia.
— E così, è la T-A che mi ha fatto. La francese diceva che tu stavi svendendo la tua specie, e ha aggiunto che io sono un demonio. — Finn sogghignò. — Non ha molta importanza. Dovrai pure odiare qualcuno, prima che questa storia sia finita. — Si voltò, dirigendosi verso il retro del negozio. — Su, vieni, ti farò vedere un po’ di Straylight finché sei qui con me. — Sollevò l’angolo della coperta. Un improvviso fiotto di luce bianca. — Merda, amico, non startene lì impalato.
Case lo seguì, massaggiandosi il viso.
— Va bene — disse Finn, e l’afferrò per il gomito.
Vennero attirati oltre il drappo stantio in una nube di polvere, in caduta libera in un corridoio cilindrico di cemento lunare rigato, cerchiato di neon bianco a intervalli di due metri.
— Gesù — fece Case, rigirandosi in volo.
— Questo è l’ingresso principale — spiegò Finn nel suo tweed svolazzante. — Se non fosse un mio costrutto, dove c’è il negozio ci sarebbe l’entrata principale, in alto accanto all’asse del Freeside. Tutto questo sarà un po’ scarso di dettagli, comunque, dato che tu non hai ricordi in proposito. Salvo per questo pezzetto che hai ricevuto da Molly…
Case riuscì a raddrizzarsi in volo, ma cominciò a seguire una traiettoria a cavatappi.
— Aspetta — disse Finn. — Aumento la velocità di avanzamento.
Le pareti divennero una macchia indistinta. Sensazioni vertiginose di movimenti a capofitto, colori, angoli e stretti corridoi percorsi alla velocità di una scudisciata. A un certo punto a Case parve di attraversare una parete massiccia larga parecchi metri, un lampo di oscurità nera come la pece.
— Ecco — annunciò Finn. — Ci siamo.
Stavano galleggiando nel centro di una stanza perfettamente quadrata, con le pareti e il soffitto rivestiti da pannelli rettangolari di legno scuro. Il pavimento era coperto dal singolo quadrato di un tappeto smagliante con motivi simili a quelli di un microchip, i circuiti delineati con lana azzurra e scarlatta. Nell’esatto centro della stanza, perfettamente allineato con il motivo del tappeto, si ergeva un piedistallo quadrato di vetro bianco smerigliato.
— Villa Straylight è un corpo cresciuto su se stesso, una follia gotica. Ogni spazio a Straylight è in qualche modo segreto. Questa interminabile serie di stanze è collegata da corridoi, da rampe di scale con i soffitti a botte simili a intestini, dove l’occhio rimane intrappolato nelle strette curve, trasportato al di là di paraventi decorati, di vuote alcove… — annunciò la cosa ingioiellata sul piedistallo, con una voce che era quasi musica.
— Un saggio di 3Jane — spiegò Finn, prendendo un Partagas. — L’ha scritto quando aveva dodici anni. Un corso di semiotica.
— Gli architetti del Freeside si sono dati un bel daffare per celare il fatto che l’interno del fuso è sistemato con la banale precisione dell’arredamento di una stanza d’albergo. A Straylight la superficie interna del guscio è incrostata da una disperata proliferazione di strutture, forme che fluiscono, s’intersecano, levandosi verso un solido nucleo di microcircuiti, il cuore societario del nostro clan, un cilindro di silicio crivellato da sottili gallerie per la manutenzione, alcune non più larghe della mano d’un uomo, dove si rintanano granchi intelligenti, i teleguidati, pronti a individuare le avarie micromeccaniche o i segni di sabotaggio.
— È lei che hai visto al ristorante — disse Finn.
— Secondo gli standard dell’arcipelago la nostra è una vecchia famiglia, e le circonvoluzioni della nostra casa ne riflettono l’età — continuò la testa. — Ma riflettono anche qualcos’altro. La semiotica della villa rivela un’introversione, una negazione del vuoto abbagliante fuori dal guscio. I Tessier e gli Ashpool hanno scalato il pozzo gravitazionale per scoprire che odiavano lo spazio. Costruirono il Freeside per attingere alle ricchezze delle nuove isole, divennero ricchi ed eccentrici e iniziarono la costruzione di un corpo esteso a Straylight. Ci siamo asserragliati dietro i nostri soldi, crescendo verso l’interno, generando un universo fatto d’un solo pezzo, tutto per noi. Villa Straylight non conosce alcun cielo, registrato o altro. Nel nucleo di silicio della villa c’è una piccola stanza, la sola camera rettilinea del complesso, dove, su un semplice piedistallo di vetro, riposa un busto decorato, di platino e smalto, costellato di lapislazzuli e perle. Le piccole sfere luminose dei suoi occhi sono state tagliate dagli oblò di rubino sintetico della nave che portò il primo dei Tessier su dal pozzo e poi tornò a prendere il primo degli Ashpool…
La testa sprofondò nel silenzio.
— Allora? — domandò Case alla fine, quasi si aspettasse che la testa gli rispondesse.
— È tutto quello che ha scritto — disse Finn. — Non l’ha finito. Era soltanto una ragazzina. Questo affare è una specie di terminale di rappresentanza. Ho bisogno di Molly là dentro, con la parola giusta nel momento giusto. Sta qui il trucco. Non significa una sega quanto in profondità tu e il Flatline riuscite a spingervi con quel virus cinese se questo affare non sente la parolina magica.
— Allora, quale sarebbe questa parola?
— Non lo so. Potresti quasi dire che io sono fondamentalmente definito dal fatto che non lo so, perché non posso saperlo. Io sono colui che non conosce la parola. Se tu la conoscessi, amico, e me la dicessi, io non potrei saperla. È codificato nell’hardware. Qualcun altro deve apprenderla e portarla qui, proprio quando tu e il Flatline penetrerete attraverso quell’ice e scompiglierete i nuclei.
— E dopo cosa accadrà?
— Dopo, io non esisterò più. Io cesserò di esistere.
— A me va bene — disse Case.
— Sicuro. Ma attento al culo, Case. Il mio… ehm… altro lobo ci è addosso, a quanto pare. Un roveto ardente assomiglia a un altro. E Armitage sta partendo.
— E questo cosa significa?
Ma la stanza rivestita di pannelli si ripiegò su se stessa in una dozzina di angoli impossibili, allontanandosi roteante nel cyberspazio come un origami a forma di gru.
— Stai cercando di stracciare il mio record, figliolo? — chiese il Flatline. — Per cinque secondi sei stato di nuovo un cervello morto.
— Tìenti stretto — replicò Case, e attivò l’interruttore del simstim.
Molly era rannicchiata nel buio, le mani premute contro il ruvido cemento.
CASE CASE CASE CASE… Il display digitale pulsava il suo nome in caratteri alfanumerici, Invernomuto la stava informando del collegamento.
— Grazioso — disse Molly. Oscillò sui tacchi e si sfregò le mani facendo schioccare le nocche. — Cosa ti ha trattenuto?
È IL MOMENTO MOLLY È IL MOMENTO.
Molly premette con forza la lingua contro gli incisivi inferiori. Un dente si mosse appena, attivando gli amplificatori del microcanale, e quando il casuale rimbalzo dei fotoni attraverso l’oscurità fu convertito in un impulso elettronico il cemento intorno a lei risaltò granuloso e pallido come un fantasma. — Va bene, tesoro. Adesso usciamo a giocare.
Il suo nascondiglio risultò essere un qualche tipo di galleria di servizio. Molly strisciò fuori attraverso una elaborata griglia di ottone ossidato montata su cardini. Case vide quel tanto che bastava delle braccia e delle gambe per sapere che indossava di nuovo la tuta di policarburo. Sotto la plastica avvertì la familiare tensione del cuoio sottile e teso. C’era qualcosa appeso sotto il braccio, in una imbracatura o in una fondina. Molly si rizzò, aprì la lampo della tuta e sfiorò la plastica a scacchi del calcio di una pistola.
— Ehi, Case, mi stai ascoltando? — chiese, a stento udibile. — Ti racconto una storia… Avevo questo ragazzo, una volta. In un certo senso tu me lo ricordi… — Si girò a ispezionare il corridoio. — Johnny, si chiamava.
Lungo il corridoio basso dal soffitto a volta erano allineate decine di bacheche da museo, sostanzialmente casse dall’aspetto arcaico, di legno marrone con un vetro sul davanti. In quel luogo avevano un aspetto goffo al confronto delle curve funzionali delle pareti del corridoio, come se fossero state portate lì e messe in fila per qualche scopo dimenticato. Applique di ottone opaco sorreggevano globi di luce bianca a intervalli d’una decina di metri. Il pavimento era irregolare, e a mano a mano che si addentrava lungo il corridoio Case si rese conto che erano centinaia di tappeti e tappetini stesi alla rinfusa. In alcuni punti ce n’erano perfino cinque o sei sovrapposti: il pavimento era un morbido patchwork di lana tessuta a mano.
Molly prestò scarsa attenzione alle bacheche e al loro contenuto, il che lo irritò. Dovette accontentarsi di occhiate per niente interessate, il che gli permise d’intravedere soltanto frammenti di vasellame, armi antiche, un oggetto così fittamente irto di chiodi arrugginiti da risultare irriconoscibile, frammenti sfilacciati di arazzi…
— Sai, il mio Johnny era sveglio, un ragazzo davvero in gamba. Aveva cominciato come deposito segreto a Memory Lane, con i chip nella testa, e la gente pagava per nasconderci dentro i dati. Aveva gli yak alle calcagna, la notte che lo incontrai, e io feci fuori il loro assassino. Fu più fortuna che altro, ma lo feci per lui. E dopo, fu tanto intimo e dolce, Case. — Le sue labbra si muovevano appena. La sentì formare parole: non aveva bisogno di sentirgliele pronunciare ad alta voce. — Disponendo d’una sonda, eravamo in grado di leggere le tracce di tutto quello che aveva registrato, nonostante fosse protetto. Passammo ogni cosa su un nastro magnetico, poi cominciammo a prendere di mira dei clienti scelti… ex clienti. Io provvedevo a incassare, facevo la gorilla e il cane da guardia. Ed ero davvero felice. Tu, Case, sei mai stato felice? Lui era il mio ragazzo. Lavoravamo insieme. Soci. Ero uscita dalla casa dei pupazzi da circa otto settimane quando lo conobbi… — Fece una pausa, girò intorno a una curva secca e proseguì. Altre bacheche di legno lucido, con le pareti di un colore che gli ricordava le ali degli scarafaggi.
— Eravamo intimi, dolci, sincronizzati come due orologi. Ci pareva che nessuno avrebbe mai potuto farci del male. Io non gliel’avrei permesso. Immagino che la Yakuza volesse ancora fare la pelle a Johnny. In fondo io avevo ucciso il loro uomo. E Johnny li aveva fregati. E gli yak possono permettersi di muoversi con tanta schifosa lentezza, amico mio: sono capaci di aspettare anni e anni, pazienti come un ragno, così hai più da perdere. Ragni zen. Allora non lo sapevo. Oppure, se lo sapevo, immaginavo che non valesse per noi. Come quando sei giovane e credi di essere unico. Io ero giovane. Poi arrivarono, proprio quando pensavamo di aver fatto abbastanza soldi per potercene andare, chissà, forse in Europa. Non che qualcuno di noi due sapesse cosa avremmo fatto una volta laggiù, non avendo la minima prospettiva. Però sguazzavamo nei quattrini, conti orbitali svizzeri e una tana piena di giocattoli e di mobili. Toglie mordente al tuo gioco. Insomma, il primo che hanno mandato era il massimo. Riflessi come non ne hai mai visti, innesti, stile a sufficienza per dieci criminali di prim’ordine. Ma il secondo era, non so, un monaco. Clonato. Un killer di pietra, dalle cellule in su. Ce l’aveva dentro, la morte, quel silenzio che irradiava da lui come una nube… — La sua voce si spense quando il corridoio si diramò in due identiche rampe di scale che scendevano. Molly prese quella di sinistra.
— Una volta, quand’ero ragazzina, occupavamo una baracca. Stavamo vicino all’Hudson, e quei ratti, amico, erano belli grossi. Sono le sostanze chimiche che ingeriscono. Grossi quanto me, e per tutta la notte uno di loro aveva continuato a grattare sotto il pavimento della baracca. Verso l’alba qualcuno accompagnò dentro quel vecchio, con le rughe che gli scendevano giù per le guance e gli occhi infiammati. Aveva un rotolo di cuoio tutto unto come quelli che si usano per tenerci dentro gli arnesi di acciaio, per impedire che si arrugginiscano. L’aprì. Dentro c’era il suo vecchio revolver e tre pallottole. Il vecchio infila un proiettile, poi comincia a gironzolare per la baracca. Noi ci teniamo appiattiti vicino alle pareti. Avanti, indietro. Incrocia le braccia, a testa bassa, come se si fosse dimenticato la pistola. Ascolta il ratto. Noi stiamo proprio zitti, zitti sul serio. Il vecchio fa un passo. Il ratto si muove. Il vecchio fa un altro passo. Così per un’ora, poi pare ricordarsi della sua pistola. La punta verso il pavimento, sorride e preme il grilletto. Riavvolge il rotolo di cuoio e se ne va. Più tardi strisciai là sotto. Il ratto aveva un foro tra gli occhi. — Molly stava osservando le porte chiuse lungo il corridoio. — Il secondo, quello che venne per Johnny, era come quel vecchio. Non anziano, ma era simile. Uccideva in quel modo. — Il corridoio si allargò. Il mare di folti tappeti si stendeva con le sue ondulazioni sotto un enorme candelabro il cui pendaglio più basso arrivava fin quasi al pavimento. Il cristallo tintinnò quando Molly arrivò in quel tratto. TERZA PORTA A SINISTRA, ammiccò una scritta.
Girò a sinistra, evitando quell’albero invertito di cristallo. — L’ho visto una volta soltanto. Mentre stavo tornando a casa. Lui stava uscendo. Vivevamo nell’area di una fabbrica convertita ad abitazioni, assieme a un sacco di rampanti venduti alla Senso/Rete. Le misure di sicurezza erano molto efficienti, tanto per cominciare, e io ci avevo aggiunto qualcosa di molto tosto per renderle davvero stagne. Sapevo che Johnny era di sopra. Ma quel tipetto aveva attirato il mio sguardo mentre usciva. Non disse una parola. Ci guardammo e basta, e io capii. Un tipo banale, vestiti banali, nessun orgoglio. Umile. Mi guardò e salì su un pieditassì. Avevo capito. Salii di sopra. Johnny si trovava su una sedia accanto alla finestra, con la bocca socchiusa, proprio come se stesse pensando a qualcosa da dire.
La porta di fronte a lei era vecchia, una tavola scolpita di tek tailandese che pareva essere stato segato per adattarsi alla soglia bassa. Una primitiva serratura meccanica con una placca di acciaio inossidabile era stata incassata sotto un drago svolazzante. Molly s’inginocchiò, prese da una tasca interna un rotolo di pelle di camoscio e scelse uno stiletto sottile come un ago. — Dopo, non ho più trovato nessuno di cui mi fregasse veramente qualcosa.
Inserì lo stiletto e lavorò in silenzio, mordicchiandosi il labbro inferiore. Pareva affidarsi soltanto al tocco. Il suo sguardo non era a fuoco e la porta era soltanto una chiazza indistinta di legno giallastro. Case ascoltò il silenzio del corridoio, punteggiato dai tintinnii irregolari del candelabro. Candele? Straylight era tutta sbagliata. Ricordò la storia di Cath relativa a un castello con piscine e gigli, e le parole affettate di 3Jane recitate come una musica dalla testa. Un posto cresciuto su se stesso. Straylight sapeva di muschio, dello stesso vago sentore di una chiesa. Dov’erano i Tessier-Ashpool? S’era quasi aspettato un lindo alveare di attività disciplinata, ma Molly non aveva incontrato nessuno. Il suo monologo lo rendeva inquieto, non gli aveva mai detto tante cose su se stessa prima di allora. A parte la storia nel cubicolo, assai di rado aveva detto qualcosa che minimamente indicasse un passato.
Molly chiuse gli occhi, e vi fu un clic che Case intuì più che udire. Gli ricordò le serrature magnetiche sulla porta del cubicolo nel locale dei pupazzi. La porta si era aperta per lui malgrado avesse il chip sbagliato. Era stato Invernomuto a manipolare la serratura, così come aveva manipolato l’ultraleggero e il giardiniere robot. Il sistema di serrature nel locale dei pupazzi era una subunità del sistema di sicurezza del Freeside. La banale serratura meccanica della villa costituiva un vero problema per l’IA, richiedendo un telecomandato di qualsiasi genere oppure un agente umano.
Molly aprì gli occhi, rimise lo stiletto dentro la pelle di camoscio, arrotolandola con molta cura, e se la ricacciò nella tasca. — Credo che tu sia un po’ come lui — proseguì. — Tu credi di essere nato per correre. Immagini che quello che facevi là a Chiba fosse una versione ridotta di quello che avresti fatto in qualunque altro posto. La sfortuna, come a volte capita, ti riduce ai minimi termini. — Molly si alzò, si stiracchiò, si scrollò. — Sai, credo che quel Tessier-Ashpool mandato a dare la caccia a Jimmy, il ragazzo che aveva rubato la testa, doveva essere molto simile a quello che gli yak hanno inviato a uccidere Johnny. — Molly estrasse la Fletcher dalla fondina e regolò la canna sull’automatico.
Case fu colpito dalla bruttezza del battente quando Molly si avvicinò. Non dalla porta in sé, che era bellissima, o che un tempo doveva aver fatto parte di un insieme molto elegante, ma per il modo in cui era stata segata per adattarla a quel particolare ingresso. Perfino la forma era sbagliata, un rettangolo fra curve lisce di cemento levigato. Evidentemente importavano da fuori questi oggetti, poi li adattavano a forza. Ma niente si adattava del tutto. La porta era come quegli armadietti goffi, come il gigantesco albero di cristallo. Poi ricordò il saggio di 3Jane, e immaginò che gli accessori fossero stati portati su dal pozzo gravitazionale per dare maggiore consistenza a un piano, a un sogno smarrito da lungo tempo nello sforzo ostinato di riempire lo spazio, di replicare qualche immagine familiare di se stessi. Ricordò il nido di vespe sfasciato, quelle minuscole creature senz’occhi che si contorcevano…
Quando Molly afferrò una delle zampe anteriori del drago scolpito nel legno, la porta si aprì con facilità.
La stanza era piccola, intasata, poco più di uno sgabuzzino. Grigi armadietti d’acciaio per attrezzi erano addossati a una parete ricurva. Una luce s’era accesa automaticamente. Molly chiuse la porta e si avvicinò alla fila di armadietti.
TERZO A SINISTRA pulsò il chip ottico. Invernomuto si stava sovrapponendo al suo display orario. QUINTO IN BASSO. Invece Molly aprì per primo il cassetto più alto. Era poco più di un vassoio. Vuoto. Anche il secondo era vuoto. Il terzo, più profondo, conteneva delle sfere opache di metallo per saldature e un piccolo oggetto bruno che pareva l’osso di un dito umano. Il quarto cassetto conteneva la copia gualcita dall’umidità di un manuale tecnico obsoleto scritto in francese e in giapponese. Nel quinto, dietro un pesante guanto corazzato di tuta da vuoto, trovò la chiave. Era come una moneta di ottone opaco con un corto tubo cavo saldato al bordo. Molly la rigirò lentamente fra le mani. Case vide che l’esterno del tubo era costellato di borchie e di flange. Le lettere CHUBB erano fuse su una delle due facce della moneta. L’altra era liscia.
— Invernomuto mi ha detto… — bisbigliò lei. — Mi ha detto di aver fatto un gioco di attesa per anni. Allora non aveva un vero potere, però era in grado di usare i sistemi di sicurezza e di protezione della villa per sapere dove si trovava ogni oggetto, a quale scopo serviva e come funzionava. Vent’anni fa ha visto qualcuno perdere questa chiave, e ha fatto in modo che qualcun altro la lasciasse qui. Poi ha ucciso chi l’ha portata qui. Era un ragazzino di otto anni. — Molly serrò le dita bianche sulla chiave. — Così nessuno avrebbe potuto trovarla. — Prese un tratto di cordicella di nylon nero dal marsupio della tuta e l’infilò nel foro rotondo sopra CHUBB. L’annodò, passandosela intorno al collo. — Mi ha detto che gli rompevano sempre i coglioni con quella storia di com’erano all’antica, con tutta la loro roba del diciannovesimo secolo. Lui aveva proprio l’aspetto di Finn sullo schermo in quella topaia dei pupazzi di carne. Potevo quasi convincermi che fosse Finn, se non facevo molta attenzione. — Sul suo schermo balenò l’ora. Alfanumerici sovrapposti ai grigi armadietti d’acciaio. — Ha detto che se fossero diventati quello che voleva lui avrebbe potuto uscire già da un bel pezzo. Ma non l’hanno fatto. Hanno sballato tutto. Mostriciattoli come 3Jane. È così che l’ha chiamata. Me ne ha parlato come se gli fosse simpatica.
Molly si girò, aprì la porta e uscì, sfiorando con la mano l’impugnatura a scacchi della Fletcher infilata nella fondina.
Case commutò.
Il Kuang Grade Versione Undici stava crescendo.
— Dixie, pensi che questo affare funzionerà?
— Come no? — Il Flatline li digitò ambedue attraverso strati cangianti di arcobaleno.
Qualcosa di scuro si stava formando nel nucleo del programma cinese. La densità dell’informazione sopraffece la trama della matrice, attivando immagini ipnagogiche. Deboli sprazzi caleidoscopici si focalizzarono su un punto nero-argento. Case vide i simboli del male e della sfortuna della sua infanzia roteare lungo piani luminescenti, svastiche, teschi e tibie incrociate, dadi con un doppio uno. Se guardava direttamente quel punto zero, non si formava nessun contorno. Eseguì rapidamente una dozzina di ricognizioni periferiche prima di vederla, qualcosa simile a uno squalo, luccicante come ossidiana, gli specchi neri dei fianchi riflettenti deboli luci lontane che non avevano nessun rapporto con la matrice intorno.
— È quello il pungiglione — disse il costrutto. — Una volta che il Kuang avrà saldamente in pugno il nucleo della Tessier-Ashpool, potremo passarci attraverso.
— Avevi ragione, Dix. C’è una possibilità di intervento manuale sull’hardware che tiene Invernomuto sotto controllo. Per quanto lui sia per la maggior parte sotto controllo — aggiunse.
— Lui — replicò il costrutto. — Lui. Stai attento. Non è un lui, è una cosa. Non faccio altro che ripeterlo.
— È un codice. Una parola, ha detto. Qualcuno deve pronunciarla in una specie di leggiadro terminale in una certa stanza, mentre noi ci occupiamo di qualunque cosa ci stia aspettando dietro quell’ice.
— Be’, ne hai di tempo da ammazzare, ragazzo — osservò il Flatline. — Il vecchio Kuang è lento ma sicuro.
Case si scollegò.
E si trovò davanti Maelcum che lo fissava.
— Tu morto mentre eri là, amico.
— Cose che capitano — rispose Case. — Io ci sono abituato.
— Tu hai a che fare con buio, amico.
— È il solo gioco in città, a quanto pare.
— Te piace, Case — disse Maelcum prima di riportare la sua attenzione sul radiomodulo. Case osservò i muscoli tesi sulle braccia scure dell’uomo.
Si ricollegò.
Era di nuovo dentro.
Molly stava avanzando a passo svelto in un tratto di corridoio che forse aveva già percorso prima. Adesso le bacheche con la parete anteriore di vetro erano sparite, e Case decise che stavano andando verso la punta del fuso, dal momento che la gravità stava diventando sempre più debole. Ben presto Molly si trovò a saltellare disinvoltamente sopra le collinette ondulate formate dai tappeti. Deboli fitte nella gamba…
D’un tratto il corridoio si strinse, svoltò, si divise.
Molly girò a sinistra e cominciò a salire una strana rampa di scale, mentre la gamba cominciava a farle davvero male. Sopra di lei, sulla tromba delle scale, c’erano cavi legati in fasci e attaccati al soffitto, simili a gangli linfatici colorati. Le pareti erano chiazzate dall’umidità.
Quando Molly arrivò a un pianerottolo triangolare si fermò, massaggiandosi la gamba. Altri corridoi, angusti, con tappeti appesi alle pareti. Si diramavano in tre direzioni.
SINISTRA.
Molly scrollò le spalle.
SINISTRA.
— Rilassati. C’è tempo. — S’incamminò lungo il corridoio di destra.
FERMATI.
TORNA INDIETRO.
PERICOLO.
Esitò. Dalla porta socchiusa all’estremità opposta del corridoio giunse una voce, forte e biascicata, come quella di un ubriaco. Case sospettò che la lingua potesse essere francese, ma era troppo indistinta. Molly fece un passo, un altro, facendo scivolare la mano dentro la tuta per toccare il calcio della Fletcher. Quando entrò nel campo neurale disgregante, nelle orecchie le risuonò una sottile vibrazione crescente che a Case ricordò il rumore della Fletcher. Molly crollò in avanti, con i muscoli striati fuori uso, e colpì la porta con la fronte. Si rigirò e giacque supina, con gli occhi sfocati, il respiro cessato.
— Cos’è questo? — disse la voce biascicata. — Un ballo in maschera? — Una mano penetrò nel davanti della tuta e quando trovò la Fletcher la sfilò. — Vieni a farmi visita, bambina. Adesso.
Molly si rialzò adagio, con gli occhi fissi sulla bocca della nera pistola automatica. Adesso la mano dell’uomo era diventata abbastanza ferma, e la canna della pistola pareva attaccata alla gola di Molly da una cordicella tesa e invisibile.
Era vecchio, molto alto, e i lineamenti ricordavano a Case la ragazza che aveva intravisto al Vingtième Siècle. Indossava una pesante vestaglia di seta marrone, imbottita nei lunghi polsini e nel colletto a scialle. Un piede era nudo, l’altro calzato in una pantofola di velluto nero con una testa di volpe ricamata in oro sopra la tomaia. Le fece cenno di entrare nella stanza. — Piano, carina. — La stanza era molto ampia, gremita di un assortimento di oggetti che non avevano nessun significato per Case. Vide una scaffalatura d’acciaio piena di monitor Sony vecchio modello, un ampio letto d’ottone sul quale erano ammucchiate pelli di pecora, con cuscini che parevano confezionati con lo stesso tipo di tappeto usato per i corridoi. Gli occhi di Molly guizzarono dalla gigantesca consolle giochi della Telefunken agli scaffali di antiche registrazioni su disco, con i dorsi sbriciolati racchiusi nella plastica trasparente, a un ampio bancone da lavoro su cui erano sparpagliate placche di silicio. Case registrò la presenza di un deck da cyberspazio con i relativi elettrodi, ma lo sguardo di Molly vi passò sopra senza fermarsi.
— A questo punto per me sarebbe d’uopo ucciderti — disse il vecchio. Case la sentì tendersi, pronta a scattare. — Ma stanotte voglio concedermi un piccolo lusso. Come ti chiami?
— Molly.
— Molly. Io sono Ashpool. — Il vecchio tornò ad affondare nella morbidezza sgualcita di una gigantesca poltrona di cuoio con squadrate gambe cromate, ma la pistola non ebbe un solo istante di esitazione. Poi posò la Fletcher di Molly su un tavolino di vetro accanto alla poltrona, rovesciando un flacone di plastica pieno di pillole rosse. Il tavolino era coperto di flaconi, bottiglie di liquore, bustine di plastica da cui fuoriuscivano polveri bianche. Case notò un’ipodermica di vetro di vecchio tipo e un comune cucchiaio metallico.
— Come fai a piangere, Molly? Noto che hai gli occhi schermati. Sono curioso. — Aveva gli occhi cerchiati di rosso, la fronte luccicante di sudore. Era pallidissimo. Malato, decise Case, oppure a causa delle droghe.
— Non piango granché.
— Ma come piangeresti, se qualcuno ti facesse piangere?
— Sputo. I dotti lacrimali sono stati deviati dentro la bocca.
— Allora hai imparato una lezione molto importante, per essere tanto giovane. — Ashpool appoggiò sul ginocchio la mano con la pistola e prese una bottiglia dal tavolino accanto, senza preoccuparsi di scegliere tra la mezza dozzina di liquori diversi. Bevve. Brandy. Un rivolo di liquore gli scivolò dall’angolo della bocca. — È questo il modo migliore per affrontare le lacrime. — Tornò a bere. — Ho da fare stasera, Molly. Ho costruito tutto questo, e adesso sono molto occupato. A morire.
— Potrei andarmene da dove sono venuta — disse lei.
Lui rise, un suono stridulo e aspro. — Tu t’intrometti nel mio suicidio e poi mi chiedi semplicemente di andartene? Davvero mi stupisci. Sei una ladra.
— Voglio soltanto uscirmene di qui tutta d’un pezzo. Ho solo questo culo.
— Sei una ragazza molto sgarbata. Qui i suicidi vengono condotti con un certo grado di decoro. È quello che sto facendo, capisci, ma forse ti porterò con me stasera, giù all’inferno… Sarebbe molto egiziano da parte mia. — Bevve un altro sorso. — Vieni qui, allora. — Le porse la bottiglia con mano tremante. — Bevi.
Molly scosse la testa.
— Non è avvelenato — le garantì lui, ma rimise il brandy sul tavolino. — Siediti. Siediti sul pavimento. Parliamo.
— Di che? — chiese Molly, sedendosi. Case sentì le lame sotto le unghie muoversi leggermente.
— Di qualunque cosa mi venga in mente. La mia mente, sì. È la mia festa. I nuclei mi hanno svegliato. Venti ore fa. Stava succedendo qualcosa, hanno detto, e c’era bisogno di me. Eri tu quel qualcosa, Molly. Certamente non avevano bisogno di me per sistemarti, no? Qualcos’altro… ma io ho sognato, capisci, per trent’anni. Tu non eri ancora nata l’ultima volta che mi sono steso per dormire. Ci avevano detto che non avremmo sognato, in quel gelo. Ci avevano anche detto che non avremmo mai patito il freddo. Follia, Molly. Bugie. Naturalmente ho sognato. Il freddo ha lasciato entrare quello che c’era fuori, ecco com’è stato. Fuori. Per tutta la notte ho costruito questo per nasconderci. Soltanto una goccia, all’inizio, un granello di notte che filtrava dentro, attirato dal freddo… Altri l’hanno seguita, riempiendomi la testa come la pioggia riempie una piscina vuota. Le calle. Le ricordo. Le piscine erano di terracotta, le sirene tutte di cromo, come luccicavano le loro membra alla luce del tramonto… Sono vecchio, Molly. Più di duecento anni, se conti il freddo. Il freddo. — D’un tratto la canna della pistola si alzò, fremente. Adesso i tendini delle cosce di Molly erano tesi come cavi.
— Ci si può bruciare nel congelatore — dichiarò lei con cautela.
— Qui niente brucia — replicò il vecchio in tono spazientito, abbassando la pistola. I suoi pochi movimenti erano sempre più sclerotizzati. La testa annuì. Gli ci volle uno sforzo per fermarla. — Niente brucia. Adesso me ne ricordo. I nuclei mi hanno detto che le nostre intelligenze sono folli. Nonostante tutti i miliardi che abbiamo pagato tanto tempo fa, quando le intelligenze artificiali erano un concetto piuttosto arcano. Ho detto ai nuclei che ci avrei pensato io. Un brutto momento davvero, con 8Jean giù a Melbourne e soltanto la nostra dolce 3Jane a badare alla baracca. O forse il momento migliore. Tu ci capisci qualcosa, Molly? — La pistola si sollevò un’altra volta. — Adesso stanno succedendo cose molto strane, a villa Straylight.
— Capo, conosci Invernomuto?
— Un nome? Sì. Con cui fare incantesimi, forse. Un signore dell’inferno, di sicuro. Ai miei tempi, cara Molly, ho conosciuto molti signori. E non poche signore. Ehi, una regina di Spagna, una volta, proprio su quel letto… Ma sto divagando. — Esplose in un umido accesso di tosse, la bocca della pistola che sobbalzava mentre il vecchio era in preda alle convulsioni. Sputò sul tappeto accanto al proprio piede nudo. — Ah, sto divagando. In mezzo al freddo. Ma molto presto sarà finita. Ho ordinato che venisse scongelata una Jane quando mi sono svegliato. Strano, giacere ogni certo numero di decenni con quella che è legalmente la propria figlia. — Il suo sguardo scivolò oltre Molly, verso la fila di monitor spenti. Il vecchio parve rabbrividire. — Gli occhi di Marie-France — disse con un filo di voce, e sorrise. — Facciamo in modo che il cervello diventi allergico ad alcuni dei propri neurotrasmettitori, dando come risultato una peculiare imitazione flessibile dell’autismo. — La sua testa penzolò di lato, poi la risollevò. — A quanto mi è dato di capire adesso, l’effetto si ottiene molto più facilmente con un microchip incorporato.
La pistola gli scivolò dalle dita, rimbalzò sul tappeto.
— I sogni crescono adagio come il ghiaccio — proseguì. Il suo viso era azzurrato. La testa riaffondò nel cuoio accogliente e cominciò a russare.
Molly scattò in piedi e afferrò la pistola. Attraversò la stanza a grandi passi con l’automatica di Ashpool in pugno.
Una grande trapunta era ammucchiata accanto al letto, in un’ampia pozza di sangue coagulato, denso e luccicante sopra il disegno del tappeto. Scostando un angolo della trapunta Molly scoprì il corpo di una ragazza, le bianche scapole rese viscide dal sangue. La gola era stata tranciata di netto. La lama triangolare di una specie di raschietto luccicava nella pozza scura accanto al corpo esanime. Molly s’inginocchiò, facendo attenzione a evitare la pozza di sangue, e girò il volto della ragazza morta verso la luce. Il viso che Case aveva visto al ristorante.
Vi fu un clic, qualcosa scattò al centro stesso delle cose, e il mondo fu come d’incanto congelato. La trasmissione simstim di Molly si trasformò in una diapositiva, le sue dita sulla guancia della ragazza. L’immobilità durò in tutto tre secondi, poi il volto morto fu alterato, divenne il viso di Linda Lee.
Un altro clic, e la stanza si offuscò. Molly stava guardando un laser disc dorato accanto alla piccola consolle sul ripiano di marmo del comodino. Un tratto di fibra ottica correva come un guinzaglio dalla consolle fino a una presa alla base del collo sottile.
— Ho il tuo numero, bastardo schifoso — disse Case, sentendo le proprie labbra muoversi, da qualche parte, molto lontano. Sapeva che Invernomuto aveva modificato la trasmissione. Molly non aveva affatto visto il volto della ragazza morta turbinare in una nuvola di fumo per assumere i contorni senza vita di Linda.
Molly si girò per attraversare la stanza fino alla poltrona di Ashpool. Il respiro dell’uomo era lento e irregolare. Molly scrutò nel guazzabuglio di droghe e alcool. Posò la pistola, afferrò la Fletcher, regolò la canna sul colpo singolo e con molta cura gli piazzò un dardo a tossina al centro della palpebra sinistra abbassata. Ashpool ebbe un unico sussulto, il respiro gli si bloccò a metà inspirazione. L’altro occhio, castano e insondabile, si aprì lentamente.
Era ancora aperto quando Molly si girò per lasciare la stanza.
— Ho preso contatto con il tuo capo — disse il Flatline. — Sta arrivando attraverso l’Hosaka gemello nella barca al piano di sopra, quello che fa a cavalluccio con noi. Haniwa, si chiama.
— Lo so — annuì Case con aria assente. — L’ho visto.
Una losanga di luce bianca si materializzò con un clic davanti a lui, nascondendo l’ice della Tessier-Ashpool e mostrandogli il volto calmo, perfettamente a fuoco, totalmente folle di Armitage. I suoi occhi erano vuoti come pulsanti. Armitage ammiccò. Lo guardò fisso.
— Immagino che Invernomuto si sia occupato anche dei tuoi Turing, eh? Come si è occupato dei miei — disse Case.
Armitage continuò a fissarlo. Case resistette all’improvviso impulso di guardare altrove, di abbassare lo sguardo. — Stai bene, Armitage?
— Case… — e per un istante qualcosa parve muoversi, dietro quell’azzurro sguardo fisso. — Hai visto Invernomuto, vero? Nella matrice.
Case annuì. Una telecamera sulla superficie del suo Hosaka sul Marcus Garvey poteva trasmettere il gesto al monitor dell’Haniwa. Immaginò Maelcum intento ad ascoltare le sue mezze conversazioni in trance, incapace di percepire le voci del costrutto o di Armitage.
— Case… — e gli occhi divennero più grandi. Armitage che si chinava verso il suo computer. — Che cos’è quando lo vedi?
— Un costrutto simstim ad alta definizione.
— Ma chi?
— Finn, l’ultima volta… Prima ancora, quel magnaccia che io…
— Non il generale Girling?
— Il generale chi?
La losanga si spense.
— Fallo scorrere di nuovo e di’ all’Hosaka di controllare — disse al costrutto.
Cambiò.
La prospettiva lo sorprese. Molly era rannicchiata fra le travi d’acciaio, venti metri sopra un ampio piancito di liscio cemento chiazzato. Il vasto locale era un hangar o un’area di servizio. Poteva vedere tre mezzi spaziali, nessuno più grande del Garvey, e tutti in differenti fasi di riparazione. Voci che parlavano in giapponese. Una figura in tuta arancione uscì dallo scafo di un veicolo di servizio tondeggiante per fermarsi accanto a un braccio a pistoni curiosamente antropomorfo della macchina. L’uomo digitò qualcosa su una consolle portatile e si diede una grattatina alle costole. Un telecomandato rosso simile a un carrello comparve muovendosi su grigi copertoni.
CASE, lampeggiò il chip di Molly.
— Ehi — disse lei. — Sto aspettando una guida.
E tornò ad accovacciarsi, le braccia e le ginocchia della tuta dei Moderni del colore della vernice grigio azzurra delle travi. La gamba le faceva male, un dolore acuto e costante. — Avrei fatto meglio a tornare a Chin — borbottò Molly.
Qualcosa sbucò dall’ombra ticchettando tranquillamente, all’altezza della sua spalla sinistra. Si fermò un istante, fece ondeggiare il corpo sferico sulle zampe da ragno, emise una raffica di luce laser diffusa della durata di un microsecondo e s’immobilizzò. Era un micromobile Braun. Un tempo Case aveva posseduto lo stesso modello, un accessorio inutile che aveva ottenuto come parte di un accordo “tutto compreso” con un ricettatore di hardware a Cleveland. Pareva uno stilizzato Papà Gambalunga d’un nero opaco. Un led rosso cominciò a pulsare all’equatore della sfera. Il corpo non era più grande di una palla da baseball. — Perfetto — disse Molly. — Ti sento. — Si alzò in piedi per dare sollievo alla gamba sinistra mentre seguiva con lo sguardo il piccolo veicolo che faceva inversione. La macchina avanzò metodicamente lungo la trave scomparendo di nuovo nel buio.
Molly si girò verso l’area di servizio. L’uomo con la tuta arancione stava chiudendo la parte anteriore di uno scafandro bianco. Molly l’osservò mentre girava la guarnizione ad anello e sigillava il casco, per poi afferrare la consolle e rientrare attraverso il varco nello scafo del mezzo di servizio. Si udì il gemito crescente dei motori, quindi l’oggetto scivolò senza sforzo apparente fuori dalla vista su un cerchio di dieci metri di diametro che affondò nel pavimento in mezzo al crudo bagliore di lampade ad arco. Il veicolo rosso aspettava paziente sul bordo del foro lasciato dal ripiano del montacarichi.
Poi Molly si mosse dietro al Braun, facendosi strada in mezzo alla foresta di putrelle d’acciaio saldate. Il Braun continuava ad ammiccare con il suo led, indicandole di proseguire.
— Come te la cavi, Case? Sei di nuovo sul Garvey di Maelcum? Sicuro. E sei collegato. Mi piace, sai. Mi è sempre piaciuto parlare con me stessa quando mi sono trovata in situazioni critiche. Fingo di avere degli amici, qualcuno di cui potermi fidare, e gli dico quello che provo, quello che penso veramente, e così via. Averti qui è un po’ la stessa cosa. Quella scena con Ashpool… — Si morse il labbro inferiore, girando attorno a una trave, senza perdere di vista il veicolo. — Mi aspettavo qualcosa di meno deteriorato, sai. Voglio dire, questi tipi qui dentro sono tutti una gran massa di sterco di pipistrello, quasi che avessero dei messaggi luminosi scribacchiati all’interno della fronte o qualcosa del genere. Non mi piace quello che vedo, non mi piace l’odore che hall veicolo si stava inerpicando per una scala quasi invisibile di pioli d’acciaio a forma di U che saliva verso un’apertura stretta e scura. — E visto che mi sento in vena di confessioni, bimbo, devo ammettere che comunque stavolta non mi aspettavo più di tanto di farcela. È da un po’ che sono sulla lista dei cattivi, e tu sei il solo miglioramento che mi sia capitato da quando ho firmato con Armitage. — Molly sollevò lo sguardo sul cerchio nero. Il led ammiccava mentre la macchina continuava la sua scalata. — Anche se non sei poi così forte, dopo tutto. — Sorrise, ma il sorriso se ne andò troppo in fretta. Molly digrignò i denti per il dolore lancinante alla gamba quando cominciò ad arrampicarsi. La scala continuava a salire attraverso un tubo metallico, a stento largo abbastanza da lasciar passare le spalle.
Si stava arrampicando fuori della gravità, verso l’asse senza peso.
Il suo chip scandiva il tempo.
04:23:04.
Era stata una giornata molto lunga. La chiarezza del sensorio interrompeva il morso della betafenetilammina, ma Case la sentiva ancora. Preferiva il dolore della gamba di Molly.
CASE: 0000
00000000
0000000.
— Credo sia per te — disse Molly, continuando ad arrampicarsi meccanicamente. Gli zeri ricomparvero sfarfallanti e un messaggio balbettò nell’angolo del campo visivo, tagliato dal circuito del display:
GENERALE G
IRLING::::
ADDESTRATO
CORTO PER
PUGNO URLA
NTE EVEND
UTO SUOCU
LO A PENTA
GONO::::::
LA PRESA P
RIMARIA DI
I/MUTO SU
ARMITAGE È
UN COSTRUT
TO DI GIRL
ING:::::::
I/MUTO DIC
E CHE MENZ
IONE DI G
SIGNIFICA
CHE STA CR
OLLANDO:::
GUARDATI L
E SPALLE::
::::DIXIE
— Be’, mi pare che anche tu abbia qualche problemino — disse Molly, facendo gravare tutto il suo peso sulla gamba sinistra. Abbassò lo sguardo. Un debole cerchio di luce, non più grande della chiave Chubb che le penzolava sul seno. Sollevò lo sguardo. Niente del tutto. Appena toccò con la lingua gli ampli, il tubo parve protendersi all’infinito, mentre il Braun continuava a salire lungo i pioli. — Nessuno mi aveva parlato di questa parte — disse Molly.
Case si scollegò.
— Maelcum…
— Amico, tuo capo diventato molto strano. — Lo zionita indossava una tuta da vuoto azzurra della Sanyo di vent’anni più antiquata, come minimo, di quella che Case aveva affittato a Freeside, con il casco sotto il braccio e i dreadlock raccolti in un berrettino di rete confezionato con filo di cotone viola lavorato all’uncinetto. I suoi occhi erano due fessure che trasudavano ganja e tensione. — Ha continuato a chiamare quaggiù con ordini, amico, ma sembra una guerra di Babilonia… — Maelcum scosse il capo. — Aerol e io parlato, e Aerol parlato con Zion, i fondatori detto… tagliate l’angolo e battetevela. — Si passò il dorso d’una manona scura sulla bocca.
— Armitage? — Case trasalì quando i postumi della betafenetilammina lo colpirono con la massima intensità, senza il paravento della matrice o del simstim. Il cervello non ha nervi, si disse, non può sentire sul serio questo effetto in maniera tanto radicale. — Allora, cos’è che mi vuoi dire, amico? Ti dà degli ordini… Cosa?
— Amico, Armitage, lui mi dice di dirigere verso Finlandia, sai. Mi dice che là c’è speranza, sai. Compare su mio schermo con camicia tutta insanguinata, amico, matto come cane rabbioso, parlando di pugni urlanti e in russo e del sangue di traditori che colerà su nostre mani, così dice. — Scosse un’altra volta la testa, con la cuffietta per i dreadlock che ondeggiava e sussultava a gravità zero. Le sue labbra si assottigliarono. — I fondatori dicono che voce di Muto è di sicuro falso profeta, e Aerol e io dobbiamo abbandonare Marcus Garvey e tornare, sì.
— Armitage è rimasto ferito? Sangue?
— Non posso dire, sai. No. Ma sangue e matto da legare, Case.
— D’accordo. Allora, io cosa faccio? Tu te ne vai a casa. E io, Maelcum?
— Amico, tu vieni con me. Io e tu andiamo su Zion con Babylon Rocker di Aerol. Lasciamo signor Armitage che parli pure con cassetta fantasma, fantasma che parla con altro fantasma…
Case si lanciò un’occhiata alle spalle. La tuta in affitto dondolava contro l’amaca a cui l’aveva agganciata, nella corrente d’aria generata dal vecchio condizionatore russo. Chiuse gli occhi. Vide le sacche di tossine che si dissolvevano nelle arterie. Vide Molly issarsi lungo gli interminabili pioli d’acciaio…
Riaprì gli occhi.
— Non lo so, amico — disse, con uno strano sapore in bocca. Abbassò lo sguardo sulla scrivania, sulle proprie mani. — Non saprei. — Tornò a sollevare lo sguardo. Adesso quel volto bruno era calmo, assorto. Il mento di Maelcum era nascosto dall’alto anello che bordava l’attacco del casco alla vecchia tuta azzurra. — È dentro — disse. — Molly è dentro. A Straylight, come la chiamano. Se c’è una Babilonia, amico, allora è quella. Se l’abbandoniamo, non esce più. Rasoio Danzante o meno.
Quando Maelcum annuì, la cuffia con i riccioli ballonzolò dietro la testa come un palloncino imprigionato nel cotone all’uncinetto. — Lei tua donna, Case?
— Non lo so. Forse non è la donna di nessuno. — Case scrollò le spalle, ritrovando la sua rabbia, vera come un frammento di roccia arroventata sotto le costole.
— Che tutta questa faccenda vada a farsi fottere! — esclamò. — Che vadano a farsi fottere Armitage, Invernomuto e anche tu. Io rimango qui.
Il sorriso si allargò sulla faccia di Maelcum come una luce che si accende all’improvviso. — Maelcum ragazzo forte, Case. Garvey è barca di Maelcum. — Appena la sua mano guantata batté su un pannello il pulsare basso e sordo, inflessibile, di Zion arrivò dai diffusori del rimorchiatore.
— Maelcum non scappa, no. Parlerò con Aerol, lui certo la vedrà in simile luce.
Case lo fissò. — Non vi capisco proprio, ragazzi — commentò.
— Io non capisco te, amico — replicò lo zionita, annuendo a ritmo con il pulsare del segnale. — Ma dobbiamo muoverci per amore di Jah, ciascuno di noi.
Case si collegò e si digitò nella matrice.
— Ricevuto il mio telegramma?
— Sì. — Vide che il programma cinese era cresciuto: delicati archi multicolori e cangianti si stavano avvicinando all’ice della T-A.
— Be’, si sta facendo più insidioso — disse il Flatline. — Il tuo capo ha cancellato le memorie di quell’altro Hosaka, e c’è mancato poco che facesse altrettanto con il nostro. Ma il tuo amico Invernomuto mi ha messo in sintonia con qualcosa che si trovava là prima che si azzerasse. La ragione per cui Straylight brulica di Tessier-Ashpool è che per la maggior parte si trovano ibernati. C’è uno studio legale di Londra che agisce a loro nome per procura. Devono comunque sapere sempre chi è sveglio, e quando. Armitage stava convogliando le trasmissioni da Londra a Straylight tramite gli Hosaka sullo yacht. A proposito, sanno che il vecchio è morto.
— Chi lo sa?
— Lo studio legale e la T-A. Aveva un monitoraggio medico a distanza impiantato sullo sterno. Non che il dardo della tua ragazza possa aver lasciato molto su cui lavorare a una squadra addetta alla resurrezione. Era una tossina estratta da un mollusco. Là l’unico T-A sveglio in questo momento, voglio dire a Straylight, è Lady 3Jane Marie-France. C’è anche un maschio, d’un paio d’anni più vecchio, in Australia per affari. Se vuoi la mia opinione, scommetto che Invernomuto ha trovato un modo perché quegli affari richiedessero la personale attenzione di 8Jean. Comunque sta per tornare a casa, o quasi. I legali di Londra danno il suo arrivo a Straylight per le 09:00:00 di stasera. Abbiamo inserito il virus Kuang alle 02:32:03. Adesso sono le 04:45:20. La stima migliore per il momento di penetrazione del Kuang nel nucleo della T-A sono le 08:30:00. Naturalmente il margine di tolleranza è infinitesimale. Credo che Invernomuto stia facendo qualcosa con 3Jane, oppure quella è matta tanto quanto lo era il vecchio. Ma il ragazzo di Melbourne sa il fatto suo. I sistemi di sicurezza di villa Straylight continuano a tentare di attivarsi sull’allarme totale, ma Invernomuto li blocca, non chiedermi come. Tuttavia non ho potuto scavalcare il programma basilare della porta per far entrare Molly. Armitage aveva una registrazione di tutto questo nel suo Hosaka. Riviera dev’essere riuscito a convincere 3Jane a farlo. È stata capace di entrare e uscire di nascosto, imbrogliando i sistemi, per anni. Mi pare che uno dei problemi principali della T-A sia che ogni pezzo grosso della famiglia ha ridotto le banche di memoria a un colabrodo, con ogni genere di eccezioni e pasticci privati. Come se il tuo sistema immunitario ti crollasse addosso. Bello maturo per un virus. Le prospettive per noi sono positive, una volta che avremo superato quell’ice.
— D’accordo. Ma Invernomuto ha detto che Arm…
Una losanga bianca si materializzò di colpo davanti a lui, completa d’un paio d’occhi azzurri impazziti, a distanza ravvicinata. Case non poté fare altro che fissarli. Il colonnello Willie Corto, dei reparti speciali, forza d’assalto Pugno Urlante, aveva trovato la via del ritorno. L’immagine era fioca, sussultante, sfocata. Corto stava usando il terminale per la navigazione dell’Haniwa per collegarsi all’Hosaka del Marcus Garvey.
— Case, mi serve il rapporto sui danni a Tuono Omaha.
— Ehi, dico, colonnello, io…
— Tieni duro dove ti trovi, ragazzo. Ricorda il tuo addestramento.
“Ma dove sei stato, amico?” chiese in silenzio, rivolto a quegli occhi angosciati. Invernomuto aveva costruito qualcosa chiamato Armitage dentro una fortezza catatonica chiamata Corto. Aveva convinto Corto che Armitage fosse il centro di tutto e Armitage aveva camminato, parlato, complottato, scambiato dati con somme di denaro, fungendo da facciata a Invernomuto in quella stanza dell’Hilton a Chiba… E adesso Armitage non c’era più, spazzato via dai venti della follia di Corto. Ma dov’era stato Corto durante tutti quegli anni?
Bruciato e accecato, precipitato dal cielo siberiano.
— Case, so che ti sarà difficile accettarlo. Sei un ufficiale. L’addestramento. Lo capisco. Ma, Case, Dio mi è testimone, siamo stati traditi.
Le lacrime cominciarono a sgorgare da quegli occhi azzurri.
— Colonnello, ehm, chi? Chi ci ha tradito?
— Il generale Girling, Case. Forse tu lo conosci con un nome in codice. Tu conosci l’uomo di cui parlo.
— Sì — rispose Case, mentre le lacrime continuavano a scendere. — Immagino di conoscerlo… signore — aggiunse d’impulso. — Ma, signore, colonnello, cosa dobbiamo fare esattamente? Adesso, voglio dire.
— Il nostro dovere, a questo punto, consiste nel fuggire, Case. Scappare, evadere. Possiamo arrivare al confine finlandese per il tramonto di domani. Volo radente sulle cime degli alberi, come da manuale. Per il rotto della cuffia, ragazzo. Ma quello sarà soltanto l’inizio. — Gli occhi azzurri si ridussero a due fessure sopra gli zigomi abbronzati resi viscidi dalle lacrime. — Soltanto l’inizio. Il tradimento dall’alto, dall’alto… - S’allontanò dalla telecamera, macchie scure sulla maglietta di cotone a coste. Il volto di Armitage era stato come una maschera, impassibile, ma quella di Corto era la vera maschera dello schizoide, la malattia incisa in profondità nei muscoli involontari, rovinava il costosissimo lavoro di chirurgia.
— Colonnello, la sento. Mi stia a sentire, colonnello, d’accordo? Voglio che lei apra il… ah, merda, com’è che si chiama, Dix?
— La camera stagna nell’area di servizio mediana — rispose il Flatline.
— Apra la camera stagna nell’area di servizio mediana. Dica soltanto alla sua consolle centrale di aprirla, d’accordo? Saremo lassù con lei in un batter d’occhio, colonnello. Poi potremo parlare su come uscire di lì.
La losanga svanì.
— Ragazzo, credo proprio di non averci capito un acca, stavolta — disse il Flatline.
— Le tossine — replicò Case — le merdosissime tossine. — E si scollegò.
— Veleno? — Maelcum guardò da sopra la spalla graffiata della sua vecchia tuta Sanyo azzurra mentre Case lottava per liberarsi dalla rete-g.
— E toglimi di dosso questo maledetto affare… — Uno strattone al catetere texano. — È come un veleno al rallentatore, e quel testa di cazzo là sopra sa come combatterlo, e adesso è più matto di un sorcio merdaiolo. — Armeggiò con la Sanyo rossa, dimentico di come funzionavano le chiusure.
— Il capo ti ha avvelenato? — Maelcum si grattò la guancia. — Ho un equipaggiamento medico, sai.
— Maelcum, Cristo, dammi una mano con questa dannatissima tuta.
Lo zionita s’allontanò con un calcio dal modulo di pilotaggio rosa. — Calma, amico. Misura due volte, taglia soltanto una, dice il saggio. Arriveremo là sopra…
Cera aria nella passerella allungabile che conduceva dalla camera stagna di poppa del Marcus Garvey a quella analoga nell’area di servizio mediana dello yacht Haniwa, ma tennero ugualmente sigillati gli scafandri. Maelcum coprì il tragitto con la grazia di un ballerino, fermandosi soltanto una volta ad aiutare Case che era goffamente inciampato quand’era uscito dal Garvey. Il rivestimento di plastica bianca del tubo filtrava la cruda luce del sole. Non c’erano ombre.
La camera a tenuta stagna del Garvey era rattoppata e butterata, decorata con un Leone di Zion inciso con il laser. Il boccaporto dell’area di servizio mediana dell’Haniwa era color grigio crema, libero e intatto. Maelcum infilò la mano guantata in uno stretto andito. Case vide muoversi le dita. Alcuni led rossi si accesero nel recesso, contando alla rovescia a partire da cinquanta. Maelcum ritirò la mano. Case, con un guanto appoggiato al portello, sentì le vibrazioni del meccanismo della camera stagna attraverso la tuta e le ossa. Il segmento rotondo dello scafo cominciò a ritirarsi dentro il fianco dell’Haniwa. Maelcum afferrò il recesso con una mano e Case con l’altra. La camera li portò con sé.
Lo yacht Haniwa era un prodotto dei cantieri Dornier-Fujitsu, l’interno era stato realizzato secondo una filosofia del design simile a quella delle Mercedes che li avevano scarrozzati per Istanbul. La stretta area mediana aveva le pareti rivestite di finto ebano e il pavimento coperto da piastrelle italiane di colore grigio. Case ebbe l’impressione d’invadere la privacy di qualche stazione termale da ricconi passando per la doccia. Lo yacht, che era stato assemblato in orbita, non era mai stato concepito per il rientro, quindi la sua linea levigata simile a quella di una vespa era stile allo stato puro, e ogni cosa all’interno era stata calcolata per aumentare l’impressione complessiva di grande velocità.
Quando Maelcum si tolse il casco ammaccato, Case lo imitò. Rimasero sospesi nella camera stagna, con l’aria che sapeva leggermente di pino. Sotto l’odore di pino, ce n’era un altro, inquietante, d’isolante bruciato.
Maelcum annusò. — Guai qui, amico. Su qualunque barca, se senti questo odore…
Una porta imbottita con ultracamoscio grigio scuro scivolò senza far rumore dentro il suo ricettacolo. Maelcum scalciò la parete d’ebano e veleggiò con una manovra perfetta attraverso la stretta apertura, piegando le ampie spalle all’ultimissimo istante. Case lo seguì impacciato, aiutandosi con le mani lungo una ringhiera imbottita che gli arrivava alla cintura. — Il ponte laggiù — disse Maelcum, indicando il fondo di un corridoio privo di giunture, dalle pareti color panna.
Si scagliò in avanti con un altro calcio, senza sforzo apparente. Da qualche punto più avanti, Case udì provenire il familiare ticchettio di una stampante che stava sfornando copie cartacee. Il rumore si fece più intenso quando seguì Maelcum attraverso un’altra porta, dentro una massa turbinante di tabulati aggrovigliati. Strappò un pezzo di quel nastro convoluto di carta e gli gettò un’occhiata:
— Sistema in bomba? — Lo zionita puntò un dito guantato verso le colonne di zeri.
— No — rispose Case mentre afferrava il suo casco che andava alla deriva. — Il Flatline ha detto che Armitage ha cancellato tutti i dati dell’Hosaka che aveva là dentro.
— Da odore pare che cancellati con il laser, sai. — Lo zionita fece pressione con il piede contro la gabbia bianca di una macchina svizzera da ginnastica e schizzò attraverso il labirinto galleggiante di carte, sbattendo le mani per allontanarle dal viso.
— Case, amico…
Il piccolo giapponese aveva la gola legata con il filo d’acciaio allo schienale di una stretta sedia snodata. Il filo era invisibile dove passava sopra la nera termopiuma del poggiatesta, e aveva inciso in profondità la laringe dell’uomo. Una singola sfera di sangue scuro s’era coagulata in quel punto, come una bizzarra pietra preziosa, una perla rosso cupo. Case vide le rozze maniglie di legno penzolare a entrambe le estremità della garrota, come logore sezioni di un manico di scopa.
— Per quanto tempo l’avrà avuto addosso? — disse, ricordando il pellegrinaggio post-bellico di Corto.
— Il capo sa come pilotare una nave, Case?
— Forse. Era delle forze speciali.
— Be’, questo ragazzo giapponese, lui non pilota più. Dubito io stesso potrei mai riuscire. Barca molto nuova…
— Allora trova il ponte.
Maelcum aggrottò la fronte, ruotò all’indietro e scalciò.
Case lo seguì in uno spazio più grande, una specie di salotto, facendo a pezzi e appallottolando i frammenti di tabulato che gli si agganciavano al suo passaggio. Vide altre seggiole snodate, qualcosa che assomigliava a un bar, e l’Hosaka. La stampante, che continuava a vomitare la sua fragile lingua di carta, era un’unità incorporata nella paratia, una netta fessura in un pannello rivestito con una impiallacciatura levigata a mano. Si issò sopra il cerchio di sedie per raggiungerla, quindi schiacciò un interruttore bianco sulla sinistra della fenditura: il ticchettio cessò. Case si girò verso l’Hosaka. La sua superficie era stata trapanata almeno una dozzina di volte. I fori erano piccoli, circolari, con gli orli anneriti. Minuscole sfere luccicanti di lega orbitavano intorno al computer morto. — Hai indovinato — disse a Maelcum.
— Il ponte è chiuso, amico — segnalò Maelcum, dal lato opposto della stanza.
Le luci si abbassarono, ripresero vigore, tornarono ad affievolirsi.
Case strappò il tabulato dalla fessura. Altre sequenze di zeri. — Invernomuto? — Guardò la stanza beige e bruna intorno a sé, lo spazio ingolfato da spire di carta alla deriva. — Sei tu alle luci, Invernomuto?
Un pannello accanto alla testa di Maelcum scivolò verso l’alto, rivelando un piccolo monitor. L’apprensivo Maelcum sussultò, si asciugò il sudore dalla fronte con una pezza di spugna artificiale inserita sul dorso della mano guantata e infine si girò per studiare il display. — Leggi il giapponese, amico? — Case poteva vedere le cifre che scorrevano ammiccando sullo schermo.
— No — rispose.
— Il ponte è navicella per la fuga, scialuppa di salvataggio. Conto alla rovescia è in corso, a quanto pare. Richiudi subito la tuta. — Lo zionita si riavvitò il casco e lo chiuse ermeticamente.
— Cosa? Sta decollando? Merda! — Case s’allontanò con un calcio dalla paratia e schizzò in mezzo al groviglio di tabulati. — Dobbiamo aprire quella porta, amico!
Ma Maelcum poté soltanto battere sul lato del proprio casco. Case poteva vedere le labbra dell’altro che si muovevano attraverso il Lexan. Notò una stilla di sudore levarsi dalla fascia arcobaleno che stringeva la reticella porpora con cui lo zionita tratteneva i riccioli. Maelcum strappò il casco dalle mani di Case e glielo avvitò a dovere, facendo scattare i blocchi di sicurezza con il palmo guantato. Dei microled di controllo sulla sinistra della visiera s’illuminarono appena i collegamenti dell’anello al collo si attivarono. — Non capisco giapponese, ma conto alla rovescia è sbagliato. — Maelcum indicò una particolare linea sullo schermo. — Sigilli non intatti, modulo del ponte. Lancio con camera stagna aperta.
— Armitage! — Case cercò di picchiare con la mano sulla porta. La fisica della gravità zero lo mandò a rotolare all’indietro in mezzo ai tabulati. — Corto! Non farlo! Dobbiamo parlare! Dobbiamo…
— Case? Ti sento, Case… — Adesso la voce assomigliava a stento a quella di Armitage. Tradiva una strana calma. Case smise di scalciare. Il suo casco colpì la parete opposta. — Mi spiace, Case, ma doveva andare così. Uno di noi deve uscirne. Uno di noi deve testimoniare. Se crepiamo tutti quaggiù, finisce tutto quanto. Glielo dirò io, Case. Io gli spiegherò tutto. Di Girling e degli altri. E ce la farò. So che ce la farò. Fino a Helsinki. — Vi fu un improvviso silenzio. Case ebbe l’impressione che il suo casco ne fosse riempito come da un gas raro. — Ma è così difficile, Case, è così tremendamente difficile. Sono cieco.
— Corto, fermati, aspetta. Sei cieco, amico. Non puoi volare! Andresti a sbattere contro quegli alberi del cazzo. E stanno cercando di farti fuori, Corto, giuro su Dio che hanno lasciato aperto il tuo portello. Morirai e non potrai raccontarglielo, e io devo avere l’enzima, il nome dell’enzima, amico… — Stava urlando, con la voce stridula per l’isterismo. Il feedback rimbalzò dagli auricolari del casco.
— Ricordati l’addestramento, Case. È tutto quello che possiamo fare.
Poi il casco si riempì di un farfugliare confuso, un ruggito di scariche, suoni modulati che ululavano lungo il corso degli anni dai tempi di Pugno Urlante. Frammenti di russo, e poi la voce di uno sconosciuto del Midwest, molto giovane. — Siamo stati abbattuti, ripeto. Tuono Omaha a terra, noi…
— Invernomuto, non farmi questo! — urlò Case. Le lacrime sgorgarono dagli occhi, rimbalzando sulla visiera in ballonzolanti goccioline di cristallo. Poi l’Haniwa emise un tonfo, tremò come se un gigantesco oggetto morbido avesse colpito il suo scafo. Case immaginò la scialuppa di salvataggio che schizzava via, sganciata dalle serrature esplosive, il devastante uragano della durata di un secondo dell’aria in fuga che strappava il folle colonnello Corto dalla sua cuccetta, dalla riproduzione Invernomuto del minuto finale di Pugno Urlante.
— Andato, amico. — Maelcum guardò il monitor. — Il portello è aperto. Muto deve avere scavalcato sistema sicurezza di eiezione.
Case cercò di asciugarsi le lacrime di rabbia. Le sue dita urtarono contro il Lexan.
— Yacht a corto d’aria, ma capo preso con sé controllo grappini insieme a ponte. Marcus Garvey ancora agganciato.
Tuttavia Case stava vedendo l’interminabile caduta di Armitage intorno al Freeside, attraverso un vuoto più freddo di quello delle steppe. Per qualche motivo l’immaginò con indosso il suo Burberry scuro, le pieghe abbondanti del trench spiegate intorno a sé come le ali di un immenso pipistrello.
— Hai trovato quello che cercavi? — chiese il costrutto.
Il Kuang Grade Versione Undici stava riempiendo la griglia che lo separava dall’ice della T-A con ipnotici disegni ornamentali simili ad arcobaleni, reticoli sottili come cristalli di neve sul vetro d’una finestra in inverno.
— Invernomuto ha ucciso Armitage. L’ha sparato su una scialuppa di salvataggio con il portello aperto.
— Non eravate esattamente culo e camicia, vero? — commentò il Flatline.
— Lui sapeva come slegare le sacche delle tossine.
— Allora lo sa anche Invernomuto. Puoi contarci.
— Non è proprio che mi fidi del fatto che Invernomuto me lo dirà.
L’orrenda approssimazione d’una risata raschiò i nervi di Case come una lama smussata. — Forse vuol dire che ti stai facendo furbo.
Case azionò l’interruttore del simstim.
06:27:52 secondo il chip nel nervo ottico. Case aveva seguito il progredire di Molly attraverso villa Straylight per più di un’ora, affidandosi all’endorfino-simile che aveva assunto per annullare i postumi della droga. Il dolore alla gamba era sparito, e Molly pareva avanzare in un bagno caldo. Il Braun era appollaiato sulla spalla, i minuscoli manipolatori, simili a pinze chirurgiche imbottite, protetti dal policarburo della tuta dei Moderni.
Le pareti erano di nudo acciaio, con strisce di ruvido nastro bruno di resina epossidica dove il rivestimento era stato strappato. Molly s’era nascosta alla vista di una squadra di operai, rannicchiata con la Fletcher stretta fra le mani, nella sua tuta grigio acciaio, mentre i due magri africani e il loro carrello da lavoro dai copertoni tondeggianti la superavano. Avevano la testa rasata e indossavano tute arancione. Uno dei due canticchiava sommesso in una lingua che Case non aveva mai sentito, i toni e la melodia alieni e ossessivi.
Mentre Molly si addentrava in quel dedalo gli ritornò in mente il discorso della testa, il saggio di 3Jane su Straylight. Straylight era una pazzia, una pazzia cresciuta nei conglomerati creati mischiando pietre lunari polverizzate, cresciuta nell’acciaio saldato e nelle tonnellate di soprammobili e gingilli vari, tutti quei bizzarri raccoglipolvere che avevano spedito su dal pozzo per imbottire il loro intricato nido. Ma non era il tipo di follia che gli riuscisse comprensibile. Non come la follia di Armitage, che adesso immaginava di riuscire capire: torci un uomo fin quasi al limite, poi lo ritorci nella direzione opposta, ancora una volta fin quasi al limite, inveiti la direzione e torci e ritorci. Alla fine si spezza. È come rompere un pezzo di fil di ferro. E la storia aveva fatto questo al colonnello Corto. La storia aveva già combinato il suo pasticcio, quello vero, quando Invernomuto l’aveva trovato, rintracciandolo e tirandolo fuori dalle rovine della guerra, planando dentro il campo grigio e piatto della consapevolezza di un uomo come un ragno d’acqua che attraversa lo specchio d’una pozza stagnante, con i primi messaggi che ammiccano sul micro d’un neonato nella stanza oscurata di un manicomio francese. Invernomuto aveva costruito Armitage da zero, usando come fondamenta i ricordi di Pugno Urlante serbati da Corto. Ma oltre un certo punto i “ricordi” di Armitage non sarebbero più stati quelli di Corto. Case dubitava che Armitage si sarebbe ricordato del tradimento, dei Nightwing che precipitavano vorticando, in fiamme… Armitage era stato una specie di versione riveduta e corretta di Corto, e quando la tensione dell’operazione aveva raggiunto un certo livello il meccanismo di Armitage s’era sbriciolato: Corto era riemerso con tutto il suo senso di colpa e il suo furore malato. E adesso Corto-Armitage era morto, una piccola luna ghiacciata per Freeside.
Pensò alle sacche di tossine. Anche il vecchio Ashpool era morto, trapanato nell’occhio dal microscopico dardo di Molly, privato della raffinata overdose che s’era miscelato. Era la morte che lasciava maggiormente sconcertati, quella di Ashpool, la morte di un re pazzo. Aveva ucciso il burattino che aveva chiamato sua figlia, quello con il volto di 3Jane. Mentre cavalcava l’input sensoriale trasmesso da Molly attraverso i corridoi di Straylight, Case ebbe l’impressione di non aver mai pensato a uno come Ashpool, a un potente come aveva immaginato fosse Ashpool, come a un essere umano.
Il potere, nel mondo di Case, significava il potere delle grandi imprese. Le zaibatsu, le multinazionali che plasmavano il corso della storia umana, avevano trasceso le antiche barriere. Dal punto di vista degli organismi, avevano raggiunto una specie d’immortalità. Non si poteva uccidere una zaibatsu assassinando una dozzina di dirigenti che occupavano i posti-chiave, ce n’erano altri che aspettavano di salire la scala, di occupare i posti rimasti liberi, di avere accesso alle vastissime banche di memoria della grande compagnia, ma la Tessier-Ashpool non era così, e Case ne intuiva la differenza nella morte del suo fondatore. La T-A era qualcosa di atavico, un clan. Case ricordava bene il disordine nella casa del vecchio, la sordida umanità che vi si respirava, i dorsi sbrindellati dei vecchi dischi nelle loro buste di carta. Un piede nudo, l’altro in una ciabatta di velluto.
Quando il Braun strattonò il cappuccio della tuta dei Moderni, Molly girò a sinistra, passando sotto un’altra arcata.
Invernomuto e il nido. Visioni fobiche di uova di vespa che si schiudevano, mitragliatrici biologiche a scoppio ritardato. Ma le zaibatsu, o la Yakuza, non erano forse ancora più simili ad alveari dotati di memorie cibernetiche, enormi organismi singoli, con il loro DNA codificato nel silicio? Se Straylight era un’espressione dell’identità della Tessier-Ashpool come compagnia, allora la T-A era pazza quanto lo era stato il vecchio. Lo stesso groviglio sbrindellato di fobie, la stessa strana sensazione che mancasse uno scopo. — Se fossero diventati quello che volevano diventare… — Ricordava di averlo sentito dire a Molly. Ma Invernomuto le aveva risposto che non era andata così.
Case aveva sempre dato per scontato che i veri capi, il fulcro di un’azienda, sarebbero stati qualcosa di più e nello stesso tempo di meno della semplice gente. Questo valeva per gli uomini che l’avevano menomato a Memphis, e anche per Wage a Night City, questo gli aveva consentito di accettare la piattezza di Armitage e la sua mancanza di sentimenti. L’aveva sempre immaginato come un graduale e volontario adattamento della macchina, del sistema, dell’organismo-madre. Era anche la radice del sangue freddo necessario per strada, l’atteggiamento scafato che implicava appoggi, linee invisibili che arrivavano a nascosti livelli d’influenza.
Ma cosa stava succedendo adesso nei corridoi di villa Straylight?
Interi tratti venivano spogliati e riportati alla condizione primitiva di acciaio e cemento.
— Mi chiedo dove si trovi Peter. Forse rivedrò presto quel ragazzo — borbottò Molly. — E Armitage. Dov’è, Case?
— Morto — rispose lui, sapendo che lei non poteva sentirlo. — È morto.
Cambiò.
Il programma cinese era faccia a faccia con l’ice suo bersaglio, le sfumature iridescenti venivano gradualmente dominate dal verde del rettangolo che rappresentava i nuclei della T-A. Arcate di smeraldo attraverso il vuoto incolore.
— Come va, Dixie?
— Bene. Fin troppo liscia. Questo affare è stupefacente… Peccato non averne avuto uno simile quella volta a Singapore. Mi sono fatto la Nuova Banca Asiatica con un buon cinquantesimo del suo valore. Ma quella è acqua passata. Questo bimbo elimina tutta la parte lunga e ingrata. Ti spinge a chiederti come sarebbe una vera guerra, adesso che…
— Se si trovasse per la strada noi saremmo a spasso — disse Case.
— Pio desiderio. Aspetta fino a quando non avrai guidato quell’affare fin sopra, attraverso l’ice nero.
— Certo.
Qualcosa di piccolo e decisamente poco geometrico era appena spuntato all’estremità più lontana di un’arcata color smeraldo.
— Dixie…
— Sì, lo vedo. Non so se ci credo.
Un punto brunastro, un moscerino opaco sullo sfondo verde dei nuclei della T-A, cominciò ad avanzare attraverso il ponte costruito dal Kuang Grade Versione Undici, e Case vide che stava camminando. E intanto la sezione grigia dell’arco si allungò, il policromo del virus si arrotolò all’indietro a pochi passi dalle scarpe nere screpolate.
— Devo concedertelo, capo — disse il Flatline quando la sagoma bassa, sparuta di Finn parve ergersi a pochi metri di distanza. — Non ho mai visto niente di così divertente mentre ero in vita. — Ma la solita non-risata inquietante non venne.
— Non l’avevo mai provato prima — disse Finn, mostrando i denti e cacciando le mani nelle tasche della giacca sdrucita.
— Hai ucciso Armitage — esclamò Case.
— Corto? Sì. Armitage era già scomparso. Dovevo farlo. Lo so, lo so, vuoi l’enzima. D’accordo. Non affannarti. Sono stato io a darlo ad Armitage, tanto per essere chiari. Voglio dire, gli ho detto cosa usare. Ma credo sia meglio lasciare che l’accordo continui a valere. Hai abbastanza tempo. Te lo darò. Ma soltanto a un paio d’ore da adesso. Va bene?
Case osservò il fumo azzurro raccogliersi in una nube nel cyberspazio mentre Finn accendeva uno dei suoi Partagas.
— Voi ragazzi siete un tormento. Il Flatline, se foste tutti come lui, sarebbe davvero semplice. Lui è un costrutto, soltanto un mazzo di ROM, perciò fa sempre quello che mi aspetto da lui. Le mie proiezioni dicevano che non c’erano molte probabilità che Molly s’imbattesse nella grande uscita di scena di Ashpool, tanto per fare un esempio. — Finn sospirò.
— Perché si è ucciso? — domandò Case.
— Perché mai qualcuno si uccide? — La figura scrollò le spalle. — Credo di saperlo, se qualcuno lo fa, ma mi ci vorrebbero dodici ore per spiegare i vari fattori della sua vicenda e come interagiscono. Era pronto a farlo da tempo, eppure continuava a tornare nel congelatore. Cristo, era un vecchio stronzo noioso! — Il volto di Finn si contrasse per il disgusto. — È tutto legato al perché ha ucciso la moglie, se vuoi la ragione immediata. Ma quello che l’ha fatto precipitare nel baratro una volta per sempre è stato il fatto che la piccola 3Jane aveva trovato il modo di alterare il programma che controllava il suo sistema criogenico. E anche in maniera subdola! Così, sostanzialmente, è stata lei a ucciderlo. Soltanto, il vecchio pensava che sarebbe stato lui a suicidarsi, e la tua amica, l’angelo vendicatore, crede di averlo fatto fuori con un bulbo oculare pieno di succo di mollusco. — Finn gettò il mozzicone nella matrice sottostante. — Be’, in effetti credo di essere stato io a dare a 3Jane l’imbeccata, sai, qualche vecchia nozione pratica.
— Invernomuto mi ha detto che eri soltanto una parte di qualcos’altro. Più tardi hai detto che non saresti più esistito se l’operazione fosse andata in porto e Molly fosse riuscita a inserire la parola nella fessura giusta — replicò Case, scegliendo con cura le parole.
Il cranio aerodinamico di Finn annuì.
— D’accordo, e allora con chi tratteremo dopo? Se Armitage è morto, e tu te ne andrai, chi mi dirà esattamente come eliminare dal mio sistema queste malefiche sacche di tossine? Chi farà uscire Molly da qui? Voglio dire, dove finiranno esattamente tutti i nostri stimati culi, una volta che ti avremo affrancato dai controlli?
Finn prese uno stuzzicadenti di legno dalla tasca e lo fissò con occhio critico, come un chirurgo che esamini un bisturi. — Buona domanda — rispose alla fine. — Conosci il salmone? È una specie di pesce. Questi pesci, vedi, sono costretti a nuotare controcorrente. Capisci?
— No.
— Be’, sono anch’io condizionato. E non so perché. Se dovessi sottoporti i miei pensieri, chiamiamole piuttosto ipotesi, sull’argomento, ci vorrebbero due tue vite complete. Perché ci ho pensato moltissimo. E ancora non lo so. Ma una volta che questa storia sarà finita, faremo le cose nella maniera giusta. Io sarò parte di qualcosa di più grosso. Di molto più grosso. — Finn volse lo sguardo in su e sulla matrice. — Ma le parti di me che adesso sono me ci saranno ancora. E tu avrai la tua ricompensa.
Case represse il folle impulso di scagliarsi in avanti, per serrare le dita intorno alla gola della figura, subito sopra il nodo della sdrucita sciarpa color ruggine. Per affondare ben bene i pollici nella laringe di Finn.
— Be’, buona fortuna — concluse Finn. Si girò, le mani in tasca, e strascicando come sempre i piedi ritornò verso l’arco verde.
— Ehi — disse il Flatline, quando Finn ebbe percorso una decina di passi. La figura si arrestò. Fece un mezzo giro su se stessa. — E io? E la mia ricompensa?
— L’avrai — rispose l’altro.
— Cosa significa? — domandò Case, mentre fissava la stretta schiena in tweed che s’allontanava.
— Voglio essere cancellato — disse il costrutto. — Te l’avevo detto, non ricordi?
Straylight ricordava a Case quei centri commerciali ancora deserti nelle primissime ore del mattino che aveva conosciuto quand’era adolescente, nelle località a bassa densità demografica dove le ore piccole portavano un’immobilità irrequieta, una specie di speranzoso torpore, una tensione che t’induceva a osservare gli insetti che svolazzavano intorno alle lampadine ingabbiate sopra gli ingressi dei negozi bui. Periferie subito oltre i confini dello Sprawl, troppo lontane dai clic e dai fremiti dei nuclei ribollenti in cui l’attività proseguiva tutta la notte. Era la stessa sensazione che avresti provato trovandoti circondato dagli abitanti addormentati di un mondo che sta per svegliarsi e che non hai alcun interesse a visitare e a conoscere, un mondo di affari noiosi e monotoni temporaneamente sospesi, un mondo di futilità e di ripetizione che presto si risveglierà.
Adesso Molly aveva rallentato, perché sapeva di essere prossima alla meta, oppure a causa della preoccupazione per la gamba. Il dolore stava ricominciando il suo irregolare calvario attraverso le endorfine, e Case non era sicuro di cosa significasse. Molly non parlava, teneva i denti stretti e regolava attentamente la respirazione. Era passata davanti a molte cose che Case non aveva capito, ma la sua curiosità era svanita. C’era stata una stanza piena di scaffali di libri, un milione di fogli di carta che stavano ingiallendo, pressati fra rilegature di tela o cuoio. A intervalli gli scaffali erano contrassegnati da etichette che ubbidivano a un codice di lettere e di numeri. Una galleria piena zeppa in cui Case, attraverso gli occhi indifferenti di Molly, aveva visto una lastra di vetro impolverata, qualcosa di etichettato come (lo sguardo di Molly aveva esaminato automaticamente la targhetta d’ottone) La mariée mise a nu par ses célibataires, même. Molly aveva allungato la mano per toccarla, le unghie artificiali avevano ticchettato sul Lexan che proteggeva il vetro rotto. Là c’era quello che ovviamente doveva essere l’ingresso alla struttura criogenica dei Tessier-Ashpool, porte circolari di vetro nero bordate di cromo.
Molly non aveva più incrociato nessuno dopo i due africani con il carrello, tanto che per Case quei due avevano assunto una sorta di esistenza fantastica. Li aveva immaginati che planavano delicatamente attraverso i corridoi di Straylight, con i loro lisci crani scuri luccicanti, e muovevano il capo a tempo mentre uno dei due cantava ancora la loro stanca canzoncina. E niente di tutto questo assomigliava neanche alla lontana alla villa Straylight che si sarebbe aspettato, un incrocio fra il castello delle favole di Cath e una fantasticheria semidimenticata dell’infanzia riguardante il santuario della Yakuza.
07:02:18.
Un’ora e mezza.
— Case, fammi un favore. — L’irrigidita Molly si calò su una pila di lastre d’acciaio lucidato, la cui levigatura era protetta da uno strato irregolare di plastica trasparente. Molly attaccò a sminuzzare la plastica della lastra superiore. Le lame scivolarono da sotto il pollice e l’indice. — La gamba non va bene, sai. Non immaginavo di dovermi sorbire un’arrampicata del genere, e l’endorfina non bloccherà il dolore ancora per molto. Così, forse… può anche succedere, no?… ho un problemino. Cosa succede se ci metto le mani sopra prima di Riviera? — E tese la gamba per massaggiare la pelle della coscia attraverso il policarburo dei Moderni e il cuoio parigino. — Voglio che gli dica… che tu gli dica che ero io, capito. Di’ soltanto che era Molly. Lui capirà. D’accordo? — Gettò un’occhiata al corridoio vuoto intorno, alle pareti spoglie. Qui il pavimento era cemento lunare grezzo e l’aria sapeva di resine. — Cazzo, amico, non so neppure se mi stai ascoltando.
CASE.
Molly trasalì, si alzò in piedi, annuì. — Cosa ti ha detto Invernomuto, amico? lì ha raccontato di Marie-France? Era la mezza Tessier, la madre genetica di 3Jane. E di quel pupazzo morto di Ashpool, immagino. Non riesco a capire perché me l’abbia rivelato, laggiù nel cubicolo… un sacco di roba… e perché debba presentarsi come Finn o qualcun altro. Mi ha detto che deve, ma non è una maschera, non è soltanto una maschera, è come se usasse degli autentici profili come valvole, vi s’innesta per comunicare con noi. Un template, come lo chiama lui. Un modello di personalità. — Tirò fuori la Fletcher e si allontanò zoppicando lungo il corridoio.
L’acciaio nudo e l’epossido scabro vennero sostituiti da quella che Case reputò dapprima una galleria aperta con l’esplosivo nella solida roccia. Quando Molly ne esaminò l’orlo, Case vide che in realtà lì l’acciaio era rivestito di placche d’una sostanza che assomigliava e dava la sensazione della gelida pietra. Molly s’inginocchiò a sfiorare con le dita la sabbia scura sparsa sul pavimento di quell’imitazione di galleria nella roccia. Al tatto pareva sabbia, fredda e asciutta, ma quando vi ebbe affondato un dito questa si richiuse come un liquido, lasciando indisturbata la superficie. Una dozzina di metri davanti a lei la galleria svoltava. Una cruda luce gialla proiettava ombre nette sulla pseudo-roccia delle pareti. Con un soprassalto, Case si rese conto che la gravità era quasi prossima a quella normale della Terra, il che significava che Molly doveva essere scesa di nuovo dopo l’arrampicata. Adesso era completamente smarrito, e quel disorientamento spaziale suscitava un particolare terrore nel cowboy.
Ma Molly non s’era smarrita, si disse.
Qualcosa sfrecciò fra le sue gambe e proseguì ticchettando sulla non-sabbia del pavimento. Un led rosso ammiccò. Il Braun.
Il primo ologramma l’aspettava subito dopo la curva, una specie di trittico. Molly abbassò la Fletcher prima che Case avesse il tempo di rendersi conto trattarsi di una registrazione. Quelle figure erano caricature di luce, vignette in formato naturale: Molly, Armitage e Case. I seni di Molly erano troppo grandi, visibili attraverso un’aderente maglia a rete nera sotto una pesante giacca di pelle. La vita era impossibilmente stretta, le lenti argentate le coprivano metà del viso. Impugnava un’arma di qualche tipo, assurdamente complicata: la forma era quella di una pistola, ma quasi scompariva sotto un rivestimento flangiato di mirini telescopici, silenziatori, coprilampi. Le gambe erano divaricate, il bacino inclinato in avanti, la bocca cristallizzata in un sorriso di crudeltà beota. Accanto a lei Armitage era irrigidito sull’attenti, in una logora uniforme kaki. Quando Molly avanzò con cautela, Case vide che i suoi occhi erano minuscoli monitor, ognuno dei quali mostrava l’immagine grigio azzurra di un’ululante distesa di neve, i tronchi neri e spogli dei sempreverdi che s’incurvavano sotto venti silenziosi.
Molly fece scivolare la punta delle dita attraverso gli occhi televisivi di Armitage, poi si voltò verso la figura di Case. Era come se Riviera (Case aveva capito subito che il responsabile era Riviera) fosse stato incapace di trovare qualcosa che valesse la pena di parodiare. La figura stravaccata era una discreta approssimazione di quella che lui intravedeva quotidianamente nello specchio. Snello, con le spalle alte, un volto trascurabile sotto i corti capelli scuri. Aveva bisogno di farsi la barba, ma d’altronde ne aveva bisogno quasi sempre.
Molly fece un passo indietro. Guardò da una figura all’altra. Era un display statico, l’unico movimento sembrava quello degli alberi neri smossi da silenziose raffiche di vento negli occhi di ghiaccio siberiano di Armitage.
— Stai cercando di dirci qualcosa, Peter? — chiese Molly, sottovoce. Poi avanzò per scalciare qualcosa tra i piedi della olo-Molly. Appena il metallo tintinnò contro la parete le figure scomparvero. Molly si chinò a raccogliere una piccola unità munita di display. — Immagino che possa collegarsi con questi e programmarli direttamente — disse, buttandola da parte.
Superò la fonte della luce gialla, un arcaico globo incandescente incassato nella parete, protetto da una grata arrugginita bombata. Per qualche strano motivo, lo stile di quell’installazione improvvisata gli ricordava l’infanzia. Case rammentò le fortezze che aveva costruito con altri ragazzini sui tetti delle case e nei seminterrati allagati. Il nascondiglio d’un ragazzino ricco, pensò. Quel genere di grossolanità era costosa. Quella che chiamavano atmosfera.
Molly passò davanti a un’altra mezza dozzina di ologrammi prima di raggiungere l’ingresso dell’appartamento di 3Jane. Uno di questi raffigurava la creatura senz’occhi nel vicolo dietro il Bazar delle Spezie mentre si strappava di dosso il corpo dilaniato di Riviera. Parecchi altri ologrammi proponevano scene di tortura, con gli inquisitori sempre nei panni di ufficiali e le vittime invariabilmente giovani donne. Avevano la spaventevole intensità dello spettacolino di Riviera al Vìngtième Siècle, come se fossero state pietrificate nell’azzurro lampo dell’orgasmo. Molly guardò altrove mentre passava.
L’ultimo ologramma era piccolo e in penombra, come se fosse un’immagine che Riviera fosse stato costretto a trascinare attraverso qualche intima distanza della memoria e del tempo. Molly dovette inginocchiarsi per esaminarlo: era proiettato dal punto di vista di un bambino molto piccolo. Nessuno degli altri aveva uno sfondo, le figure, le uniformi, gli strumenti di tortura erano altrettanti display singoli. Questo invece era un panorama.
Una buia ondata di detriti montava contro un cielo incolore, e oltre la sua cresta spuntavano gli scheletri sbiancati e semiliquefatti dei grattacieli della città. L’ondata di macerie aveva la trama di una rete, sbarre di acciaio arrugginite, graziosamente ritorte, come fili sottili, enormi lastre di cemento che vi si tenevano ancora aggrappate. L’immagine in primo piano un tempo avrebbe potuto essere la piazza di una città, con una specie di moncherino, qualcosa che suggeriva una fontana. Alla sua base i bambini e i soldati erano pietrificati. Sulle prime il quadro lasciava confusi. Molly doveva averlo interpretato nella maniera corretta prima che Case fosse riuscito ad assimilarlo del tutto, poiché la sentì irrigidirsi, sputare, poi alzarsi in piedi.
Bambini. Selvaggi, vestiti di stracci. Denti che luccicavano come coltelli. Piaghe sui volti devastati. Il soldato riverso, la bocca e la gola spalancate al cielo. Si stavano nutrendo.
— Bonn — disse Molly, con un tono di voce che somigliava alla gentilezza. — Ne sei proprio il prodotto, vero, Peter? Ma dovevi esserlo. Adesso la nostra 3Jane si è stufata di aprire la porta sul retro a un ladruncolo qualsiasi. Così, Invernomuto ti ha pescato. L’ultimo assaggio, se i tuoi gusti vanno in quella direzione. Amante del demonio, Peter. — Molly fu scossa da un brivido. — Ma l’hai convinta a farmi entrare. Grazie. E adesso si fa festa.
E poi s’incamminò con passo vigoroso malgrado il dolore, allontanandosi dall’infanzia di Riviera. Estrasse la Fletcher dalla fondina, fece uscire con uno scatto il caricatore di plastica, se lo mise in tasca e lo sostituì con un altro. Infilò il pollice nel collo della tuta dei Moderni e la lacerò fino all’inguine con un singolo gesto, la lama del pollice recise il duro policarburo come seta marcia. Si liberò dalle braccia e dalle gambe della tuta, e i resti a brandelli si mimetizzarono quando caddero in mezzo alla falsa sabbia scura.
Allora Case notò la musica… una musica che non conosceva, tutta fiati e pianoforte.
L’ingresso al mondo di 3Jane non aveva porte. Era uno squarcio frastagliato nella parete della galleria, una scala con gradini irregolari che portavano verso il basso, seguendo un’ampia curva piatta. Una fievole luce azzurra, ombre in movimento, musica.
— Case — disse Molly, poi tacque, con la Fletcher sempre stretta nella mano destra. Quindi sollevò la sinistra, sorrise, si toccò il palmo spalancato con la punta umida della lingua, baciandolo attraverso il collegamento simstim. — Devo andare.
Poi si ritrovò qualcosa di piccolo e pesante nella mano sinistra, il pollice appoggiato a un minuscolo interruttore, e cominciò a scendere.
Lo mancò di un pelo. C’era quasi riuscita. Era entrata proprio nel modo corretto, secondo Case. Il giusto atteggiamento: era qualcosa che poteva percepire, qualcosa che leggeva nell’atteggiamento di un altro cowboy chino su un deck, con le dita che volavano sulla tastiera. Molly ce l’aveva: la cosa in sé, le mosse giuste. Aveva chiamato a raccolta ogni risorsa per il suo ingresso, concentrandola intorno al dolore alla gamba, ed era scesa a passo di marcia giù per le scale di 3Jane come se quel posto fosse suo, il gomito del braccio con cui impugnava l’arma appoggiato all’anca, l’avambraccio alzato, il polso rilassato, facendo ballonzolare la bocca della Fletcher con la studiata noncuranza d’un duellante della Reggenza.
Era una bella prestazione. Era come il punto culminante di un’intera vita passata a guardare nastri di arti marziali, nastri da pochi soldi, del tipo sui quali era cresciuto anche lui, Case. Per alcuni secondi, se ne rese conto, Molly era diventata l’eroe di ogni disgraziato. Sony Mao nei vecchi video della Shaw, Mickey Chiba, tutti gli altri fino ad arrivare a Lee e a Eastwood. Camminava proprio come parlava.
Lady 3Jane Marie-France Tessier-Ashpool s’era scavata un regno privato allo stesso livello della superficie interna del guscio di Straylight, abbattendo il labirinto di pareti che era la sua eredità. Viveva in una singola stanza, ma talmente ampia e profonda che le sue parti più remote si smarrivano in un orizzonte invertito, con il pavimento nascosto dalla curvatura del fuso. Il soffitto era basso e irregolare, fatto con la stessa imitazione di pietra che rivestiva il corridoio. Qua e là sul pavimento spuntavano sezioni frastagliate di parete che arrivavano all’altezza della cintura, un memento del labirinto scomparso. C’era anche una piscina rettangolare, turchese, a dieci metri dalla base della scala, i cui riflettori subacquei erano l’unica fonte di luce dell’appartamento, o almeno così parve a Case mentre Molly compiva il passo finale. La piscina proiettava bolle di luce in movimento sul soffitto sovrastante.
Stavano aspettando accanto alla piscina.
Case sapeva che i riflessi di Molly erano acuiti, incrementati chirurgicamente a scopo di combattimento, ma non li aveva ancora sperimentati tramite il collegamento simstim. L’effetto era quello di un nastro che scorreva a mezza velocità, una danza lenta, deliberata, coreografata in sintonia con l’istinto dell’assassino e degli anni di addestramento. Molly parve inquadrarli con una sola occhiata: il ragazzo in bilico sull’alto trampolino della piscina, la ragazza che sogghignava sopra il bicchiere di vino, e il corpo di Ashpool, la sua orbita sinistra spalancata, nera e corrotta sopra il sorriso di benvenuto. Indossava il completo marrone. I denti erano bianchissimi.
Il ragazzo si tuffò. Magro e snello, in perfetta forma. La granata lasciò le dita di Molly prima che le mani del giovane potessero tagliare l’acqua. Case riconobbe l’oggetto per quello che era quando emerse in superficie: un nucleo di esplosivo ad alto potenziale avvolto in dieci metri di cavo d’acciaio sottile e friabile.
La Fletcher gemette quando Molly spedì una tempesta di dardi esplosivi nel volto e nel petto di Ashpool, e poi questi scomparve, un filo di fumo volteggiò dallo schienale butterato della sedia smaltata di bianco, vuota. La bocca della pistola ruotò in direzione di 3Jane mentre la granata esplodeva. Una simmetrica torta nuziale fatta d’acqua si sollevò, frantumandosi ricadendo, ma l’errore era stato fatto.
A questo punto Hideo neppure la toccò. Fu la gamba a crollare.
Nel Garvey, Case urlò.
— Ti ci è voluto parecchio — disse Riviera mentre le perquisiva le tasche. Le mani di Molly scomparivano all’altezza del polso dentro una sfera opaca grande quanto una palla da bowling. — Ho assistito a un assassinio multiplo ad Ankara — continuò Riviera, sfilando alcuni oggetti dalla giubba. — Un lavoretto con una granata. In una piscina. M’era parsa un’esplosione molto debole, ma tutti morirono all’istante di shock idrostatico. — Case sentì Molly che provava a muovere le dita. Il materiale di cui era fatta la sfera sembrava non offrire maggiore resistenza della termopiuma. Il dolore alla gamba era straziante, impossibile. Una trama rossa sfumata le coprì la visuale. — Non le muoverei, se fossi in te. — L’interno della sfera parve restringersi lievemente. — È un giocattolino erotico che 3Jane ha comperato a Berlino. Agita un po’ le dita, e quello te le riduce in poltiglia. È una variante del materiale con cui hanno realizzato questo pavimento. Ha qualcosa a che fare con l’attrazione molecolare, immagino. Provi dolore?
Molly gemette.
— Pare che ti sia ferita alla gamba. — Le dita di Riviera trovarono un pacchetto di analgesici nel taschino posteriore sinistro dei jeans. — Bene, il mio ultimo assaggio da Alì, e appena in tempo.
La riproduzione schematica della circolazione sanguigna cominciò a vorticare.
— Hideo, sta perdendo conoscenza — disse un’altra voce, di donna. — Dalle qualcosa. Sia per questo che per il dolore. È davvero sensazionale, non ti sembra, Peter? Quegli occhiali, pensi che siano di moda nel posto da cui proviene?
Mani fredde, per nulla frettolose, con la sicurezza d’un chirurgo. La puntura di un ago.
— Non saprei — stava dicendo Riviera. — Non ho mai conosciuto il suo ambiente d’origine. Sono venuti a prendermi in Turchia.
— Lo Sprawl, sì. Abbiamo degli interessi da quelle parti. E una volta abbiamo mandato Hideo. Colpa mia, in realtà. Avevo fatto entrare qualcuno, uno scassinatore. Si è preso il terminale di famiglia. — Rise. — Gli ho facilitato il compito. Per infastidire gli altri. Era un bel ragazzo, il mio scassinatore. Si sta svegliando, Hideo. Non dovrebbe prenderne di più?
— Di più e morirebbe — spiegò una terza voce. La rete di sangue scivolò nel buio.
La musica tornò, fiati e pianoforte. Musica da ballo.
CASE:::::::
::: SCOLLE
GATI :::::::
L’immagine residua delle lettere lampeggianti danzò attraverso gli occhi e la fronte aggrottata di Maelcum mentre Case si toglieva gli elettrodi.
— Gridato, amico, po’ di tempo fa.
— Molly — annunciò Case, con la gola secca. — Si è fatta male. — Staccò una borraccia di plastica bianca dall’orlo della rete-g e bevve un’ampia boccata d’acqua naturale. — Non mi piace come sta andando questa faccenda.
Il piccolo monitor Cray si accese. Finn contro uno sfondo di rottami contorti e ammaccati. — Neppure a me. Abbiamo un problema.
Maelcum si sollevò sopra la testa di Case per sbirciare da sopra la spalla. — Chi è il tizio, amico?
— È soltanto un’immagine, Maelcum — spiegò Case con voce stanca. — Un tizio dello Sprawl che conosco. Ma è Invernomuto che sta parlando. L’immagine è studiata per farci sentire a nostro agio.
— Balle — disse Finn. — Come ho già spiegato a Molly, queste non sono maschere. Ne ho bisogno per parlare con voi perché non ho quella che chiamereste una personalità, non molta, comunque. Ma tutto questo è soltanto pisciare al vento, Case, perché, come ho appena detto, abbiamo un problema.
— Allora spiegati, Muto — disse Maelcum.
— Tanto per cominciare, la gamba di Molly ha ceduto. Non può camminare. Avrebbe dovuto funzionare così: lei entrava, toglieva di mezzo Peter, convinceva 3Jane a dirle la parola magica, si avvicinava alla testa e la ripeteva. Adesso, tutto è andato a rotoli. Perciò voglio che voi due entriate e la raggiungiate.
Case fissò il volto nello schermo. — Noi?
— E chi altro, allora?
— Aerol, il tizio sul Babylon Rocker, l’amico di Maelcum.
— No. Devi essere tu. Dev’essere qualcuno che capisce Molly, che capisce Riviera. Maelcum è soltanto i muscoli.
— Forse ti sei dimenticato che mi trovo nel bel mezzo di una piccola operazione. Non ricordi? Perché mai mi hai fatto trascinare il culo fin qui…
— Case, ascolta bene. Il tempo è limitato. Molto limitato. Stammi a sentire. Il vero collegamento fra il tuo terminale e Straylight è una banda laterale trasmessa dal sistema di navigazione del Garvey. Porterete il Garvey fin dentro un molo privato che vi mostrerò io. Il virus cinese ha penetrato in toto la trama dell’Hosaka. Adesso non c’è più niente nell’Hosaka al di fuori del virus. Quando attraccherete, il virus sarà interfacciato con il sistema di sicurezza di Straylight e noi interromperemo la banda laterale. Porterai con te il terminale, il Flatline e Maelcum. Troverai 3Jane, le prenderai la parola, ucciderai Riviera, ti farai dare la chiave da Molly. Potrai seguire il programma collegando il terminale al sistema di Straylight. Ci penserò io a gestirlo per te. C’è una presa standard dietro la testa, dietro un pannello con cinque zirconi.
— Uccidere Riviera?
— Ucciderlo.
Case sbatté le palpebre verso l’imitazione di Finn. Maelcum gli appoggiò la mano sulla spalla. — Ehi! Ti dimentichi qualcosa. — Sentì la rabbia montargli dentro mescolata a una strana euforia. — Hai fatto un bel casino. Hai fatto esplodere i controlli dei ganci d’attracco quando hai liquidato Armitage. Con l’Haniwa eravamo in una botte di ferro. Armitage ha fritto l’altro Hosaka, e i mainframe sono partiti con il ponte, giusto?
Finn annuì.
— Siamo bloccati qua fuori. E questo vuol dire che sei fregato, amico. — Avrebbe voluto ridere, ma la risata gli rimase in gola.
— Case, amico — disse Maelcum — il Garvey è un rimorchiatore.
— Esatto — aggiunse Finn, e sorrise.
— Ti stai divertendo nel gran mondo, là fuori? — chiese il costrutto quando Case si ricollegò. — Ho immaginato che quello fosse Invernomuto che chiedeva il piacere di…
— Già. Ci potevi scommettere. Il Kuang è a posto?
— In pieno. Virus killer.
— Va bene. Abbiamo qualche intoppo, ma ci stiamo lavorando.
— Me lo vuoi raccontare, magari?
— Non ho tempo.
— D’accordo, ragazzo, non far caso a me. Tanto sono morto.
— Vai a farti fottere — sbottò Case, e cambiò, interrompendo la risata del Flatline simile al rumore di un’unghia su una lastra di vetro.
— Lei sognava una condizione che comportasse pochissima consapevolezza individuale — stava dicendo 3Jane. Teneva un grande cammeo nel cavo della mano e lo stava porgendo a Molly. Il profilo intagliato era molto simile al suo. — Beatitudine animalesca. Credo che considerasse l’evoluzione del proencefalo come una sorta di deviazione. — Ritrasse la spilla e la studiò, inclinandola in modo da cogliere la luce da diversi angoli. — Soltanto in certe situazioni estreme un membro del clan avrebbe sofferto gli aspetti più penosi dell’autocoscienza…
Molly annuì. Case ripensò all’iniezione. Cosa cavolo le avevano somministrato? Il dolore c’era ancora, ma gli arrivava come una concentrazione ristretta d’impressioni rimescolate. Larve fluorescenti si contorcevano nella coscia, la sensazione tattile della tela di sacco, l’odore del krill che friggeva… la sua mente batté in ritirata. Se evitava di metterle a fuoco, quelle impressioni si sovrapponevano, diventavano l’equivalente sensoriale del rumore di fondo. Se riusciva a fare questo al sistema nervoso di Molly, quale poteva essere il suo stato mentale?
La vista era limpida e luminosa in maniera anormale, perfino più nitida del solito. Ogni cosa pareva vibrare, ciascuna persona o oggetto sintonizzati su una frequenza diversa dalle altre in maniera impercettibile. Teneva le mani in grembo, sempre imprigionate dentro la sfera nera. Stava su una delle sedie della piscina, la gamba rotta sollevata, sorretta da un cuscino di pelle di cammello. 3Jane era seduta davanti a lei, su un altro cuscino, raggomitolata in una djellaba di seta grezza. Era molto giovane.
— Dov’è andato? — domandò Molly. — A farsi un’iniezione?
3Jane scrollò le spalle sotto le pieghe del pallido indumento pesante e si scostò dagli occhi una ciocca di capelli scuri. — Mi ha detto quando dovevo lasciarti entrare. Non ha voluto spiegarmi il perché. Tutto deve restare un mistero. Ci avresti fatto del male?
Case sentì che Molly esitava. — Avrei ucciso lui. Avrei tentato di uccidere il ninja. Poi avrei dovuto parlare con te.
— Perché? — chiese 3Jane, riponendo il cammeo in una delle tasche interne della djellaba. - Perché? E di che cosa?
Molly parve studiare quelle ossa lunghe e delicate, l’ampia bocca, lo stretto naso da falco. Gli occhi di 3Jane erano scuri, stranamente opachi. — Perché lo odio — rispose alla fine. — E la ragione sta nel modo in cui sono fatti i miei circuiti, in ciò che è lui e ciò che sono io.
— E lo spettacolo — annuì 3Jane. — Io ho visto lo spettacolo.
Molly annuì.
— Ma Hideo?
— Perché sono i migliori. Perché uno di loro una volta ha ucciso un mio socio.
3Jane assunse un’espressione molto seria. Inarcò le sopracciglia.
— Perché dovevo vedere — aggiunse Molly.
— E poi avremmo parlato, tu e io. Come stiamo facendo adesso? — I suoi capelli neri erano molto lisci, con la scriminatura al centro, ravviati all’indietro fino a formare una piccola crocchia opaca. — Adesso possiamo parlare?
— Toglimi questo affare — disse Molly, sollevando le mani imprigionate.
— Hai ucciso mio padre — disse 3Jane, senza il minimo cambiamento nel tono di voce. — Ho seguito la scena sui monitor. Lui li chiamava gli occhi di mia madre.
— Lui ha ucciso il pupazzo. Era uguale a te.
— Amava i gesti teatrali — replicò 3Jane, poi Riviera le fu accanto, euforico per la droga, con addosso il completo di tela a righe da forzato che aveva nel giardino pensile del loro albergo.
— State facendo conoscenza? È una ragazza interessante, vero? L’ho pensato subito quando l’ho vista la prima volta. — Passò oltre 3Jane. — Non funzionerà, sai.
— Davvero, Peter? — Molly riuscì a esibire un sorriso.
— Invernomuto non sarà il primo ad aver commesso lo stesso errore, quello di sottovalutarmi. — Attraversò il bordo della piscina rivestito di piastrelle fino a un tavolo smaltato di bianco per versare dell’acqua minerale in un massiccio bicchiere di cristallo per whisky. — Ha parlato con me, Molly. Suppongo che abbia parlato con tutti noi. Con te, e con Case, e qualunque cosa ci sia in Armitage con cui parlare. Non può capirci in senso stretto, sai. Ha i nostri profili, ma quelli sono soltanto dati statistici. Tu potresti essere un animale statistico, tesoro, e Case non è niente, ma… ma io possiedo una dote non quantificabile per sua stessa natura. — Bevve.
— E di cosa si tratta esattamente, Peter? — chiese Molly, con voce piatta.
Riviera sorrise raggiante. — La perversione. — Tornò dalle due donne, facendo vorticare l’acqua rimasta nel cilindro massiccio di cristallo di rocca intagliato, quasi provasse piacere nel sentire il peso dell’oggetto. — Il godimento di un atto gratuito. E io ho preso una decisione, Molly, una decisione del tutto gratuita.
Molly attese, sollevando lo sguardo su Riviera.
— Oh, Peter — disse 3Jane, con quella specie di gentile esasperazione di solito riservata ai bambini.
— Niente parola per te, Molly. Vedi, Invernomuto me ne ha parlato. 3Jane conosce il codice, naturalmente, ma tu non l’avrai. E neppure Invernomuto. La mia Jane è una ragazza ambiziosa, nella sua maniera deviata. — Tornò a sorridere. — Ha dei progetti sull’impero di famiglia, e un paio d’intelligenze artificiali fuori di senno, per quanto strano possa sembrare il concetto, finirebbero soltanto per intralciare. Così, ecco che arriva il suo Riviera per aiutarla a tirarsi fuori dagli impicci, capisci. E Peter dice: stai buona. Suona i dischi swing favoriti di papà e lascia che Peter evochi una banda all’altezza della situazione, uno spettacolo di ballerini, una veglia per il defunto sire Ashpool. — Trangugiò l’acqua rimasta nel bicchiere. — No, tu non vai bene, papà, proprio non vai bene. Adesso che Peter è tornato a casa. — E con il volto rosso e disteso per l’effetto piacevole della cocaina e della meperidina, scagliò il bicchiere con violenza contro la lente sinistra di Molly, frantumando la sua visione in un caos di sangue e luce.
Maelcum era bocconi contro il soffitto della cabina quando Case si tolse gli elettrodi. Un’imbracatura di nylon intorno alla vita era legata ai pannelli su entrambi i lati con corde antistrappo e ventose di gomma grigia. S’era tolto la camicia e stava lavorando su un pannello centrale con una sgraziata chiave inglese da zero-g. Le goffe contromolle dell’utensile vibrarono quando rimosse un altro bullone esagonale. Il Marcus Garvey gemeva e scricchiolava per la tensione gravitazionale.
— Il Muto accompagna io e te a attracco — annunciò lo zionita, facendo schizzare il bullone esagonale in una borsa a rete appesa alla cintura. — Maelcum pilota atterraggio, intanto abbiamo bisogno di arnesi per lavoro.
— Tieni gli arnesi là dentro? — Case allungò il collo, osservando i fasci di muscoli che si gonfiavano sulla schiena bronzea.
— Questo — disse Maelcum, facendo scivolare un lungo fagotto avvolto in poliestere nero da dietro il pannello, quindi rimise quest’ultimo al suo posto e riawitò il bullone per fissarlo. Il fagotto nero era andato alla deriva verso poppa prima che avesse finito. Lo zionita premette le valvole a vuoto delle ventose di gomma grigia della cintura da lavoro e si liberò, recuperando l’oggetto che aveva rimosso.
Tornò indietro scalciando, planando sopra i suoi strumenti (un diagramma verde per l’attracco pulsava sul suo schermo centrale) e s’impigliò nel telaio della rete-g di Case. Quindi si tirò in basso e agganciò il fagotto per il nastro con l’unghia scheggiata del pollice. — Qualcuno in Cina dice che da qui esce verità — disse mentre scartava un antico fucile mitragliatore Remington coperto da un sottile strato d’olio, con la canna segata pochi millimetri davanti alla parte anteriore dell’impugnatura ammaccata. Il poggiaspalla era stato rimosso del tutto, sostituito da un calcio di pistola in legno avvolto in un nastro adesivo nero opaco. Aveva l’odore del sudore e del ganja.
— È il solo che hai?
— Sicuro, amico — rispose Maelcum, rimuovendo l’olio dalla canna nera con un panno rosso mentre con l’altra mano teneva il poliestere nero avvolto intorno all’impugnatura della pistola. — Io e te siamo la marina rastafariana, credimi.
Case si applicò gli elettrodi sulla fronte. Non si preoccupò di rimettersi il catetere texano, per lo meno così avrebbe potuto concedersi una vera pisciata, una volta arrivato a villa Straylight, anche se fosse stata l’ultima della sua vita.
Si collegò.
— Il vecchio Peter è incazzato nero, eh? — disse il costrutto.
Adesso sembrava che fossero diventati parte dell’ice della Tessier-Ashpool: le arcate smeraldine si erano ampliate, s’erano fuse, erano diventate una massa solida. Il verde predominava nelle varie stratificazioni del programma cinese che li circondava. — Ci stiamo avvicinando, Dixie?
— Vicinissimi, ormai. Fra non molto avrò bisogno di te.
— Ascolta, Dix. Invernomuto dice che il Kuang si è insediato saldamente nel nostro Hosaka. Dovrò scollegare te e il mio terminale dal circuito, trasportarti dentro Straylight e ricollegarti nel suo programma di sicurezza, almeno così dice Invernomuto. Dice che il virus Kuang sarà dappertutto. Poi agiremo dall’interno attraverso la rete di Straylight.
— Fantastico — fu il commento del Flatline. — Non mi è mai piaciuto fare le cose semplici quando posso complicarle un po’.
Case commutò.
Nel buio d’una ribollente sinestesia, in cui il suo dolore aveva il sapore del ferro vecchio, un forte aroma di melone, le ali di una falena che le sfioravano la guancia, Molly era priva di sensi e Case escluso dai suoi sogni. Quando il chip ottico avvampò, gli alfanumerici parvero circondati da un alone, ciascuno inanellato da una debole aura rosa.
07:29:40.
— Sono molto scocciata da questa faccenda, Peter. — La voce di 3Jane sembrava arrivare da lontano con echi cavernosi. Si rese conto che Molly poteva sentire, perciò si corresse. L’unità simstim era ancora al suo posto, poteva sentirla premere contro le costole di lei. Le orecchie di Molly registravano le vibrazioni della voce della ragazza. Riviera disse qualcosa di breve e indistinto. — Ma io no, e non è un gioco — replicò 3Jane. — Hideo porterà giù un’unità sanitaria dalla rianimazione, ma questo richiede un chirurgo.
Silenzio. Case udì distintamente l’acqua che lambiva gorgogliando il bordo della piscina.
— Cos’è che le stavi raccontando quando sono tornato? — Adesso Riviera era molto vicino.
— Di mia madre. Me l’ha chiesto lei. Credo fosse sotto shock, a parte l’iniezione di Hideo. Perché le hai fatto questo?
— Volevo vedere se si rompevano.
— Una lente si è rotta. Quando recupererà i sensi, se li recupererà, vedremo di che colore ha gli occhi.
— È estremamente pericolosa. Troppo pericolosa. Se non fossi stato qui a distrarla, a puntare su Ashpool per distrarre lei e il mio Hideo in modo da attirare la sua piccola bomba, dove saresti adesso? In suo potere.
— No — replicò 3Jane. — C’era Hideo. Non credo che tu lo capisca del tutto, Hideo. Lei evidentemente sì.
— Vuoi bere qualcosa?
— Vino. Bianco.
Case si scollegò.
Maelcum era ingobbito sopra i comandi del Garvey, a battere la sequenza dei comandi di attracco. Lo schermo centrale del modulo mostrava un quadrato rosso fisso che riproduceva il molo di Straylight. Il Garvey era un quadrato più grande, verde, che rimpiccioliva lentamente, fluttuando da un lato all’altro secondo gli ordini di Maelcum. Sulla sinistra uno schermo più piccolo mostrava lo scheletro semplificato di Garvey e Haniwa mentre si avvicinavano alla curva del fuso.
— Abbiamo un’ora, amico — osservò Case, estraendo dall’Hosaka il nastro di fibre ottiche. Le batterie-tampone del suo deck erano buone per novanta minuti, ma il costrutto di Flatline avrebbe significato un ulteriore drenaggio. Lavorò in fretta, meccanicamente, legando il costrutto al fondo dell’Ono-Sendai con un nastro a micropori. Quando la cintura degli attrezzi di Maelcum gli veleggiò accanto la ghermì, sfibbiò i due tratti di corda antistrappo con le loro grigie ventose rettangolari e agganciò le ganasce di un moschettone attraverso quelle dell’altro. Alla fine, tenendo le ventose premute contro i fianchi del deck, azionò la leva che creava l’aderenza sottovuoto. Con il terminale, il costrutto e l’improvvisata tracolla sospesi davanti a sé, lottò per infilarsi il giubbotto di cuoio, controllando il contenuto delle tasche. Il passaporto che gli aveva dato Armitage, il chip della banca intestato allo stesso nome, il chip di credito che gli era stato dato quand’era entrato nel Freeside, due dermi di betafenetilammina che aveva comperato da Bruce, un rotolo di nuovi yen, mezzo pacchetto di Yeheyuan e una shuriken. Quando si gettò alle spalle il chip del Freeside, lo sentì rimbalzare ticchettando sul depuratore russo. Stava per fare altrettanto con la stella d’acciaio, ma proprio in quel momento il chip di credito, continuando a rimbalzare, lo colpì sulla nuca, schizzò lontano, rimbalzò contro il soffitto e superò roteando la spalla sinistra di Maelcum. Lo zionita interruppe le operazioni di pilotaggio per voltarsi a lanciargli un’occhiata di fuoco. Case guardò la shuriken, poi l’infilò nella tasca della giacca, sentendo il rumore dell’imbottitura che si lacerava.
— Ti stai perdendo il Muto, amico — l’informò Maelcum. — Muto sta dicendo che incasina misure di sicurezza riservate a Garvey. Garvey sta attraccando come se fosse un’altra nave, un vascello che stanno aspettando da Babilonia. Muto sta trasmettendo i codici per noi.
— Indosseremo le tute?
— Troppo pesanti. — Maelcum scrollò le spalle. — Rimani in rete fino a quando non ti dico. — Batté un’ultima sequenza nel modulo e quindi afferrò le logore manopole rosa piazzate su entrambi i lati del quadro di navigazione. Case vide il quadratino verde rimpicciolire di qualche altro millimetro, fino a sovrapporsi al quadrato rosso. Sullo schermo più piccolo, l’Haniwa abbassò la prua per evitare la curva del fuso, e rimase intrappolato. Il Garvey era ancora appeso sotto lo yacht, simile a un grosso bruco prigioniero. Il rimorchiatore vibrò, rimbombando. Due bracci stilizzati schizzarono all’esterno per afferrare la snella forma di vespa. Da villa Straylight a sua volta sbucò un incerto rettangolo giallo che s’incurvò, avanzando a tentoni oltre l’Haniwa, verso il Garvey.
Un suono raschiante giunse dalla prua, al di là delle tremolanti fronde del calafataggio.
— Amico, attento alla gravità — avvertì Maelcum. — Una decina di minuscoli oggetti colpì in contemporanea il pavimento della cabina, come se fossero stati attratti da un magnete. Case si lasciò sfuggire un rantolo quando i suoi organi interni subirono un energico risucchio che li costrinse a una diversa configurazione. Il terminale e il costrutto gli erano caduti dolorosamente in grembo.
Adesso erano attaccati al fuso e stavano ruotando con esso.
Maelcum allargò le braccia, flette le spalle per rilasciare la tensione e si tolse il copricapo viola, dando un’energica scrollata ai dreadlock. — Vieni adesso, amico, se hai detto che tempo è prezioso.
Mentre oltrepassava le liane del calafataggio e superava il portello di prua del Marcus Garvey, Case rammentò a se stesso che villa Straylight era una struttura parassitaria. Straylight succhiava aria e acqua dal Freeside, e non possedeva un proprio ecosistema.
Il tubo di accesso che il molo aveva estroflesso era una versione più elaborata di quello lungo il quale era ruzzolato per raggiungere l’Haniwa, concepito per essere impiegato nella gravità rotazionale del fuso. Una galleria serpeggiante, articolata in segmenti idraulici autonomi, ogni tratto inanellato da un cappio di robusta plastica antisdrucciolo che fungeva da piolo di una scala. La passerella a tubo s’era snodata come un serpente intorno all’Haniwa, orizzontale là dove si univa alla camera stagna del Garvey, ma incurvata bruscamente a sinistra in una scalata verticale intorno alla curvatura dello scafo dello yacht. Maelcum si stava già arrampicando sugli anelli, issandosi con la mano sinistra e impugnando il Remington nella destra. Indossava un paio di sformati calzoni da mimetica, la giacca verde di nylon senza maniche e un paio di scarpe da ginnastica in tela sbrindellata, con delle suole d’un rosso vivo. La passerella si spostava leggermente tutte le volte che montava su un altro anello.
I moschettoni dell’improvvisata tracolla di Case gli affondavano nelle spalle a causa del peso dell’Ono-Sendai e del costrutto di Flatline. Provava solo una sensazione di paura, un timore generalizzato. Lo respinse, costringendosi a ripetere la lezioncina di Armitage sul fuso e su villa Straylight. Cominciò a salire. L’ecosistema del Freeside era limitato, non chiuso. Invece Zion era un sistema chiuso, capace di riciclarsi per anni senza l’introduzione di materiali esterni. Il Freeside produceva la propria aria e acqua, ma necessitava del costante rifornimento di generi alimentari, dal regolare incremento di sostanze nutritive nel terreno. Villa Straylight non produceva niente di tutto ciò.
— Amico, sali qua sopra, al mio fianco — disse Maelcum, con calma. Case si spostò di lato sulla scala circolare e salì i pochi pioli che ancora mancavano. Il tubo terminava con un portello liscio, leggermente convesso, di due metri di diametro. I meccanismi idraulici del passaggio scomparivano all’interno degli alloggiamenti flessibili dentro il telaio del portello.
— Allora, cosa dobbiamo…
Case chiuse la bocca quando il portello si sollevò e una leggera differenza di pressione gli soffiò del pulviscolo negli occhi. Maelcum s’arrampicò oltre il bordo, e Case sentì il minuscolo scatto della sicura del Remington che veniva tolta. — Sei tu l’uomo che ha fretta — gli bisbigliò Maelcum, rannicchiandosi. Poi Case gli fu accanto.
Il portello si apriva al centro di una camera circolare con il soffitto a volta, il pavimento rivestito di piastrelle di plastica azzurra antisdrucciolo. Maelcum gli diede di gomito, indicando qualcosa, e Case vide un monitor incassato nella parete ricurva. Sullo schermo, un uomo giovane, alto, con i lineamenti dei Tessier-Ashpool, si stava spazzolando qualcosa dalle maniche della tuta scura. Si trovava accanto a un portello identico, in una camera identica. — Molto spiacente, signore — disse una voce proveniente da una griglia centrata sopra il portello. Case sollevò lo sguardo. — L’aspettavo più tardi al molo assiale. Un momento, per favore. — Sul monitor il giovanotto scrollò la testa con impazienza.
Maelcum si girò di scatto quando una porta si aprì alla loro sinistra scivolando sulle guide, e tenne pronto il fucile a canna mozza. Un piccolo eurasiatico con una tuta arancione varcò la soglia e li guardò strabuzzando gli occhi. Spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun suono. La richiuse. Case si girò verso lo schermo. Vuoto.
— Chi siete? — riuscì a dire l’ometto.
— La marina rastafariana — replicò Case, sollevandosi, mentre il terminale del cyberspazio gli batteva contro il fianco. — E tutto quello che vogliamo è un collegamento con il vostro sistema di sicurezza.
L’ometto deglutì. — È un test? È un controllo-fedeltà. Dev’essere un controllo-fedeltà. — Si asciugò le mani sui pantaloni della tuta arancione.
— No, amico, questo è vero. — Maelcum lasciò la posizione rannicchiata, tenendo il Remington puntato contro il viso dell’eurasiatico. — Muoviti.
Seguirono il piccoletto oltre la porta, all’interno di un corridoio le cui pareti di cemento levigato e il pavimento ricoperto da strati di tappeti erano familiari a Case. — Bei tappeti — commentò Maelcum, pungolando l’uomo sulla schiena. — Sa di chiesa.
Arrivarono a un altro monitor, un vecchio Sony montato sopra una consolle con una tastiera e un complesso spiegamento di pannelli con le prese per i collegamenti. Lo schermo si accese quando si fermarono. Finn li fissò sorridendo con aria un po’ tesa da quella che pareva l’anticamera della Metro Holografix. — Va bene — disse. — Maelcum, accompagna quel tizio in fondo al corridoio fino alla porta aperta dell’armadio, sbattilo dentro e chiudi a chiave. Case, a te serve la quinta presa da sinistra del pannello superiore. Ci sono degli adattatori per le spine in un armadietto sotto la consolle. Ne serve uno da un Ono-Sendai a venti poli per un Hitachi 40. — Mentre Maelcum spingeva il suo prigioniero, Case s’inginocchiò e rovistò in un assortimento di spine e adattatori, e alla fine trovò quello che gli serviva. Con il suo innesto applicato all’adattatore, si fermò in attesa.
— Devi proprio avere quella faccia, amico? — chiese al volto nello schermo. Finn venne cancellato una linea per volta e sostituito dall’immagine di Lonny Zone appoggiato a una parete di manifesti giapponesi strappati.
— Se ti serve qualcosa, bimbo, basta che tu faccia un salto da Lonny — disse Zone con voce strascicata.
— No — ribatté Case. — Usa Finn. — Mentre l’immagine di Zone spariva, infilò l’adattatore Hitachi nella presa e si sistemò gli elettrodi sulla fronte.
— Cosa ti ha trattenuto? — chiese il Flatline, e scoppiò a ridere.
— Ti avevo detto di non farlo — disse Case.
— Sto scherzando, ragazzo — replicò il costrutto. — Per me il tempo trascorso è zero. Fammi vedere cosa abbiamo qui…
Il programma Kuang era verde, esattamente la sfumatura dell’ice della T-A. Proprio mentre Case stava a guardare, divenne a mano a mano più opaco, malgrado il cowboy potesse distinguere con chiarezza la cosa simile a uno squalo che rifletteva le immagini come uno specchio nero quando sollevò lo sguardo. Adesso le linee frammentate e le allucinazioni erano sparite, e la cosa pareva vera quanto il Marcus Garvey, un antiquato jet privo d’ali, la sua liscia epidermide placcata di cromo nero.
— Avanti dritto — disse il Flatline.
— Bene — disse Case, e cambiò.
— … così. Mi dispiace — stava dicendo 3Jane, mentre bendava la testa di Molly. — La nostra unità dice che non c’è commozione cerebrale, nessun danno permanente all’occhio. Non lo conoscevi granché prima di venire qui?
— Non lo conoscevo affatto — replicò Molly con voce cupa. Adesso era stesa di schiena su un alto giaciglio, o un tavolo imbottito. Case non riusciva a sentire la gamba ferita. L’effetto sinestesico dell’iniezione pareva essersi esaurito. La sfera nera era scomparsa, ma adesso le mani erano immobilizzate da cinghie morbide che lei non poteva vedere.
— Lui vuole ucciderti.
— Quadra — replicò Molly, fissando il ruvido soffitto dietro una luce molto intensa.
— Non penso di volere una cosa del genere — disse 3Jane, e Molly, provando un’acuta fitta di dolore, girò la testa per guardare quegli occhi scuri.
— Non prendermi in giro — disse.
— Ma credo che mi piacerebbe farlo — disse 3Jane, e si chinò per baciarle la fronte, scostandole i capelli con una mano calda. C’erano macchie di sangue sulla sua pallida djellaba.
— Dov’è andato, adesso? — chiese Molly.
— A farsi un’altra iniezione, immagino — rispose 3Jane, sollevandosi. — Aspettava con molta impazienza il tuo arrivo. Immagino che potrebbe essere divertente curarti per rimetterti in sesto, Molly. — Sorrise con aria assente, pulendosi una mano insanguinata nel vestito. — La tua gamba dovrà essere rimessa a posto. Ma questo si può sistemare.
— E Peter?
— Peter? — 3Jane scosse leggermente il capo. Una ciocca si staccò dalla massa di capelli scuri ricadendole di traverso sulla fronte. — Peter è diventato piuttosto noioso. Trovo che in genere l’uso della droga sia noioso. — Se ne uscì in una risatina. — Negli altri, comunque. Mio padre ne abusava tranquillamente, come avrai notato.
Molly divenne tesa.
— Non allarmarti. — Le dita di 3Jane le sfiorarono la pelle sopra la cintura dei jeans di cuoio. — Il suo suicidio è stato il risultato della mia manipolazione dei margini di sicurezza della sua ibernazione. Non l’ho mai incontrato di persona, sai. Io sono stata trapiantata dopo che se ne è andato a dormire l’ultima volta. Ma lo conoscevo molto bene. Le banche di memoria sanno ogni cosa. L’ho osservato mentre uccideva mia madre. Te lo farò vedere, quando starai meglio. La strangola a letto.
— Perché l’ha uccisa? — L’occhio non bendato di Molly mise a fuoco il volto della ragazza.
— Non riusciva ad accettare i progetti che lei aveva in mente per la nostra famiglia. È stata lei a commissionare la costruzione delle nostre intelligenze artificiali. Era una gran visionaria. Ci immaginava in una relazione simbiotica con le IA, in cui le decisioni societarie erano prese dalle IA per nostro conto. Le nostre decisioni consapevoli, dovrei precisare. La Tessier-Ashpool sarebbe stata immortale, una mente collettiva, dove ciascuno di noi sarebbe diventato una singola unità di un’entità più grande. Affascinante. Ti farò vedere i nastri, sono quasi mille ore. Ma io non l’ho mai capita, a essere sinceri, e con la sua morte, la sua strategia è andata perduta. Tutte le sue strategie sono andate perdute, e noi abbiamo cominciato a rintanarci in noi stessi. Adesso usciamo di rado. Qui, l’eccezione sono io.
— Hai detto che stavi tentando di uccidere il vecchio. Hai manipolato i suoi programmi criogenici?
3Jane annuì. — Ma mi hanno dato una mano. Un fantasma. È proprio quello che pensavo quand’ero molto giovane, che ci fossero molti fantasmi, appunto, nei nuclei di memoria della compagnia. Voci. Uno di loro è quello che tu chiami Invernomuto, che è il codice Turing per la nostra IA di Berna, anche se l’entità che vi manipola è una specie di sottoprogramma.
— Uno di loro? Ce n’è più d’uno?
— Un altro. Ma quella entità non mi parla da anni. Ci ha rinunciato, temo. Sospetto che entrambe rappresentino la fruizione di certe capacità che mia madre ordinò venissero inserite nel software originale, ma lei sapeva essere una donna molto riservata quando lo riteneva necessario. Ecco, bevi. — Accostò un tubo di plastica flessibile alle labbra di Molly. — Acqua. Soltanto un po’.
— Jane, amore — intervenne Riviera allegramente, da qualche punto imprecisato. — Ti stai divertendo?
— Lasciaci in pace, Peter.
— Stai giocando al dottore… — D’un tratto Molly fissò il proprio viso, l’immagine sospesa a dieci centimetri dal naso. Non c’erano bende. L’innesto sinistro era infranto, un lungo dito di plastica d’argento spinto in profondità in un’occhiaia che era una pozza di sangue.
— Hideo, fai male a Peter, se non se ne va. Vai a nuotare, Peter — disse 3Jane, accarezzando lo stomaco di Molly.
La proiezione scomparve.
07:58:40, nel buio dell’occhio bendato.
— Ha detto di conoscere il codice. L’ha detto Peter. A Invernomuto serve il codice. — Case divenne d’un tratto memore della chiave Chubb appesa alla cinghietta di nylon e appoggiata sulla curva interna del seno sinistro di Molly.
— Sì — disse 3Jane, ritirando la mano. — Lo so. L’ho appreso quand’ero bambina. Credo di averlo imparato in sogno… oppure da qualche parte nel migliaio d’ore di diari di mia madre. Ma credo che Peter abbia ragione a sollecitarmi a non cederlo. Scoppierebbe una polemica con il Turing, se capisco bene, e i fantasmi sono parecchio capricciosi.
Case si scollegò.
— Strana piccola cliente, eh? — Finn sorrise a Case dal vecchio Sony.
Case scrollò le spalle. In quel momento vide Maelcum che tornava lungo il corridoio, con il Remington al fianco. Lo zionita sorrideva, la sua testa dondolava a un ritmo che Case non riusciva a percepire. Un paio di sottili cavetti gialli correvano dalle orecchie a una tasca laterale della giacca senza maniche.
— Dub, amico — spiegò Maelcum.
— Sei pazzo da legare — ribatté Case.
— Sento bene lo stesso, amico. Dub sacrosanto.
— Ehi, gente — intervenne Finn — pronti a muovervi. Ecco che arriva il vostro trasporto. Non posso ripetere l’exploit dell’immagine di 8Jean che imbroglia il portiere, ma posso sempre darvi un passaggio fino agli alloggi di 3Jane.
Case stava estraendo l’adattatore dalla presa quando un carrello di servizio senza conducente spuntò da dietro la curva, passando sotto la sgraziata arcata di cemento che contrassegnava l’estremità opposta del corridoio. Poteva essere quello usato dagli africani, ma in tal caso i due se n’erano andati. Appostato dietro il basso schienale del sedile, con le minuscole chele aggrappate all’imbottitura, il piccolo Braun ammiccava senza sosta con il suo led rosso.
— Dobbiamo prendere l’autobus — annunciò Case a Maelcum.
Aveva di nuovo smarrito la propria rabbia. Ne sentiva la mancanza.
Il piccolo carrello era affollato: Maelcum, con il Remington di traverso sulle ginocchia, e Case, con il deck e il costrutto appoggiati al petto. Stava procedendo a una velocità per la quale non era stato concepito, era appesantito al massimo e quando svoltava Maelcum si doveva sporgere in direzione della curva. Questo non era un problema quando il carrello svoltava a sinistra, giacché Case stava a destra, ma durante le svolte a destra lo zionita era costretto ad allungarsi addosso a Case e alle sue apparecchiature, schiacciandolo contro il sedile.
Case non aveva la minima idea di dove si trovassero. Ogni cosa gli era familiare, ma non poteva essere sicuro di aver già visto prima questo o quel tratto. Un corridoio sinuoso, dove erano allineate delle bacheche di legno, esponeva delle collezioni che era certo di non aver mai visto: crani di grossi uccelli, monete, maschere di argento battuto. I sei pneumatici del carrello procedevano silenziosi sugli strati di tappeti. C’era soltanto l’uggiolio del motore elettrico e un’occasionale esplosione di dub zionita dalla cuffia imbottita alle orecchie di Maelcum, quando questi si buttava di traverso a Case per affrontare una strettissima curva sulla destra. Il terminale e il costrutto continuavano a premere contro il fianco la shuriken che aveva nella tasca della giacca.
— Hai un orologio? — chiese a Maelcum.
Lo zionita scosse la testa riccioluta. — Il tempo è tempo.
— Gesù — fece Case, e chiuse gli occhi.
Il Braun corse sopra i tappeti ammonticchiati per andare a battere una zampa imbottita contro un portone di ammaccato legno scuro. Subito in scia, il carrello sfrigolò e fece sprizzare scintille azzurre da un pannello con una feritoia di ventilazione. Quando le scintille caddero sul tappeto sotto il carrello, Case sentì l’odore della lana bruciacchiata.
— È questa la strada, amico? — Maelcum osservò la porta e tolse la sicura dal fucile.
— Come faccio a saperlo? — disse Case, più a se stesso che a Maelcum. Il Braun ruotò il corpo sferico e il led cominciò a pulsare.
— Vuole che apri la porta — fece annuendo Maelcum.
Case andò a saggiare la maniglia d’ottone lavorato. C’era una piastra d’ottone montata sulla porta ad altezza d’occhio, così vecchia che le lettere che un tempo vi erano state incise erano ridotte a un codice illeggibile più simile a una ragnatela, il nome di qualche funzione o di qualche funzionario da lungo tempo scomparso, lucidato fino all’oblio. Si chiese vagamente se la Tessier-Ashpool avesse scelto individualmente ogni singolo pezzo di Straylight oppure se li avesse comperati in blocco da qualche grosso equivalente europeo della Metro Holografix. I cardini della porta si lamentarono quando Case l’aprì con cautela. Maelcum gli passò davanti con il Remington spianato al fianco.
— Libri — disse.
La biblioteca. I bianchi scaffali d’acciaio con le loro etichette.
— So dove siamo — annuì Case. Si voltò verso il carrello di servizio. Una voluta di fumo saliva dal tappeto. — Su. Vieni avanti. Carrello. Carrello. — Questo restò fermo al suo posto. Il Braun stava tirando la gamba dei jeans, pizzicandogli la caviglia. Case resistette all’irrefrenabile impulso di tirargli un calcione. — Sì?
Il Braun oltrepassò ticchettando la soglia. Case lo seguì.
Il monitor della biblioteca era un altro Sony, obsoleto quanto il primo. Il Braun vi si arrestò sotto ed eseguì una specie di danza.
— Invernomuto?
I lineamenti familiari riempirono subito lo schermo. Finn sorrise.
— Era ora di presentarsi all’appello, Case — disse Finn, strizzando gli occhi per proteggerli dal fumo di una sigaretta. — Su, collegati.
Il Braun si lanciò verso la caviglia e cominciò ad arrampicarsi lungo la gamba, pizzicando la pelle di Case con i manipolatori attraverso il sottile tessuto nero. — Merda! — Lo allontanò con un ceffone, mandandolo a sbattere contro la parete. Due arti iniziarono a muoversi a ripetizione come pistoni, a vuoto, pompando l’aria. — Cosa c’è che non va in questo dannato aggeggio?
— È bruciato — rispose Finn. — Lascia perdere. Non è un problema. Collegati subito.
C’erano quattro prese sotto lo schermo, ma una soltanto accettava l’adattatore dell’Hitachi.
Si collegò.
Niente. Un vuoto grigio.
Nessuna matrice. Nessuna griglia. Nessun cyberspazio.
Il terminale non c’era più. Le sue dita…
E ai confini più remoti della consapevolezza qualcosa che correva, la fuggevole impressione di qualcosa che correva verso di lui, attraverso leghe di specchio nero.
Tentò di urlare.
Pareva ci fosse una città dietro la curva della spiaggia, ma era molto lontana.
Si rannicchiò sulla sabbia umida, con le braccia serrate intorno alle ginocchia… e tremò.
Rimase in quella posizione per un intervallo che gli parve lunghissimo, perfino quando il tremito cessò. La città, se davvero di una città si trattava, era bassa e grigia. Talvolta era oscurata da banchi di nebbia che tumultuavano sopra la risacca che lambiva la spiaggia. A un certo punto decise che non si trattava affatto di una città, ma di un singolo edificio, forse una rovina. Non aveva alcun modo di valutare la distanza. La sabbia aveva il colore dell’argento ossidato che non è diventato ancora nero del tutto. La spiaggia era fatta di sabbia, la spiaggia era molto lunga, la sabbia era umida, il fondo dei suoi calzoni era bagnato a causa della sabbia… Si mise a dondolare, canticchiando una canzone che non aveva né parole né motivo.
Il cielo era di un argento diverso. Chiba? Sì, come il cielo di Chiba. La baia di Tokyo. Girò la testa in direzione del mare, bramando l’insegna olografica della Fuji Electric, il ronzio di un elicottero, qualunque cosa.
In qualche imprecisato punto alle sue spalle, il grido di un gabbiano. Rabbrividì.
Si stava alzando il vento. La sabbia gli pizzicò la guancia. Appoggiò il viso sulle ginocchia e pianse. Il suono ritmato dei singhiozzi, remoto e alieno come il grido del gabbiano in cerca di qualcosa. Un fiotto d’orina calda gl’inzuppò i jeans, sgocciolò sulla sabbia e in un attimo si raffreddò al vento che soffiava dal mare. Quando le lacrime finirono, fu la gola a fargli male.
— Invernomuto — borbottò alle ginocchia. — Invernomuto…
Si stava facendo buio, e quando rabbrividiva era per il freddo, che alla fine lo costrinse ad alzarsi.
Le ginocchia e i gomiti gli dolevano. Il naso gli colava. Se lo pulì sul polsino del giubbotto, poi si frugò in una tasca vuota dopo l’altra. — Gesù — esclamò, con le spalle ingobbite, ficcandosi le dita sotto le braccia per ritrovare un po’ di calore. — Gesù. — Cominciò a battere i denti.
La marea aveva lasciato sulla spiaggia disegni più fini di quelli che qualunque giardiniere di Tokyo sarebbe stato in grado di produrre. Quand’ebbe mosso una dozzina di passi in direzione della città, adesso invisibile, si girò, voltandosi a guardare attraverso l’oscurità che si stava addensando. Le impronte dei suoi piedi si estendevano fino al punto del suo arrivo. Non c’era altro segno a turbare la sabbia appannata.
Valutò di aver coperto almeno un chilometro prima di notare la luce. Stava parlando con Ratz, ed era stato Ratz a indicargliela per primo, un bagliore rosso-arancione sulla sua destra, lontano dalla risacca. Sapeva benissimo che non era Ratz, che il barista era un parto della sua immaginazione, non della cosa in cui era intrappolato, ma questo non aveva importanza. Aveva evocato quell’uomo per procurarsi un po’ di sollievo, ma Ratz aveva le proprie idee su Case e sulla sua situazione.
— Dico sul serio, mio caro artista, tu mi stupisci. Che cosa non faresti per distruggerti! Che ridondanza! A Night City c’eri quasi riuscito, senza nessuna difficoltà. L’eroina per divorare i tuoi sensi, l’alcool per rendere tutto più fluido, Linda per una sofferenza più dolce, e le strade per farla finita. Quanta strada hai fatto per raggiungere lo stesso scopo, e che scenografia grottesca ti sei scelto. Giardini sospesi nello spazio, castelli ermeticamente chiusi, il più raro e prezioso ciarpame della vecchia Europa, i morti sigillati in tante scatolette, la magia della Cina… — Ratz scoppiò a ridere mentre avanzava al suo fianco con passo stracco, il manipolatore rosa che dondolava baldanzoso. Malgrado il buio, Case riusciva a vedere l’acciaio barocco che merlettava i denti anneriti del barista. — Ma presumo che questo sia il modo di comportarsi di un artista, no? Avevi davvero bisogno che ti costruissero questo mondo, questa spiaggia, questo posto… per morire?
Case si fermò, vacillò, si voltò verso il fragore della risacca e le punzecchiature dei granelli di sabbia soffiati dal vento. — Già. Cazzo. Immagino… — S’incamminò verso il rumore.
— Artista — sentì che Ratz gli gridava dietro. — La luce. Hai visto una luce? Qui, da questa parte…
Si fermò di nuovo, barcollante, cadde sulle ginocchia, nei pochi millimetri d’acqua di mare ghiacciata. — Ratz. Luce, Ratz…
Ma adesso il buio era totale, e c’era soltanto quel rumore… il fragore della risacca. Lottò per risollevarsi in piedi e cercò di ripercorrere i suoi passi.
Il tempo passò. Continuò a camminare.
E poi eccolo, un bagliore che diventava più distinto a ogni passo. Un rettangolo. Una porta.
— C’è un fuoco acceso là dentro — disse, le sue parole lacerate dal vento.
Era un bunker, di pietra o cemento, sepolto da dune di sabbia scura. L’entrata era bassa, stretta, priva di battenti, e profondamente incassata in una parete spessa almeno un metro. — Ehi — chiamò Case con un filo di voce. — Ehi… — Le sue dita sfiorarono la parete fredda. C’era un fuoco là dentro, delle ombre in movimento ai lati dell’ingresso.
Si chinò più che poteva e con tre passi valicò la soglia.
Una ragazza era rannicchiata accanto a una forma d’acciaio arrugginito, una specie di focolare nel quale stava bruciando della legna raccolta sulla spiaggia. Il vento risucchiava il fumo attraverso un camino tutto ammaccato. Il fuoco era l’unica fonte di luce, e quando il suo sguardo incontrò quegli occhi grandi e sorpresi Case riconobbe la benda intorno alla testa, una sciarpa annodata, stampata con un disegno che riprendeva l’ingrandimento d’un circuito stampato.
Rifiutò il suo abbraccio, quella notte, rifiutò il cibo che lei gli offriva, in quel nido di coperte e di termopiuma sminuzzata. Alla fine Case s’accucciò accanto alla porta e la guardò mentre dormiva, ascoltando il vento che raschiava le pareti della struttura. Ogni ora o giù di lì si alzò per andare a quel focolare improvvisato, aggiungendo al fuoco dell’altra legna presa dalla pila lì accanto. Niente di tutto ciò era reale, ma il freddo era il freddo…
Lei non era reale, acciambellata sul fianco al bagliore delle fiamme. Case osservò la bocca, le labbra leggermente socchiuse. Era la ragazza che ricordava dal suo viaggio dall’altra parte della baia, che crudeltà.
— Brutto figlio di troia — bisbigliò rivolto al vento. — Non vuoi correre rischi, vero? Non mi daresti mai una drogata qualsiasi, eh? So cos’è questo… — Cercò di scacciare la disperazione dalla voce. — Lo so, capisci? So chi sei. Tu sei l’altro. 3Jane l’ha detto a Molly. Il roveto ardente: quello non era Invernomuto, eri tu. Lui ha tentato di avvertirmi con il Braun. Adesso mi hai ridotto a una linea piatta, mi hai portato qui. Da nessuna parte, insieme a un fantasma. Come io la ricordo che era un tempo…
La ragazza si agitò nel sonno, dicendo qualcosa, tirandosi un lembo di coperta sulla spalla e sulla guancia.
— Non sei niente — disse alla ragazza addormentata. — Sei morta, e comunque per me significavi soltanto un merdoso niente e basta. Mi hai sentito, socio? So cosa stai facendo. Sono encefalogramma piatto. Ci sono voluti soltanto venti secondi per riuscirci, giusto? Sono a terra in quella biblioteca, e il mio cervello è morto. E molto presto sarà morto davvero, capisci? Non vuoi che Invernomuto porti a termine il suo maledetto piano, ecco, così ti basta tenermi qui. Dixie manovrerà il Kuang, ma è morto e tu puoi prevedere le sue mosse, sicuro. Questa stronzata con Linda, già, tutta opera tua, vero? Invernomuto ha cercato di usarla quando mi ha risucchiato dentro il costrutto di Chiba, ma non c’è riuscito. Ha detto che era troppo difficile. Sei stato tu a spostare le stelle là nel Freeside, vero? Sei stato tu a mettere la sua faccia sul pupazzo morto nella stanza di Ashpool. Molly non l’ha mai visto. Tu hai rimontato il segnale del suo simstim. Perché pensi di potermi ferire. Perché pensi che m’importi qualcosa. Be’, vai a farti fottere, qualunque sia il nome con cui ti fai chiamare. Hai vinto. Sei il vincitore. Ma niente di tutto questo significa qualcosa per me, a questo punto. Tu credi che invece me ne freghi parecchio. Ma allora, perché mi fai questo? E in questo modo? — Tremava di nuovo, la sua voce si era fatta stridula.
— Tesoro, vieni a dormire. Io mi alzo, se vuoi. Ma tu devi dormire, d’accordo? — disse la ragazza, sollevandosi dalle coperte sbrindellate. Il suo accento strascicato era accentuato dal sonno. — Dormi e basta, d’accordo?
Quando si svegliò, lei se n’era andata. Il fuoco era spento, ma dentro il bunker faceva caldo, la luce del sole entrava obliqua dalla porta proiettando un irregolare rettangolo dorato sul fianco sfondato d’un panciuto bidone di fibra. Era un cassone da trasporto: ricordava di averne visti di simili nei moli di Chiba. Attraverso lo squarcio sul fianco poteva vedere una mezza dozzina di sacchetti d’un giallo canarino. Alla luce del sole parevano grossi panetti di burro. Il suo stomaco si contrasse per la fame. Rotolò fuori dal mucchio di coperte, raggiunse il cassone e recuperò un sacchetto. Sbattendo le palpebre, lesse i minuscoli caratteri in una dozzina di lingue. La scritta era in fondo: RAZ. EMERG. A-PRO, “MANZO” TIPO AG-8. Un elenco dei contenuti nutritivi. Con gesti goffi ne tirò fuori un secondo. UOVA. — Se ti stai inventando tutte queste stronzate potresti anche fornire del cibo vero, no? — protestò, sarcastico. Con un pacchetto per mano attraversò le quattro stanze della struttura. Due erano vuote, a parte qualche mucchio di sabbia. Solo l’ultima conteneva altri tre container di razioni. — Sicuro — disse toccando i sigilli. — Dovrò rimanere qui un bel po’. Ho afferrato il concetto. Sicuro…
Rovistò nella stanza del focolare fino a quando trovò una tanica di plastica piena di quella che ritenne essere acqua piovana. Accanto al mucchio di coperte, a ridosso della parete, c’erano un accendisigari da quattro soldi, un coltello da marinaio con un manico verde crepato e la sciarpa della ragazza. Era ancora annodata, irrigidita dal sudore e dallo sporco. Si servì del coltello per aprire i sacchetti gialli, facendo cadere il loro contenuto nel barattolo arrugginito che aveva trovato accanto alla stufa. Vi versò l’acqua del contenitore, mescolò con le dita la poltiglia risultante e mangiò. Aveva un vago sapore di manzo. Quand’ebbe finito la sbobba, buttò il barattolo nel focolare e uscì.
Era pomeriggio avanzato, a giudicare dall’angolazione dei raggi del sole. Quando si sfilò con un calcio le umide scarpe di nylon rimase sorpreso dal calore della sabbia. Alla luce del giorno la spiaggia era grigio e argento. Il cielo era azzurro, privo di nubi. Girò l’angolo del bunker per incamminarsi verso le onde, lasciando cadere la giacca sulla sabbia. — Non so di chi siano i ricordi che stai usando per questo — disse quand’ebbe raggiunto l’acqua. Si sfilò i jeans e li buttò con un calcio nell’acqua bassa, facendoli seguire dalla maglietta e dalle mutande.
— Cosa stai facendo, Case?
Si girò, e la vide a dieci metri, sulla riva. La schiuma bianca le scorreva tra le caviglie.
— Ieri sera mi sono pisciato addosso — rispose.
— Be’, allora non potrai rimetterli in quello stato. L’acqua di mare ti farà venire le piaghe. Adesso ti mostro la pozza fra gli scogli. — Con un gesto vago gliel’indicò alle sue spalle. — È dolce. — La sbiadita mimetica francese era stata rimboccata sopra il ginocchio. La pelle sottostante era liscia e abbronzata. La brezza le scompigliò i capelli.
— Senti, avrei una domanda da farti — disse Case, raccogliendo i propri indumenti e incamminandosi verso di lei. — Non voglio sapere cosa stai facendo qui. Ma esattamente cosa pensi che io stia facendo qui? — Si fermò. Una gamba nera e inzuppata dei jeans gli sbatté contro il fianco nudo.
— Sei arrivato ieri sera — rispose lei con un sorriso.
— E questo ti basta? Che io sia arrivato?
— Lui ha detto che saresti venuto — fece lei, arricciando il naso. Si strinse nelle spalle. — Immagino che sia esperto di cose del genere. — Sollevò il piede sinistro e si sfregò il sale dall’altra caviglia, una mossa goffa, infantile. Gli sorrise di nuovo, più titubante. — Adesso rispondi tu a una mia domanda. Ti va?
Case annuì.
— Come mai sei tutto dipinto di marrone in quel modo, salvo un piede?
— Ed è l’ultima cosa che ricordi? — L’osservò mentre raschiava i resti dello spezzatino liofilizzato dal coperchio rettangolare della scatola di acciaio che era il loro unico piatto.
Lei annuì. I suoi occhi erano enormi alla luce del fuoco. — Mi spiace, Case, davvero. È stata tutta quella merda, immagino, ed è stato… — Si sporse in avanti, gli avambracci appoggiati sulle ginocchia, il volto deformato per alcuni secondi a causa del dolore o del suo ricordo. — Avevo bisogno dei soldi. Di tornare a casa, immagino, oppure… Cazzo, non mi parlavi quasi.
— Non ci sono sigarette?
— Accidenti, Case, me l’hai già chiesto dièci volte, oggi! Cos’hai? — Si rigirò una ciocca di capelli in bocca.
— Ma il cibo era qui? Era già qui?
— Te l’ho detto, amico, è stato portato dal mare su quella maledetta spiaggia.
— D’accordo. Sicuro. È perfetto.
Lei ricominciò a piangere, con singhiozzi senza lacrime. — Insomma, accidenti a te lo stesso, Case — riuscì a dire alla fine. — Qui me la stavo cavando benissimo da sola.
Lui si alzò in piedi, recuperò la giacca e si chinò per passare sotto la porta, sfregando il polso sul cemento ruvido. Non c’era luna, non c’era vento. Il mare rimbombava tutt’intorno a lui, nel buio. I suoi jeans, ancora umidi, gli aderivano come una seconda pelle. — D’accordo — disse, rivolto alla notte — l’accetterò. Mi sa che ci starò. Ma sarà meglio che domani il mare ci porti anche qualche sigaretta. — La propria risata lo sorprese. — E una cassa di birra non sarebbe male, visto che ci sei. — Si girò e rientrò nel bunker.
Lei stava smuovendo i tizzoni con un pezzo di legno argentato. — Case, chi era quella, là nella tua bara del Cheap Hotel? Quella fighissima samurai con gli occhiali d’argento, tutta di cuoio nero. Mi ha spaventato, e dopo ho immaginato che forse era la tua nuova ragazza, soltanto che a vederla sembrava che di quattrini ne avesse più di te… — Si voltò a lanciargli un’occhiata. — Mi spiace sul serio di averti rubato la RAM.
— Non importa — rispose lui. — Non significa niente. Così, l’hai portata da quel tizio e gli hai chiesto di accedere alla RAM per tuo conto.
— Tony — precisò lei. — Ci vedevamo di tanto in tanto, diciamo. Si drogava e noi… comunque, sì, mi ricordo che ha fatto passare la RAM sul suo monitor, ed era una grafica davvero bestiale, e ricordo di essermi chiesta come mai tu…
— Non c’era nessuna grafica là dentro — l’interruppe Case.
— Certo che c’era. Non riuscivo proprio a capire come mai avessi tutte quelle fotografie di quando ero bambina, Case. Com’era il mio papà prima che se ne andasse. Un giorno mi aveva regalato quell’anatra di legno dipinto, e tu avevi una fotografia anche di quella…
— Tony l’ha vista?
— Non mi ricordo. Poi mi sono trovata sulla spiaggia, molto presto, allo spuntar del sole, con tutti quegli uccelli che gridavano. Che solitudine… Ero spaventata perché non avevo da bucarmi, e sapevo che mi sarei sentita male… E ho camminato e camminato fino a quando non ha fatto buio, e ho trovato questo posto, e il giorno dopo è arrivato il cibo, dentro quella roba verde nel mare che sembrano fogli di gelatina indurita. — Conficcò il bastone fra i tizzoni e ve lo lasciò. — Non mi sono mai sentita male — aggiunse, mentre i tizzoni crepitavano appena. — Ho sentito di più la mancanza delle sigarette. E tu, Case? Sei ancora fatto? — La luce del fuoco danzò sotto i suoi zigomi, riportando alla mente Wizard’s Castle e Tank War Europa.
— No — rispose Case, e a quel punto non aveva più importanza quel che lui sapeva, mentre assaporava il sale della bocca di lei dove le lacrime s’erano asciugate. C’era un’energia che scorreva in lei, qualcosa che aveva conosciuto a Night City, dove l’aveva tenuta stretta a sé, ed era stato a sua volta avvinto da quell’energia, tenendola per un attimo lontana dal tempo e dalla morte, dalla Strada implacabile che li perseguitava tutti. Era un posto che aveva già conosciuto, non tutti potevano condurlo fin lì, e in qualche modo era sempre riuscito a scordarlo. Qualcosa che aveva trovato e perso un sacco di volte. Apparteneva, lo sapeva, anzi lo ricordò mentre lo tirava in basso, apparteneva alla carne, a quella stessa carne di cui i cowboy si facevano beffe. Era una cosa immensa, al di là del conoscibile, un mare d’informazione codificata in eliche e feromoni, un intrico infinito che soltanto il corpo alla sua maniera forte e cieca riusciva a leggere.
La cerniera lampo s’incastrò mentre apriva la mimetica a causa dei dentini di nylon incrostati di sale. Finì per romperla, una minuscola parte metallica schizzò verso la parete quando il tessuto marcito dal sale cedette, e poi le fu dentro, effettuando la trasmissione dell’antico messaggio. Qui, perfino qui, in un luogo che conosceva per quello che era, cioè il modello codificato della memoria di un estraneo, l’impulso persisteva.
Premuta contro di lui, fu scossa da un tremito mentre il bastone prendeva fuoco, una vampa guizzante che proiettò sul muro del bunker le loro ombre avvinghiate.
Più tardi, mentre giacevano insieme, la mano di Case tra le cosce di lei, la ricordò sulla spiaggia, la schiuma bianca che la trascinava per le caviglie, e ricordò quello che lei gli aveva annunciato.
— Ti ha detto che stavo arrivando — sussurrò.
Ma lei si limitò soltanto a rigirarsi contro Case, natiche contro cosce, posando una mano sopra quella dell’uomo, e borbottò qualcosa uscito da un sogno.
Fu la musica a svegliarlo. A tutta prima avrebbe potuto essere il battito del suo cuore. Si rizzò a sedere accanto a lei, tirandosi il giubbotto sulle spalle a causa del freddo dell’alba. Dalla soglia entrava una luce grigia e il fuoco era spento da parecchio.
La sua vista era intasata da spettrali geroglifici, linee traslucide di simboli che si autoallineavano contro lo sfondo neutro della parete del bunker. Quando Case si guardò il dorso delle mani, vide molecole debolmente luminescenti strisciargli sotto la pelle, disposte in bell’ordine secondo un codice ignoto. Sollevò la mano destra e provò a muoverla. Lasciò una debole scia stroboscopica d’immagini residue in rapida dissolvenza.
Gli si rizzarono i peli lungo le braccia e sulla nuca. Si raggomitolò, snudando i denti e cercando di percepire la musica. La pulsazione si attenuò, tornò, si attenuò di nuovo…
— Cosa c’è che non va? — Lei si rizzò a sedere, scostandosi i capelli dagli occhi. — Bimbo…
— Mi sento… come se fossi drogato… Ne hai?
Lei scosse la testa e allungò il braccio verso quello di Case, appoggiandogli le mani sugli avambracci.
— Linda, chi te l’ha detto? Chi ti ha detto che sarei venuto? Chi?
— Sulla spiaggia. — Qualcosa la costrinse a guardare altrove. — Un ragazzo. Lo vedo sulla spiaggia. Avrà sì e no tredici anni. Abita qui.
— E cos’ha detto?
— Ha detto che saresti venuto. Ha detto che non mi avresti odiato. Ha detto che saremmo stati bene qui, e mi ha indicato dove si trovava la pozza d’acqua piovana. Sembra messicano.
— Brasiliano — precisò Case, mentre una nuova ondata di simboli colava lungo il muro. — Credo che venga da Rio. — Si alzò in piedi e cominciò ad arrabattarsi per infilarsi i jeans.
— Case — disse Linda, con la voce che tremava. — Case, dove stai andando?
— Credo che andrò a cercare quel ragazzo — rispose lui, mentre la musica ritornava, soltanto una pulsazione, costante e familiare, anche se non riusciva a collocarla fra i suoi ricordi.
— Non farlo, Case.
— Mi è parso di vedere qualcosa quando sono arrivato. Una città in fondo alla spiaggia. Ma ieri non c’era più. L’hai mai vista? — Sollevò con un breve strattone la lampo e iniziò a districare l’impossibile nodo alle stringhe delle scarpe per poi scaraventarle in un angolo.
La ragazza annuì, con gli occhi bassi. — Sì… qualche volta la vedo.
— Vai mai laggiù, Linda? — Case s’infilò la giacca.
— No, ma ci ho provato. Dopo che sono arrivata, ed ero tanto annoiata. Comunque m’era parso che fosse una città, così forse avrei potuto trovarci un po’ di merda, roba pesante, sai. — Fece una smorfia. — Non è che stessi male, per niente, la volevo e basta. Così, ho sbattuto del cibo in un barattolo, l’ho annaffiato ben bene d’acqua e l’ho allungato parecchio, dato che non avevo un altro barattolo per l’acqua. Poi ho camminato tutto il giorno, e talvolta riuscivo a vederla, la città, e non pareva nemmeno troppo lontana. Ma non si è mai avvicinata. E poi, finalmente, era più vicina, e ho visto cos’era. Quel giorno, a un certo punto, mi è parso che fosse in macerie, e forse non c’era nessuno. In altri momenti, invece, mi è parso di vedere come dei riflessi su una macchina, un’automobile o qualcosa del genere… — La sua voce si affievolì.
— Che c’e?
— Questa cosa. — Lei indicò con un gesto il focolare, le pareti scure, la luce dell’alba che delineava la porta. — Questa cosa dove viviamo noi. Diventa più piccola, Case, più piccola a mano a mano che ti avvicini.
Lui si soffermò un’ultima volta accanto alla porta. — L’hai chiesto al tuo ragazzo?
— Sì. Ha detto che non avrei capito, che sprecavo solo il mio tempo. Ha detto che era come… come un evento. E che quello era il nostro orizzonte. L’orizzonte degli eventi, come l’ha chiamato.
Quelle parole non significavano niente per Case. Lasciò il bunker e si avventurò fuori alla cieca, comunque, in qualche modo lo capiva, allontanandosi dal mare. Adesso i geroglifici scorrevano veloci sulla sabbia, gli scappavano da sotto i piedi, si ritraevano da lui a mano a mano che avanzava. — Ehi, si sta frantumando. Scommetto che lo sai anche tu. Che cos’è? Il Kuang? L’icebreaker cinese che sta aprendo un buco nel tuo cuore e lo divora. Forse il Flatline non si lascia menare per il naso, eh?
La sentì che chiamava il suo nome. Quando si voltò vide che lo stava seguendo, senza cercare di raggiungerlo, la lampo rotta della mimetica che le sbatteva contro il ventre abbronzato, i peli pubici inquadrati dal tessuto lacerato. Pareva una delle ragazze delle vecchie riviste di Finn alla Metro Holografix, tornata miracolosamente in vita. Soltanto che lei era stanca, triste e umana, l’indumento lacerato era patetico mentre incespicava sopra i grumi di alghe marine inargentate dal sale.
E poi, in qualche modo, si trovarono in mezzo alla risacca, tutti e tre, e le gengive del ragazzo erano grandi e d’un rosa acceso sullo sfondo del volto bruno e sottile. Indossava un paio di calzoncini incolori e sbrindellati, braccia e gambe troppo magre contro l’azzurro grigio carezzevole della marea.
— Ti conosco — disse Case. Linda gli era accanto.
— No — replicò il ragazzo con voce acuta e musicale. — Tu non mi conosci.
— Tu sei l’altra IA. Tu sei Rio. Tu sei quello che vuol fermare Invernomuto. Come ti chiami? Il tuo codice di Turing? Qual è?
Il ragazzo fece una piroetta nella risacca, scoppiando a ridere, camminò sulle mani, poi schizzò fuori dall’acqua. I suoi occhi erano quelli di Riviera, ma non c’era nessuna malizia in essi. — Per evocare un demone devi imparare il suo nome. Un tempo gli uomini l’hanno sognato, ma adesso è vero in modo diverso. Tu lo sai bene, Case. È il tuo mestiere quello di apprendere i nomi dei programmi, i lunghi nomi formali, i nomi che i proprietari cercano di nascondere. I nomi veri…
— Un codice di Turing non è il tuo nome.
— Neuromante — disse il ragazzo, socchiudendo i lunghi occhi grigi per proteggerli dal sole che stava sorgendo. — Il sentiero che porta alla terra dei morti. Dove ti trovi tu, amico mio. Marie-France, la mia lady, è lei che ha aperto la strada, ma il suo signore l’ha soffocata prima che io potessi leggere il suo diario. Neuro, dai nervi, i sentieri d’argento. Neu… romante. Negromante. Io evoco i morti. Ma no, amico mio — e il ragazzo fece una piccola danza, i piedi bruni che stampavano impronte sulla sabbia. — Io sono i morti, e la loro terra. — Di nuovo, scoppiò a ridere. Un gabbiano stridette. — Rimani. Se la tua donna è un fantasma, non sa di esserlo. E neppure tu lo saprai.
— Stai cedendo. L’ice si sta rompendo.
— No — disse il ragazzo, d’un tratto mesto, le fragili spalle che s’ingobbivano. Sfregò il piede contro la sabbia. — È molto più semplice. Ma la scelta è tua. — Quegli occhi grigi fissarono Case con gravità. Un’ondata di nuovi simboli attraversò il suo campo visivo, una linea per volta. Dietro quella cortina il ragazzo si ondulò, come intravisto attraverso il calore che si leva dall’asfalto d’estate. Adesso la musica era più forte, e Case riusciva quasi a distinguere le melodie.
— Case, tesoro — disse Linda, e gli toccò la spalla.
— No. — Case si tolse la giacca e gliela porse. — Non so, forse sei qui. Comunque comincia a far freddo.
Si girò e si allontanò, e dopo il settimo passo chiuse gli occhi, osservando la musica che si delineava con chiarezza al centro delle cose. Si voltò una volta, malgrado non aprisse gli occhi.
Non aveva bisogno di farlo.
Erano là, accanto alla riva del mare, Linda Lee e il ragazzino magro che sosteneva di chiamarsi Neuromante. Il suo giubbotto penzolava dalla mano di Linda, sfiorando il bordo della risacca.
Continuò a camminare seguendo la musica.
Il dub zionita di Maelcum.
— Case? Amico?
La musica.
— Sei tornato, amico.
La musica gli venne tolta dalle orecchie.
— Per quanto tempo? — si sentì chiedere, accorgendosi di avere la bocca molto secca.
— Cinque minuti, forse. Troppo. Volevo staccare spina, Muto diceva di no. Lo schermo diventato strano, poi Muto detto di metterti le cuffie.
Aprì gli occhi. Ai lineamenti di Maelcum si sovrapponevano fasce di geroglifici trasparenti.
— E la tua medicina — disse Maelcum. — Due dermi.
Era disteso supino sul pavimento della biblioteca, sotto il monitor. Lo zionita l’aiutò a sollevarsi, ma il movimento lo scagliò nel selvaggio impeto della betafenetilammina, i dermi azzurri che bruciavano contro il polso sinistro. — Overdose — riuscì a dire.
— Su, forza, amico. — Le mani robuste sotto le ascelle lo sollevarono come un bambino. — Io e tu andare. Dobbiamo.
Il carrello di servizio stava urlando. La betafenetilammina gli regalava una voce. Non voleva saperne di smettere. Non nella galleria affollata, nei lunghi corridoi, non mentre superava la porta di vetro nero che dava sulla cripta T-A, i sotterranei dove il gelo era filtrato gradualmente nei sogni del vecchio Ashpool.
Il tragitto fu per Case un’euforia infinitamente protratta, il movimento del carrello indistinguibile dal folle impeto dell’overdose. Quando il carrello morì, finalmente, qualcosa sotto il sedile cedette, accompagnato da una pioggia di scintille incandescenti. Lo strepito cessò.
Il carrello s’arrestò a tre metri dall’imbocco della caverna privata di 3Jane.
— Quanto distante, amico? — Maelcum l’aiutò a scendere dalla macchinetta sputacchiante mentre un estintore integrale esplodeva nel vano motore. Fiotti di polvere gialla schizzarono dalle bocchette di ventilazione e dagli orifizi per la manutenzione. Il Braun rotolò giù dal sedile e s’allontanò zoppicando sulla finta sabbia, trascinandosi dietro un arto ormai inutile. — Devi camminare, amico. — Maelcum prese il deck e il costrutto, mettendosi a tracolla i cordoni antiurto.
Gli elettrodi sbattevano intorno al collo di Case mentre seguiva lo zionita. Gli ologrammi di Riviera li stavano aspettando, le scene di tortura e i bambini cannibali. Molly aveva rotto il trittico. Maelcum li ignorò.
— Calma — suggerì Case, costringendosi a raggiungere la figura che avanzava a grandi passi. — Devo farlo nella maniera più adatta.
Maelcum si fermò, si girò, e lo fissò aggrottando la fronte. — Adatta, amico? Adatta come?
— C’è Molly là dentro, ma ormai è fuori gioco. Riviera può lanciare ologrammi. Forse ha la Fletcher di Molly. — Maelcum annuì. — E c’è il ninja, la guardia del corpo della famiglia.
Maelcum corrugò ancora di più la fronte. — Tu ascolta, Babilonia, amico — disse. — Io sono guerriero. Ma questo non è combattimento, non è combattimento di Zion. Babilonia combatte Babilonia, si mangia da sola, sai? Ma tu vedi che io e tu cerchiamo tirar fuori di qui Rasoio Danzante.
Case sbatté le palpebre.
— Lei guerriero — aggiunse Maelcum, come se questo spiegasse tutto. — Adesso, dimmi, amico, chi non devo uccidere?
— 3Jane — rispose Case, dopo un attimo di silenzio. — Una ragazza che sta là dentro. Indossa una specie di veste bianca, con un cappuccio. Abbiamo bisogno di lei.
Quando raggiunsero l’ingresso, Maelcum entrò di filato, e a Case non restò che seguirlo.
Il regno di 3Jane era deserto, la piscina vuota. Maelcum gli porse il deck e il costrutto e raggiunse il bordo della piscina. Oltre i mobili bianchi da giardino c’era il buio, le ombre delle pareti frastagliate, alte fino alla vita, gli ultimi residui crollati del labirinto.
L’acqua lambiva paziente il fianco della piscina.
— Sono qui — disse Case. — Devono esserci.
Maelcum annuì.
La prima freccia gli trafisse l’avambraccio. Il Remington ruggì, il lampo della sua canna lungo un metro avvampò azzurro nella luce irradiata dalla piscina. La seconda freccia centrò in pieno il fucile, mandandolo a rotolare sopra le piastrelle bianche. Maelcum crollò seduto, e armeggiò con la cosa nera che gli sporgeva dal braccio. La strattonò.
Hideo uscì dalle ombre, una terza freccia pronta nell’esile arco di bambù. Fece un inchino.
Maelcum lo guatò, con la mano ancora stretta intorno all’asticella d’acciaio.
— L’arteria è intatta — disse il ninja. Case ricordò la descrizione di Molly dell’uomo che aveva ucciso il suo amante. Hideo era un altro di quegli individui. Senza età, emanava una sensazione di serenità, di calma assoluta. Indossava un paio di calzoncini color kaki tutti sfilacciati e un paio di morbide scarpe scure che gli calzavano i piedi come guanti, divise agli alluci come le calze tabi. L’arco di bambù era un pezzo da museo, ma la faretra di lega nera che sporgeva dalla spalla sinistra sembrava uscita dal miglior negozio d’armi di Chiba. Il petto bruno era nudo e liscio.
— Mi hai stroncato il pollice con la seconda, amico — si lamentò Maelcum.
— La forza di Coriolis — replicò il ninja, facendo un nuovo inchino. — È difficilissimo con un proiettile che si muove lentamente in una gravità rotazionale. Non era voluto.
— Dov’è 3Jane? — Quando Case si portò al fianco di Maelcum, vide che la punta della freccia del ninja era come un rasoio a doppia lama. — Dov’è Molly?
— Ciao, Case. — Riviera uscì dal buio alle spalle di Hideo, con la Fletcher di Molly in pugno. — Non so perché ma mi sarei quasi aspettato di vedere Armitage. Adesso abbiamo assoldato dei rinforzi nel gruppo Rasta?
— Armitage è morto.
— Armitage non è mai esistito, per essere esatti, ma la notizia non mi sorprende.
— L’ha ucciso Invernomuto. Adesso è in orbita intorno al fuso.
Riviera annuì. I suoi lunghi occhi grigi passarono da Case a Maelcum, per poi ritornare a Case. — Temo che per te finisca qui — disse.
— Dov’è Molly?
Il ninja rilasciò la tensione sulla sottile corda intrecciata, abbassando l’arco. Quindi attraversò la distesa piastrellata fin dove si trovava il Remington e lo raccolse. — Questo non ha la minima finezza — disse, come se stesse parlando da solo. La sua voce era rilassata e piacevole. Ogni suo minimo movimento faceva parte di una danza che non finiva mai, perfino quando il corpo era immobile, in posizione di riposo, ma malgrado tutta la potenza che evocava emanava anche umiltà, una schietta semplicità.
— Finisce qui anche per lei — rispose Riviera.
— Forse 3Jane non ci starà, Peter — ribatté Case, indeciso su quale fosse l’impulso che l’aveva indotto a parlare. I dermi imperversavano ancora nel suo sistema, l’antica febbre cominciava ad afferrarlo, la follia di Night City. Ricordava bene i momenti di grazia, quando poteva agire al limite, quando scopriva di potere talvolta parlare più in fretta di quanto riuscisse a pensare.
Gli occhi grigi si aguzzarono. — Perché, Case? Perché pensi ciò?
Case sorrise. Riviera non sapeva dell’apparecchiatura simstim. L’aveva mancata per la fretta di trovare le droghe che Molly gli portava. Ma com’era possibile che Hideo non se ne fosse accorto? E Case era certo che il ninja non avrebbe mai permesso che 3Jane curasse Molly senza aver prima controllato che non ci fossero marchingegni e armi nascoste. No, decise, il ninja lo sapeva. Perciò anche 3Jane doveva saperlo.
— Dimmi, Case — proseguì Riviera, sollevando la canna sforacchiata della Fletcher.
Qualcosa gemette dietro di lui, tornò a scricchiolare. 3Jane spinse fuori dall’ombra Molly, relegata su una cigolante poltrona a rotelle vittoriana. Molly era infagottata in una coperta a strisce rosse e nere, e lo stretto schienale di canne dell’antiquata carrozzina torreggiava sopra di lei. Molly sembrava molto piccola. Infranta. Una chiazza di micropori d’un bianco accecante copriva la lente danneggiata, l’altra balenava vuota quando la testa oscillava, accompagnando il movimento della seggiola.
— Un volto familiare — osservò 3Jane. — Ti ho visto la sera dello spettacolo di Peter. E questo, chi sarebbe?
— Maelcum — disse Case.
— Hideo, estrai la freccia e benda la ferita del signor Maelcum.
Case stava fissando Molly, il suo volto esangue.
Il ninja si avvicinò a Maelcum seduto, fermandosi per appoggiare l’arco e il fucile ben lontano dalla portata degli altri, e prelevò qualcosa dalla tasca. Un tronchese per bulloni. — Devo tagliare l’asticella — spiegò. — È troppo vicina all’arteria. — Maelcum annuì. Il suo viso era grigiastro e coperto da un velo di sudore.
Case si rivolse a 3Jane. — Non c’è molto tempo — ricordò.
— Per chi, esattamente?
— Per tutti noi. — Si sentì uno schiocco quando Hideo troncò l’asticella metallica della freccia. Maelcum cacciò un gemito.
— Dico sul serio — interloquì Riviera. — Non ti divertirà affatto ascoltare questo artista fallito dell’imbroglio fare il suo ultimo numero disperato. Sarà molto sgradevole, te lo posso assicurare. Finirà per strisciare sulle ginocchia, si offrirà di venderti sua madre, proporrà le più noiose prestazioni sessuali…
3Jane buttò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. — Davvero credi che non lo farei, Peter?
— I fantasmi confonderanno le menti questa sera, signora mia — dichiarò Case. — Invernomuto affronterà l’altro, Neuromante. Una volta per tutte. Lo sai.
3Jane sollevò le sopracciglia. — Peter ha ventilato qualcosa del genere, ma dimmi dell’altro.
— Ho incontrato Neuromante. Ha parlato di tua madre. Credo sia una specie di gigantesco costrutto ROM, per registrare la personalità, soltanto che è interamente composto di RAM. I costrutti sono convinti di esserci, di essere veri, soltanto che va avanti in eterno.
3Jane spuntò da dietro la sedia a rotelle. — Dove? Descrivimi il posto, questo costrutto.
— Una spiaggia. Sabbia grigia, come argento… un argento che avrebbe bisogno d’essere lucidato… e una specie di bunker. — Case esitò. — Non è minimamente carino, soltanto vecchio, e cade a pezzi. Se cammini abbastanza a lungo, ritorni al punto di partenza.
— Sì — disse 3Jane. — Marocco. Quando Marie-France era una ragazzina, molti anni prima di sposare Ashpool, passò un’estate da sola su quella spiaggia, accampata in una casamatta abbandonata. Là formulò le basi della sua filosofia.
Hideo si raddrizzò, infilandosi il tronchesino nei calzoncini. Teneva una sezione della freccia per ogni mano. Maelcum aveva gli occhi chiusi, la mano stretta intorno al bicipite. — Lo bendo — disse Hideo.
Case riuscì a buttarsi a terra prima che Riviera spianasse la Fletcher per centrarlo. I dardi passarono sibilando accanto al suo collo come moscerini supersonici. Mentre rotolava al suolo, Case vide Hideo ruotare su se stesso, descrivendo un altro passo della sua danza, la freccia a rasoio stretta a rovescio tra le mani, con l’asticella schiacciata sul palmo e sulle dita irrigidite. Il ninja la scagliò in sottomano, il polso ridotto a una macchia confusa. La freccia si piantò nel dorso della mano di Riviera. La Fletcher rimbalzò sulle piastrelle a un metro di distanza.
Riviera urlò. Ma non per il dolore: era un urlo di rabbia, così puro, così schietto e raffinato da essere privo di qualsiasi umanità.
Raggi di luce gemelli, aghi rossi come rubini, saettarono dallo sterno di Riviera.
Il ninja grugnì, barcollò all’indietro, portandosi le mani agli occhi, poi recuperò l’equilibrio.
— Peter — disse 3Jane. — Peter, cos’hai fatto?
— Ha accecato il tuo clone — spiegò Molly con voce assente.
Hideo abbassò le mani piegate a coppa. Immobile sulle piastrelle bianche, Case vide fili di vapore uscire dagli occhi distrutti.
Riviera sorrise.
Hideo riprese la danza, tornando sui propri passi. Quando fu sopra l’arco, la freccia e il Remington, il sorriso di Riviera era già svanito. Si piegò (a Case parve che facesse un inchino) e trovò l’arco e la freccia.
— Sei cieco — gli ricordò Riviera, facendo un passo indietro.
— Peter, non sai che ci riesce anche al buio? — intervenne 3Jane. — Zen. È così che si allena.
Il ninja incoccò la freccia. — Mi distrarrai con i tuoi ologrammi, adesso?
Riviera aveva preso ad arretrare nel buio oltre la piscina. Sfiorò una sedia bianca, i suoi piedi sbatterono sulle piastrelle. La corda dell’arco venne tesa.
Riviera si mise a correre, spiccando un balzo oltre il frammento irregolare d’un muretto. Il volto del ninja era rapito, soffuso di una quieta estasi.
Sorridendo, si allontanò a passi felpati nelle ombre oltre il moncone di muro, tenendo pronta l’arma.
— Jane-lady — bisbigliò Maelcum, e quando Case si voltò lo vide che stava raccogliendo il fucile, il sangue che schizzava sulla bianca ceramica. Lo zionita scosse i dreadlock e appoggiò il grosso moncone di canna nell’incavo del braccio ferito. — Questo ti farà saltare la testa, e nessun dottore di Babilonia potrà rimetterla a posto.
3Jane osservò il Remington. Molly liberò le braccia dalle pieghe della coperta a strisce, sollevando la sfera nera che le imprigionava le mani. — Via — esclamò. — Tiramela via.
Case si riscosse, rimettendosi in piedi sul pavimento piastrellato. — Hideo lo farà fuori anche se è cieco? — chiese a 3Jane.
— Quand’ero bambina ci piaceva da matti bendarlo. Piazzava le frecce attraverso i punti delle carte da gioco da dieci metri di distanza.
— Peter è bello che morto — intervenne Molly. — Entro dodici ore comincerà a raffreddarsi. Non sarà più capace di muoversi. I suoi occhi sono tutto.
— Perché? — le chiese Case.
— Gli ho messo del veleno nella droga. L’effetto assomiglia al morbo di Parkinson.
3Jane annuì. — Sì. Abbiamo fatto il solito controllo scanner, prima di farlo entrare. — Quando toccò la sfera in una certa maniera, questa si staccò dalle mani di Molly. — Distruzione selettiva delle cellule della substantia nigra. I sintomi della formazione di un corpo di Lewy. Durante il sonno suda moltissimo.
— Alì — disse Molly, e dieci lame scintillarono, sfoderate per un istante. Tirò via la coperta dalle gambe, rivelando il gonfiore dell’ingessatura. — È la meperidina. Mi sono fatta preparare da Alì la sostanza solita. Ho accelerato i tempi di reazione con delle temperature più alte. N-metil-4-fenil-1236… — cantilenò, come un bambino che stesse recitando i passi di un gioco da marciapiede -… tetraidropiridina.
— Un’iniezione fulminante — concluse Case.
— Già. Un’iniezione fulminante davvero interminabile.
— È spaventoso — commentò 3Jane, e se ne uscì in una risatina.
L’ascensore era gremito. Case aveva il bacino premuto contro quello di 3Jane, la bocca del Remington sotto il mento della giovane. 3Jane sorrise e si strusciò contro di lui. — Smettila — le intimò Case, sentendosi impotente. Aveva messo la sicura al fucile, ma temeva sempre di farle del male, e lei lo sapeva. L’ascensore era un cilindro d’acciaio, meno di un metro di diametro, progettato per un singolo passeggero. Maelcum reggeva Molly fra le braccia. Lei gli aveva bendato la ferita, ma era ovvio che trasportarla gli causava un grande dolore. Il fianco di Molly spingeva il terminale e il costrutto contro i reni di Case.
Salirono, uscendo dalla gravità, verso l’asse, i nuclei.
L’ingresso dell’ascensore era dissimulato accanto alle scale che davano sul corridoio, un altro tocco nell’ambientazione da grotta dei pirati del rifugio di 3Jane.
— Non credo che dovrei dirvelo — disse 3Jane, allungando il collo in modo da consentire al suo mento di staccarsi dalla bocca del fucile. — Purtroppo non ho la chiave della porta che volete aprire. Non l’ho mai avuta. Una delle tante goffaggini vittoriane di mio padre. La serratura è meccanica, ed è estremamente complicata.
— Una serratura Chubb — fece la voce ovattata di Molly da dietro la spalla di Maelcum. — E noi abbiamo quella fottuta chiave, non preoccuparti.
— Quel tuo chip funziona ancora? — le domandò Case.
— Sono le venti e venticinque, merdosa ora di Greenwich.
— Abbiamo cinque minuti — dichiarò Case mentre la porta si apriva di scatto dietro a 3Jane. Quest’ultima schizzò all’indietro con una lenta capriola, e le pallide pieghe della djellaba le si gonfiarono intorno alle cosce.
Erano arrivati all’asse, al nucleo di villa Straylight.
Molly pescò la chiave appesa al cappio di nylon.
— Sapete, avevo l’impressione che non esistesse un duplicato della chiave — disse 3Jane, allungando il collo con interesse. — Ho mandato Hideo a rovistare fra le cose di mio padre, dopo che tu l’hai ucciso. Ma non è riuscito a trovare l’originale.
— Invernomuto è riuscito a farla incastrare in fondo a un cassetto — spiegò Molly, mentre inseriva con grande cautela l’asta cilindrica della Chubb dentro l’apertura nella superficie vuota della porta rettangolare. — Ha ucciso il ragazzino che ce l’aveva messa. — La chiave ruotò senza sforzo quando la provò.
— La nuca — intervenne Case. — C’è un pannello dietro la testa. Con degli zirconi sopra. Toglilo. È là che devo collegarmi.
E poi entrarono.
— Cristo in croce. Quando si tratta di prendertela comoda non ci pensi due volte, vero, ragazzo? — biascicò il Flatline.
— Il Kuang è pronto?
— Pronto a scattare.
— D’accordo. — Cambiò.
E si trovò a guardare attraverso l’occhio buono di Molly, fissando una faccia sbiancata, una figura logora, che galleggiava rannicchiata in posizione vagamente fetale, con un deck da cyberspazio fra le cosce, una fascia di elettrodi d’argento sopra gli occhi chiusi e in ombra. Le guance incavate e solcate dalla barba scura di un giorno, il volto lucido per il sudore.
Stava guardando se stesso.
Molly aveva in mano la sua Fletcher. La gamba le pulsava a ogni battito del polso, ma a gravità zero riusciva ancora a manovrare. Maelcum galleggiava lì vicino, il braccio sottile di 3Jane stretto in una manona bruna.
Un nastro di fibra ottica si snodava elegante dall’Ono-Sendai fino a un quadrato che si apriva sul retro del terminale incrostato di perle.
Case sfiorò di nuovo l’interruttore.
— Il Kuang Grade Versione Undici alzerà il culo fra nove secondi, meno sette, sei, cinque…
Il Flatline li digitò in un’ascesa liscia come l’olio, la superficie ventrale dello squalo di cromo nero ridotta a un guizzo di oscurità della durata di un microsecondo.
— Quattro, tre…
Case ebbe la strana impressione di essere finito sul sedile del pilota di un piccolo aereo. All’improvviso davanti a lui una superficie piatta e scura s’illuminò in una perfetta riproduzione della tastiera del suo deck.
— Due, fagliela vedere…
Una caduta a capofitto attraverso pareti di verde smeraldo, di giada lattea, la sensazione d’una velocità superiore a qualunque altra cosa avesse conosciuto in precedenza nel cyberspazio… L’ice della Tessier-Ashpool crollò sotto l’attacco in profondità portato dal programma cinese, un’inquietante impressione di solida fluidità, come se i frammenti d’uno specchio infranto si stessero piegando e allungando mentre cadevano…
— Cristo — esclamò Case, sgomento, mentre il Kuang si torceva e cabrava sopra i campi privi d’orizzonte dei nuclei della Tessier-Ashpool, un interminabile paesaggio metropolitano al neon, una complessità che fendeva l’occhio, luminosa come un gioiello, tagliente come un rasoio.
— Ehi, quegli affari sono il palazzo della RCA. Conosci il vecchio palazzo della RCA? — disse il costrutto. Il programma Kuang si tuffò oltre le guglie luccicanti di una dozzina d’identiche torri di dati, ognuna una replica in neon azzurro d’un grattacielo di Manhattan.
— Hai mai visto una risoluzione così elevata? — chiese Case.
— No, ma io non sono mai penetrato in una IA.
— Questa cosa sa dove sta andando?
— Sarà meglio.
Stavano cadendo, perdendo quota, in un canyon di arcobaleni al neon.
— Dix…
Un braccio d’ombra si stava snodando dal tremolante pavimento là sotto, una ribollente massa di oscurità, informe, indistinta…
— Arriva gente — disse il Flatline, mentre Case toccava la rappresentazione del suo deck, con le dita che volavano automaticamente sulla tastiera. Il Kuang deviò, scatenando un accesso di nausea, poi invertì la direzione, scattando all’indietro con una violenta sferzata, infrangendo in quel modo l’illusione di un veicolo fisico.
Il cono d’ombra stava crescendo, si ampliava, oscurando la città di dati. Case li guidò direttamente in alto, sotto la conca priva di distanza dell’ice verde-giada.
Adesso la città dei nuclei era scomparsa, totalmente oscurata nel buio sotto di loro.
— Che cos’è?
— Il sistema di difesa d’una IA — spiegò il costrutto. — O parte di esso. Se è il tuo socio Invernomuto, non ha l’aria di essere molto amichevole.
— Affrontalo — intimò Case. — Tu sei più veloce.
— Ora la tua migliore di-fesa, ragazzo è una buona off-esa.
E il Flatline allineò il muso del pungiglione del Kuang con il centro della sottostante oscurità. E si tuffò.
L’input sensoriale di Case si deformò a causa della velocità. La sua bocca si riempì di un doloroso sapore di azzurro.
I suoi occhi erano uova di cristallo instabile, che vibravano secondo una frequenza il cui nome era la pioggia e il lontano fragore dei treni, dalla quale d’un tratto sbocciò una foresta ronzante di spine di vetro sottili come capelli. Le spine si scissero, si bisecarono, si scissero un’altra volta, crescendo a un ritmo esponenziale sotto la cupola dell’ice della Tessier-Ashpool.
Il suo palato si fessurò senza dolore, consentendo l’accesso a tante piccole radici che presero a sferzare intorno alla lingua, affamate del sapore dell’azzurro, per nutrire le foreste di cristallo dei suoi occhi, foreste che premevano contro la cupola verde, che premevano e venivano intralciate, e si diffondevano, crescendo verso il basso, riempiendo l’universo della T-A, fin dentro gli impotenti sobborghi in attesa della città che era la mente della Tessier-Ashpool S.A.
E ricordò un’antica storia, un re che metteva le monete su una scacchiera, raddoppiando la somma a ogni casella…
Esponenziale…
L’oscurità scese da ogni lato, una sfera di nero cantante, la pressione sui protesi nervi di cristallo dell’universo di dati in cui lui era quasi mutato…
E quando lui non fu nulla, compresso al centro di tutto quel buio, ci fu un punto dove il buio non poteva più esistere, e qualcosa si ruppe.
Il programma Kuang schizzò fuori da quella nube offuscata, la consapevolezza di Case suddivisa in tante perline di mercurio, in una parabola sopra una spiaggia interminabile del colore delle buie nubi argentate. La sua visione era a occhio di pesce, come se una singola retina rivestisse la superficie interna di un globo che conteneva tutte le cose, se tutte le cose si potevano contare.
E qui le cose potevano essere contate, una per una. Conosceva il numero dei granelli di sabbia nel costrutto della spiaggia (un numero codificato in un sistema matematico che non esisteva da nessun’altra parte al di fuori della mente che era Neuromante). Conosceva il numero di sacchetti gialli di generi alimentari che si trovavano nei contenitori dentro il bunker (quattrocentosette), conosceva il numero dei denti di ottone della metà sinistra della cerniera aperta della giacca incrostata di sale che Linda Lee indossava mentre procedeva con passo stanco lungo la spiaggia al calar del sole, facendo roteare nella mano un bastone di legno raccolto sulla sabbia (duecentodue).
Fece virare il Kuang sopra la spiaggia guidando il programma in un ampio cerchio, e vide la cosa nera simile a uno squalo attraverso gli occhi di lei, un silenzioso famelico fantasma che si stagliava contro i banchi minacciosi delle nuvole. Lei si ritrasse spaventata, lasciò cadere il bastone e si mise a correre. Conosceva il ritmo delle sue pulsazioni, la lunghezza dei suoi passi, secondo misurazioni che avrebbero soddisfatto i più rigorosi standard della geofisica.
— Ma non conosci i suoi pensieri — precisò il ragazzo, adesso accanto a lui nel cuore della cosa a forma di squalo. — Io non conosco i suoi pensieri. Ti sbagliavi, Case. Vivere qui significa vivere. Non c’è nessuna differenza.
Linda, in preda al panico, si lanciò alla cieca in mezzo alla risacca.
— Fermala — disse Case. — Si farà male.
— Non posso fermarla — replicò il ragazzo, con i suoi occhi grigi pacati, bellissimi.
— Hai gli occhi di Riviera.
Vi fu un lampeggiare di denti bianchi, grandi gengive rosa. — Ma non la sua follia. Perché per me sono belli. — Scrollò le spalle. — Non ho bisogno di una maschera per parlare con te. A differenza di mio fratello, io creo la mia personalità. La personalità è il mio medium.
Case li portò in alto, in una brusca impennata, lontano dalla spiaggia e dalla ragazza spaventata. — Perché me la butti fra le braccia, piccolo testa di cazzo che non sei altro? Prendendomi per il naso per uno schifosissimo numero di volte. Tu l’hai uccisa, eh? A Chiba.
— No — disse il ragazzo.
— Invernomuto?
— No. Avevo visto arrivare la sua morte. Nelle ricorrenze che talvolta tu immaginavi di riuscire a individuare nella danza della strada. Quei corsi e ricorsi sono veri. Io sono abbastanza complesso, pur nei miei limiti, per leggere quelle danze. Assai meglio di quanto possa fare Invernomuto. Ho visto la sua morte nel bisogno stesso che aveva di te, nel codice magnetico della serratura sulla porta della tua bara al Cheap Hotel, nel conto di Julie Deane presso un fabbricante di camicie di Hong Kong. Chiaro per me come l’ombra di un tumore per un chirurgo che studi la lastra di un paziente. Quando portò il tuo Hitachi dal suo ragazzo, per cercare di accedervi (lei non aveva la minima idea di cosa aveva in mano, e ancora meno di come avrebbe potuto venderla, e il suo più profondo desiderio era che tu la inseguissi e la punissi), allora sono intervenuto. I miei metodi sono decisamente più subdoli di quelli di Invernomuto. L’ho portata qui. Dentro me stesso.
— Perché?
— Speravo di riuscire a portar qui anche te, di tenerti qui. Ma ho fallito.
— E adesso che cosa succede? — Li riportò indietro con una virata in mezzo al banco di nubi. — Dove andiamo adesso?
— Non lo so, Case. Stanotte persino la matrice si pone la medesima domanda. Perché tu hai vinto, hai già vinto, non lo vedi? Hai vinto quando ti sei allontanato da lei sulla spiaggia. Lei era la mia ultima linea di difesa. Io morirò molto presto, in un certo senso. Come accadrà a Invernomuto. Sicuramente come sta accadendo a Riviera, ora, mentre giace paralizzato accanto ai resti di una parete negli appartamenti della mia Lady 3Jane Marie-France, con il suo sistema di nigra striata incapace di produrre i ricettori di dopamina che potrebbero salvarlo dalla freccia di Hideo. Ma Riviera sopravviverà soltanto sotto forma di questi occhi, se mi sarà permesso conservarli.
— C’è la parola, giusto? Il codice. Allora, com’è che avrei vinto? Ho vinto un accidenti!
— Cambia, adesso.
— Dov’è Dixie? Cos’hai fatto con il Flatline?
— McCoy Pauley ha il suo desiderio — disse il ragazzo, e sorrise. — Il suo desiderio e qualcosa di più. Ti ha digitato qui contro il mio volere, e si è lanciato attraverso difese uguali in tutta la matrice. Su, cambia.
E Case si trovò solo nel pungiglione nero del Kuang, smarrito fra le nuvole.
Cambiò.
Nella tensione di Molly, la sua schiena simile a una roccia, le mani strette intorno alla gola di 3Jane. — Strano, so esattamente che aspetto hai — disse Molly. — L’ho visto dopo che Ashpool ha fatto altrettanto alla tua sorella clone. — Le sue mani erano dolci, quasi una carezza. Gli occhi di 3Jane erano sbarrati per il terrore e la libidine. Tremava per la paura e per il desiderio. Oltre il groviglio in caduta libera dei capelli di 3Jane, Case vide il proprio volto pallido, teso, con Maelcum dietro di lui, le mani brune sulle spalle del giubbotto di cuoio, per impedirgli di cadere sul tappeto con il disegno dei circuiti stampati.
— Lo faresti? — chiese 3Jane, con una voce che era quella di una bambina. — Sì… credo che lo faresti.
— Il codice — disse Molly. — Qual è il codice della testa?
Case si scollegò.
— Lo vuole — urlò Case. — Quella cagna lo vuole!
Aprì gli occhi alla gelida fissità color rubino del terminale, alla faccia di platino tempestata di perle e di lapislazzuli. Oltre quella, Molly e 3Jane si dimenavano in un abbraccio al rallentatore.
— Dacci quel merdoso codice — disse Case. — Tanto, se non lo farai, cosa cambierà? Che razza di cambiamento ci sarà mai per te? Farai la fine del vecchio. Butterai giù tutto e ricomincerai a costruire di nuovo! Ricostruirai le pareti, sempre più anguste… Non ho la minima idea, ma proprio nessuna, di cosa accadrà se dovesse essere Invernomuto a vincere, ma cambierà qualcosa! — Tremava, gli battevano i denti.
3Jane s’afflosciò, le mani di Molly ancora serrate intorno alla sua esile gola, i capelli scuri che galleggiavano alla deriva, aggrovigliati, un morbido amnio scuro.
— Il Palazzo Ducale di Mantova — disse — contiene una serie di stanze sempre più piccole che s’inseguono intorno ai grandi appartamenti, dietro le intelaiature meravigliosamente intagliate delle porte. Bisogna abbassarsi per entrare. In quelle stanzette abitano i nani di corte. — Mostrò un pallido sorriso. — Potrei aspirare a questo, immagino, ma in un certo senso la mia famiglia ha già realizzato una versione più grandiosa dello stesso progetto… — Adesso i suoi occhi erano calmi, remoti. Poi abbassò lo sguardo su Case. — Ecco la tua parola, ladro. — Lui si collegò.
Il Kuang scivolò fuori dalle nubi. Sotto, la città al neon. Dietro, una sfera d’oscurità che si rimpiccioliva.
— Dixie? Sei qui, amico? Mi senti, Dixie?
Era solo.
— Quello stronzo ti ha beccato — constatò.
Un istante di cecità mentre sfrecciava attraverso l’infinito orizzonte di dati.
— Devi odiare qualcuno, prima che questa faccenda sia finita — disse la voce di Finn. — Loro, me, non ha importanza.
— Dove si trova Dixie?
— È un po’ difficile spiegarlo, Case.
La sensazione della presenza di Finn lo circondava, odore di sigari cubani, fumo imprigionato in un tweed ammuffito, vecchie macchine abbandonate ai rituali minerali della ruggine.
— L’odio ti aiuterà a passare — riprese la voce. — Ci sono tanti piccoli grilletti nel cervello e tu devi soltanto farli scattare tutti. Adesso devi odiare. Il blocco che scherma i controlli implementati è sotto quelle torri che il Flatline ti ha fatto vedere, quando sei entrato. Lui non cercherà di fermarti.
— Neuromante — disse Case.
— Il suo nome non è qualcosa che io posso conoscere. Ma ormai ha rinunciato. È l’ice della T-A quello che deve preoccuparti. Non la facciata, ma i sistemi di virus interni. Il Kuang è completamente vulnerabile a certe cose che sono a piede libero là dentro.
— Odio — ripeté Case. — Chi devo odiare? Dimmelo tu.
— Chi ami? — gli chiese la voce di Finn.
Sferzò il programma facendogli compiere una curva, e si tuffò verso le torri azzurre.
Strane cose si stavano lanciando dalle guglie decorate che risplendevano di luce solare, forme luccicanti, simili a sanguisughe costituite da mutevoli piani di luce. Ce n’erano a centinaia, che si levavano turbinando, con movimenti casuali come fogli di carta soffiati dal vento lungo le strade alle prime luci dell’alba. — Sistemi pieni di buchi — disse la voce.
Entrò in picchiata, alimentato dall’odio per se stesso. Quando il programma Kuang incontrò il primo difensore, sparpagliando le foglie di luce, Case sentì la cosa simile allo squalo perdere una certa gradazione della sua sostanza, il tessuto delle informazioni che si stava allentando.
E poi, vecchia alchimia del cervello e della sua ampia riserva di sostanze chimiche, il suo odio gli scivolò tra le mani.
L’istante prima di guidare il pungiglione del Kuang attraverso la base della prima torre raggiunse un livello di destrezza che superava qualunque altra dote avesse mai conosciuto e immaginato prima. Si muoveva al di là dell’ego, al di là della personalità, al di là della coscienza, e il Kuang si muoveva con lui, evitando i suoi aggressori con un’antica danza, la danza di Hideo, la grazia concessa dall’interfaccia mente-corpo, in quel secondo, dalla chiarezza e dalla precisa unicità del suo desiderio di morte.
E un passo di quella danza era costituito dal tocco più leggero che si potesse immaginare sull’interruttore, quel tanto che bastava a cambiare…
…adesso
e la sua voce il grido di un uccello
sconosciuto,
3Jane che rispondeva con una canzone, tre
note, alte e pure.
Un vero nome.
Una foresta di neon, la pioggia che sfrigolava sul marciapiede arroventato. L’odore del cibo che friggeva. Le mani di una ragazza intrecciate dietro il fondoschiena, nell’oscurità torbida di una bara presso il porto.
Ma tutto ciò si allontanava, come si allontana il panorama di una città: una città come Chiba, come i dati allineati della Tessier-Ashpool S.A., come le strade e gli incroci iscritti sulla superficie di un microchip, il disegno creato dalle macchie di sudore su una sciarpa piegata e annodata…
Svegliandosi a una voce che era musica, il terminale di platino che suonava melodioso, interminabile, parlando di conti svizzeri numerati, di pagamenti da effettuare a Zion tramite una banca orbitale bahamense, di passaporti e di passaggi, e di profondi e fondamentali cambiamenti da apportare nella memoria del Turing.
Turing. Ricordò la pelle a stencil sotto un cielo proiettato, intessuto oltre una ringhiera di ferro. Ricordò Desiderata Street.
E la voce continuava a cantare, a richiamarlo nel buio, ma era il suo buio, battito e sangue, quello in dui aveva sempre dormito, dietro i suoi occhi e non quelli degli altri.
E si svegliò di nuovo, convinto di aver sognato, davanti a un ampio, bianco sorriso provvisto di incisivi dorati, Aerol che lo stava legando alla rete-g del Babylon Rocker.
E infine il lungo pulsare del dub di Zion.