PARTE SECONDA La spedizione per acquisti

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Casa.

La casa era BAMA, lo Sprawl, l’Asse Metropolitano Boston-Atlanta.

Programmate una mappa in modo che mostri la frequenza degli scambi di dati, ogni mille megabyte un singolo pixel su uno schermo enorme. Manhattan e Atlanta ardono di un bianco compatto. Poi cominciano a pulsare, la velocità del traffico minaccia di sovraccaricare la vostra simulazione. La vostra mappa sta per diventare una nova. Raffreddatela. Aumentate la scala. Ciascun pixel un milione di megabyte. A cento milioni di megabyte al secondo cominciate a distinguere certi isolati al centro di Manhattan, i contorni dei complessi industriali vecchi di secoli che cingono il vecchio cuore di Atlanta…


Case si svegliò da un sogno di aeroporti, di cuoio scuro di Molly che si muoveva davanti a lui negli immensi atrii di Orly, Narita, Schipol… Osservò se stesso che comprava una fiaschetta piatta di plastica piena di vodka danese a un chiosco, un’ora prima dell’alba.

Da qualche parte giù nelle radici di ferrocemento dello Sprawl, un treno stava spingendo una colonna d’aria rancida lungo una galleria. Il treno era silenzioso, planava sui suoi cuscini a induzione, ma l’aria smossa faceva cantare la galleria nella gamma dei subsonici più bassi. La vibrazione raggiunse la stanza dove era steso Case e sollevò la polvere dalle crepe del parquet troppo asciutto.

Quando aprì gli occhi vide Molly nuda appena fuori della sua portata, dall’altra parte d’una distesa rosa di gommapiuma termica nuova di zecca. In alto la luce del sole filtrava attraverso la griglia fuligginosa di un lucernario. Mezzo metro quadrato di vetro era stato sostituito da un pannello di truciolato da cui spuntava un grosso cavo grigio che finiva penzolante a pochi centimetri dal pavimento. Case era steso sul fianco e l’osservava respirare. Guardava i suoi seni, la curva d’un fianco dal profilo funzionale ed elegante come la fusoliera d’un aereo da combattimento. Quel corpo era asciutto, essenziale, con i muscoli da ballerina classica.

La stanza era grande. Si drizzò a sedere. Era vuota, a parte l’ampia superficie rosa del letto e due borse di nylon, nuove e identiche, che giacevano poco lontane. Le pareti spoglie, nessuna finestra, una singola uscita di sicurezza in acciaio dipinto di bianco. Le pareti erano rivestite d’innumerevoli strati di acrilico bianco. Gli interni d’una fabbrica. Lui conosceva quel tipo di locale, quel tipo di edificio: gli inquilini erano gente che operava nell’interzona in cui l’arte non era del tutto un crimine, e un crimine non del tutto un’arte.

Era a casa.

Si rigirò e appoggiò i piedi sul pavimento. Era una sorta di parquet, ma alcuni elementi mancavano, altri erano sconnessi. La testa gli faceva male. Ricordò Amsterdam, un’altra stanza, nella Città Vecchia, edifici antichi di secoli. Molly appena tornata dal canale con del succo d’arancia e delle uova. Armitage che se n’era andato per una delle sue misteriose scorrerie, loro due che camminavano soli oltre il Dam fino a un bar che lei conosceva, in una delle strade di Damrak. Parigi era un sogno confuso. Compere, Molly l’aveva accompagnato a far compere.

Si alzò e s’infilò un paio di jeans neri nuovi e spiegazzati abbandonati ai suoi piedi, poi s’inginocchiò accanto alle borse. La prima che aprì era quella di Molly: indumenti piegati in bell’ordine e oggettini dall’aria costosa. La seconda era piena zeppa di cose che non ricordava di aver comprato: libri, nastri, un deck da simstim, abiti con etichette francesi e italiane. Sotto una maglietta verde scoprì un pacchetto piatto avvolto in un origami di carta giapponese riciclata.

La carta si lacerò quando lo raccolse: una scintillante stella a nove punte ne cadde… piantandosi dritta in una crepa del parquet.

— Un ricordino — spiegò Molly. — Ho notato che continuavi a guardarle. — Quando Case si voltò la vide seduta a gambe incrociate sul letto mentre si grattava assonnata lo stomaco con le unghie color borgogna.


— Più tardi passerà qualcuno a rendere sicuro questo posto — disse Armitage. Era fermo sulla soglia con in mano un’antiquata chiave magnetica. Molly stava preparando il caffè su un minuscolo fornelletto tedesco che aveva tirato fuori dalla borsa.

— Posso pensarci io — dichiarò Molly. — Ho già abbastanza apparecchiature. Infrascanner perimetrali, allarmi vocalizzanti…

— No — ribadì Armitage, chiudendo la porta. — Lo voglio impenetrabile.

— Fai come ti pare. — Molly indossava una maglietta scura a rete, infilata dentro larghi pantaloni neri di cotone.

— È mai stato nella polizia, signor Armitage? — chiese Case, seduto con la schiena appoggiata alla parete.

Armitage non era più alto di Case, ma con le sue spalle ampie e il portamento militare pareva riempire il vano della porta. Indossava un vestito italiano scuro, e nella mano destra reggeva una valigetta di morbido vitello nero. L’orecchino dei reparti speciali era sparito. I tratti di quel volto fascinoso e inespressivo offrivano la bellezza standard delle boutique cosmetiche, un amalgama tradizionale dei volti più importanti comparsi sui media durante l’ultimo decennio. Il pallido bagliore degli occhi accentuava l’effetto maschera. Case cominciò a pentirsi di aver fatto quella domanda.

— Insomma, un bel po’ di ragazzi dei reparti hanno finito per fare i poliziotti. Oppure sono approdati alla sicurezza delle grosse società — aggiunse Case a disagio. Molly gli porse una tazza di caffè fumante. — Quell’intervento che gli ha fatto fare sul mio pancreas è tipico dei poliziotti.

Armitage chiuse la porta, attraversò la stanza e si fermò dritto davanti a Case. — Sei un ragazzo fortunato, Case… Dovresti ringraziarmi.

— Davvero? — Case soffiò rumorosamente sul suo caffè.

— Avevi bisogno di un nuovo pancreas. Quello che abbiamo comprato ti affranca da una pericolosa dipendenza.

— Grazie, ma quella dipendenza me la godevo.

— Meglio per te, visto che adesso ne hai una nuova.

— Come sarebbe? — Case sollevò lo sguardo dal suo caffè. Armitage sorrideva.

— Hai quindici sacche di tossine legate all’endotelio di varie arterie principali, Case. Si stanno dissolvendo. Molto lentamente, ma si stanno senz’altro liquefacendo. Ognuna contiene una micotossina. Conosci già gli effetti di quella micotossina. È quella che i tuoi ex datori di lavoro ti hanno dato a Memphis.

Case sollevò lo sguardo su quella maschera sorridente sbattendo gli occhi.

— Hai il tempo di fare ciò per cui ti ho assoldato, Case, ma è tutto. Se fai il lavoro, poi io posso iniettarti un enzima che scioglierà i legami senza aprire le sacche. Poi avrai bisogno di un ricambio di sangue. Altrimenti le sacche si scioglieranno e finirai di nuovo dove ti ho trovato. Così, come vedi, Case, hai bisogno di noi. Hai bisogno di noi almeno quanto ne avevi quando ti abbiamo tirato su dalla fogna.

Case guardò Molly. La donna scrollò le spalle.

— Adesso scendi con il montacarichi e porta su le casse che troverai di sotto. — Armitage gli porse la chiave magnetica. — Vai. Sarà uno spasso, Case. Come la mattina di Natale.


Estate nello Sprawl, le folle lungo il passeggio che ondeggiavano come erba smossa dal vento, un campo di carne screziato da improvvisi mulinelli di bisogni e gratificazioni.

Era seduto accanto a Molly alla luce filtrata del sole sul bordo di una fontana asciutta di cemento, lasciando che l’interminabile fiume di facce ricapitolasse gli stadi della sua vita. Prima un bambino con gli occhi socchiusi, un ragazzo di strada, le mani rilassate e pronte ai fianchi, poi il volto liscio ed enigmatico di un adolescente sotto gli occhiali rossi. Case ricordava di essersi battuto su un tetto a diciassette anni, un combattimento silenzioso al roseo bagliore dei geodesici dell’alba.

Si spostò sul cemento, sentendolo ruvido e fresco attraverso il denim nero e sottile dei calzoni. Qui non c’era niente di simile alla danza elettrica di Ninsei. Questo era un commercio diverso, un ritmo diverso, nell’odore dei fast food, dei profumi e del sudore fresco dell’estate.

Con il suo deck che l’aspettava, là nell’attico, un Ono-Sendai Cyberspace 7. Avevano lasciato il locale cosparso delle forme astratte degli imballaggi di polistirolo, fogli di plastica accartocciati e centinaia di palline di gommapiuma.

L’Ono-Sendai, il costosissimo prototipo dell’Hosaka dell’anno prossimo, un monitor della Sony, una dozzina di dischi ice da multinazionale, una macchinetta da caffè della Braun. Armitage aveva aspettato soltanto che Case approvasse ogni singolo pezzo.

— Dov’è andato? — aveva chiesto Case a Molly.

— Gli piacciono gli alberghi, quelli grandi. Vicini agli aeroporti, se se li può permettere. Scendiamo in strada. — Aveva indossato un panciotto con la chiusura lampo, un vecchio residuato bellico, con una dozzina di tasche dalla forma stranissima, quindi s’era infilata un paio di enormi occhiali da sole di plastica nera, che nascondevano gli innesti a specchio.

— Sapevi di quella tossina? — le chiese, lì accanto alla fontana. Lei scosse la testa. — Pensi che sia vero?

— Forse sì, forse no. Funziona in entrambi i casi.

— Conosci per caso qualche sistema per appurarlo?

— No — rispose lei, sollevando la mano destra per interromperlo. — Questo genere di anomalia è troppo sottile per comparire su un analizzatore. — Poi le sue dita tornarono a muoversi: aspetta un attimo. — E non te ne importa più di tanto, comunque. Ti ho visto mentre accarezzavi quel Sendai. Ehi, eri quasi pornografico. — Scoppiò a ridere.

— E allora, cos’ha su di te? Come ha fatto ad accalappiare una ragazza in carriera come te?

— Orgoglio professionale, bimbo, nient’altro. — E ancora una volta l’interruppe. — Andiamo a fare colazione, va bene? Uova, e vero bacon. Probabilmente ti ucciderà. A Chiba hai mangiato troppo a lungo quel krill ricostituito… Già. Su, vieni, prendiamo il metrò fino a Manhattan e facciamoci una vera colazione.

Un neon senza vita scandiva, in lettere maiuscole tutte impolverate in tubo di vetro, METRO HOLOGRAFIX. Case si tolse un filo di bacon che gli si era impigliato fra gli incisivi. Aveva rinunciato a chiedere dove stavano andando, e perché. Gomitate alle costole e l’invito a chiudere il becco era tutto quanto aveva ottenuto a mo’ di risposta. Lei gli parlò delle tendenze della stagione, degli sport più in voga, dell’ultimo scandalo politico in California (di cui lui non aveva mai sentito parlare).

Guardò il deserto vicolo cieco. Un foglio di giornale attraversò svolazzando l’incrocio. I venti capricciosi da est: avevano qualcosa a che fare con la convezione e l’inversione degli strati. Case guardò l’insegna spenta attraverso il vetro. Decise che lo Sprawl di Molly non era il suo. L’aveva portato in una dozzina di bar e di club dove non era mai stato prima, curando i propri affari con un semplice cenno del capo. Manteneva i contatti.

Qualcosa si muoveva fra le ombre dietro METRO HOLOGRAFIX.

La porta era un foglio di lamiera ondulata davanti al quale le mani di Molly disegnarono un’intricata sequenza di segnali che lui non poteva seguire. Colse però il segno di contante, il pollice che sfiorava la punta dell’indice. La porta si aprì verso l’interno e lei lo condusse in mezzo all’odore di polvere. Erano penetrati in uno spazio sgombro all’interno di un fitto groviglio di paccottiglia su entrambi i lati lungo le pareti coperte di scaffali pieni di tascabili che si stavano sbriciolando. I detriti parevano qualcosa cresciuto lì dentro, un fungo di metallo e plastica ritorti. Riusciva a distinguere i singoli oggetti ma questi quasi subito tornavano a confondersi nella massa: i visceri di un televisore, vecchio al punto da essere costellato dai moncherini di vetro delle valvole, una parabolica accartocciata, un bidone di fibra marrone stipato di corrosi tubi di lega metallica. Un enorme mucchio di vecchie riviste era precipitato nell’area sgombra, e le epidermidi di estati perdute lo fissarono cieche mentre seguiva Molly attraverso uno stretto canyon di rottami compattati. Sentì la porta chiudersi alle loro spalle. Non si voltò a guardare.

La galleria terminava con un’antica coperta militare appesa di traverso a una porta. Una luce bianca scaturì all’improvviso quando Molly ci passò sotto.

Quattro pareti di plastica candida, il soffitto tale e quale, il pavimento di piastrelle bianche da ospedale modellate in un motivo antiscivolo di piccoli dischi sporgenti. Al centro c’era un tavolo quadrato di legno dipinto di bianco, con quattro sedie pieghevoli.

L’uomo che adesso si trovava alle loro spalle, sulla soglia, sbattendo le palpebre, con la coperta militare che gli drappeggiava la spalla come un mantello, pareva progettato in una galleria del vento. Le orecchie erano molto piccine, incollate al cranio strettissimo, e i grossi incisivi, scoperti da qualcosa che non era esattamente un sorriso, erano decisamente inclinati all’indietro. Indossava un’antiquata giacca di tweed e impugnava nella sinistra una pistola di qualche tipo. L’uomo li sbirciò, sbatté di nuovo le palpebre e lasciò cadere la pistola in una tasca della giacca, quindi si rivolse a Case con un gesto della mano, indicando una lastra di plastica bianca appoggiata alla parete vicino alla porta. Quando Case si avvicinò, vide che era un sandwich compatto di circuiti, spesso quasi un centimetro. Aiutò l’uomo a sollevarla e a collocarla nel vano della porta. Dita veloci, macchiate di nicotina, la fissarono nel suo alloggiamento con un bordo di velcro bianco. Uno sfiatatoio nascosto della ventilazione incominciò a ronzare.

— Il tempo — disse l’uomo, rizzandosi. — Il tassametro corre. Conosci la tariffa, Moll?

— Abbiamo bisogno d’una scansione, Finn. Per innesti.

— Allora mettiti là fra i pilastri. In piedi sul nastro. Dritta, ecco. Adesso girati, dammi un tre e sessanta completo. — Case la osservò ruotare tra due fragili colonnine imbottite di sensori. L’uomo tirò fuori di tasca un piccolo monitor e lo guardò strizzando gli occhi. — C’è qualcosa di nuovo nella tua testa, già. Silicio, uno strato di carburi pirolitici. Un orologio, giusto? I tuoi occhiali mi danno la lettura solita, carburi isotropici a bassa temperatura. Avresti una migliore biocompatibilità con i pirolitici, ma sono affari tuoi, giusto? Vale altrettanto per i tuoi artigli.

— Mettiti qui, Case. — C’era una X tracciata in nero sul pavimento bianco. — Girati, lentamente.

— Questo tipo è vergine. — L’uomo scrollò le spalle. — Un po’ di lavoro da quattro soldi ai denti, è tutto.

— Hai controllato i dati biologici? — Molly aprì la cerniera del corpetto verde e si tolse gli occhiali scuri.

— Credi che siamo alla Mayo Clinic? Sali sul tavolo, ragazzo. Faremo una piccola biopsia. — Finn rise, esibendo un’ulteriore dose di denti gialli. — No, parola di Finn, dolcezza, non hai nessuna piccola cimice, nessuna bomba nella corteccia. Vuoi che spenga lo schermo?

— Solo quel tanto che basta perché tu te ne vada, Finn. Poi vogliamo lo schermo attivato per tutto il tempo che ci pare.

— Ehi, a Finn va benissimo, Moll. Paghi soltanto per ogni secondo che passa.

Chiusero ermeticamente la porta alle spalle di Finn, quindi Molly girò una seggiola bianca e si sedette, appoggiando il mento sugli avambracci incrociati. — E adesso parliamo pure. Qui è privato entro i limiti massimi che mi posso permettere.

— Di che?

— Di quello che stiamo facendo.

— Cosa stiamo facendo?

— Lavoriamo per Armitage.

— E dici che questo non è a suo uso e consumo?

— Già. Ho visto il tuo profilo, Case. E ho visto il resto della nostra lista per la spesa, una volta. Tu lavori mai con i morti?

— No. — Case osservò il proprio riflesso sugli occhiali della compagna. — Anche se potrei farlo, credo. Sono bravo nel mio lavoro. — L’uso del presente l’innervosì.

— Sai che Dixie “Flatline” è morto?

Lui annuì. — Il cuore, se ho sentito bene.

— Lavorerai con il suo costrutto. — Un sorriso. — Ti ha insegnato i trucchi del mestiere, no? Lui e Quine. Conosco Quine, a proposito. Un vero stronzo.

— Qualcuno ha una registrazione di McCoy Pauley? Chi? — Adesso Case s’era seduto e teneva appoggiati i gomiti sul tavolo. — Non riesco a crederci. Non sarebbe mai rimasto fermo abbastanza da farsela fare.

— La Senso/Rete gli ha pagato un mega, ci puoi scommettere.

— È morto anche Quine?

— Non siamo così fortunati. È in Europa. Non c’entra con questa faccenda.

— Be’, se possiamo avere quella di Flatline siamo a posto. Era il migliore. Sai che è morto a livello cerebrale tre volte?

Lei annuì.

— “Flatline”, appunto, morte cerebrale sull’elettroencefalo. Mi ha mostrato i nastri. “Ragazzi, se ero moorto…

— Senti, Case, sto cercando di scoprire chi c’è dietro Armitage fin dall’inizio. Ma ho la sensazione che non si tratti di zaibatsu, di un governo o di qualche succursale della Yakuza. Armitage riceve ordini. Qualcosa come andare a Chiba, prender su un poveraccio allo stremo con i circuiti bruciati e scambiare un programma con l’operazione che lo sistemerà. Avremmo potuto comprare i venti migliori cowboy del mondo con quello che il mercato era pronto a pagare per quel programma chirurgico. Tu eri in gamba, ma non tanto in gamba… — Si grattò il naso.

— È ovvio che ha un senso per qualcuno — replicò lui. — Qualcuno di grosso.

— Non vorrei sembrare offensiva. — Molly sogghignò. — Dovremo fare un’incursione molto tosta, Case, e solo per ottenere il costrutto di Flatline. La Senso/Rete l’ha messo sotto chiave in un caveau di biblioteca in centro. È più impenetrabile del culo di un’anguilla, Case. Ora la Senso/Rete ha messo sotto chiave là dentro anche il nuovo materiale della stagione autunnale. Ruba quello e saremo dei ricchi di merda. Ma no, dobbiamo fregare il Flatline e nient’altro. Molto strano.

— Sì, è tutto strano. Tu sei strana, questo buco è strano, e chi è quel tipo strano là fuori in corridoio?

— Finn è un mio vecchio contatto. Ricettatore, più che altro. Software. Per lui questa attività nel settore privacy è secondaria. Ma ho ottenuto da Armitage che sia lui il nostro tecnico, così quando si farà vivo più avanti tu non l’hai mai visto, capito?

— E a te Armitage cos’ha messo a sciogliersi nelle vene?

— Io sono facile da convincere. — Molly sorrise. — Uno vale per quello che sa fare, giusto? Tu devi soltanto infilarti lo spinotto, io devo lottare.

Lui la fissò. — Allora dimmi cosa sai di Armitage.

— Tanto per cominciare, nessuno che si chiami Armitage ha mai preso parte a nessun Pugno Urlante. Ho controllato. Ma questo non significa molto. Non assomiglia a nessuna delle fotografie dei tizi che ne sono usciti vivi. — Scrollata di spalle. — Non è un gran che, ma è tutto quello che sono riuscita a scoprire. — Molly tamburellò con le unghie sullo schienale della sedia. — Ma tu sei un cowboy, no? Voglio dire, forse tu potresti dare un’occhiatina in giro. — Sorrise.

— Armitage mi ucciderebbe.

— Forse. O forse no. Credo che abbia bisogno di te, Case, e parecchio. E poi sei un tipo intelligente, no? Tu puoi fregarlo, di sicuro.

— Che altro c’è su quella lista di cui mi hai parlato?

— Giocattoli. La maggior parte per te. E uno psicopatico patentato di nome Peter Riviera. Un gran brutto cliente.

— Dov’è?

— Non lo so. Ma è un nauseabondo al cubo, non conto storie. Ho visto il suo profilo. — Molly fece una smorfia. — Orrendo. — Si alzò in piedi e si stiracchiò come un gatto. — Così, abbiamo stretto un patto d’acciaio, eh, ragazzo? Siamo insieme in questa faccenda? Soci?

Case la guardò. — Ho forse altra scelta?

Lei scoppiò a ridere. — Bravo, cowboy.


“La matrice ha le sue radici nei primi videogiochi, nei primi programmi di grafica e negli esperimenti militari con gli spinotti cranici” recitò la voce fuori campo. Sul Sony una guerra spaziale bidimensionale si dissolse dietro una foresta di felci generate matematicamente che mostravano le virtualità spaziali delle spirali logaritmiche. Passarono rapidi sullo schermo uno spezzone di pellicola militare azzurro ghiaccio, quindi animali da laboratorio collegati ad apparecchi per la sperimentazione, caschi che davano accesso ai circuiti di controllo delle armi da fuoco nei carri armati e negli aerei. “Cyberspazio: un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti della matematica… Una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce disposte nel nonspazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano…”

— Cos’è quello? — chiese Molly, mentre lui usava il telecomando.

— Uno spettacolo per bambini. — Una discontinua cascata d’immagini mentre il selettore faceva il giro. — Spegniti — ordinò Case all’Hosaka.

— Vuoi provarci adesso, Case?

Mercoledì. Otto giorni da quando si era svegliato al Cheap Hotel con Molly al fianco. — Vuoi che esca, Case? Forse è più facile per te, se sei solo… — Lui scosse il capo.

— No, rimani. Non ha importanza. — Si applicò sulla fronte la fascia nera antisudore di tessuto di spugna, facendo attenzione a non disturbare i piatti elettrodi dermici Sendai. Fissò il deck sulle ginocchia, senza realmente vederlo… vedendo invece la vetrina del negozio di Ninsei, la shuriken cromata che ardeva dei riflessi del neon. Sollevò lo sguardo: sulla parete, subito sopra il Sony, aveva appeso il regalo di Molly con una puntina da disegno gialla attraverso il foro nel mezzo.

Chiuse gli occhi.

Trovò la superficie rugosa dell’interruttore.

E nel buio illuminato dal sangue dietro le palpebre fosfeni argentei che arrivavano ribollendo dall’orlo dello spazio, immagini ipnagogiche che passavano sussultanti come una pellicola montata con inquadrature scelte a casaccio. Simboli, figure, facce, un mandala confuso e frammentato di informazioni visive.

Per favore, pregò, adesso…

Un disco grigio, del colore del cielo di Chiba.

Adesso…

Il disco cominciò a ruotare, sempre più veloce, diventando una sfera di un grigio più pallido. In espansione…

E cominciò a scorrere, a sbocciare per lui, un gioco fluido di luci, un origami al neon, il dispiegarsi della sua casa senza distanza alcuna, del suo paese, una scacchiera trasparente a tre dimensioni che si stendeva fino all’infinito. L’occhio interiore che si apriva sulla piramide scarlatta a gradoni della Eastern Seaboard Fission Authority che ardeva oltre i cubi verdi della Mitsubishi Bank of America, e in alto e molto lontano vide le braccia a spirale dei sistemi militari, per sempre oltre la sua portata.

E da qualche parte lui stava ridendo, in un loft dipinto di bianco, con le dita lontane che accarezzavano il deck, mentre lacrime liberatorie gli rigavano il viso.


Quando si tolse gli elettrodi, Molly se n’era andata e il loft era al buio. Controllò l’ora: era rimasto nel cyberspazio per cinque ore. Trasferì l’Ono-Sendai su uno dei nuovi tavoli da lavoro e crollò sul letto, tirandosi sopra la testa il sacco a pelo di seta nera di Molly.

Il dispositivo di sicurezza fissato con il nastro adesivo alla porta antincendio d’acciaio fece blip due volte. — Richiesta d’ingresso — annunciò l’apparecchio. — Il soggetto è autorizzato dal mio programma.

— Allora apri. — Case scostò la seta dal viso e si sollevò a sedere quando la porta si aprì, aspettandosi di vedere Molly o Armitage.

— Cristo — disse una voce rauca. — So che quella puttana riesce a vedere al buio… — Una figura tozza entrò e chiuse la porta. — Accendi le luci, per favore. — Case scivolò giù dal letto e trovò l’antiquato interruttore.

— Sono Finn — disse, e fece una smorfia di avvertimento a beneficio di Case.

— Case.

— Piacere di conoscerti. Sto facendo un po’ di hardware per il tuo capo, a quanto pare. — Finn estrasse di tasca un pacchetto di Partagas e ne accese uno. L’aroma del tabacco cubano riempì la stanza. Si avvicinò al tavolo da lavoro per dare un’occhiata all’Ono-Sendai. — Pare di serie. Lo sistemerò al volo. Ma ecco il tuo problema, ragazzo. — Sfilò dalla tasca interna della giacca una sudicia busta marrone, scrollò la cenere sul pavimento ed estrasse dalla busta un anonimo rettangolo nero. — Un maledetto prototipo uscito dalla fabbrica — dichiarò, buttando l’affare sul tavolo. — Li hanno stampati su un blocco di policarburo, non posso penetrarci col laser senza friggere tutto. Ben difeso dai raggi X, dall’ultrascanner, e Dio sa cos’altro. Ce la faremo a entrare, ma non c’è riposo per i malvagi, giusto? — Ripiegò la busta con gran cura e l’infilò nella tasca interna della giacca.

— Cos’è?

— Sostanzialmente, è un interruttore flip-flop. Collegalo al tuo Sendai e potrai avere accesso ai simstim dal vivo o registrati senza bisogno di scollegarti dalla matrice.

— Per cosa?

— Non ne ho la più pallida idea. So che sto predisponendo Molly per un’apparecchiatura trasmittente, perciò è probabile che avrai accesso al suo apparato sensoriale. — Finn si grattò il mento. — Così adesso riuscirai a scoprire quanto sono veramente aderenti quei jeans eh?

4

Case era seduto nel loft con i dermatrodi applicati alla fronte, a osservare le particelle di polvere che danzavano alla luce diluita del sole che filtrava attraverso la griglia lassù in alto. Un conto alla rovescia era in corso in un angolo del monitor. I cowboy non avevano a che fare con il simstim poiché era fondamentalmente un giocattolo di carne, si disse. Sapeva che gli elettrodi da lui usati e la piccola tiara di plastica che penzolava da un deck simstim erano fondamentalmente la stessa cosa, e che la matrice del cyberspazio era in effetti una drastica semplificazione dell’apparato sensoriale umano, almeno in termini di presentazione, ma il simstim in sé gli pareva una moltiplicazione gratuita di input fisici. Quello sul mercato era adattato, naturalmente, cosicché se a Tally Isham veniva il mal di testa nel corso di un segmento voi non l’avreste sentito.

Lo schermo fece blip, segnalando un preavviso di due secondi.

Il nuovo interruttore era stato attaccato al suo Sendai con un sottile nastro di fibra ottica.

E uno… e due… e…

Il cyberspazio prese vita dai punti cardinali. Ottimo, pensò, ma non abbastanza scorrevole. Dovrò lavorarci sopra…

Poi attivò il nuovo interruttore.

L’improvviso sobbalzo dentro la pelle di qualcun altro. La matrice scomparve, un’ondata di suono e di colore… Lei stava camminando in una strada affollata, passando davanti a bancarelle che vendevano software di sottomarca, i prezzi segnati con i pennarelli su dei foglietti di plastica, frammenti di musica da innumerevoli altoparlanti. Odore di orina, monomeri liberi, profumi, frittelle di krill. Per qualche secondo di panico tentò di controllare il corpo della donna. Poi si sforzò di rimanere passivo, divenne un passeggero dietro i suoi occhi.

Gli occhiali parevano non ridurre affatto la luce del sole. Si chiese se gli amplificatori incorporati provvedessero automaticamente alla compensazione. Degli alfanumerici azzurri ammiccanti segnavano il tempo, in basso, alla periferia sinistra del suo campo visivo. Un’ostentazione, secondo lui.

Il linguaggio del corpo era disorientante, lo stile estraneo. Pareva costantemente sul punto di entrare in collisione con qualcuno, ma la gente sembrava letteralmente liquefarsi davanti a lei, scostandosi di lato, facendole spazio.

— Come te la cavi, Case? — Udì le parole e la sentì mentre le formava. Molly s’infilò una mano sotto la giacca, tracciando con il polpastrello un cerchio intorno al capezzolo sotto la seta calda. La sensazione gli mozzò il fiato. Lei rise. Ma il collegamento era a senso unico. Case non aveva alcun modo per rispondere.

Due isolati dopo Molly stava attraversando la periferia di Memory Lane. Case continuò a cercare d’indurla a spostare gli occhi verso qualche punto di riferimento che lui avrebbe usato per trovare la strada. Cominciava a provare una certa irritazione per la passività di quella situazione. La transizione al cyberspazio, quando attivò l’interruttore, fu istantanea. Si digitò sulla tastiera lungo una parete di ice primitivo appartenente alla Biblioteca pubblica di New York, mettendosi a contare automaticamente le potenziali finestre. Ritornò quindi nel sensorio di Molly, nel sinuoso fluire di muscoli e di sensi acuiti, vividi.

Si trovò a interrogarsi sulla mente con cui condivideva quelle sensazioni. Quanto sapeva di lei? Che era un’altra professionista, la quale affermava che la propria intrinseca essenza era ciò che faceva per vivere, e lo stesso valeva per lui. Conosceva il modo in cui si era mossa contro il suo corpo, poco prima, quando si era svegliata, il reciproco gemito di unione quando lui l’aveva penetrata, e che le piaceva il caffè nero, dopo…

La sua meta era uno di quei dubbi complessi che affittavano software e si affacciavano su Memory Lane. C’era un’immobilità, un silenzio… Gli stand erano allineati nella sala centrale. La clientela era composta da giovani, quasi tutti adolescenti. Pareva che tutti avessero delle prese al carbonio impiantate dietro l’orecchio sinistro, ma Molly non focalizzò l’attenzione su di loro. I banchi sul davanti degli stand esibivano centinaia di schegge di microsoft, frammenti spigolosi di silicio colorato montati sotto bolle trasparenti rettangolari sopra quadrati di cartone bianco. Molly andò al settimo stand lungo la parete sud. Dietro al banco un ragazzo con la testa rasata fissava con sguardo assente il vuoto mentre una dozzina di spinotti di microsoftware sporgevano dalla presa dietro l’orecchio.

— Larry, sei in casa, amico? — Molly gli si piazzò davanti. Gli occhi del ragazzo misero a fuoco. Larry si rizzò a sedere sulla sedia ed estrasse una scheggia d’un vivace magenta dalla presa con l’unghia sporca del pollice.

— Ehi, Larry.

— Molly. — Il giovanotto le rivolse un cenno.

— Ho del lavoro per alcuni amici tuoi, Larry.

Larry tirò fuori dal taschino della camiciola rossa un piatto astuccio di plastica e l’aprì con uno scatto, infilando il microsoft nella sua fessura, accanto a una dozzina d’altri. Con la mano sospesa a mezz’aria scelse un chip nero, lucido, che era leggermente più lungo degli altri, e l’inserì con un gesto fluido nella propria testa. I suoi occhi si socchiusero.

— Molly ha un passeggero, e questo a Larry non piace — disse.

— Ehi, non sapevo che fossi così… sensibile. Sono impressionata. Costa molto acquistare tanta sensibilità?

— Ti conosco, signora? — L’espressione degli occhi di Larry era ritornata vacua. — Vuoi comperare qualche soft?

— Sto cercando i Moderni.

— Hai un passeggero, Molly. Me lo dice questo. — Batté le dita sulla scheggia nera. — Qualcun altro sta usando i tuoi occhi.

— Il mio socio.

— Di’ al tuo socio di smammare.

— Ho qualcosa per le Pantere Moderne, Larry.

— Di cosa stai parlando, signora?

— Case, decolla — disse Molly, e a quel punto lui fece scattare l’interruttore, tornando istantaneamente nella matrice. Le impressioni fantasma del complesso software rimasero sospese per alcuni istanti nella calma ronzante del cyberspazio.

— Pantere Moderne — disse rivolto all’Hosaka, togliendosi gli elettrodi. — Riassunto di cinque minuti.

— Pronto — fece il computer.

Non era un nome noto. Qualcosa di nuovo, qualcosa che era spuntato dopo l’ultima volta che era stato a Chiba. Le mode spazzavano la gioventù dello Sprawl alla velocità della luce, intere sottoculture potevano nascere in una notte, prosperare per una decina di settimane per poi scomparire del tutto. — Vai — disse. L’Hosaka aveva consultato la rete di biblioteche, riviste e notiziari.

Il riassunto iniziò con un’immagine fissa a colori che dapprima Case pensò fosse un collage di qualche tipo, la faccia di un ragazzo ritagliata da un’altra immagine e incollata sulla fotografia di una parete imbrattata di scritte. Occhi scuri, pieghe epicantiche, ovviamente il risultato di un intervento chirurgico, una rabbiosa spolverata di acne sulle guance pallide e scavate. L’Hosaka sganciò il fermo-immagine: il ragazzo si mosse, scivolando con la grazia sinistra di un mimo che finge di essere un predatore della giungla. Il suo corpo era quasi invisibile, un disegno astratto che imitava il muro imbrattato e slittava senza sforzo sul suo monoindumento attillatissimo. Policarburo mimetico.

Dissolvenza, di scena la dottoressa Virginia Rambali, sociologa, NYU, con nome, facoltà e ateneo che pulsavano attraverso lo schermo in alfanumerici rosa.

— Vista la loro tendenza ad atti casuali di surreale violenza, potrebbe essere difficile per i nostri spettatori capire come mai lei continui a insistere che questo fenomeno non è una forma di terrorismo — disse qualcuno.

La dottoressa Rambali sorrise. — C’è sempre un punto in cui il terrorista cessa di manipolare la gestalt dei media. Un punto oltre il quale la violenza potrebbe benissimo aumentare, ma oltre il quale il terrorista è diventato sintomatico della stessa gestalt dei media. Il terrorismo, come solitamente lo concepiamo noi, è correlato ai media in modo congenito. Le Pantere Moderne differiscono dagli altri terroristi proprio nel loro livello di consapevolezza, nella loro coscienza della misura in cui i media dissociano l’atto terroristico dall’originario intento sociopolitico…

— Salta — ordinò Case.


Case incontrò il suo primo Moderno due giorni dopo aver scorso il resoconto dell’Hosaka. I Moderni, decise, erano una versione contemporanea dei Grandi Scienziati della sua tarda adolescenza. C’era una specie di adolescenziale DNA fantasma all’opera nello Sprawl, qualcosa che recava in sé i precetti codificati di varie sottoculture effimere, replicandole a intervalli irregolari. Le Pantere Moderne erano una variante informatizzata degli scienziati. Se quella tecnologia fosse stata disponibile, i Grandi Scienziati avrebbero avuto tutti delle prese imbottite di microsoftware. Era lo stile che contava, e lo stile era lo stesso. I Moderni erano mercenari, burloni, tecnofeticisti nichilisti.

Quello che si presentò alla porta del loft con una scatola di dischetti da parte di Finn era un ragazzo dalla voce melliflua, Angelo. Il suo volto era un semplice innesto cresciuto su collagene e polisaccaridi di cartilagine di squalo, liscio e orrido. Era uno dei lavori di chirurgia elettiva più sgradevoli che Case avesse mai visto. Quando Angelo sorrise, rivelando i canini affilati come rasoi di qualche grosso animale da preda, Case si sentì addirittura sollevato. Germogli di dente trapiantati: l’aveva visto altre volte.

— Non puoi lasciarti battere dal gap generazionale di questi piccoli coglioni — disse Molly. Case annuì, assorto negli schemi dell’ice della Senso/Rete.

Era questo… Sì, ecco ciò che era, chi era, ecco il suo essere. Si dimenticò persino di mangiare. Molly lasciava contenitori di riso e vassoi di plastica pieni di sushi su un angolo del lungo tavolo. Talvolta l’irritava perfino il fatto di essere costretto a lasciare il terminale per usare la toilette chimica che avevano piazzato in un angolo del loft. Gli schemi dell’ice si formavano e riformavano sullo schermo mentre lui sondava il terreno in cerca di brecce, evitando le trappole più ovvie e tracciando una mappa del percorso che avrebbe seguito attraverso l’ice della Senso/Rete. Era un buon ice. Un ice magnifico. I suoi schemi ardevano mentre lui giaceva con il braccio sotto le spalle di Molly, ammirando l’alba rossa attraverso la griglia d’acciaio del lucernario. Quel labirintico arcobaleno di pixel era la prima cosa che vedeva quando si svegliava. Andava dritto al terminale senza preoccuparsi di vestirsi e si collegava. Stava tagliando la rete, apriva varchi, la penetrava. Stava lavorando, insomma. Perse il conto dei giorni.

E talvolta, nell’addormentarsi, in particolare quando Molly era uscita per una delle sue scorribande esplorative insieme a una squadra di Moderni che aveva assoldato, immagini di Chiba tornavano a rifluire nella sua mente. Volti e neon di Ninsei. Una volta si svegliò da un sogno confuso di Linda Lee, incapace di ricordare chi era o cosa avesse significato per lui. Quando finalmente se ne ricordò, si collegò e lavorò per nove ore filate.

La penetrazione completa nella Senso/Rete richiese un totale di nove giorni.

— Avevo detto una settimana — rilevò Armitage, incapace di nascondere la soddisfazione quando Case gli fece vedere i suoi piani per l’incursione. — Te la sei presa comoda.

— Balle — ribatté Case, sorridendo allo schermo. — Questo è un ottimo lavoro, Armitage.

— Sì — ammise l’altro. — Ma non montarti la testa. In confronto a ciò che dovrai affrontare alla fine, questo è un gioco da ragazzini.


— Ti amo, Mamma Gatta — bisbigliò il collegamento delle Pantere Moderne. La sua voce era come una scarica elettrostatica modulata nella cuffia di Case. — Atlanta, Brood. Pare pronto. Via, ricevuto. — La voce di Molly era leggermente più chiara.

— Udire è ubbidire. — I Moderni stavano usando una specie di antenna parabolica fatta con una leggera rete a maglie esagonali, sita nel New Jersey, per far rimbalzare i segnali crittati dal satellite dei Figli di Cristo Re in orbita geosincrona sopra Manhattan. Avevano deciso di considerare l’intera operazione come una specie di burla complicata, e pareva che la loro scelta del satellite per telecomunicazioni fosse stata ponderata. I segnali di Molly venivano irradiati verso l’alto da una sorta di ombrello epossidico largo un metro fino al tetto di una torre di vetro nero di una banca, alta quasi quanto il palazzo della Senso/Rete.

Atlanta: il codice di identificazione era semplice. Da Atlanta a Boston a Chicago a Denver, cinque minuti per ogni città. Se qualcuno fosse riuscito a intercettare il segnale di Molly, a decodificarlo, a sintetizzare la sua voce, il codice avrebbe avvertito i Moderni. Se Molly fosse rimasta nell’edificio per più di venti minuti, era alquanto improbabile che ne sarebbe mai uscita.

Case trangugiò l’ultimo sorso del suo caffè, sistemò i dermatrodi e si grattò il petto sotto la maglietta nera. Aveva soltanto una vaga idea di ciò che le Pantere Moderne avevano progettato per distogliere l’attenzione della sorveglianza della Senso/Rete. Il suo lavoro consisteva nell’accertarsi che il programma d’intrusione che aveva elaborato si collegasse con i sistemi della Senso/Rete quando Molly ne avesse avuto bisogno. Seguì il conto alla rovescia nell’angolo dello schermo. Due. Uno.

Case s’innestò e attivò il suo programma. — Linea principale — sussurrò l’uomo di collegamento, e la sua voce fu l’unico suono mentre Case si tuffava attraverso gli strati lucenti dell’ice della Senso/Rete. Controlla Molly… Accese il simstim ed entrò nel suo sensorio.

L’antintrusore offuscò leggermente il suo input visivo. Molly si trovava davanti a una parete a specchio chiazzata d’oro nel vasto atrio bianco dell’edificio, intenta a masticare una gomma, in apparenza affascinata dal proprio riflesso. A parte l’enorme paio di occhiali da sole che nascondeva i suoi innesti, riusciva incredibilmente a dare l’impressione di sentirsi a suo agio in quel posto, un’altra giovane turista che sperava di riuscire a intravedere Tally Isham. Indossava un impermeabile di plastica rosa, una camicetta bianca di maglia, calzoni bianchi sformati di un taglio che era stato di moda a Tokyo l’anno prima. Se ne uscì in un sorriso vacuo e fece scoppiare un palloncino di gomma. A Case venne quasi da ridere. Sentiva il nastro a micropori applicato sulla gabbia toracica di Molly, sentiva le piccole unità piatte subito sotto, la radio, l’unità simstim e lo scrambler. Il microfonino applicato al collo assomigliava il più possibile a un disco dermico analgesico. Le mani, nelle tasche del soprabito rosa, si flettevano sistematicamente in una serie di esercizi tensione-rilascio. Gli ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che la bizzarra sensazione alle punte delle dita era causata dalle lame che venivano in parte sfoderate e poi richiamate.

Tornò indietro. Il suo programma aveva raggiunto la quinta porta. Rimase a guardare mentre il suo icebreaker si spostava con effetto stroboscopico davanti a lui, vagamente conscio delle sue mani che viaggiavano sul deck, apportando degli aggiustamenti di minore entità. Piani colorati traslucidi si spostavano come un mazzo di carte truccate. Prendi una carta, pensò, una qualsiasi.

La porta passò come una macchia indistinta. Rise. L’ice della Senso/Rete aveva accettato il suo ingresso come un trasferimento di routine dal complesso del consorzio di Los Angeles. Era dentro. Alle spalle alcuni sottoprogrammi virali si staccarono come tante bucce di cipolla, intrecciandosi con il tessuto codificato della porta, pronti a deflettere i veri dati di Los Angeles quando fossero arrivati.

Cambiò di nuovo. Molly stava passando davanti all’enorme banco d’accoglienza in fondo all’atrio.

12:01:20, le cifre balenarono nel suo nervo ottico.


A mezzanotte, sincronizzato con il chip dietro l’occhio di Molly, l’agente di collegamento nel Jersey aveva impartito il suo ordine. — Linea principale. — Nove Moderni, sparsi lungo trecento chilometri nello Sprawl, avevano simultaneamente chiamato lo stesso numero d’emergenza da apparecchi telefonici a gettone. Ogni Moderno aveva snocciolato un discorsetto già preparato, aveva riappeso ed era scomparso nella notte, sfilandosi i guanti di lattice. Nove fra dipartimenti di polizia e agenzie di pubblica sicurezza stavano metabolizzando l’informazione secondo la quale un’oscura sottosetta di cristiani fondamentalisti aveva appena rivendicato l’immissione a livelli clinici di un agente psicoattivo illegale noto come Azzurro Nove nel sistema di aerazione della piramide della Senso/Rete. Era stato dimostrato che Azzurro Nove, conosciuto in Califomia come Angelo Tragico, provocava una forma acuta di paranoia e una psicosi omicida nell’ottantacinque per cento dei soggetti sperimentati.

Case premette l’interruttore mentre il suo programma irrompeva attraverso gli ingressi del sottosistema che controllava la sicurezza della biblioteca della Senso/Rete. Si vide entrare in un ascensore.

— Mi scusi, ma lei è un’impiegata? — La guardia inarcò le sopracciglia. Molly fece scoppiare la sua gomma. — No — rispose, colpendo con le prime due nocche della mano destra il plesso solare dell’uomo. Mentre questi si piegava in due, cercando di afferrare l’allarme che portava alla cintura, gli sbatté la testa di lato contro la parete della cabina.

Poi, masticando un po’ più rapidamente, sfiorò STOP e CHIUDI PORTA sul pannello illuminato, bloccando la porta, tirò fuori una scatola nera dalla tasca e inserì un cavo nel buco della serratura che proteggeva il circuito del pannello.


Le Pantere Moderne lasciarono passare quattro minuti perché la prima mossa facesse effetto, poi passarono alla seconda fase della manovra diversiva di disinformazione premeditata. Questa volta si inserirono direttamente dentro il sistema video interno del palazzo della Senso/Rete.

Alle 12:04:03, ogni schermo dell’edificio produsse lampi stroboscopici per diciotto secondi, con una frequenza che mise in crisi una porzione suscettibile d’impiegati della Senso/Rete. Poi qualcosa che solo vagamente assomigliava a un volto umano riempì gli schermi con lineamenti dilatati attraverso distese asimmetriche di ossa come un’oscena proiezione di Mercatore. Le labbra azzurre si dischiusero umide mentre la mascella contorta e allungata si muoveva. Qualcosa, forse una mano, simile a un fascio di nodose radici rossastre, annaspò verso la telecamera, quindi si offuscò e svanì. Rapide immagini subliminali di contaminazione: grafici del sistema idraulico dell’edificio, mani guantate che maneggiavano provette di laboratorio, qualcosa che cadeva giù nel buio, un pallido tonfo… La pista audio, il suo tono regolato su uno scorrimento poco meno che doppio della velocità standard di riproduzione, faceva parte di un notiziario del mese prima che descriveva nei particolari i potenziali impieghi militari di una sostanza conosciuta come HsG, un mediatore biochimico che governava il fattore di crescita dello scheletro umano. Dosi massicce di HsG esaltavano l’attività di certe cellule delle ossa, accelerandone la crescita addirittura fino al mille per cento.

Alle 12:05:00 il centro operativo rivestito di specchi del consorzio della Senso/Rete ospitava poco più di tremila impiegati. Quando il messaggio dei Moderni terminò con un’accecante vampata bianca sullo schermo, la piramide della Senso/Rete urlò.

Mezza dozzina di hovercraft tattici della polizia, reagendo alla possibilità che vi fosse l’Azzurro Nove nel sistema di ventilazione dell’edificio, stavano convergendo verso la piramide della Senso/Rete. Avevano acceso i fari anti-sommossa. Un elicottero della forza di pronto intervento della BAMA si stava sollevando dalla piattaforma su Riker’s Island.

Case attivò il suo secondo programma. Un virus progettato con somma perizia attaccò il tessuto di codice che schermava i controlli principali del sotterraneo ospitante i materiali di ricerca della Senso/Rete. — Boston. — La voce di Molly arrivò attraverso il circuito di collegamento. — Sono di sotto. — Quando Case commutò vide la bianca parete dell’ascensore. Lei stava abbassando la chiusura lampo dei calzoni bianchi. Un pacchetto rigonfio esattamente della sfumatura della caviglia pallida era assicurato da un microporo. Molly s’inginocchiò e tolse il nastro. Strisce color borgogna sfarfallarono sul policarburo mimetico mentre lui apriva l’uniforme dei Moderni. Si tolse l’impermeabile rosa, lo buttò per terra accanto ai calzoni bianchi e cominciò a infilarsi la tuta sopra la blusa bianca di maglia.

12:06:26.

Il virus di Case aveva praticato una breccia attraverso il comando ice della biblioteca. Quando lui si inserì, trovò uno spazio azzurro sterminato dov’erano allineate delle sfere in codice colore appese a una griglia a maglie strette di neon celeste. Nel non-spazio della matrice, l’interno del costrutto di certi dati possedeva illimitate dimensioni soggettive. La calcolatrice-giocattolo d’un bambino, a cui si fosse arrivati attraverso il Sendai di Case, avrebbe esibito illimitati abissi di niente dove sarebbero stati sospesi pochi comandi fondamentali. Case cominciò a battere la sequenza che Finn aveva acquistato da un sarariman di medio livello che soffriva di gravi problemi di droga. Cominciò a planare in mezzo alle sfere come se scorresse su binari invisibili.

Ecco. Questo.

Mentre si faceva strada a colpi di tasti dentro le sfere, la volta di gelido neon azzurro sopra di lui, liscia e senza stelle come vetro smerigliato, attivò un sottoprogramma che apportò certe modifiche nei controlli protettivi del nucleo.

Fuori subito. Scivolando agevolmente all’indietro, il virus ricostituì la trama del tessuto, cancellando la breccia.

Fatto.


Nell’atrio della Senso/Rete, due Pantere Moderne sedevano vigili dietro una bassa fioriera, registrando i tumulti con una videocamera. Indossavano entrambi vestiti mimetici. — Adesso gli hovercraft tattici stanno spruzzando barricate di schiuma a presa rapida — osservò uno dei due, parlando a beneficio del microfonino alla gola. — Il pronto intervento sta ancora tentando di far atterrare l’elicottero.


Case fece scattare l’interruttore del simstim. E si trovò di colpo scagliato nell’acuta sofferenza causata da un osso fratturato. Molly si reggeva alla parete grigia e vuota di un lungo corridoio, il suo respiro era affannoso e irregolare. Case si ritrovò all’istante di nuovo nella matrice, mentre una linea arroventata di dolore si spegneva alla coscia sinistra.

— Cosa sta succedendo, Brood? — chiese al collegamento.

— Non lo so, cowboy. La Mamma non parla. Aspetta.

Il programma di Case stava girando, un singolo filo di neon rosso sottile come un capello si allungava dal centro della finestra ripristinata fino al profilo in movimento dell’icebreaker. Non aveva il tempo di stare ad aspettare. Tirando un sospiro profondo, commutò di nuovo.

Molly fece un passo, cercando di reggere tutto il proprio peso contro la parete del corridoio. Nel loft, Case cacciò un gemito. Un secondo passo la portò verso un braccio proteso. La manica di un’uniforme resa vivida dal sangue fresco. Intravide un manganello a elettroshock in fibra di vetro, frantumato. Il campo visivo di Molly pareva essersi ristretto a un effetto tunnel. Al terzo passo, Case urlò e si ritrovò nella matrice.

— Brood? Boston, bimbo… — La voce di Molly era tesa per il dolore. Tossì. — Un piccolo problema con i locali. Credo che uno di loro mi abbia spezzato una gamba.

— Cosa ti serve, Mamma Gatta? — La voce dell’agente di collegamento si era fatta indistinta, confusa dalle scariche elettrostatiche.

Case si costrinse a tornare. Molly era appoggiata alla parete, sostenendo tutto il peso sulla gamba destra. Dopo avere rovistato nel marsupio ne trasse una lamina di plastica costellata da un arcobaleno di dischi dermici. Ne scelse tre che pigiò con forza contro il polso sinistro, sopra le vene. Seimila microgrammi di un endorfino-simile si abbatterono sul dolore come un maglio, annullandolo. Inarcò la schiena con un movimento convulso. Ondate rosa di calore le lambirono le cosce. Sospirò e, pian piano, si rilassò.

— Va bene, Brood, adesso va un po’ meglio. Ma avrò bisogno di una squadra medica quando uscirò. Dillo ai miei cowboy, sono a due minuti dal bersaglio. Ce la fai a resistere?

— Dille che sono dentro e che resisto — intervenne Case.

Molly cominciò a zoppicare lungo il corridoio. L’unica volta che si voltò a guardare, Case scorse i corpi accartocciati di tre guardie della Senso/Rete. Una di loro pareva non avere più gli occhi.

— I tattici e il pronto intervento hanno bloccato il pianterreno, Mamma Gatta. Barricate di schiuma. L’atrio sta diventando un problema.

— Anche quaggiù ci sono dentro fino al collo — replicò Molly, superando un paio di porte di grigio acciaio. — Sono quasi arrivata, cowboy.

Case scattò nella matrice e si strappò gli elettrodi dalla fronte. Era fradicio di sudore. Si passò sulla fronte un asciugamano, bevve un rapido sorso d’acqua dalla bonaccia accanto all’Hosaka e controllò la pianta della biblioteca dispiegata sullo schermo. Un cursore rosso pulsante strisciava attraverso i contorni di una porta. Soltanto a pochi millimetri dal puntino verde che indicava l’ubicazione del costrutto di Dixie Flatline. Si chiese che effetto facesse alla gamba di Molly camminare in quel modo. Con sufficiente endorfino-simile avrebbe potuto camminare anche su un paio di moncherini sanguinanti. Strinse l’imbracatura di nylon che lo teneva saldo sulla seggiola e si riapplicò gli elettrodi.

Adesso era solo routine: elettrodi, innesco, attivazione.

La biblioteca di consultazione della Senso/Rete era un’area d’immagazzinamento morta: i materiali conservati lì dentro dovevano essere rimossi fisicamente prima di poter essere interfacciati. Molly avanzò barcollando tra file di armadietti grigi tutti identici.

— Dille che sono ancora cinque e poi dieci sulla sinistra, Brood — disse Case.

— Ancora cinque e poi dieci a sinistra, Mamma Gatta — ripeté il collegamento.

Molly girò a sinistra. Una bibliotecaria sbiancata in volto era rincantucciata fra due armadietti, le guance umide, gli occhi vacui. Molly la ignorò. Case si chiese cosa mai avessero fatto i Moderni per provocare un terrore del genere. Sapeva che doveva avere a che fare con una finta minaccia, ma era stato troppo impegnato con il suo ice per seguire le spiegazioni di Molly.

— Ecco, è questo — disse. Ma lei si era già fermata davanti allo schedario che conteneva il costrutto. Le sue linee ricordarono a Case gli scaffali neoaztechi della libreria nell’anticamera di Julie Deane a Chiba.

— Avanti, cowboy — disse Molly.

Case passò al cyberspazio e inviò un comando pulsante lungo il filo rosso che perforava l’ice della biblioteca. Cinque distinti sistemi di allarme si convinsero di essere ancora funzionanti. Le tre serrature supercomplesse si disattivarono, ma continuarono a considerarsi chiuse. La memoria centrale della biblioteca subì per un minuto un cambiamento nella sua memoria fissa: il costrutto era stato rimosso un mese prima, per ordine della dirigenza. Ma se un bibliotecario avesse controllato, cercando l’autorizzazione alla rimozione del costrutto, avrebbe scoperto che i dati erano stati cancellati.

La porta si aprì su cardini silenziosi.

— 0467839 — disse Case, e Molly tirò fuori dalla rastrelliera una nera unità d’immagazzinamento. Assomigliava al caricatore d’un grosso fucile d’assalto, e le sue superfici erano costellate di decalcomanie ammonitrici e di classificazioni relative alla sicurezza.

Molly chiuse la porta dell’armadietto. Case tornò indietro.

Risalì il filo attraverso l’ice della biblioteca, che ritornò di scatto nel suo programma, attivando automaticamente un completo rovesciamento del sistema. Le porte della Senso/Rete si richiusero di colpo in scia mentre arretrava, con i sottoprogrammi che rientravano turbinando nel nucleo dell’icebreaker a mano a mano che Case attraversava i cancelli a cui erano appostati.

— Sono fuori, Brood — annunciò, e si accasciò sulla sedia. Dopo la concentrazione richiesta da un’incursione con tutti i crismi, poteva rimanere innestato e malgrado ciò conservare la completa consapevolezza del proprio corpo. La Senso/Rete avrebbe potuto impiegare dei giorni prima di scoprire il furto del costrutto. La chiave sarebbe stata la deviazione del trasferimento di Los Angeles, che coincideva con troppa precisione con l’incursione terroristica dei Moderni. Dubitava che i tre uomini della sicurezza che Molly aveva incontrato nel corridoio sarebbero sopravvissuti per parlarne. Continuò.

L’ascensore, con la scatola nera di Molly appiccicata con il nastro adesivo accanto al pannello di controllo, era rimasto dove lei l’aveva lasciato. La guardia giaceva ancora accartocciata sul pavimento. Per la prima volta Case notò il dermadisco sul collo dell’uomo. Un’idea di Molly per tenerlo fuori combattimento. Lei lo scavalcò e recuperò la scatola nera prima di schiacciare il pulsante ATRIO.

Quando la porta dell’ascensore si aprì sibilando, una donna si avventò fuori dalla calca, dentro la cabina, e sbatté la testa contro la parete di fondo. Molly l’ignorò, chinandosi invece per staccare il dermadisco dal collo della guardia. Poi, con un calcio, spedì i calzoni bianchi e l’impermeabile rosa fuori dalla cabina, buttando anche gli occhiali scuri, e calò il cappuccio sulla fronte. Il costrutto, nella tasca a marsupio della tuta, affondò nel suo sterno quando lei si mosse e uscì.

Case aveva visto il panico in svariate occasioni, ma mai in un ambiente chiuso.

I dipendenti della Senso/Rete, riversandosi fuori dagli ascensori, s’erano precipitati verso le uscite che davano sulla strada ma avevano incontrato le barricate di schiuma dei tattici e le armi a sacchetto di sabbia del pronto intervento della BAMA. Le due agenzie, convinte di bloccare in quel modo un’orda di potenziali assassini, collaboravano a un livello di efficienza che non gli era affatto solito. Al di là dei rottami delle uscite sfasciate, i cadaveri erano ammucchiati in un triplice strato sulle barricate. I tonfi sordi delle armi antisommossa facevano da sottofondo continuo ai rumori che la folla produceva mentre fluttuava avanti e indietro sul pavimento di marmo dell’atrio. Case non aveva mai sentito nulla di simile a quel frastuono.

E neppure Molly, a quanto pareva. — Gesù — disse lei, esitante. Era una specie di lamento funebre che cresceva d’intensità fino a diventare un gemito gorgogliante di paura allo stato puro. Il pavimento dell’atrio era coperto di corpi, indumenti, sangue e di lunghi rotoli calpestati di tabulati gialli.

— Su, sorella. Stiamo per uscire. — Gli occhi dei due Moderni guardavano da un folle turbinio di policarburi e le loro tute erano incapaci di adattarsi al delirio di forme e di colori che infuriava alle loro spalle. — Sei ferita? Su, vieni. Tommy ti darà una mano.

Tommy porse qualcosa a quello che aveva parlato, una videocamera avvolta in policarburo.

— Chicago — disse Molly. — Sto arrivando. — E poi cadde, non sul pavimento di marmo, viscido di sangue e vomito, ma dentro un pozzo caldo come il sangue, nel silenzio e nel buio.


Il capo delle Pantere Moderne, che si presentò come Lupus Yonderboy, indossava una tuta di policarburo con uno specifico sistema di registrazione che gli consentiva di replicare gli sfondi a volontà. Appollaiato sull’orlo del tavolo da lavoro di Case come una specie di grondone gotico aggiornato, contemplava Case e Armitage attraverso le palpebre socchiuse. E sorrideva. I suoi capelli erano rosa. Un’iridescente foresta di microsoftware sporgeva ispida dietro il suo orecchio sinistro appuntito, infiocchettato anch’esso da un ciuffo di peli rosa. Le pupille erano state modificate in modo da catturare la luce come quelle d’un gatto. Case ammirò la tuta attraversata da variazioni di trame e colori.

— Avete lasciato che andasse fuori controllo — si lamentò Armitage. Era immobile al centro dell’appartamento, simile a una statua, ammantato nelle pieghe scure e lucenti d’un impermeabile di foggia militare dall’aspetto costoso.

— Il caos, signor Chi — replicò Lupus Yonderboy. — Questo è il nostro modo-e-modus. Questa è la nostra basilare perversione. La vostra donna lo sa. Noi trattiamo con Molly, non con lei, signor Chi. — La sua tuta aveva assunto uno strambo motivo spigoloso nei colori beige e avocado pallido. — Aveva bisogno della squadra medica. Adesso è con loro. Noi la proteggeremo. Ogni cosa va per il meglio. — Sorrise di nuovo.

— Lo paghi — disse Case.

Armitage gli lanciò un’occhiataccia. — Non abbiamo la merce.

— La vostra donna ce l’ha — ribadì Yonderboy.

— Lo paghi.

Armitage si avvicinò impettito al tavolo e tirò fuori tre grasse mazzette di nuovi yen dalle tasche dell’impermeabile militare. — Vuoi contarli? — chiese a Yonderboy.

— No — rispose la Pantera Moderna. — È lei a pagare. Lei è il signor Chi. Lei paga per restarlo. Per non diventare un signor Nome.

— Spero che questa non sia una minaccia — disse Armitage.

— Sono affari — concluse Yonderboy, cacciandosi i soldi nell’unica tasca sul davanti della tuta.

Il telefono squillò. Case rispose.

— Molly — annunciò ad Armitage, passandogli il telefono.


I geodesici dello Sprawl si stavano rischiarando di grigia luce antelucana quando Case lasciò il palazzo. Si sentiva le ossa e i muscoli freddi e sconnessi. Non era riuscito a chiudere occhio. Quel loft gli dava sui nervi. Lupus se n’era andato, e anche Armitage, e Molly era sotto i ferri, chissà dove. Una vibrazione sotto i piedi segnalò il sibilante passaggio di un treno. In lontananza le sirene si lamentavano con un pronunciato effetto Doppler.

Case svoltò a casaccio, con il bavero alzato, ingobbito in una nuova giacca di pelle, facendo schizzare la prima d’una serie di Yeheyuan nel rigagnolo e accendendone subito un’altra. Cercò d’immaginare le sacche di tossine di Armitage che si dissolvevano nel suo flusso sanguigno, membrane microscopiche che si assottigliavano mentre camminava. Gli sembrava surreale. Come non gli erano parse reali la paura e l’angoscia che aveva visto attraverso gli occhi di Molly nell’atrio della Senso/Rete. Si accorse che stava cercando di ricordare i volti delle tre persone che aveva ucciso a Chiba. Erano privi di lineamenti, anonimi. La donna gli ricordava Linda Lee. Un furgone a triciclo tutto ammaccato con i finestrini a specchio gli passò accanto sobbalzando. Fusti vuoti di plastica sbattevano dentro il cassone.

— Case?

Si buttò di lato con un guizzo, appoggiando d’istinto la schiena contro una parete.

— Messaggio per te, Case. — Sulla tuta di Lupus Yonderboy vorticavano i colori primari. — Scusami. Non volevo spaventarti.

Case si raddrizzò, con le mani nelle tasche della giacca. Sovrastava di tutta la testa il Moderno. — Dovresti andarci piano, Yonderboy.

— Questo è il messaggio. Invernomuto. — Lo compitò.

— Da te? — Case fece un passo avanti.

— No — rispose Yonderboy. — Per te.

— Da chi?

— Invernomuto — ripeté Yonderboy, annuendo, facendo ballonzolare la cresta di capelli rosa. La tuta divenne nero opaco, un’ombra di carbone contro il vecchio cemento. Il Moderno si esibì in una piccola, strana danza, facendo roteare le nere braccia sottili, e poi scomparve. No. Era ancora là. Il cappuccio alzato per nascondere il rosa, la tuta dell’esatta sfumatura grigia, chiazzata e sudicia del marciapiede. Gli occhi ammiccarono in risposta al bagliore rosso d’un semaforo. E poi scomparve sul serio.

Case chiuse gli occhi, se li massaggiò con le dita intorpidite, appoggiandosi contro il muro di mattoni scrostati.

A Ninsei era tutto più semplice.

5

La squadra medica impiegata da Molly occupava due piani di un anonimo complesso vicino al vecchio centro di Baltimora. L’edificio era modulare, come una gigantesca versione del Cheap Hotel, e ognuna delle bare era lunga quaranta metri. Case incontrò Molly mentre usciva da quella con l’elaborata insegna di un certo GERALD CHIN, DENTISTA. Zoppicava.

— Lui dice che se prendo a calci qualcosa viene giù.

— Mi sono imbattuto in uno dei tuoi compari — osservò Case. — Un Moderno.

— Sì? Quale?

— Lupus Yonderboy. Aveva un messaggio. — Le passò un fazzoletto di carta con sopra scritto INVERNOMUTO con un pennarello rosso, le maiuscole elaborate e precise. — Ha detto… — Ma la mano di Molly fu pronta a sollevarsi per imporre il silenzio.

— Andiamo a mangiarci un po’ di granchio — disse.


Dopo aver pranzato a Baltimora, dove Molly aveva sezionato il proprio granchio con allarmante facilità, raggiunsero New York in metropolitana. Case aveva imparato a non fare domande, l’unica volta che ci aveva provato era stato zittito. Pareva che a Molly la gamba desse fastidio, e tra l’altro parlava di rado. Una bambina magra, nera di pelle, con perline di legno e vecchie resistenze elettriche intrecciate nei capelli corvini, aprì la porta di Finn e li guidò lungo la galleria di rifiuti. Case ebbe l’impressione che durante la loro assenza la roba fosse in qualche modo cresciuta. O per lo meno pareva aver subito sottili cambiamenti, posandosi sotto la pressione del tempo in scaglie silenziose e invisibili che si adagiavano una dopo l’altra a formare uno strato protettivo, una quintessenza cristallina di tecnologia di scarto, che fioriva in segreto nei depositi di rifiuti dello Sprawl.

Oltre la coperta militare, Finn li aspettava al tavolo bianco.

Molly cominciò a lanciare segnali concitati, tirò fuori un pezzo di carta, ci scrisse sopra qualcosa e lo passò a Finn. Questi lo prese tra il pollice e l’indice, tenendolo lontano manco fosse sul punto di esplodere, e fece un segno che Case non conosceva, un gesto che trasmetteva un misto d’impazienza e di cupa rassegnazione. Si alzò in piedi, spazzolando le briciole dalla malconcia giacca di tweed. Un vaso di aringhe in salamoia era posato sul tavolo accanto a un cartoccio di plastica tutta strappata contenente fette di pane da toast e a un portacenere di stagno pieno di mozziconi di Partagas.

— Aspettate — intimò loro Finn prima di lasciare la stanza.

Molly si accomodò, sfoderò la lametta del dito indice e fiocinò un pezzo di aringa grigiastra. Case vagò senza meta nella stanza, tastando le apparecchiature analizzatrici piazzate sui pilastri a mano a mano che ci passava accanto.

Dieci minuti dopo Finn ritornò tutto agitato, mostrando i denti in un ampio sorriso giallo. Annuì, rivolse a Molly un cenno con il pollice in su e fece segno a Case di dargli una mano con il pannello della porta. Mentre Case lisciava i bordi di velcro, Finn estrasse dalla tasca una piccola consolle piatta sulla quale batté un’elaborata sequenza.

— Tesoro, ce l’hai fatta. Lo sento a naso. Vuoi dirmi dove l’hai avuto? — disse, rivolto a Molly, mettendo via la consolle.

— Yonderboy — l’informò Molly, scostando le aringhe e le fette di pan carré. — Ho fatto un affaruccio con Larry, di straforo.

— Brillante — esclamò Finn. — È un’IA.

— Vacci piano — intervenne Case.

— Berna — proseguì Finn, ignorandolo. — Berna. Ha la cittadinanza svizzera limitata, secondo il loro equivalente della legge del ’53. Costruita per la Tessier-Ashpool S.A. Sono loro i proprietari del mainframe e del software originale.

— Cosa c’è a Berna, me lo volete spiegare? — Case fece un passo avanti per frapporsi deliberatamente tra i due.

— Invernomuto è il codice di riconoscimento per una IA. Ho il numero di registrazione del Turing. Intelligenza Artificiale.

— Fantastico — dichiarò Molly. — Ma dove ci porta?

— Se Yonderboy ha ragione, questa IA sta dietro ad Armitage.

— Ho pagato Larry perché i Moderni ficcassero un po’ il naso intorno ad Armitage — spiegò Molly rivolgendosi a Case. — Hanno delle linee di comunicazione davvero bizzarre. Il patto era che avrebbero ricevuto i miei soldi solo se avessero risposto a una mia domanda: chi dirige Armitage?

— E tu pensi che sia questa IA? A quegli affari non è concessa la minima autonomia. Deve trattarsi della società che la controlla, questa Tessle…

— Tessier-Ashpool S.A. — ripeté Finn. — E ho una piccola storia per te su di loro. Vuoi sentirla? — Si sedette e si inclinò in avanti.

— Finn ama le storie — spiegò Molly.

— Questa non l’ho mai raccontata a nessuno — cominciò Finn.


Finn era un ricettatore, un trafficante di merci rubate, soprattutto software. Nel corso dei suoi traffici entrava talvolta in contatto con altri ricettatori, alcuni dei quali trattavano gli articoli più tradizionali del mestiere, metalli preziosi, francobolli e monete, gemme, gioielli, pellicce, dipinti e altre opere d’arte. La storia che raccontò a Case e a Molly cominciò appunto con la storia di un altro uomo… un certo Smith.

Anche Smith era un ricettatore, ma nelle stagioni più propizie rispuntava nei panni di mercante d’arte. Era la prima persona conosciuta da Finn che fosse “passata al silicio”. Quella frase suonava antiquata a Case. I microsoftware che Smith comperava riguardavano programmi sulla storia dell’arte e le tabelle delle vendite nelle gallerie d’arte.

Con una mezza dozzina di chip nel suo nuovo innesto, la conoscenza che Smith aveva degli affari in campo artistico era formidabile, per lo meno tenendo presenti gli standard dei suoi colleghi. Ma Smith era venuto da Finn con una richiesta di aiuto, una richiesta fraterna da uomo d’affari a uomo d’affari. Voleva un rapporto sul clan Tessier-Ashpool e con la garanzia dell’assoluta impossibilità da parte del soggetto di rintracciare la fonte della richiesta. Era possibile, aveva risposto Finn, esprimendo la propria opinione, ma era decisamente necessaria una spiegazione. — Puzzava — spiegò Finn a Case. — Puzzava di denaro. E Smith era molto prudente. Perfino troppo.

Risultò che Smith si era servito di un fornitore conosciuto come Jimmy. Jimmy era uno scassinatore, e anche altre cose, ed era appena tornato da un anno in orbita, portandosi dietro certe cosette nel pozzo gravitazionale. Il colpo più insolito che Jimmy era riuscito a mettere a segno durante il suo giro attraverso l’arcipelago era una testa, un busto lavorato in maniera assai complicata, di platino smaltato, tempestato di perline e lapislazzuli. Smith, sospirando, aveva posato il suo microscopio tascabile, consigliando Jimmy di fondere quell’affare. Era contemporaneo, e non un oggetto d’antiquariato, quindi non aveva il minimo valore per un collezionista. Jimmy era scoppiato a ridere: quell’affare era il terminale di un computer. Poteva parlare. E non con una voce sintetica, ma grazie a una splendida combinazione di congegni e canne d’organo in miniatura. Era una creazione barocca. Chiunque l’avesse montata doveva essere un deviato, dato che adesso i chip per la sintesi vocale non costavano praticamente nulla. Era una curiosità. Smith aveva collegato la testa al suo computer e aveva ascoltato quella voce melodiosa e disumana che cinguettava le cifre della dichiarazione dei redditi dell’anno precedente.

La clientela di Smith comprendeva un miliardario di Tokyo la cui passione per gli automatismi a orologeria sfiorava il feticismo. Smith aveva scrollato le spalle mostrando a Jimmy il palmo delle mani rivolto all’insù con un gesto vecchio quanto i banchi di pegni. Poteva tentare, aveva detto, ma dubitava di riuscire a ottenere molto.

Una volta che Jimmy se ne fu andato, lasciando lì il busto, Smith l’aveva esaminato con molta cura, scoprendo certe caratteristiche. Alla fine era riuscito a farlo risalire a un’improbabile collaborazione fra due artigiani di Zurigo, uno specialista di smalti di Parigi, un gioielliere olandese e un progettatore di chip californiano. Aveva poi scoperto che era stato commissionato dalla Tessier-Ashpool S.A.

Smith aveva cominciato i suoi contatti preliminari con il collezionista di Tokyo, lasciando capire di trovarsi sulle tracce di qualcosa di ragguardevole.

E poi aveva avuto visite, un ospite non annunciato, un individuo che era passato attraverso l’elaborato labirinto delle misure di sicurezza di Smith come se non esistessero. Un ometto giapponese, terribilmente compito, il quale recava su di sé tutti i segni dell’assassino ninja cresciuto in vasca. Smith era rimasto seduto immobile, fissando i tranquilli occhi castani della morte attraverso la lucidissima superficie di un tavolo di palissandro vietnamita. Gentilmente, quasi scusandosi, l’assassino clonato gli aveva spiegato come fosse suo preciso dovere ritrovare e restituire una certa opera d’arte, un meccanismo di grande bellezza che era stato asportato dalla casa del suo padrone. Gli era stato fatto notare, aveva aggiunto il ninja, che forse lui, Smith, era al corrente del luogo in cui doveva trovarsi l’oggetto.

Smith aveva spiegato all’ometto di non aver alcun desiderio di morire, dopodiché aveva tirato fuori il prezioso busto. Allora il visitatore gli aveva chiesto quanto si aspettava di ottenere dalla vendita di quell’oggetto. Smith aveva calcolato una cifra assai inferiore al prezzo che aveva avuto intenzione di fissare. Il ninja aveva tirato fuori un chip di credito e aveva battuto quella cifra per Smith da un conto numerato svizzero. E poi gli aveva chiesto: chi le ha portato questo pezzo? Smith gliel’aveva detto. Nel giro di pochi giorni aveva appreso della morte di Jimmy.

— Così a questo punto sono entrato in gioco io — continuò Finn. — Smith sapeva che avevo a che fare con la gente di Memory Lane, ed è là che vai se ne vuoi uno tranquillo che non sarà mai rintracciato. Ingaggiai un cowboy. Io ero il mediatore, così mi sono preso la percentuale. Smith, lui era molto cauto. Aveva appena fatto un’esperienza d’affari molto strana e ne era uscito vivo, ma la cosa non quadrava. Chi aveva pagato quel gruzzolo in Svizzera? La Yakuza? No di certo. Avevano un codice molto rigido per coprire situazioni come quella, e uccidevano anche il compratore, sempre. Era forse roba losca? Smith ne dubitava. Gli affari loschi emanano una vibrazione, e si finisce per abituarsi ad annusarla. Bene, feci setacciare al mio cowboy gli archivi fino a quando non trovammo una notizia sulla Tessier-Ashpool rimasta impegolata in una controversia legale. Il caso non era niente di speciale, ma da lì risalimmo allo studio legale. Poi penetrammo l’ice dell’avvocato e ottenemmo l’indirizzo di famiglia. Proprio quello che ci serviva.

Case sollevò le sopracciglia.

— Freeside, il satellite — proseguì Finn. — Risultò che possedevano quasi tutta quella maledetta baracca lassù in cielo. La cosa interessante fu il quadro che ottenemmo quando il cowboy diede una setacciata in piena regola agli archivi dei notiziari, compilando un riassunto. L’organizzazione della famiglia: una struttura societaria. In teoria, è sempre possibile acquistare azioni di una S.A., una società anonima, ma non c’è stata una sola azione della Tessier-Ashpool venduta sul mercato da più di cento anni. E su qualunque mercato, da quanto mi risulta. Stiamo parlando di una famiglia della prima generazione, orbita esterna, molto riservata, molto eccentrica, gestita come una grande società. Grossi capitali, ma rifugge dai media. Un sacco di clonazioni. La legge orbitale è molto più morbida con l’ingegneria genetica, no? Ed è difficile seguire quale generazione, o combinazione di generazioni, diriga lo spettacolo in un dato momento.

— Come mai? — chiese Molly.

— Hanno una propria organizzazione criogenica. Anche secondo la legge orbitale sei legalmente morto per tutta la durata dell’ibernazione. Pare che si passino gli incarichi direttivi alla fine d’ogni ibernazione, anche se nessuno ha più visto il padre fondatore da trent’anni buoni. La madre fondatrice è morta in un qualche incidente di laboratorio…

— Ma allora, cos’è successo al tuo ricettatore?

— Niente. — Finn aggrottò la fronte. — Ha lasciato perdere. Abbiamo dato un’occhiata a questo fantastico intrico di legulei di cui dispone la T-A, ed è tutto. Jimmy dev’essere entrato dentro villa Straylight, ha rubato la testa, e la Tessier-Ashpool gli ha messo alle calcagna il suo ninja. Smith ha deciso di dimenticarsene. Forse è stato furbo così. — Guardò Molly. — Villa Straylight. Sull’estremità dell’asse. Rigorosamente privata.

— Pensi che possiedano quel ninja, Finn? — gli chiese Molly.

— Smith ne era convinto.

— Molto costoso — fu il commento di Molly. — Mi chiedo cosa sarà successo a quel piccolo ninja, Finn?

— Probabilmente l’hanno messo sotto ghiaccio. Lo scongeleranno quando ce ne sarà bisogno.

— D’accordo — disse Case — abbiamo Armitage che si serve da una IA chiamata Invernomuto. Dove ci porta questo?

— Da nessuna parte ancora, ma adesso abbiamo qualcosa di collaterale — replicò Molly. Prese un foglietto ripiegato dalla tasca e glielo porse. Finn l’aprì. Una griglia di coordinate e di codici di accesso.

— Chi sarebbe?

— Armitage. Alcuni database su di lui. Li ho comprati dai Moderni. Un contratto separato. Dove si trova?

— A Londra — rispose Case.

— Su, vacci dentro, sfondalo. — Molly scoppiò a ridere. — Guadagnati il pane, tanto per cambiare.


Case aspettò il locale trans-BAMA sulla pensilina affollata. Molly era tornata al loft già da molte ore, con il costrutto di Flatline nella borsa verde, e da allora Case aveva continuato a bere senza sosta.

Era inquietante pensare a Flatline come a un costrutto, una cartuccia ROM che riproduceva le facoltà di un morto, le sue ossessioni, le mie reazioni istintive… Il treno locale arrivò rombando lungo la nera striscia a induzione. Una polvere fine si staccò dalle crepe del soffitto della galleria. Case s’infilò nella portiera più vicina, e durante il tragitto osservò gli altri passeggeri. Un paio di Scientiste Cristiane dall’aria invadente si stavano avvicinando a un terzetto di giovani tecnici che portavano al polso vagine olografiche idealizzate che luccicavano d’un rosa umido sotto le luci impietose. I tecnici si leccavano nervosamente le labbra perfette e sbirciavano le Scientiste Cristiane da sotto le palpebre metalliche abbassate. Le ragazze parevano snelli animali esotici e ondeggiavano con grazia inconsapevole al movimento del treno, i loro tacchi alti simili a lucidi zoccoli contro il metallo grigio del pavimento del vagone. Prima che i tre potessero darsi a una fuga disordinata e precipitosa come una mandria imbizzarrita, per sfuggire alle missionarie, il treno raggiunse la stazione di Case.

Appena uscì l’occhio gli cadde su un bianco sigaro olografico sospeso contro la parete della stazione. FREESIDE pulsava sotto l’immagine in maiuscole distorte in modo da mimare il giapponese stampato. Case attraversò la folla e si fermò là sotto, studiando quel marchingegno. PERCHÉ ASPETTARE? ammiccava la scritta. Un bianco fuso smussato, flangiato e costellato di griglie e radiatori, moli e cupole. Aveva visto quella pubblicità, o altre simili, migliaia di volte. Non l’aveva mai attirato. Con il suo deck poteva raggiungere le banche del Freeside con la stessa facilità con cui poteva raggiungere Atlanta. Viaggiare era una prerogativa della carne. Ma adesso notò il piccolo sigillo, grande come una monetina, inserito nell’angolo sinistro in basso della trama dell’annuncio luminoso: T-A.

Tornò a piedi al loft, smarrito nei ricordi del Flatline. Aveva trascorso la maggior parte della sua diciannovesima estate al Gentleman Loser, sorseggiando birre costose e osservando i cowboy. Allora non aveva ancora toccato un deck, ma sapeva quello che voleva. C’erano almeno altri venti giovani di belle speranze che infestavano il Loser, quell’estate, ognuno di loro impegnato a lavorare come tirapiedi per qualche cowboy. Non c’era altro modo per imparare.

Avevano tutti sentito parlare di Pauley, il jockey buzzurro arrivato dalla periferia di Atlanta, il quale era riuscito a sopravvivere alla morte cerebrale dietro al black ice. Le esigue soffiate, voci di strada, le uniche a portata di mano, avevano poco da dire su Pauley, se non che aveva compiuto l’impossibile. — È stata una faccenda grossa, ma chissà cos’è successo davvero — aveva detto a Case un altro aspirante informatore, per il prezzo di una birra. — Ho sentito che forse era al soldo di una rete brasiliana. Comunque quell’uomo era proprio morto, morte cerebrale nuda e cruda. — Case stava osservando al capo opposto del banco un individuo tarchiato in maniche di camicia. La sua pelle aveva qualcosa di plumbeo.

— Ragazzo — gli avrebbe detto il Flatline molti mesi dopo a Miami — io sono come quelle gigantesche lucertole del cazzo, sai. Avevano due dannati cervelli, uno dentro la testa e l’altro sull’osso della coda, che serviva a muovere le zampe posteriori. Colpivi quella bestia nella testa, e il vecchio cervello della coda continuava a funzionare.

L’élite dei cowboy al Loser evitava Pauley a causa d’una strana forma di ansia collettiva, quasi una superstizione. McCoy Pauley, il Lazzaro del cyberspazio…

E alla fine l’aveva fregato il cuore, un cuore russo, un residuato trapiantatogli in un campo di prigionia durante la guerra. Si era sempre rifiutato di sostituire quel rottame dicendo che aveva assoluto bisogno del suo particolare battito per conservare il senso del tempo…

Case cincischiò il foglio che gli aveva dato Molly e cominciò a salire le scale.

Molly russava distesa sul pavimento di gommapiuma termica. Un’ingessatura trasparente le andava dal ginocchio fino a pochi millimetri sotto l’inguine. La pelle sotto il microporo rigido era chiazzata di lividi, dove il nero sfumava in un brutto giallo. Otto dermi, ognuno di dimensioni e colore diversi, erano incollati in una linea ordinata lungo il polso sinistro. Un’unità transdermica Akai era sistemata poco lontano, i sottili cavi rossi collegati agli elettrodi d’ingresso sotto l’ingessatura.

Case attivò il tensore accanto all’Hosaka. Il nitido cerchio di luce cadde direttamente sopra il costrutto di Flatline. Inserì l’ice, collegò il costrutto ed entrò.

Provò la netta sensazione di leggere da sopra la spalla di qualcuno.

Tossì. — Dix? McCoy? Sei tu, amico? — Aveva un nodo alla gola.

— Ehi, fratello — rispose una voce senza direzione.

— Sono Case, amico. Mi riconosci?

— Il tirapiedi di Miami. Hai imparato in fretta.

— Qual è l’ultima cosa di cui ti ricordi prima che ti parlassi, Dix?

— Niente.

— Aspetta. — Staccò il costrutto. La presenza scomparve. Lo ricollegò. — Dix, chi sono?

— Che cavolo ne so, amico. Chi sei?

— Ca… il tuo amico. Socio. Come va?

— Buona domanda.

— Ricordi di essere stato qui, un secondo fa?

— No.

— Sai come funziona una matrice di personalità ROM?

— Certo, fratello, è un costrutto inalterabile.

— Così se io la collego al banco che sto usando posso darle una memoria sequenziale in tempo reale?

— Immagino di sì — rispose il costrutto.

— D’accordo, Dix. Tu sei un costrutto ROM. Mi hai capito?

— Se lo dici tu. Chi sei?

— Case.

— Miami — disse la voce. — Il tirapiedi. Hai imparato in fretta.

— Proprio così. E per cominciare, Dix, tu e io sgusceremo fino alla griglia di Londra per accedere a qualche piccolo dato. Ci stai?

— Ho forse scelta, fratello?

6

— Tu vuoi procurarti un paradiso — recitò il Flatline quando Case gli ebbe spiegato la sua situazione. — Controlla Copenaghen, le frange della struttura universitaria. — La voce recitò le coordinate mentre lui digitava.

Trovarono il loro paradiso, un “paradiso da pirati” ai margini indistinti d’una griglia accademica a basso livello di sicurezza. A prima vista assomigliava al genere di graffiti che gli apprendisti operatori talvolta lasciavano a un incrocio di linee della griglia, deboli glifi di luce che tremolavano contro i profili confusi di una dozzina di facoltà d’arte.

— Ecco quello azzurro. Lo distingui? — disse il Flatline. — È un codice d’ingresso per la Bell Europa. Ed è anche fresco. La Bell arriverà da queste parti in quattro e quattr’otto e leggerà tutto il dannato tabellone, e cambieranno qualunque codice troveranno affisso. I ragazzi ruberanno entro domani quelli nuovi.

Case digitò se stesso dentro la Bell Europa e passò a un codice telefonico standard. Con l’aiuto del Flatline si collegò con il database di Londra che secondo Molly era quello di Armitage.

— Su, faccio io. — La voce cominciò a cantilenare una serie di cifre. E Case le batté sul suo deck, cercando di afferrare le pause che il costrutto si concedeva per indicare il ritmo. Dovette provare tre volte.

— Proprio duretto — commentò il Flatline. — Neanche l’ombra di ice.

— Controlla — ordinò Case all’Hosaka. — Passala al setaccio e trovami la storia personale del proprietario.

I ghirigori neuroelettronici del paradiso svanirono, sostituiti da una semplice losanga di luce bianca. — Il contenuto è soprattutto videoregistrazioni di processi militari postbellici — annunciò la voce remota dell’Hosaka. — La figura centrale è il colonnello Willis Corto.

— Mostralo — ordinò Case.

Il volto di un uomo riempì lo schermo. Gli occhi erano quelli di Armitage.


Due ore dopo Case si lasciò cadere accanto a Molly e lasciò che l’imbottitura si modellasse contro di lui.

— Hai trovato niente? — gli chiese lei con la voce annebbiata dal sonno e dalle medicine.

— Te lo racconto più tardi. Sono distrutto. — Stava soffrendo dei postumi ed era frastornato. Rimase disteso con gli occhi chiusi mentre cercava di rimettere in ordine le varie parti della storia di un tale chiamato Corto. L’Hosaka aveva selezionato uno striminzito insieme di dati traendone un sunto, ma era pieno di falle. Parte del materiale era costituito da stampate, scivolate attraverso lo schermo troppo in fretta, e Case aveva dovuto chiedere al computer di leggergliele. Altre sequenze erano registrazioni delle udienze di Pugno Urlante.

Willis Corto, colonnello, si era calato attraverso un punto cieco delle difese russe sopra Kirensk. Le navette avevano creato una breccia tramite bombe a pulsazione, poi la squadra di Corto era penetrata su ultraleggeri Nightwing, con le ali che fremevano secche alla luce della luna, riflesse in argentee frastagliature sui fiumi Angara e Podhamennaya, l’ultima luce che Corto avrebbe visto per quindici mesi. Case cercò d’immaginarsi gli ultraleggeri che sbocciavano dalle loro capsule di lancio sopra la steppa ghiacciata.

— È sicuro come l’inferno che ti hanno infilzato per bene, capo — commentò Case, e Molly si mosse nel sonno accanto a lui.

Gli ultraleggeri erano stati disarmati, spogliati per compensare il peso di un operatore alla consolle, un prototipo di deck e un programma virus chiamato Talpa IX, il primo vero virus nella storia della cibernetica. Corto e la sua squadra si stavano allenando da tre anni per quella spedizione. Avevano attraversato l’ice, pronti a iniettare Talpa IX quando gli emp erano entrati in azione. I cannoni a impulso dei russi avevano fatto precipitare gli smanettatori nell’oscurità elettronica, i Nightwing avevano visto i propri sistemi schiantarsi, i circuiti di volo erano stati cancellati.

Poi i laser avevano aperto il fuoco, mirando nell’infrarosso, colpendo i fragili aerei d’assalto invisibili al radar, e Corto e il suo uomo alla consolle, già stecchito, erano precipitati dal cielo siberiano. Erano caduti e avevano continuato a cadere…

C’erano dei vuoti nella storia, qui, dove Case aveva esaminato la documentazione che riguardava il volo di un elicottero d’assalto russo del quale si erano impadroniti e con cui erano riusciti a raggiungere la Finlandia. E che era stato sventrato mentre atterrava in un bosco di abeti rossi da un antiquato cannone da venti millimetri servito da una squadra di riservisti di guardia all’alba. Per Corto, Pugno Urlante era finito alla periferia di Helsinki, con i paramedici finlandesi che lo tiravano fuori dal ventre contorto dell’elicottero segando le lamiere. La guerra era finita nove giorni più tardi, e Corto era stato trasferito in un ospedale militare dell’Utah, cieco, senza gambe e privo della maggior parte della mandibola. L’inviato del Congresso aveva impiegato undici mesi per trovarlo, durante i quali Corto aveva ascoltato il rumore dei tubi che aspiravano i liquidi. A Washington e a McLean i processi-spettacolo erano già in corso. Il Pentagono e la CIA venivano balcanizzati, in parte smantellati, e un’inchiesta del Congresso si era concentrata su Pugno Urlante. Maturo per un Watergate, aveva spiegato l’inviato a Corto.

Avrebbe avuto bisogno di occhi, di gambe e di un ampio lavoro di chirurgia plastica, aveva altresì dichiarato l’emissario, ma la faccenda poteva essere sistemata. Un nuovo sistema idraulico, aveva aggiunto il tipo, stringendo la spalla di Corto attraverso il lenzuolo inzuppato di sudore.

Intanto Corto sentiva quel gocciolare sommesso e incessante. Dichiarò che avrebbe preferito testimoniare così come era ridotto.

No, gli aveva spiegato l’emissario. I processi venivano trasmessi in televisione. Era necessario che arrivassero agli elettori. L’inviato tossicchiò educatamente.

Riparato, riequipaggiato e ampiamente imbeccato, Corto aveva dunque deposto, e fu un momento dettagliato, commovente, lucido, in gran parte inventato da una cricca del Congresso che aveva interesse a salvare certi particolari settori dell’infrastruttura del Pentagono. Corto si era reso conto, un po’ per volta, che la testimonianza da lui fornita era essenziale per salvare la carriera di tre ufficiali direttamente responsabili della sparizione dei rapporti relativi alla costruzione delle installazioni emp a Kirensk.

Una volta esaurito il suo ruolo nei processi, a Washington non lo volle più nessuno. In un ristorante sulla M Street, davanti a un piatto di crèpe agli asparagi, l’inviato del Congresso gli aveva spiegato quali fossero gli indicibili pericoli se avesse parlato con le persone sbagliate. Corto gli aveva frantumato la laringe con le dita rigide della mano destra. L’inviato del Congresso era morto strangolato, con il viso dentro una crèpe agli asparagi, e Corto era uscito, nella fresca aria settembrina di Washington.

L’Hosaka sferragliò attraverso i rapporti della polizia, i documenti dei servizi di spionaggio delle grosse società e gli archivi dei notiziari. Case osservò Corto lavorarsi i disertori delle multinazionali a Lisbona e a Marrakesh, dove pareva sempre più ossessionato dall’idea del tradimento, mostrando di odiare gli scienziati e i tecnici che assoldava per conto dei propri datori di lavoro. Ubriaco, in un albergo di Singapore aveva picchiato a morte un tecnico russo e aveva appiccato il fuoco alla sua stanza.

Poi era riemerso in Tailandia, come supervisore in una raffineria di eroina. Quindi come scagnozzo per conto di un gruppo di bische in California, poi come sicario a pagamento fra le rovine di Bonn. Aveva rapinato una banca a Wichita. La documentazione diventava vaga, fumosa, i vuoti erano sempre più ampi.

Un giorno, riferiva un nastro audio (che implicava un interrogatorio eseguito con sostanze chimiche), tutto era diventato grigio, fumoso.

Una cartella medica francese tradotta spiegava infine che un uomo non identificato era stato ricoverato in una unità per malati di mente a Parigi con una diagnosi di schizofrenia. Divenuto catatonico, era stato trasferito in un istituto statale alla periferia di Tolone in cui era stato sottoposto a un programma sperimentale che si proponeva d’invertire il processo di schizofrenia tramite l’applicazione di modelli cibernetici. Un gruppo di pazienti scelti a caso veniva fornito di microcomputer che erano incoraggiati a programmare, con l’aiuto degli studenti. Era guarito. L’unico successo di tutto l’esperimento.

Qui la documentazione terminava.

Case si rigirò sulla gommapiuma, e Molly imprecò sottovoce per essere stata disturbata.


Il telefono squillò. Case se lo tirò sul letto. — Sì?

— Andiamo a Istanbul — annunciò Armitage. — Stasera.

— Cosa vuole quel bastardo? — chiese Molly.

— Dice che stasera andiamo a Istanbul.

— Davvero meraviglioso.

Armitage stava elencando i numeri dei voli e gli orari delle partenze.

Molly si rizzò a sedere e accese la luce.

— E le mie apparecchiature? — domandò Case. — Il mio deck?

— Se ne occuperà Finn — rispose Armitage, e riappese.

Case osservò Molly che si era messa a fare le valige. Aveva cerchi scuri sotto gli occhi, ma perfino con l’ingessatura addosso era come osservare un balletto. Nessun movimento sprecato. Gli indumenti di Case erano una pila spiegazzata accanto alla sua borsa.

— Ti fa male? — le chiese.

— Non mi dispiacerebbe un’altra notte da Chin.

— Il tuo dentista?

— Puoi scommetterci. Molto discreto. Quella sua clinica è sempre piena. Fa riparazioni per i samurai. — Molly stava chiudendo la cerniera della borsa. — Sei mai stato a Istanbul?

— Un paio di volte, anni fa.

— Non cambia mai. È una città vecchia e sgradevole.


— È uguale a quando siamo andati a Chiba — disse Molly, osservando dal finestrino del treno il paesaggio industriale lunare e inaridito, con i fari rossi all’orizzonte che avvertivano gli aerei di tenersi lontani da un impianto a fusione. — Eravamo a Los Angeles. Lui è entrato e ha detto: “Fai le valigie”. Avevamo già i posti prenotati per Macao. Quando siamo arrivati, io ho giocato fantan al Lisboa e lui è andato dall’altra parte, a Zhongshan. Il giorno dopo giocavo a pedinarti a Night City. — Sfilò una sciarpa di seta dalla manica del giubbotto nero e lustrò gli innesti oculari. Il paesaggio dello Sprawl a nord risvegliava in Case confusi ricordi della sua infanzia, ciuffi di erba morta che spuntavano dalle crepe di uno sconnesso lastrone di cemento dell’autostrada.

Il treno cominciò a rallentare a dieci chilometri dall’aeroporto. Case guardò il sole spuntare sul paesaggio della sua infanzia, sulle scorie frantumate e sui gusci arrugginiti delle raffinerie.

7

Stava piovendo a Beyoglu, e la Mercedes a nolo scivolava davanti alle vetrine spente dei prudenti gioiellieri greci e armeni, chiuse da pesanti grate. La strada era quasi deserta e sui marciapiedi soltanto poche figure vestite di scuro si voltarono per seguire con lo sguardo la macchina.

— Un tempo questo era il prospero quartiere europeo della Istanbul ottomana — ronzò flautata la Mercedes.

— Così è andato a rotoli — commentò Case.

— L’Hilton è in Cumhuriyet Caddesi — disse Molly, lasciandosi andare sull’ultracamoscio grigio della macchina.

— Come mai Armitage vola da solo? — chiese Case. Aveva un gran mal di testa.

— Perché gli stai sulle scatole. E non c’è dubbio che cominci a stare sulle scatole anche a me.

Voleva raccontarle la storia di Corto, ma decise di non farlo. Sull’aereo aveva usato un derma per dormire.

La strada dall’aeroporto era dritta come un fuso, come un’incisione netta che spaccava in due la città lasciandola allo scoperto. Case vide passare l’incredibile mosaico formato dalle pareti dei casamenti di legno, i condominii, le arcologie, i tetri casermoni, alte muraglie di compensato e di lamiera ondulata.

Finn, con indosso un nuovo completo nero Shinjuku da sarariman, li stava aspettando arcigno nell’atrio dell’Hilton, sprofondato in una poltrona di velour in un mare di tappeti azzurro pallido.

— Cristo — esclamò Molly. — Un sorcio vestito da uomo d’affari.

Attraversarono l’atrio.

— Quanto ti pagano per venire fin qui, Finn? — Molly posò la borsa accanto alla poltrona. — Scommetto meno di quanto ti danno per indossare quel vestito, eh?

Il labbro superiore di Finn si ritrasse. — Non abbastanza, dolcezza. — Le porse una chiave magnetica con un’etichetta gialla rotonda. — Siete già registrati. Il gran capo è di sopra. — Si guardò intorno. — Questa città è sempre pronta a fregarti.

— Tu diventi agorafobo non appena ti tirano fuori da sotto una cupola. Fai finta che sia Brooklyn o qualcosa del genere. — Molly fece roteare la chiave intorno a un dito. — Sei qui come valletto o cosa?

— Devo controllare gli impianti di un tizio — disse Finn.

— E il mio deck? — domandò Case.

Finn fece una smorfia. — Rispetta il protocollo. Chiedilo al capo.

Le dita di Molly si agitarono nell’ombra della giubba, un balenare di segni. Finn osservò, poi annuì.

— Già, so chi è — disse lei, e girò di scatto la testa in direzione degli ascensori. — Vieni, cowboy. — Case la seguì con entrambe le borse.


La loro stanza avrebbe potuto essere quella di Chiba in cui aveva incontrato Armitage la prima volta. La mattina dopo andò alla finestra quasi aspettandosi di vedere la baia di Tokyo. C’era un altro albergo sul lato opposto della strada. Pioveva ancora. Alcuni scrivani pubblici si erano rifugiati nel vano della porta, con i loro vecchi stampavoce avvolti in teli di plastica trasparente, la prova che da quelle parti la parola scritta godeva ancora di un certo prestigio. Era un paese lento. Case osservò una berlina, una Citroen nera non metallizzata, auto primitiva a celle d’idrogeno a conversione, mentre scaricava cinque ufficiali turchi dall’aria imbronciata con delle uniformi verdi stazzonate. Entrarono nell’albergo di fronte.

Quando Case gettò un’occhiata verso il letto in direzione di Molly, il suo pallore lo colpì. Molly aveva lasciato l’ingessatura di micropori nel loft, accanto all’induttore transdermico. I suoi occhiali riflettevano parte dell’impianto d’illuminazione della stanza.

Agguantò il telefono prima del secondo squillo. — Lieto che tu sia sveglio — disse Armitage.

— Da poco. La signora dorme ancora. Ascolta, capo, credo sia giunto il momento di farci una piccola chiacchierata. Inoltre credo che lavorerei meglio se sapessi qualcosa di più su ciò che sto facendo.

Silenzio in linea. Case si morsicò il labbro.

— Sai tutto quello che ti serve. Forse di più.

— Davvero?

— Vestiti, Case. Falla alzare. Avrete visite fra quindici minuti circa. Si chiama Terzibashjian. — Il telefono emise un gemito soffocato. Armitage aveva appeso.

— Svegliati, bimba — la sollecitò Case. — Affari in vista.

— Sono sveglia da un’ora. — Gli specchi si girarono.

— Abbiamo un Jersey Bastian in arrivo.

— Hai proprio orecchio per le lingue, Case. Scommetto che sei in parte armeno. È l’occhio che Armitage ha avuto su Riviera. Aiutami ad alzarmi.

Terzibashjian risultò essere un giovanotto con un abito grigio e con un paio di occhiali a specchio montati in oro. Portava la camicia bianca aperta sul collo, rivelando un vello di peli scurì talmente folto che Case lo scambiò in un primo momento per una maglietta. Arrivò con un vassoio nero dell’Hilton sul quale erano sistemate tre tazzine fragranti di denso caffè nero e tre appiccicosi dolcetti orientali color paglia.

— Dobbiamo, come dite voi in ingiliz, prendercela con molta calma. — Parve quasi trafiggere con lo sguardo Molly, ma alla fine si tolse gli occhiali dalle lenti argentate. I suoi occhi erano castano scuro, intonati alla sfumatura dei capelli cortissimi, taglio militare. Sorrise. — Meglio così, vero? Altrimenti faremo un cerchio infinito, specchio dentro specchio… Lei in particolare — aggiunse, rivolto a Molly — deve stare attenta. In Turchia c’è una certa riprovazione per le donne che esibiscono modifiche come quelle.

Molly diede un morso a un pasticcino, spezzandolo in due. — Conduco io lo spettacolo, ciccio — rispose, con la bocca piena. Masticò, inghiottì e si leccò le labbra. — So di te. Un soffia dei militari, giusto? — La sua mano scivolò pigramente all’interno della giubba e ne uscì impugnando la Fletcher. Case non sapeva che l’avesse addosso.

— Con molta calma, per favore — propose Terzibashjian, tenendo la tazzina di porcellana bianca immobile a pochi centimetri dalle labbra.

Molly spianò la pistola. — Forse ti beccherai un sacco di esplosivi, o forse un cancro, faccia di merda. Un dardo. Non lo sentirai per mesi.

— Per favore… Come dite voi in ingiliz, mi stai facendo tremare.

— Io la definirei una brutta mattinata. Adesso parlaci del tuo uomo e poi togliti dalle palle. — Molly ripose la pistola.

— Abita a Fener, Kückük Gülhane Djaddesi 14. Ho il suo percorso con il tunel, tutte le sere al bazaar. Ultimamente ha recitato allo Yenishehir Palas Oteli, un posto moderno in stile turistik, ma è stato deciso che la polizia mostrasse un certo interesse per questi spettacoli. La direzione dello Yenishehir ha cominciato a innervosirsi. — L’armeno sorrise, ma con un vago sentore metallico di dopobarba.

— Voglio sapere degli innesti — disse Molly, massaggiandosi la coscia. — Voglio sapere esattamente quello che può fare.

Terzibashjian annuì. — Il peggio sono… come dite in ingiliz, i subliminali. — Pronunciò con soverchia attenzione le cinque sillabe della parola.


— Sulla vostra sinistra si trova Kapali Carsi, il gran bazar — disse la Mercedes, mentre risaliva un dedalo di strade bagnate dalla pioggia.

Accanto a Case, Finn emise un rumoretto di approvazione, ma stava guardando nella direzione sbagliata. Il lato destro della strada era fiancheggiato da piccoli sfasciacarrozze. Case vide una locomotiva sventrata in cima a blocchi di marmo scanalato, frantumati e macchiati di ruggine. Statue di marmo prive di testa erano ammucchiate come una catasta di legna.

— Nostalgia di casa? — domandò Case.

— Questo posto fa schifo — dichiarò Finn. La sua cravatta nera cominciava ad assomigliare al nastro consumato di una macchina da scrivere. C’erano macchie tonde di sugo di kebab e di uova fritte sul bavero del vestito nuovo.

— Ehi, Jersey — domandò Case, rivolto all’armeno seduto dietro — dov’è che si è fatto installare la sua roba questo tizio?

— A Chiba City. Non ha il polmone sinistro. L’altro è potenziato, è così che dite, mi pare. Chiunque può comperare questi innesti, ma il suo è particolarmente dotato. — La Mercedes sterzò di colpo per evitare un carro senza sponde con i pneumatici da camion, carico di pelli. — L’ho seguito per strada, e in un solo giorno ho visto una dozzina di ciclisti cadere vicino a lui. Sono andato a trovare un ciclista in ospedale, e la storia è sempre la stessa: uno scorpione appollaiato accanto alla leva del freno…

— “Quello che vedi è quello che ottieni”, già — commentò Finn. — Ho visto i diagrammi sul software di quel tizio. Impressionante. Vedi quello che lui immagina. Penso che potrebbe restringerlo a un singolo impulso e friggere una retina al tegamino.

— Hai detto questo alla tua amica? — Terzibashjian si sporse in avanti fra i sedili anatomici di ultracamoscio. — In Turchia le donne sono ancora donne. Questa…

Finn sbuffò. — Questa ti annoderà le palle a mo’ di cravatta se la guardi storto.

— Non capisco questo linguaggio.

— Tutto a posto — intervenne Case. — Significa: chiudi il becco.

L’armeno si adagiò contro lo schienale, lasciando nell’aria una punta metallica di dopobarba, e cominciò a bisbigliare dentro una ricetrasmittente Sanyo in una strana macedonia di greco, francese, turco e frammenti d’inglese. La ricetrasmittente rispose in francese. La Mercedes svoltò l’angolo con leggiadria. — Il bazar delle spezie, chiamato talvolta il bazar egiziano — informò la vettura. — Venne costruito sul sito di un precedente bazar dal sultano Hatice nel 1660. Questo è il principale mercato della città per le spezie, il software, i profumi, le droghe…

— Droghe — disse Case, osservando i tergicristalli della macchina che passavano e ripassavano sul Lexan antiproiettile. — Cos’è che hai detto prima, Jersey, sul fatto che questo Riviera è strafatto?

— Una mistura di cocaina e meperidina, sì. — L’armeno si affrettò a tornare alla conversazione che stava intrattenendo con il Sanyo.

— Un tempo lo chiamavano demerol — precisò Finn. — È un artista dello speedball. Ti immischi con una strana categoria di persone, Case.

— Non importa — rispose Case, sollevando il bavero della giacca. — Procureremo a quel povero cazzone un nuovo pancreas o qualcosa del genere.


Non appena fecero il loro ingresso nel bazar, Finn si rianimò visibilmente, come se la densità della folla e la sensazione di chiuso lo confortassero. Proseguirono con l’armeno lungo un’ampia corsia, sotto teli di plastica macchiati di fuliggine e strutture in ferro battuto dipinte di verde che risalivano all’epoca delle macchine a vapore. Migliaia di annunci pubblicitari sospesi a mezz’aria balenavano e fremevano.

— Ehi! — esclamò Finn afferrando il braccio di Case. — Guarda là. — Indicò con la mano. — È un cavallo, amico. Avevi mai visto un cavallo?

Case lanciò un’occhiata all’animale imbalsamato prima di scuotere la testa. Veniva esibito su una specie di piedistallo accanto all’ingresso di un locale che vendeva uccelli e scimmie. Le zampe del cavallo erano ormai nerastre e senza peli, usurate dalle mani che per decenni c’erano passate sopra. — Ne ho visto uno nel Maryland, una volta — continuò Finn. — Ed è stato tre anni buoni dopo l’epidemia. Certi arabi stanno ancora cercando di rigenerarli dal DNA, ma finora hanno sempre fatto cilecca.

Gli occhi di vetro marrone dell’animale parvero seguirli mentre passavano. Terzibashjian li guidò dentro un caffè vicino al cuore del mercato, una stanza dal basso soffitto che pareva essere rimasta sempre aperta da parecchi secoli a questa parte. Ragazzi magri con giacche bianche sudicie si destreggiavano fra i tavoli affollati, tenendo in equilibrio vassoi d’acciaio pieni di bottiglie di Tuborg turca e minuscoli bicchieri di tè.

Case comperò un pacchetto di Yeheyuan da un automatico accanto alla porta. Intanto l’armeno continuava a borbottare rivolto al suo Sanyo. — Forza, si sta mettendo in marcia — li sollecitò alla fine. — Ogni sera va al bazar per acquistare la sua mistura da Alì. La donna è vicina. Venite.


Il vicolo era vecchio, troppo vecchio. I muri erano di blocchi di pietra nera, il selciato era irregolare e puzzava della benzina che vi era sgocciolata sopra per più di un secolo, assorbita dall’antico calcare. — Non ci si vede un cazzo — bisbigliò Case rivolto a Finn. — Per dolcezza va benissimo — rispose Finn. — Zitti — li richiamò Terzibashjian, troppo forte.

Rumore di legno strisciato sulla pietra o sul cemento. Una decina di metri più avanti, lungo il vicolo, un cuneo di luce gialla cadde di traverso sui ciottoli bagnati, allargandosi. Una figura uscì e la porta tornò a chiudersi, facendo ripiombare nel buio il bugigattolo. Case rabbrividì.

— Adesso — disse Terzibashjian, e un vivido raggio di luce bianca proiettato dalla sommità del tetto sull’altro lato del mercato inchiodò la figura scheletrica accanto all’antica porta di legno, in un cerchio perfetto. Uno sguardo scattò a destra e a sinistra, poi l’uomo si accasciò al suolo. Case pensò che gli avessero sparato: giaceva a faccia in giù con i capelli biondi pallidi sull’antica pietra, le mani bianche, flosce e patetiche. La luce del riflettore non ebbe il minimo sussulto.

Il didietro della giacca dell’uomo caduto si sollevò ed esplose, facendo schizzare il sangue contro il muro e la porta. Un paio di braccia impossibilmente lunghe, con tendini simili a corde di color grigio rosa, si fletterono in mezzo a quel bagliore. La cosa parve staccarsi dal marciapiede, attraverso i resti inerti e insanguinati che erano stati Riviera. Era alta due metri, si reggeva su due gambe e pareva priva di testa. Poi si girò lentamente per fronteggiarli, e Case vide che, nonostante tutto, aveva una testa, ma non un collo, ed era senz’occhi, con la pelle che luccicava di un umido rosa intestinale. La bocca, se era una bocca, era circolare, come un breve imbuto, e bordata da una selva di peli, o aculei, che scintillavano come cromo nero. L’essere scostò con un calcio gli abiti ridotti a stracci e la carne a brandelli, e fece un passo. Mentre si muoveva, la bocca parve esaminarli.

Terzibashjian disse qualcosa in greco o in turco, quindi si precipitò addosso alla creatura allargando le braccia come uno che tentasse di tuffarsi da una finestra. L’attraversò. Dentro la bocca lampeggiante di una pistola sbucata dal buio oltre il cerchio di luce. Frammenti di roccia passarono sibilando sopra la testa di Case. Finn lo tirò giù con uno strattone, costringendolo a rannicchiarsi.

La luce dalla cima del tetto svanì, lasciandolo con le immagini residue male accoppiate del lampo della pistola, del mostro e del raggio incandescente. Le orecchie gli rimbombavano.

Poi la luce ritornò, adesso ballonzolante, e si mise a frugare tra le ombre. Terzibashjian era appoggiato contro una porta d’acciaio, il suo volto sbiancato in mezzo a quel bagliore. Si reggeva il polso destro e guardava il sangue che gli colava da una ferita alla mano sinistra. L’uomo biondo, di nuovo tutto intero e senza sangue addosso, era riverso ai suoi piedi.

Molly uscì dall’ombra, completamente vestita di nero, con la Fletcher in mano.

— Usa la radio — disse l’armeno, attraverso i denti serrati. — Chiama Mahmut. Dobbiamo portarlo via di qui. Questo non è un buon posto.

— Questo balordo c’era quasi riuscito — imprecò Finn, con le ginocchia che scricchiolarono rumorosamente quando si rialzò, spazzolandosi senza risultato apprezzabile i calzoni. — Stavi seguendo lo spettacolo, vero? Non l’hamburger che è schizzato fuori portata. Davvero carino. Bene, dagli una mano a portar via di qui questo stronzo. Devo esaminare tutte quelle apparecchiature prima che si svegli, per verificare che Armitage abbia speso bene i suoi soldi.

Molly si chinò a raccogliere qualcosa da terra. Una pistola. — Una Nambu — disse. — Bell’arma.

Terzibashjian cacciò un gemito. Case vide che gli mancava la maggior parte del dito medio.


Con la città immersa nell’azzurro antelucano, Molly ordinò alla Mercedes di condurli al Topkapi. Finn e un enorme turco chiamato Mahmut avevano prelevato Riviera, ancora privo di sensi, dal vicolo. Qualche minuto più tardi era arrivata una Citroen tutta impolverata per l’armeno, il quale pareva sul punto di svenire.

— Coglione, avresti fatto meglio a stare più indietro — aveva detto Molly, rivolta all’amico, aprendogli la portiera della macchina. — L’avevo sotto mira dal momento in cui è uscito. — Terzibashjian l’aveva incenerita con un’occhiata. — Comunque con te abbiamo finito. — L’aveva spinto dentro sbattendo la portiera. — Se dovessi incontrarti di nuovo ti ammazzo — aveva concluso, rivolta al volto pallido dietro al finestrino fumé. La Citroen s’era allontanata lungo il vicolo, svoltando goffamente nella strada principale.

Adesso la Mercedes attraversava frusciando Istanbul, mentre la città si svegliava. Passarono la stazione del metrò di Beyoglu, sfrecciando quindi attraverso un dedalo di secondarie deserte, tra condominii fatiscenti che a Case ricordarono vagamente Parigi.

— Cos’è questa roba? — domandò a Molly quando la Mercedes parcheggiò presso i giardini che circondavano l’harem, fissando con occhi apatici il barocco conglomerato di stili che era il Topkapi.

— Era una specie di bordello privato del re — spiegò la sua compagna, scendendo per sgranchirsi le gambe. — Ci teneva un sacco di donne. Adesso è un museo. Un po’ come il laboratorio di Finn. Tutta quella roba è semplicemente ammucchiata là dentro, grossi diamanti, spade, la mano sinistra di Giovanni Battista…

— In una vasca nutritiva?

— Oh, no, è morta. L’hanno infilata dentro una mano di ottone, con uno sportellino sul fianco, in modo che i cristiani potessero baciarla perché portasse loro fortuna. L’hanno sottratta ai cristiani circa un milione di anni fa, e non hanno mai spolverato quel dannato affare perché è una reliquia infedele.

Un cervo nero di ferro arrugginiva nei giardini dell’harem. Case le camminò a fianco, osservandole la punta degli stivali che schiacciava l’erba incolta, irrigidita dal gelo del primo mattino. Si trovavano in un vialetto di gelide piastrelle ottagonali. L’inverno era in attesa, in qualche punto poco lontano dei Balcani.

— Quel Terzi è feccia di prima classe — commentò Molly. — Fa parte della polizia segreta. Un torturatore, molto facile da comprare con tutti i soldi che Armitage gli ha offerto. — Sugli alberi fradici tutt’intorno gli uccelli cominciavano a cantare.

— Ho fatto quel lavoro per te, quello di Londra. Ho ottenuto qualcosa, ma non so cosa significa. — Le raccontò la storia di Corto.

— Bene, lo sapevo che non c’era nessun Armitage in quel Pugno Urlante. Ho controllato. — Molly accarezzò il fianco arrugginito del cervo di ferro. — Pensi davvero che quel piccolo computer l’abbia salvato? Da quell’ospedale francese?

— Sto pensando a Invernomuto — replicò Case.

Lei annuì.

— Il fatto è che… — proseguì Case. — Cioè, credi che sappia di essere stato Corto, prima? Voglio dire, non era nessuno di particolare quando si è ritrovato in quella corsia d’ospedale, così può darsi che Invernomuto abbia soltanto…

— Già, costruito dal niente. Già… — Molly si girò, e ripresero a camminare. — Quadra. Sai, è un tipo che non ha uno straccio di vita privata. Non da quello che posso vedere. Tu ti trovi davanti un tipo del genere e t’immagini che faccia qualcosa quando è solo. Ma non Armitage. Lui se ne sta seduto a fissare il muro, amico. Poi qualcosa fa clic e si mette in moto a pieno regime per Invernomuto.

— Ma allora perché ha quel posticino a Londra? Nostalgia?

— Forse non sa di averlo — obiettò Molly. — Forse è soltanto a suo nome, giusto?

— Non capisco.

— Stavo solo riflettendo ad alta voce… Quanto è intelligente una IA, Case?

— Dipende. Alcune non sono più intelligenti di un cane. Animaletti da salotto. Costano una fortuna, comunque. Quelle davvero intelligenti lo diventano quanto il controllo di Turing sarà disposto a lasciarle evolvere.

— Senti, tu sei un cowboy… come mai non ne sei stregato?

— Be’, tanto per cominciare sono rare. La maggior parte di loro, quelle davvero intelligenti, sono militari, e noi non possiamo penetrare l’ice. È da lì che viene tutto l’ice, sai. E poi ci sono i controllori Turing, brutte bestie. — Si guardò intorno. — Non so, è soltanto che non è roba del mio giro.

— Siete tutti uguali, voi smanettoni. Non avete immaginazione.

Arrivarono a un ampio stagno rettangolare dentro il quale le carpe strofinavano il muso contro gli steli di qualche bianco fiore acquatico. Molly tirò un calcio a un sasso, scagliandolo nello stagno, e seguì con lo sguardo le onde che si allargavano sulla superficie.

— È come Invernomuto — riprese. — Questa faccenda è davvero grossa, da quel che capisco. Noi siamo là fuori, dove le onde sono troppo ampie, e non possiamo vedere la pietra che ha colpito il centro. Sappiamo che c’è qualcosa, ma non ne sappiamo il perché. Voglio che tu vada a parlare a Invernomuto.

— Non potrei neppure avvicinarmi — ribatté Case. — Stai sognando.

— Provaci.

— Non si può fare.

— Chiedilo al Flatline.

— Cos’è che vogliamo da quel Riviera? — domandò Case, tentando di cambiare discorso.

Lei sputò nello stagno. — Lo sa solo Dio. Preferirei ucciderlo piuttosto che guardarlo. Ho visto il suo profilo. È una specie di Giuda impenitente. Non riesce a eccitarsi sessualmente a meno che non sappia che sta tradendo l’oggetto del suo desiderio. Così dice il suo dossier. Però, prima, devono amarlo. Forse le ama anche lui. È per questo che Terzi non ha avuto difficoltà a farlo cadere in trappola per noi, perché è qui da tre anni a vendere i dissidenti politici alla polizia segreta. È probabile che Terzi l’abbia lasciato guardare quando hanno tirato fuori le fruste. Lui… ne ha fatte fuori diciotto in tre anni: tutte donne dai venti ai venticinque anni. Ha rifornito Terzi di dissidenti, sì. — Molly si ficcò le mani nelle tasche del giubbotto. — Quando ne voleva una, ha sempre fatto in modo che finisse coinvolta in qualche movimento politico. Ha una personalità tipo l’uniforme dei Moderni. Il profilo dice che è un genere rarissimo, uno su un paio di milioni. Il che comunque ci rivela qualcosa di buono sulla natura umana, immagino. — Fissò i fiori bianchi e i pesci che nuotavano pigramente. Sembrava amareggiata. — Mi sa che dovrò comprarmi un’assicurazione speciale con quel Peter. — Poi si girò e sorrise, un sorriso molto glaciale.

— Cosa intendi?

— Lascia perdere. Torniamo a Beyoglu e cerchiamo qualcosa che assomigli a una prima colazione. Mi aspetta un’altra bella nottata. Devo andare a prendere la sua roba da quell’appartamento a Fener, poi torno nel bazar a comprargli delle droghe…

— Comprargli delle droghe? Ma in che stato si trova?

Molly scoppiò a ridere. — Non sta per morire, dolcezza. Tuttavia pare che non riesca a lavorare senza quel particolare saporino. Ti preferisco adesso, comunque, non sei così schifosamente pelle e ossa. — Sorrise. — Insomma, andrò da Alì, lo spacciatore, a fare rifornimento. Ci puoi contare.


Armitage li stava aspettando nella loro stanza all’Hilton.

— È ora di fare le valige — disse, mentre Case cercava di ritrovare l’uomo chiamato Corto dietro i pallidi occhi azzurri e la maschera abbronzata. Pensò a Wage, laggiù a Chiba. Sapeva che gli operatori al di sopra di un certo livello avevano la tendenza a nascondere la propria vera personalità. Però Wage aveva avuto vizi, amanti. Addirittura dei bambini, era corsa voce. Il vuoto che intuiva in Armitage era diverso.

— Dove si va adesso? — chiese, passando davanti all’interlocutore per guardare giù in strada. — Che genere di clima c’è?

— Non hanno clima, soltanto temperatura — rispose Armitage. — Ecco, leggi l’opuscolo. — Depositò qualcosa sul tavolino e si alzò in piedi.

— Riviera è a posto? Dov’è Finn?

— Riviera sta benissimo. Finn è sulla via di casa. — Armitage sorrise, un sorriso che veicolava il medesimo significato dell’antenna di un insetto che vibra. Il braccialetto d’oro tintinnò quando allungò la mano per affondare un dito nel petto di Case. — Non fare troppo il furbo. Quelle piccole sacche si stanno consumando, ma non sai quanto alla svelta.

Case rimase impassibile e si costrinse ad annuire. Quando Armitage se ne fu andato, raccolse un opuscolo. Era elegantemente stampato, in francese, inglese e turco:


FREESIDE — PERCHÉ ASPETTARE?

Avevano quattro posti riservati su un volo della THY in partenza dall’aeroporto di Yesilköy. Scalo a Parigi, imbarco sullo shuttle della JAL. Case, seduto nell’atrio dell’Hilton di Istanbul, osservava Riviera che stava esaminando alcuni frammenti di falsa arte bizantina nel negozio di souvenir dalle pareti di vetro. Armitage, con l’impermeabile militare drappeggiato sopra le spalle come un mantello, era immobile sulla soglia del negozio.

Riviera era magro, biondo, con la voce suadente, il suo inglese scorrevole e privo di accento. Secondo Molly aveva trent’anni, ma sarebbe stato difficile indovinare l’età. La ragazza aveva anche detto che era legalmente apolide e viaggiava con un passaporto olandese fasullo. Era un prodotto dei cumuli di macerie che contornavano il nucleo radioattivo della vecchia Bonn.

Tre sorridenti turisti giapponesi s’infilarono nel negozio, rivolgendo un cortese cenno del capo ad Armitage, il quale attraversò la bottega troppo in fretta, con l’evidente scopo di portarsi al fianco di Riviera. Riviera si voltò e sorrise. Era molto bello. Case sospettava che quei lineamenti fossero opera di un chirurgo di Chiba. Un lavoro molto raffinato, ben diverso dal blando miscuglio di facce pop che ostentava Armitage. La fronte era alta e liscia, gli occhi grigi distanti e sereni. Il naso, che altrimenti sarebbe stato troppo perfetto, pareva essere stato spezzato e rimesso a posto dalla mano d’un chirurgo imbranato. Quell’irregolarità appena accennata, quell’accenno di brutalità, bilanciavano la delicatezza della mascella e la prontezza del sorriso. I denti erano piccoli, uniformi e bianchissimi. Case osservò le mani bianche scivolare disinvolte su quei finti frammenti di scultura.

Riviera non si comportava come uno che la sera prima fosse stato aggredito, drogato da una freccetta tossica, rapito, sottoposto all’esame di Finn e costretto da Armitage a unirsi alla loro squadra.

Case controllò l’orologio. Avendo trovato la droga, Molly doveva arrivare a momenti. Sollevò di nuovo lo sguardo su Riviera. — Scommetto che sei già fatto, stronzo — disse, tenendo gli occhi fissi sull’atrio dell’Hilton. Una matrona italiana dai capelli che cominciavano a ingrigire, con indosso una giacca elegante di cuoio bianco, abbassò i suoi occhiali Porsche per fissarlo. Case le regalò un sorrisone, si alzò e si mise la borsa a tracolla. Aveva bisogno di sigarette per il volo. Si chiese se per caso ci fosse uno scompartimento per fumatori sullo shuttle della JAL. — Ci vediamo, signora — disse rivolto alla donna, la quale risollevò prontamente gli occhiali da sole e volse altrove lo sguardo.

Vendevano sigarette nel negozio dei ricordini, ma non gli piaceva affatto la prospettiva di mettersi a chiacchierare con Armitage o, peggio ancora, con Riviera. Lasciò l’atrio dell’Hilton e localizzò una consolle per la vendita automatica dentro una piccola nicchia, oltre una fila di telefoni a gettone.

Si frugò in una tasca piena di lire turche, infilando una dopo l’altra le monete piccole e opache, vagamente divertito dall’anacronismo di quella procedura. Il telefono più vicino a lui squillò.

Per puro riflesso automatico sollevò il ricevitore.

— Sì?

Un suono vagamente modulato, minuscole voci quasi impercettibili accavallate in un qualche collegamento orbitale, e poi un fruscio simile al vento.

— Ciao, Case.

Una moneta da cinquanta lire turche gli cadde di mano, rimbalzò e rotolò lontano attraverso la moquette dell’Hilton.

— Invernomuto, Case. È ora di fare quattro chiacchiere.

Era la voce di un chip.

— Non vuoi parlare, Case?

Riappese.

Mentre tornava nell’atrio dell’albergo senza aver comprato le sigarette, Case fu costretto a ripercorrere per tutta la lunghezza il corridoio con la fila di telefoni. Uno dopo l’altro, squillarono tutti al suo passaggio.

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