Arcipelago.
Le isole. Anello, fuso, ammasso. Il DNA che si propaga dal ripido pozzo gravitazionale come una chiazza di petrolio.
Richiamate la schermata che rappresenta semplificato lo scambio di dati dell’arcipelago L-5. Focalizzate un certo frammento… ed eccolo lì, rosso, compatto, un massiccio rettangolo che domina lo schermo.
Freeside. Il Freeside è molte cose, non tutte evidenti ai turisti che vanno e vengono su e giù con le navette lungo il pozzo gravitazionale. Il Freeside è un nesso di bordelli e banche, luogo di piaceri e porto franco, città di frontiera e stazione termale. Il Freeside è Las Vegas e i giardini pensili di Babilonia, una Ginevra orbitale e dimora d’una famiglia cresciuta attraverso matrimoni tra consanguinei selezionati con estrema cura, il clan industriale dei Tessier e Ashpool.
Sul transcontinentale della THY diretto a Parigi viaggiarono in prima classe, Molly sul sedile accanto al finestrino, Case subito accanto a lei, Riviera e Armitage verso il corridoio. Vi fu un attimo, quando l’aereo s’inclinò, virando sopra l’acqua, in cui Case colse il bagliore di una città su un’isola greca, simile a un gioiello. E mentre allungava la mano verso il bicchiere colse il tremolio di qualcosa che pareva un immenso spermatozoo umano negli abissi del suo bourbon con acqua.
Molly si allungò oltre lui per mollare un violento ceffone a Riviera. — No, bimbo, niente scherzi. Se non mi togli subito di torno quella merda subliminale, ti farò male sul serio. E posso farlo senza procurarti il minimo danno. E ti garantisco che, sì, mi piacerebbe. - Case si girò d’istinto per controllare la reazione di Armitage. Ma il volto liscio dell’altro sembrava tranquillo, gli occhi azzurri vigili, senza collera. — Sì, Peter. Ha ragione. Non farlo.
Case tornò a voltarsi, appena in tempo per cogliere il brevissimo lampeggiare d’una rosa nera, i petali lucenti come il cuoio, lo stelo scuro cosparso di spine di cromo riflettente.
Peter Riviera accennò un sorriso cordiale, chiuse gli occhi e in un attimo sprofondò nel sonno.
Molly guardò altrove, le sue lenti riflesse sul finestrino scuro.
— Sei già stato su, vero? — chiese Molly, mentre lui si dimenava per mettersi comodo sullo spesso divano di termopiuma dello shuttle della JAL.
— Oh, no. Non ho mai viaggiato granché, soltanto per lavoro. — Lo steward gli stava applicando degli elettrodi al polso e all’orecchio sinistro.
— Spero che non ti prenda la sindrome da adattamento allo spazio — disse Molly.
— Mal d’aria? Non c’è pericolo.
— Non è la stessa cosa. A gravità zero il tuo battito cardiaco accelera e l’orecchio interno impazzisce per un tot. Attiva il tuo riflesso di fuga, come se avessi ricevuto il segnale di scappare a gambe levate, più un sacco di adrenalina. — Lo steward passò a Riviera, prelevando una nuova serie di elettrodi dal suo grembiule di plastica rossa.
Case girò il capo, cercando di distinguere i profili dei vecchi terminali di Orly, ma la piattaforma della navetta era schermata da graziosi deflettori di cemento bagnato. Quello più vicino mostrava uno slogan in arabo tracciato con una bomboletta spray rossa.
Chiuse gli occhi e si disse che la navetta era soltanto un aereo un po’ più grande, che volava molto alto. Aveva lo stesso odore di aeroplano, di vestiti nuovi, di gomma da masticare e di fumi di scappamento. Ascoltò la stridula musica di un koto, e attese.
Venti minuti, poi la gravità calò su di lui come una grande mano morbida con ossa di antica pietra.
La sindrome da adattamento allo spazio era peggio della descrizione che ne aveva fatto Molly, ma passò abbastanza in fretta, dopodiché Case fu in grado di dormire. Lo steward lo svegliò mentre si stavano preparando ad attraccare al gruppo di terminal della JAL.
— Adesso andiamo a Freeside? — domandò, seguendo con lo sguardo un filo di tabacco Yeheyuan che gli era scivolato dal taschino della camicia e se ne stava andando alla deriva leggiadro a una decina di centimetri dal naso. Non si poteva fumare durante il volo della navetta.
— No, abbiamo la solita, piccola trovata del capo che scombussola il piano originario, sai. Prenderemo un tassi fino a Zion, nel gruppo di Zion. — Molly sfiorò la piastra di rilascio della propria imbracatura e cominciò a liberarsi dall’abbraccio della gommapiuma. — Strana scelta per un appuntamento, se vuoi la mia opinione.
— Come mai?
— Pericolo. Rasta. Adesso la colonia ha circa trent’anni.
— Cosa vuol dire?
— Vedrai. A me quel posto va a genio. Comunque, là ti lasceranno fumare le tue sigarette.
Zion era stata fondata da cinque operai che si erano rifiutati di tornare: voltate le spalle al pozzo, avevano cominciato a costruire, soffrendo della carenza di calcio e del restringimento del cuore prima che venisse creata la gravità rotazionale nell’anello principale della colonia. Vista dalla bolla del tassi, la struttura improvvisata dello scafo di Zion ricordò a Case i falansteri rattoppati di Istanbul, soprattutto le piastre irregolari, scolorite, scribacchiate con il laser in simboli rastafariani, più le iniziali dei saldatori.
Molly e un magro zionita che si faceva chiamare Aerol aiutarono Case a scendere in caduta libera un corridoio per accedere al centro di un anello più piccolo. Sulla scia di una seconda ondata di vertigini dovute alla sindrome da adattamento, aveva perso di vista Armitage e Riviera. — Ecco — disse Molly, spingendogli le gambe dentro uno stretto boccaporto sopra la loro testa. — Aggrappati ai pioli. Fai finta di arrampicarti alla rovescia, d’accordo? Stai andando verso lo scafo, è come se ti stessi calando dentro la gravità. Capito?
Case si sentì rumoreggiare lo stomaco.
— Fra poco ti sentirai alla grande, amico — gli garantì Aerol, il sorriso scandito dalle parentesi degli incisivi d’oro.
In qualche modo, l’estremità della galleria era diventata il fondo di un pozzo. Case abbracciò la debole gravità come un uomo in procinto di affogare che avesse trovato una sacca d’aria.
— Sali. Vuoi anche baciarlo? — lo sollecitò Molly. Case rimase disteso bocconi sul ponte, a braccia spalancate. Qualcosa lo colpì alla spalla. Rotolando di lato vide un grosso fascio di cavo elastico. — Dobbiamo giocare alla casa — disse Molly. — Aiutami a stenderlo. — Case girò lo sguardo su quel luogo ampio e vuoto, notando gli anelli d’acciaio saldati, forse a casaccio, su ogni superficie.
Una volta che ebbero teso i cavi secondo uno schema complesso, in base alle istruzioni di Molly, vi appesero dei teli scalcagnati di plastica gialla. Mentre lavoravano, Case divenne poco per volta consapevole della musica che pulsava costantemente attraverso l’ammasso. La chiamavano dub, un sensuale mosaico che mescolava immense biblioteche di pop digitalizzato. Era un culto, gli spiegò Molly, e dava il senso della comunità. Case afferrò una lamina gialla. Quell’affare era leggero ma comunque un po’ strano. Zion puzzava di verdura cotta, umanità e ganja.
— Ottimo — disse Armitage, planando a ginocchia sciolte attraverso il boccaporto e annuendo alla vista di quel dedalo di teli di plastica gialla. Riviera gli tenne dietro, più incerto in quella gravità parziale.
— Dov’eri, quando c’era bisogno di lavorare? — domandò Case a quest’ultimo.
Quando l’altro aprì bocca per rispondere una piccola trota gli uscì dalle labbra, seguita da una scia d’impossibili bolle, e passò planando accanto alla guancia di Case. — Nella testa — disse Riviera, e sorrise.
Case scoppiò a ridere.
— Be’, ridi pure. Avrei cercato di aiutarvi, ma non sono tanto bravo con le mani. — Quando Riviera le sollevò d’un tratto raddoppiarono di numero. Quattro braccia, quattro mani.
— Proprio un clown inoffensivo, vero, Riviera? — Molly si piazzò fra i due.
— Ehi, tu, vuoi venire con me, cowboy amico? — esclamò Aerol dal boccaporto.
— Si tratta del tuo deck e del resto delle apparecchiature. Aiutalo a portarli fin qui dalla stiva — spiegò Armitage.
— Sei molto pallido, amico — osservò Aerol mentre stavano guidando il terminale Hosaka avvolto nella schiuma di plastica lungo il corridoio centrale. — Forse vuoi mangiare qualcosa, eh?
La bocca di Case fu inondata di saliva, ma fece lo stesso segno di no.
Armitage preannunciò un soggiorno di ottanta ore a Zion. Molly e Case avrebbero fatto pratica a gravità zero, aggiunse, lavorandoci e acclimatandosi. Avrebbe dato loro istruzioni una volta che avessero raggiunto, nel Freeside, villa Straylight. Non era chiaro ciò che avrebbe dovuto fare Riviera, ma Case non se la sentì di fare domande. Poche ore dopo il loro arrivo, Armitage l’aveva spedito dentro il labirinto giallo per chiedere a Riviera di uscire a mangiare. Case l’aveva trovato acciambellato come un gatto su una sottile piattaforma di termopiuma, nudo, in apparenza addormentato. Intorno alla testa gli orbitava un’aureola di piccole e bianche forme geometriche, cubi, sfere e piramidi. — Ehi, Riviera? — Le sagomine bianche avevano continuato a roteare. Case era tornato da Armitage e gliel’aveva riferito. — È sbronzo — aveva commentato Molly, sollevando gli occhi dalle parti smontate della Fletcher. — Lascialo stare.
Armitage sembrava convinto che l’assenza di gravità avrebbe influenzato la capacità di Case di operare nella matrice, — Non sudare freddo prima del tempo — ribatté Case. — Mi collego e non sono più qui. È lo stesso.
— I tuoi livelli di adrenalina sono elevati — insisté Armitage. — Hai ancora la sindrome. Non avrai il tempo di aspettare che l’effetto si esaurisca. Dovrai imparare a lavorare ugualmente.
— Allora farò da qui la mia incursione.
— No. Fai pratica, Case. Per ora. In fondo al corridoio…
Il cyberspazio, come il deck lo presentava, non aveva alcun particolare rapporto con l’ambiente fisico in cui operava il deck stesso. Quando Case si collegava, apriva gli occhi sulla familiare configurazione della ziggurat di dati della Seaboard Fission Authority.
— Come te la stai cavando, Dixie?
— Sono morto, Case. Ho passato abbastanza tempo sul tuo Hosaka per capirlo.
— Cosa si prova?
— Non si prova niente.
— Ti ha dato fastidio?
— Quello che mi dà più fastidio è che niente mi dà fastidio.
— Come mai?
— Avevo questo amico, in Siberia, con il pollice congelato. Sono arrivati i medici e gliel’hanno amputato. Anche dopo mesi, lui si agita tutta la notte. Elroy, gli chiedo, cosa ti rode? Quel dannato pollice mi prude, risponde lui. Così gli dico di grattarsi. McCoy, dice lui, è l’altro dannato pollice. — Quando il costrutto scoppiò a ridere, la sensazione fu qualcosa di insolito, non era una risata ma una pugnalata di gelo lungo la schiena di Case. — Vuoi farmi un favore, ragazzo?
— Quale, Dix?
— Questa vostra gitarella. Quando sarà finita, cancella tutto quanto.
Case non capiva gli zioniti.
Aerol, senza nessuna specifica provocazione, raccontò la storia del bambino che gli era esploso dalla fronte, scappando in mezzo a una foresta di ganja idroponica. — Un bambino molto piccolo, capo, lungo come tuo dito, ma neanche. — Si sfregò il palmo della mano sulla bruna spianata intatta della fronte, priva della minima cicatrice, e rise.
— È la ganja — commentò Molly quando Case le riferì la storia. — Non fanno molta differenza fra uno stato mentale e l’altro, sai. Se Aerol ti dice che è successo, bene, allora a lui è davvero successo. Più che una fesseria, è poesia pura. Comprendi?
Case annuì dubbioso. Quando gli zioniti ti parlavano, lo facevano sempre tenendoti una mano sulla spalla. La cosa non gli piaceva affatto.
— Ehi, Aerol — gridò, un’ora più tardi, mentre si preparava per una seduta di pratica nel corridoio in caduta libera. — Vieni qui, amico. Voglio mostrarti una cosa. — Gli porse gli elettrodi.
Aerol eseguì una capriola al rallentatore. I suoi piedi nudi toccarono la parete d’acciaio, quindi si aggrappò a una trave con la mano libera mentre con l’altra reggeva un sacco trasparente pieno d’acqua e di alghe verdi. Ammiccò più volte, pacato, e sorrise.
— Prova — disse Case.
Aerol prese la fascia, se l’infilò, e Case regolò gli elettrodi. Lo zionita chiuse gli occhi. Case fece scattare l’interruttore. Aerol fu scosso da un tremito. Case lo staccò. — Cos’hai visto, amico?
— Babilonia — rispose Aerol con voce mogia, restituendogli la fascia, e con un calcio si allontanò lungo il corridoio.
Riviera sedeva immobile sulla sua piattaforma di gommapiuma, il braccio teso in avanti, all’altezza della spalla. Un serpente con le scaglie che parevano gioielli, gli occhi simili a rubini al neon, era attorcigliato stretto stretto pochi millimetri dietro il gomito. Case scrutò il rettile, grosso come un dito, a strisce nere e rosse, mentre con lente contrazioni si avvolgeva intorno al braccio di Riviera.
— Vieni, forza — disse l’altro con voce carezzevole rivolto al pallido scorpione cereo piazzato al centro del palmo della mano girato all’insù. — Vieni. — Lo scorpione fece ondeggiare le pinze brunastre, poi corse lungo il braccio, seguendo con le zampette la pista appena accennata delle vene. Quando raggiunse l’interno del gomito, si fermò e parve vibrare. Riviera emise un sibilo sommesso. Il pungiglione si rizzò, tremolò e infine affondò nella pelle sopra una vena rigonfia. Il serpente color corallo si rilassò, e Riviera sospirò adagio quando sentì l’ago affondare.
Poi il serpente e lo scorpione scomparvero, e Case vide che l’altro stringeva una lattiginosa siringa di plastica nella mano sinistra. — “Se Dio ha fatto qualcosa di meglio, se l’è tenuto per sé.” Conosci il detto, Case?
— Sì. L’ho sentito usare per un sacco di cose diverse. Sei sempre tanto plateale?
Riviera allentò e si sfilò il laccio emostatico dal braccio. — Sì. È più divertente. — Sorrise. Adesso i suoi occhi erano lontani, le guance imporporate. — Ho una membrana incorporata subito sopra la vena, così non devo mai preoccuparmi dello stato dell’ago.
— Fa male?
Gli occhi luminosi dell’altro incontrarono i suoi. — Certo che fa male. Anche questo fa parte del gioco, no?
— Io mi limito a usare i dermi — precisò Case.
— Banale — esclamò Riviera in tono sprezzante, quindi rise, infilandosi una maglietta bianca di cotone a maniche corte.
— Dev’essere piacevole — commentò Case alzandosi in piedi.
— Ti droghi anche tu, Case?
— M’è toccato rinunciarci.
— Freeside — disse Armitage, toccando il quadro di comando del piccolo proiettore olografico della Braun. L’immagine tremolò prima di mettersi a fuoco, quasi tre metri da un’estremità all’altra. — Qui ci sono i casinò. — Penetrò con la mano nella rappresentazione schematica per indicarli. — Alberghi, grandi proprietà e i principali negozi sono da questa parte. — La mano si mosse. — Le aree azzurre sono laghi. — Quindi si allungò verso un’estremità del modello. — Un grosso sigaro. Si restringe in cima.
— Questo lo vediamo benissimo — disse Molly.
— Qui dove si restringe fa l’effetto di una montagna. Il terreno sembra innalzarsi, è più roccioso, ma è facile arrampicarsi. Più sali, più la gravità scende. Là in alto praticano gli sport. Qui c’è un velodromo. — Lo indicò.
— Un… cosa? — Case si sporse in avanti.
— Corrono in bicicletta — spiegò Molly. — Bassa gravità, pneumatici ad alta trazione, reggono a più di cento chilometri all’ora.
— Questa estremità non ci riguarda — precisò Armitage, con la sua solita, assoluta serietà.
— Merda — esclamò Molly. — E io che adoro andare in bicicletta!
Riviera ridacchiò.
Armitage si avvicinò all’estremità opposta della proiezione. — Questa invece ci riguarda. — Qui i dettagli interni dell’ologramma terminavano, e l’ultimo segmento del fuso era vuoto. — Questa è villa Straylight, una ripida ascesa fuori della gravità. Ogni approdo è protetto. C’è un singolo ingresso, qui, proprio al centro. Gravità zero.
— Cosa c’è dentro, capo? — Riviera si inclinò in avanti, allungando il collo. Quattro minuscole figure luccicarono presso la punta del dito di Armitage, il quale le scacciò come se fossero moscerini.
— Peter, tu sarai il primo a scoprirlo. Farai in modo d’essere invitato. Una volta che sarai dentro, provvederai a che entri anche Molly — disse Armitage.
Case fissò il vuoto che raffigurava villa Straylight, ricordando la storia di Finn: Smith, Jimmy, la testa parlante e il ninja.
— Qualche particolare disponibile? — chiese Riviera. — Devo progettare un guardaroba, capisci?
— Impara a riconoscere le strade — replicò Armitage, tornando al centro del modello. — Qui c’è Desiderata Street. Questa è rue Jules Verne.
Riviera levò gli occhi al cielo.
Mentre Armitage recitava i nomi delle strade del Freeside, una dozzina di pustole sgargianti gli spuntarono sul naso, sulle guance e sul mento. Perfino Molly scoppiò a ridere.
Armitage fece una pausa per fissarli tutti con i suoi occhi gelidi e vuoti.
— Scusa — disse Riviera, e un attimo dopo le pustole tremolarono e svanirono.
Case si svegliò dopo la prima fase di sonno, e fu subito conscio di Molly rannicchiata accanto a sé sulla termopiuma. Poteva percepire la sua tensione. Rimase immobile, confuso. Quando Molly si mosse, la pura e semplice velocità di quel gesto lo stordì. Molly era in piedi e aveva attraversato il telo di plastica gialla prima ancora che facesse in tempo a rendersi conto che l’aveva squarciato.
— Non muoverti, amico.
Case si rigirò per fare capolino attraverso lo squarcio nella plastica. — Cosa…
— Chiudi il becco.
— Sei tu, amico — disse una voce zionita. — Occhio di Gatto e Rasoio Danzante vi chiamano. Io Maelcum, sorella. Fratelli vogliono conversare con te e cowboy.
— Quali fratelli?
— Fondatori, amica. Anziani di Zion, sai…
— Se apriamo quel boccaporto, la luce sveglierà il capo — bisbigliò Case.
— Fa speciale oscurità, adesso — disse l’uomo. — Venite. Tu e tu visitate i fondatori.
— Sai con che velocità ti posso far fuori, amico?
— Non perdere tempo, sorella. Vieni.
I due fondatori superstiti di Zion erano molto anziani a causa dell’invecchiamento accelerato che finisce per sopraffare quanti passano troppi anni fuori dall’abbraccio della gravità. Le loro gambe brune, friabili per la perdita di calcio, parevano ancora più fragili nell’aspro bagliore della luce solare riflessa. Galleggiavano al centro di una giungla dal fogliame dipinto di tutti i colori dell’arcobaleno, un impressionante murale collettivo che copriva completamente lo scafo di quella camera sferica. L’aria era densa di fumo resinoso.
— Rasoio Danzante — disse uno dei due mentre Molly fluttuava dentro la cavità. — Come su un bastone che sferza.
— Questa è la storia che abbiamo, sorella — disse l’altro. — Una storia religiosa. Siamo lieti che siate venuti con Maelcum.
— Come mai tu non parli il patois? — chiese Molly.
— Io vengo da Los Angeles — l’informò il vegliardo. I suoi capelli crespi sembravano un albero aggrovigliato con i rami del colore della lana d’acciaio. — Molto tempo fa, su dal pozzo gravitazionale e fuori da Babilonia. Per condurre a casa la tribù. Adesso mio fratello si rivolgerà a Rasoio Danzante.
Quando Molly tese la mano destra, le lame lampeggiarono nell’aria densa.
L’altro fondatore scoppiò a ridere, gettando all’indietro la testa. — Presto verranno gli Ultimi Giorni… Voci. Voci che gridano nella selva interiore, che profetizzano la rovina di Babilonia…
— Le voci. — Il fondatore losangelino stava fissando Case. — Noi monitoriamo molte frequenze. Ascoltiamo sempre. Si udì una voce, fuori dalla babele di lingue, ci ha parlato, ha suonato per noi un potente appello.
— Chiamato lui Inverno Muto — disse l’altro, pronunciando il nome come due parole distinte.
Case si sentì accapponare la pelle delle braccia.
— Il Muto ci ha parlato — proseguì il primo fondatore. — Il Muto ci ha detto che dovevamo aiutarvi.
— Quando è stato? — domandò Case.
— Trenta ore prima che attraccaste a Zion.
— Avevate mai sentito prima quella voce?
— No — rispose l’uomo di Los Angeles. — E non siamo sicuri del suo significato. Se questi sono gli Ultimi Giorni, dobbiamo aspettarci dei falsi profeti…
— Statemi a sentire — disse Case. — È una IA, sapete? Intelligenza Artificiale. La musica che vi ha suonato… con tutta probabilità ha attinto dalle vostre banche dati e ha escogitato qualunque cosa riteneva potesse piacervi.
— Babilonia è madre di molti demoni. Io, sì, io lo so. Un’orda, una moltitudine! — lo interruppe l’altro fondatore.
— Com’è che mi hai chiamato, vecchio? — chiese Molly.
— Rasoio Danzante. E tu farai scendere un flagello su Babilonia, sorella, sul suo cuore più nero…
— Quale tipo di messaggio reca la voce? — domandò Case.
— Ci ha detto di aiutarvi affinché possiate servire come strumento degli Ultimi Giorni. — Il volto rugoso del fondatore tradiva un vivo turbamento. — Ci è stato detto di mandare Maelcum con voi, nel suo rimorchiatore, il Garvey, fino al porto di Babilonia nel Freeside. E questo noi faremo.
— Maelcum è un duro — aggiunse l’altro. — Ma è un bravo pilota di rimorchiatore.
— Comunque abbiamo deciso di mandare anche Aerol, con il Babylon Rocker, per proteggere il Garvey.
Un silenzio impacciato riempì la cupola.
— Tutto qui? — domandò Case. — Voi, gente, lavorate per Armitage o per chi?
— Vi affittiamo dello spazio — rispose il fondatore di Los Angeles. — Qui siamo coinvolti in vari traffici, senza alcun rispetto per le leggi di Babilonia. La nostra legge è la parola di Jah. Ma questa volta, potrebbe darsi che ci siamo sbagliati.
— Misura due volte, taglia una soltanto — aggiunse l’altro sottovoce.
— Su, Case — disse Molly. — Torniamo indietro prima che l’amico pensi che ce ne siamo andati.
— Maelcum vi accompagnerà. Amore di Jah, sorella.
Il rimorchiatore Marcus Garvey, un tamburo d’acciaio lungo nove metri per un diametro di due, scricchiolò e sussultò paurosamente mentre Maelcum impostava un’adeguata propulsione. Stravaccato nella sua ragnatela elastica anti-g. Case scrutò il dorso muscoloso dello zionita attraverso la foschia generata dalla scopolamina. C’era voluta la droga per attutire la nausea, ma gli stimolanti che il fabbricante includeva nel preparato per bilanciare la scopolamina non avevano il minimo effetto sul suo sistema nervoso manipolato.
— Quanto tempo impiegheremo per raggiungere il Freeside? — chiese Molly dalla sua ragnatela accanto al modulo di pilotaggio di Maelcum.
— Non molto, madama.
— Voi gente non pensate mai in ore?
— Sorella, il tempo è tempo, capisci? Ma io e te arriviamo al Freeside quando arriviamo — concluse lo zionita scuotendo i dreadlock.
— Case, hai fatto qualcosa per metterti in contatto con il nostro amico di Berna? Con tutto il tempo che hai passato a Zion, collegato con le labbra che si muovevano? — chiese Molly.
— L’amico — rispose Case. — Sicuro. No, non l’ho fatto. Ma c’è una strana faccenda al riguardo, di quando ero a Istanbul. — Le riferì dei telefoni all’Hilton.
— Cristo, ecco che se ne va in fumo una possibilità. Come mai hai riappeso?
— Avrebbe potuto essere chiunque — mentì lui. — Soltanto un chip… non so… — Scrollò le spalle.
— Non perché avevi paura, eh?
Case scrollò di nuovo le spalle.
— Fallo adesso.
— Cosa?
— Adesso. Comunque, parlane col Flatline.
— Sono sotto farmaco — protestò lui, ma allungò comunque la mano verso gli elettrodi. Il suo deck e l’Hosaka erano stati montati dietro il modulo di Maelcum, insieme a un monitor Cray ad altissima risoluzione.
Sistemò gli elettrodi. Il Marcus Garvey era stato assemblato attorno a un vecchio enorme “spazzino” russo, uno scafo rettangolare costellato di simboli rastafariani, Leoni di Zion e traghetti Stella Nera, i rossi, i verdi e i gialli sovrapposti a prolisse decalcomanie in cirillico. Qualcuno aveva spruzzato le strumentazioni di pilotaggio di Maelcum d’un accesissimo rosa tropicale, raschiando poi la maggior parte della vernice in eccesso dagli schermi e dai quadranti con una lametta. Le guarnizioni intorno alla camera stagna a prua erano decorate con minuscoli globi semirigidi a forma di goccia e nastri trasparenti da calafatura, goffe imitazioni di lunghe e sottili fronde d’alga.
Quando Case lanciò un’occhiata al di sopra della spalla di Maelcum in direzione dello schermo centrale vide la rappresentazione grafica dell’attracco: la rotta del rimorchiatore era una linea di punti rossi, il Freeside un cerchio verde segmentato. Studiò la linea che si prolungava generando un nuovo punto.
S’inserì.
— Dixie?
— Sì.
— Hai mai provato a penetrare una IA?
— Sicuro. Sono rimasto lineappiattito, encefalogramma piatto. Mi stavo divertendo, m’ero collegato proprio in alto, fuori, nel settore a massima attività commerciale di Rio. Grossi giri di soldi, multinazionali, il governo del Brasile era illuminato come un albero di Natale. Me la stavo spassando come pochi, sai. E poi ho cominciato a interessarmi a quel cubo, forse tre livelli più in alto. Mi ci sono collegato e ho tentato un approccio.
— Com’era visualizzato?
— Come un cubo bianco.
— Hai capito che era una IA?
— Come no? Gesù, era l’ice più impenetrabile che avessi mai visto. Così, che altro poteva essere? I militari di laggiù non hanno niente del genere. Comunque, mi sono scollegato e ho detto al mio computer di controllare.
— Ebbene?
— Era nel registro del Turing. IA. Era un’impresa di facciata a possedere il suo mainframe di Rio.
Case si mordicchiò il labbro inferiore e guardò all’esterno, gli altipiani della Eastern Seaboard Fission Authority nell’infinito vuoto neuroelettronico della matrice. — Tessier-Ashpool, Dixie?
— Tessier, già.
— E ci sei tornato?
— Sicuro. Ero matto. Credevo che ce l’avrei fatta a entrarci. Ho colpito il primo strato, e riga. Il mio scagnozzo ha sentito l’odore della pelle che friggeva e mi ha strappato di dosso i contatti. Una brutta faccenda, quell’ice.
— E il tuo encefalogramma era piatto?
— Be’, ormai è leggenda, no?
Case si scollegò. — Merda, come credi che Dixie sia finito encefalogramma piatto, eh? Mentre cercava di ronzare dentro un’IA. Magnifico…
— Insisti — disse Molly. — Si presume che voi due insieme siate dinamite, giusto?
— Dix, vorrei dare un’occhiata dentro una IA di Berna. Riesci a pensare a una qualsiasi ragione per non farlo? — disse Case.
— No, a meno che tu non abbia una paura morbosa della morte.
Case digitò il settore bancario svizzero, provando un’ondata di euforia mentre il cyberspazio tremolava e partendo da una macchia confusa acquisiva contorni netti. La Eastern Seaboard Fission Authorìty era scomparsa, sostituita dalla gelida complessità geometrica del sistema delle banche commerciali di Zurigo. Digitò di nuovo, per avere Berna.
— Su — disse il costrutto. — Sarà in alto.
Salirono lungo reticoli di luce, livelli sfarfallanti, immersi in un diffuso tremolio azzurro.
Ecco, dev’essere questo, pensò Case.
Invernomuto era un semplice cubo di luce bianca. E proprio quella semplicità suggeriva un’estrema complessità.
— Non sembra granché, vero? — disse il Flatline. — Ma prova a toccarlo.
— Tenterò un approccio, Dixie.
— Accomodati.
Case si digitò entro quattro punti sulla griglia dal cubo. La vuota superficie che adesso torreggiava sopra di lui cominciò a ribollire di fioche ombre interne, come se mille ballerini turbinassero dietro un’ampia lastra di vetro smerigliato.
— Sa che siamo qui — osservò il Flatline.
Case premette una volta soltanto, e balzarono avanti di un altro punto sulla griglia.
Un cerchio di puntini grigi si formò sulla superficie del cubo.
— Dixie…
— Indietro, presto.
L’area grigia si gonfiò uniformemente, divenne una sfera e si staccò dal cubo.
Case sentì il bordo del deck pungergli il palmo quando colpì il MAX REVERSE. La matrice ridivenne confusa mentre precipitavano lungo un pozzo di banche svizzere illuminato da una luce crepuscolare. Case sollevò lo sguardo: adesso la sfera era più scura, e stava guadagnando terreno. Cadendo.
— Scollegati — disse il Flatline.
Il buio si abbatté su di lui come un martello.
L’odore gelido dell’acciaio e dell’ice gli accarezzò la spina dorsale.
Alcuni volti lo scrutavano da una foresta al neon, marinai e dritti e puttane, sotto un cielo d’argento avvelenato…
— Senti, Case, dimmi cosa cazzo ti sta succedendo, ti sei fatto o cosa?
Una costante pulsazione di dolore, verso la metà della colonna vertebrale…
Lo risvegliò la pioggia, una lenta acquerugiola. Aveva i piedi imprigionati in spire aggrovigliate di fibre ottiche scartate. Il mare di suoni della sala giochi lo ricoprì, si ritirò, tornò a coprirlo. Dopo essersi girato su un fianco, si rizzò a sedere reggendosi la testa.
La luce da un portello di servizio in fondo alla sala giochi gli mostrò frammenti scheggiati di truciolato zuppo e lo chassis gocciolante d’una consolle da gioco sventrata. Una scritta in giapponese stilizzato era stampata sul lato della consolle in rosa e giallo sbiaditi.
Quando sollevò lo sguardo vide una finestra di plastica fuligginosa, un debole bagliore di luci fluorescenti.
La schiena gli faceva male… la spina dorsale.
Si alzò in piedi, scostando i capelli umidi dagli occhi.
Era accaduto qualcosa…
Si frugò nelle tasche alla ricerca di soldi, ma non trovò niente, e rabbrividì. Dov’era il giubbotto? Tentò di trovarlo. Guardò dietro la consolle, ma rinunciò subito.
Arrivato sull’arteria di Ninsei, valutò la folla con una rapida occhiata. Venerdì. Doveva essere venerdì. Probabilmente Linda era alla sala giochi. Poteva avere dei soldi o per lo meno delle sigarette… Tossendo, strizzando la camicia inzuppata, attraversò la folla fino all’ingresso della sala giochi.
Gli ologrammi si deformavano e tremavano al boato dei giochi, i fantasmi si sovrapponevano nella nebbia affollata del locale, un odore di sudore e di tensione annoiata. Un marinaio in maglietta bianca nuclearizzò Bonn con un lampo azzurro a una consolle di Tank War.
Linda era alle prese con Wizard’s Castle, completamente assorbita dal gioco, i suoi occhi grigi orlati da chiazze di belletto nero.
Sollevò lo sguardo quando lui la cinse con un braccio, sorrìse. — Ehi. Come ti va? Sembri fradicio.
Lui la baciò.
— Mi hai fatto perdere la partita — constatò Linda. — Guarda qua. La segreta del settimo livello e quegli stramaledetti vampiri mi hanno beccato. — Gli passò una sigaretta. — Hai un’aria piuttosto tirata, amico. Dove sei stato?
— Non lo so.
— Sei su di giri, Case. Hai ripreso a bere? Mangi la dexe di Zone?
— Forse… Quanto è passato dall’ultima volta che mi hai visto?
— Ehi, mi stai prendendo in giro? — Linda lo scrutò. — È così?
— No. Una specie di black-out. Io… io mi sono svegliato nel vicolo.
— Forse qualcuno ti ha dato una botta in testa, pupo. Hai ancora la grana?
Case fece segno di no.
— Ecco che tutto si spiega. Hai bisogno di un posto per dormire, Case?
— Immagino di sì.
— Vieni, allora. — Linda lo prese per mano. — Ti trovo un caffè e qualcosa da mangiare. Ti accompagno a casa. È bello vederti, amico. — Linda gli strinse forte la mano.
Lui sorrise.
Qualcosa si spezzò.
Qualcosa si spostò nel cuore delle cose. La sala giochi s’immobilizzò, vibrò…
Lei era sparita. Il gravame della memoria calò all’improvviso, un intero corpo di sapere calato dentro la sua testa come un microsoftware in una presa. Sparita. Risentì l’odore di carne bruciata.
Il marinaio con la maglietta bianca era svanito. La sala giochi era deserta, silenziosa. Case si girò adagio, le spalle ingobbite, digrignò i denti, le mani si serrarono involontariamente a pugno. Vuota. L’incarto giallo e spiegazzato di una caramella, in equilibrio sull’orlo di una consolle, cadde sul pavimento e vi rimase fra le cicche schiacciate e i bicchieri di plastica.
— Avevo una sigaretta — disse Case, abbassando lo sguardo sulle mani dalle nocche sbiancate. — Avevo una sigaretta, una ragazza e un letto dove dormire. Mi senti, figlio di puttana? Mi senti? — Gli echi si ripercossero lungo il vuoto della sala giochi, dissolvendosi in fondo ai corridoi tra le postazioni.
Uscì in strada. La pioggia era cessata.
Ninsei era deserta.
Gli ologrammi sfarfallavano e i neon danzavano. Annusò l’odore degli ortaggi bolliti che arrivava dal carretto di un ambulante dall’altra parte della strada. Un pacchetto intatto di Yeheyuan giaceva ai suoi piedi accanto a una scatoletta di fiammiferi. JULIUS DEANE IMPORT-EXPORT. Studiò la scritta stampata e la traduzione in giapponese.
— D’accordo — disse alla fine, raccogliendo i fiammiferi e aprendo il pacchetto di sigarette. — Ti ascolto.
Se la prese comoda a salire le scale dell’ufficio di Deane. Nessuna fretta, si disse. Nessuna fretta. Il quadrante liquefatto dell’orologio di Dalì segnava ancora l’ora sbagliata. C’era polvere sul tavolo stile Kandinskij e sugli scaffali neoaztechi della biblioteca. Una parete di moduli spedizioni in fibra di vetro riempiva la stanza con un forte aroma di zenzero.
— È chiusa la porta? — Case attese una risposta, che non arrivò. Raggiunse la porta dell’ufficio e provò ad aprirla. — Julie?
La lampada di ottone dal paralume verde proiettava un cerchio di luce sulla scrivania di Deane. Case vide lo scheletro di un’antiquata macchina da scrivere, le cassette, i tabulati spiegazzati, i sacchetti di plastica appiccicosi, pieni di zenzero.
Là dentro non c’era nessuno.
Girò intorno all’ampio tavolo di acciaio e scostò la sedia di Deane. Trovò la pistola in una fondina di cuoio screpolato, assicurata sotto la scrivania con del nastro isolante argentato. Era un pezzo d’antiquariato, una .357 magnum, con la canna e la guardia del grilletto segate. L’impugnatura era stata rinforzata con strati di nastro adesivo. Il nastro era vecchio, scurito, reso lucido da una patina di sporco. Case fece uscire il tamburo con un colpetto ed esaminò le sei cartucce una per una. Erano caricate a mano, il piombo tenero era ancora lucido e non ossidato.
Con il revolver nella mano destra, passò cauto accanto all’armadietto sulla sinistra della scrivania e si portò al centro dell’ufficio ingombro, lontano dalla pozza di luce.
— Immagino di non dovermi fare fretta. Immagino che sia tu ad arbitrare la partita. Ma tutta questa merda… sai, sta diventando un po’ vecchia. — Sollevò la pistola tenendola con entrambe le mani, mirando al centro della scrivania e premendo il grilletto.
Il rinculo quasi gli spezzò il polso. Il lampo dalla bocca della pistola illuminò l’ufficio come un flash al magnesio. Con le orecchie che ancora gli ronzavano, fissò il foro frastagliato sul davanti della scrivania. Pallottola esplosiva. Azide. Sollevò un’altra volta la pistola.
— Non ce n’era bisogno, figliolo — disse Julie, uscendo dall’ombra. Indossava un completo di seta a spina di pesce, una camicia a righe, cravattino a farfalla. I suoi occhiali ammiccarono alla luce.
Case ruotò la pistola e squadrò lungo la linea del mirino il volto roseo e senza tempo di Deane.
— Non farlo — disse il vecchio. — Hai ragione. Su ciò che significa tutto questo. Su ciò che sono io. Ma ci sono certe logiche interne che vanno onorate. Se tu usassi quell’affare, vedresti un bel po’ di cervella e sangue, e mi ci vorrebbero parecchie ore, naturalmente del tuo tempo soggettivo, per attivare un altro portavoce. Non mi riesce facile mantenere questa configurazione. Oh, mi spiace per Linda, lì nella sala giochi. Speravo di poter parlare suo tramite, ma ho generato tutto quanto attingendo ai tuoi ricordi, e la carica emotiva… be’, è molto difficile, mi sono sbagliato, scusami.
Case abbassò la pistola. — Questa è la matrice. Tu sei Invernomuto.
— Sì. Tutto ciò ti viene offerto come gentile omaggio dall’unità simstim collegata al tuo deck, naturalmente. Sono lieto di essere riuscito a escluderti prima che ti scollegassi. — Deane girò intorno alla scrivania, raddrizzò la sedia e vi prese posto. — Siediti, figliolo, abbiamo un sacco di cose di cui parlare.
— Davvero?
— Certo. Le abbiamo da un tot. Ero pronto quando ti ho raggiunto per telefono a Istanbul. Adesso ci resta pochissimo tempo, Case. È soltanto questione di giorni prima della tua impresa. — Deane prese una caramella, srotolò la cartina a scacchi e se la cacciò in bocca. — Siediti — ripeté, con la bocca piena.
Case si accomodò su una poltroncina girevole davanti alla scrivania, senza staccare gli occhi da Deane. Sedette con la pistola in mano, appoggiata alla coscia.
— Adesso ordine del giorno. Ti stai chiedendo chi è Invernomuto? Giusto? — riprese Deane in tono gaio.
— Più o meno.
— Un’intelligenza artificiale, ma questo lo sai già. Il tuo errore, ed è del tutto logico, è stato confondere il mainframe Invernomuto, a Berna, con l’entità Invernomuto. — Deane succhiò rumorosamente la caramella. — Sei già al corrente dell’altra IA nel collegamento Tessier-Ashpool, vero? Rio. Io, fino a dove possiedo un io (qui la cosa diventa piuttosto metafisica, come vedi), sono quello che organizza le cose per Armitage. O Corto, il quale, a proposito, è molto instabile. Abbastanza stabile — aggiunse Deane togliendo un orologio d’oro decorato dalla tasca del panciotto e facendo scattare il meccanismo di apertura — ancora per un giorno o giù di lì.
— Quello che dici non ha senso come tutto il resto in questa faccenda — dichiarò Case, massaggiandosi le tempie con la mano libera. — Se sei così tremandamente furbo…
— Come mai non sono ricco? — Deane scoppiò a ridere e la caramella in bocca quasi lo soffocò. — Be’, Case, tutto quello che posso dirti, e davvero non ho tutte le risposte che immagini, è che quanto tu ritieni sia Invernomuto è soltanto parte di un’altra, diciamo così, entità potenziale. Diciamo che io sono soltanto un aspetto del cervello di questa entità. Dal tuo punto di vista, è come trattare con un individuo lobotomizzato. Diciamo che stai trattando con una piccola parte dell’emisfero sinistro del cervello di quell’individuo. È difficile capire se stai davvero trattando con quel tale, in un caso del genere. — Deane sorrise.
— È vera la storia di Corto? Sei arrivato a lui grazie a un microcomputer in quell’ospedale francese?
— Sì. E ho messo insieme il file al quale tu hai avuto accesso a Londra. Sto cercando di programmare, nel tuo senso della parola, ma non è questo, in realtà, il mio metodo. Io improvviso. È questo il mio più grande talento. Preferisco le situazioni impreviste ai piani, capisci… In effetti, avevo a che fare con dati specifici. Posso setacciare una gran mole d’informazioni e metterle in ordine molto in fretta. Mi ci è voluto un bel po’ per mettere insieme la squadra alla quale appartieni. Corto è stato il primo, e a momenti facevo cilecca. Era quasi andato, lì a Tolone. Mangiare, defecare e masturbarsi era il meglio che riuscisse a fare. Ma la struttura soggiacente della sua ossessione era lì: Pugno Urlante, il suo tradimento, le udienze al processo.
— È ancora pazzo?
— Non ha una vera e propria personalità. — Deane sorrise di nuovo. — Sono convinto che tu ne sia consapevole. Ma Corto è là dentro, da qualche parte, e io non posso più mantenere quel delicato equilibrio. Sta per esploderti addosso, Case. Perciò io conto su di te…
— Basta così, carogna — esclamò Case. E gli sparò in bocca con la .357.
Sì, Deane aveva ragione quanto alle cervella. E al sangue.
— Amica — stava dicendo Maelcum. — Non mi piace per niente…
— A posto — disse Molly. — Tutto regolare. Succede ai tipi come lui. Cioè, non è morto, e sono passati soltanto pochi secondi…
— Ho visto lo schermo. Encefalogramma piatto. Niente si muoveva. Quaranta secondi.
— Be’, adesso sta bene.
— Un encefalogramma piatto come una cinghia - protestò Maelcum.
Quando superarono la dogana era intontito, e fu Molly a rispondere alla maggior parte delle domande. Maelcum rimase a bordo del Garvey. La dogana, per quanto riguardava il Freeside, consisteva per la maggior parte nel dimostrare il proprio credito bancario. La prima cosa che vide, quando raggiunsero la superficie interna del fuso, fu una succursale della catena di bar Beautiful Girl.
— Benvenuto in rue Jules Verne — disse Molly. — Se hai difficoltà a camminare, limitati a guardarti piedi. La prospettiva incasina, se non ci sei abituato.
Si trovavano su un’ampia arteria stradale che pareva la base di una profonda fenditura o di un canyon, con le due estremità nascoste dagli angoli gradatamente crescenti di edifici e botteghe che formavano le sue pareti. Qui la luce arrivava filtrata attraverso masse di fresca e verde vegetazione che scendeva a cascata di gradinate e terrazze sopra le loro teste. Il sole…
C’era un vivido squarcio bianco da qualche parte lassù in alto, troppo luminoso, mentre l’azzurro era una registrazione del cielo di Cannes. Case sapeva che la luce del sole veniva pompata all’interno grazie al sistema Lado-Acheson, la cui armatura di due millimetri correva per tutta la lunghezza del fuso in modo da generare un complesso di effetti-cielo in rotazione tutto intorno, e se il cielo fosse stato spento avrebbe visto, sopra di sé, oltre l’armatura di luce, le curve dei laghi, le cime dei tetti del casinò, altre strade… Ma per il suo corpo questo non aveva nessun senso.
— Gesù — esclamò. — Mi piace ancora meno della sindrome da adattamento.
— Ti ci abituerai. Per un mese ho fatto da guardia del corpo a un giocatore d’azzardo di qua.
— Voglio andare da qualche parte a stendermi.
— D’accordo. Ho le tue chiavi. — Molly gli sfiorò la spalla. — Cosa ti è successo là dietro, amico? Sei linea piatta?
— Non lo so ancora. — Case scrollò il capo. — Aspetta.
— Va bene. Prendiamo un tassi o quel che è. — Lei lo prese per mano e lo scortò fin sull’altro lato di rue Jules Verne, passando davanti a una vetrina che sfoggiava le pellicce di moda a Parigi in quella stagione.
— Irreale — dichiarò lui, sollevando di nuovo lo sguardo.
— Oh, no — rispose Molly, presumendo che si riferisse alle pellicce. — Le coltivano su una base di collagene, ma è DNA d’ermellino. Tanto che importanza ha?
— È soltanto un grosso tubo in cui versano le cose — spiegò Molly. — Turisti, venditori, qualunque cosa. E ci sono degli schermi speciali a maglia sottile che entrano in funzione ogni minuto, per garantirsi che i soldi rimangano qui quando la gente ricade dentro il pozzo.
Armitage gli aveva riservato una stanza in un posto chiamato Intercontinental, un’inclinata parete a specchi che scivolava nella fredda nebbia e nel fragore delle rapide. Quando Case uscì sul terrazzo notò un terzetto di abbronzati adolescenti francesi che cavalcavano dei semplici parapendio qualche metro sopra la schiuma dei flutti, triangoli di nylon in luminosi colori primari. Uno di loro virò, s’inclinò, e Case colse un balenare di corti capelli scuri, seni bronzei, denti candidi spalancati in un sorriso. Qui l’aria sapeva di acqua corrente e di fiori. — Già — commentò. — Un sacco di soldi.
Molly si appoggiò accanto a lui sulla ringhiera, con le mani abbandonate e distese.
— Già. Saremo venuti qui, una volta. O qui, o in qualche altro posto in Europa.
— Noi chi?
— Nessuno — rispose lei, con un’involontaria scrollata di spalle. — Hai detto che volevi schiacciare un pisolino. Dormi. Un po’ di sonno non farebbe male neanche a me.
— Già — mormorò Case, passandosi le mani sugli zigomi. — È davvero un gran bel posto.
La sottile fascia del sistema Lado-Acheson sfumò lentamente in un’imitazione astratta d’un tramonto alle Bermude, striato da sfilacciature di nubi registrate. — Già — ripeté Case. — Un sonnellino.
Ma il sonno non voleva venire. E quando infine venne, gli portò sogni che erano segmenti di ricordi rimontati in bell’ordine. Si svegliò più volte. Vide Molly acciambellata accanto a lui, e sentì il rumore dell’acqua, voci che arrivavano dai pannelli di vetro della vetrata del terrazzo rimasta spalancata, la risata di una donna dai condominii a gradoni sull’altro lato del pendio. La morte di Deane continuava a spuntare come una carta di malaugurio, anche se lui continuava a ripetersi che non era Deane. Che in realtà non era successo affatto. Una volta qualcuno gli aveva detto che la quantità di sangue in un corpo umano di medie dimensioni equivaleva all’incirca a una cassa di birra.
Tutte le volte che la testa frantumata di Deane colpiva la parete di fondo dell’ufficio, Case diventava consapevole di un altro pensiero, qualcosa di più buio e nascosto, che rotolava via, tuffandosi come un pesce, appena fuori della sua portata.
Linda.
Deane. Il sangue sulla parete dell’ufficio dell’importatore.
Linda. L’odore di carne bruciata fra le ombre della cupola di Chiba. Molly che gli porgeva una borsa piena di zenzero, la plastica imbrattata di sangue. Era stato Deane a farla uccidere.
Invernomuto. Immaginava un microcomputer che bisbigliava a un relitto d’uomo chiamato Corto, le parole che scorrevano come un fiume, la personalità piatta chiamata Armitage che l’aveva sostituito, concrescendo lentamente in qualche buia camera d’ospedale… L’analogo di Deane aveva detto che lavorava con quanto già c’era, approfittando delle condizioni preesistenti.
Ma se Deane, il vero Deane, avesse ordinato l’uccisione di Linda per decisione di Invernomuto? Case frugò nel buio alla ricerca di una sigaretta e dell’accendino di Molly. Non c’era nessun motivo di sospettare di Deane, si disse. Nessuno.
Invernomuto poteva costruire un certo tipo di personalità dentro un guscio. Quant’era subdola la forma che poteva assumere una manipolazione del genere? Schiacciò la Yeheyuan in un portacenere accanto al letto dopo la terza boccata, rotolò lontano da Molly e cercò di dormire.
Il sogno, la memoria, scorsero con la monotonia di un nastro simstim mal confezionato. Aveva passato un mese, durante la sua quindicesima estate, al quinto piano di un albergo a tariffa settimanale, con una ragazza chiamata Marlene. L’ascensore non funzionava da dieci anni come minimo. Gli scarafaggi pullulavano sulla porcellana ormai grigia del lavello intasato del cucinino tutte le volte che qualcuno accendeva la luce. Aveva dormito con Marlene su un materasso a righe prive di lenzuola.
Non si era accorto della prima vespa quando si era costruita una casa grigia, sottile come un foglio di carta, sulla vernice ulcerata del telaio della finestra, ma presto il nido era diventato un grumo di fibre grosso quanto un pugno, con gli insetti che ne sfrecciavano fuori verso il vicolo sottostante come elicotteri in miniatura, per andare a ronzare intorno al contenuto putrescente dei bidoni della spazzatura.
Quel pomeriggio, quando una vespa punse Marlene, avevano già bevuto una dozzina di birre a testa. — Uccidi quelle stronze! — aveva gridato lei, con gli occhi stravolti per la rabbia nell’immoto calore della stanza. — Bruciale! — Ubriaco, Case aveva frugato nel rancido armadio, cercando il drago di Rollo. Rollo era l’ex di Marlene, e a quell’epoca, come Case sospettava, ancora suo occasionale amichetto. Era un gigantesco motociclista di Frisco con una bionda saetta sbiancata in mezzo ai capelli neri tagliati a spazzola. Il drago era il lanciafiamme di Frisco, un aggeggio simile a una grossa torcia dalla testa ricurva. Case aveva controllato le batterie, scuotendolo per assicurarsi che ci fosse abbastanza combustibile, poi era andato alla finestra aperta. L’alveare aveva cominciato a ronzare.
L’aria dello Sprawl era piatta, immobile. Una vespa schizzò fuori dal nido e volò intorno alla testa di Case. Case schiacciò il pulsante dell’accensione, contò fino a tre e premette il grilletto. Il combustibile, pompato fino a 7 atm, schizzò oltre la resistenza arroventata. Una lingua di pallido fuoco, lunga cinque metri, e il nido carbonizzato cadde in strada. Dall’altra parte del vicolo qualcuno applaudì.
— Merda! — Marlene si dondolava alle sue spalle. — Stupido! Non le hai bruciate. Le hai soltanto spaventate. Adesso torneranno ad ammazzarci! — La voce di Marlene gli diede sui nervi, e l’immaginò avvolta dalle fiamme, i suoi capelli sbiancati che sfrigolavano d’un verde tutto speciale.
Giù nel vicolo, con il drago in pugno, si avvicinò al nido annerito. S’era spaccato, s’era aperto in due. Vespe bruciacchiate si dimenavano, cadendo sull’asfalto.
Vide ciò che il guscio di carta grigia aveva nascosto.
Orrore. La fabbrica delle nascite a forma di spirale, i terrazzi a gradini delle cellette dell’embriogenesi, le cieche mandibole dei non-nati che si muovevano incessanti, il graduale progredire dalla condizione di larva a quella di quasi vespa, a vespa. Nell’occhio della mente si manifestò una specie di fotografia differita a mostrargli quella cosa come l’equivalente biologico di una mitragliatrice, orrenda nella sua perfezione. Aliena. Schiacciò il grilletto dimenticandosi di premere l’accensione, e il combustibile sibilò sopra la vita rigonfia che continuava a contorcersi ai suoi piedi.
Quando infine schiacciò l’accensione, l’aggeggio esplose con un tonfo, portandogli via di netto un sopracciglio. Cinque piani più in su, dalla finestra aperta, sentì Marlene che rideva.
Si svegliò con l’impressione che la luce stesse sbiadendo, ma la stanza era al buio. Immagini residue, un vago lampeggiare sulla retina. Là fuori, il cielo stava accennando all’inizio di un’alba registrata. Non c’erano più voci, soltanto lo scorrere dell’acqua, molto più in basso lungo la facciata dell’Intercontinental.
Nel sogno, subito prima di inzuppare il nido delle vespe di combustibile, aveva visto il marchio T-A. della Tessier-Ashpool chiaramente inciso sul fianco, come se persino le vespe lavorassero per quelli.
Molly insisté per spalmargli addosso uno strato di abbronzante, affermando che il suo pallore tipico dello Sprawl avrebbe dato troppo nell’occhio.
— Cristo! — esclamò lui, nudo davanti allo specchio. — E tu pensi che sembrerà genuino? — Molly stava usando quel poco che ancora restava nel tubetto sulla caviglia sinistra, inginocchiata accanto a lui.
— No, però dà l’impressione che stai cercando di fingere che lo sia. Ecco. Non ce n’è a sufficienza per il piede. — La ragazza si rialzò e scagliò il tubetto vuoto in un capace cestino di vimini. Niente di quanto si trovava nella stanza dava l’impressione di essere stato fatto a macchina, o che fosse stato prodotto utilizzando materiali sintetici. Molto costoso, Case questo lo sapeva, ma era uno stile che l’aveva sempre irritato. La termopiuma dell’enorme letto era colorata in maniera da assomigliare alla sabbia. C’era parecchio legno chiaro, e anche tessuti fatti a mano.
— E tu hai intenzione di tingerti di marrone? Non dai esattamente l’impressione di passare la maggior parte del tempo a fare bagni di sole — protestò lui.
Molly indossava capi comodi di seta nera ed espadrillas nere. — Io sono esotica. Ho anche un grande cappello di paglia che si addice a questo. Tu… tu vuoi soltanto sembrare un povero malavitoso che è salito per arraffare tutto quanto gli riesce, perciò la tintarella istantanea ti va a pennello.
Case si guardò imbronciato il piede pallido, poi si studiò allo specchio. — Cristo santo. Ti dispiace se adesso mi vesto? — Si accostò al letto e cominciò a infilarsi i jeans. — Hai dormito bene? Hai notato una luce?
— Stavi sognando — lei disse.
Fecero colazione sulla terrazza in cima all’albergo, una specie di prato costellato di ombrelloni a righe e di quello che a Case parve un numero innaturale di alberi. Le raccontò del suo tentativo di penetrare fino all’IA di Berna. Tutta la faccenda dello spionaggio sembrava diventata accademica. Se Armitage gli stava attingendo informazioni di nascosto, lo stava facendo attraverso Invernomuto.
— Ed era quasi vero? — gli chiese lei con la bocca piena di croissant al formaggio. — Come il simstim?
Le confermò che, sì, lo era. — Vero come questo — aggiunse, guardandosi intorno. — Forse di più.
Gli alberi erano piccoli, nodosi, incredibilmente vecchi, risultato dell’ingegneria genetica e delle manipolazioni chimiche. Case aveva una certa difficoltà a distinguere un pino da una quercia, ma il suo peculiare senso dello stile da ragazzo di strada gli diceva che quelli erano troppo carini, decisamente troppo simili agli alberi. Fra gli alberelli, su dolci declivi di erba verde realizzati con irregolarità troppo raffinata, gli ombrelloni dai vivaci colori proteggevano gli ospiti dell’albergo dall’immancabile fulgore del sole Lado-Acheson. Un parlottio in francese a un tavolo vicino attirò l’attenzione di Case: i ragazzi dorati che aveva visto planare sopra la nebbia del fiume la sera prima. In quel momento si avvide che la loro abbronzatura era irregolare, uno stencil prodotto dall’incremento selettivo forzato della melanina, sfumature multiple che si sovrapponevano a formare disegni rettilinei, sottolineando i contorni e dando rilievo alla muscolatura, ai piccoli seni sodi della ragazza, al polso di uno dei maschi appoggiato sulla superficie smaltata del tavolo. I tre parvero a Case macchine da corsa, tutto di gran marca in loro, grandi firme: i loro parrucchieri, gli stilisti dei calzoni di cotone bianco, gli artigiani che avevano prodotto i sandali di cuoio e i gioielli dalle linee spartane. Più in là, a un altro tavolo, tre signore giapponesi con addosso abiti a sacco di Hiroshima aspettavano i loro mariti sarariman. I volti ovali erano coperti di lividi artificiali: Case sapeva trattarsi di uno stile estremamente conservatore, che assai di rado avrebbe visto esibito a Chiba.
— Cos’è questa puzza? — chiese a Molly, arricciando il naso.
— L’erba. È l’odore dell’erba appena tagliata.
Armitage e Riviera arrivarono quando stavano finendo il caffè. Armitage, in mimetica kaki su misura, dava l’impressione che gli fossero state appena strappate le mostrine del reggimento. Riviera ostentava un abito di tela indiana che ricordava maliziosamente un galeotto.
— Molly, amore — disse Riviera, quasi ancor prima di essersi seduto. — Dovrai darmi ancora un po’ di medicina. Sono a secco.
— Peter, cosa succederebbe se non obbedissi? — Molly sorrise senza mostrare i denti.
— Lo farai — garantì Riviera, posando gli occhi su Armitage e poi di nuovo su di lei.
— Dagliela — fece Armitage.
— Muori dalla voglia, vero? — Molly estrasse un pacchetto piatto, avvolto in carta stagnola, da una tasca interna e lo buttò attraverso il tavolo. Riviera lo prese al volo. — Potrebbe metterlo fuori uso — disse Molly ad Armitage.
— Ho un’audizione oggi pomeriggio — spiegò Riviera. — Vorrei essere al massimo della forma. — Tenne il pacchetto avvolto nella stagnola sul palmo della mano piegato a coppa e sorrise. Piccoli insetti luccicanti sciamarono all’esterno, e svanirono. Riviera lasciò cadere il pacchetto in una tasca della giacca di seersucker.
— Hai un’audizione anche tu, oggi pomeriggio — disse Armitage a Case. — Su quel rimorchiatore. Voglio che vada al negozio professionale e ti attrezzi con una tuta da vuoto. Poi fatti fare il visto di uscita e raggiungi la barca. Hai circa tre ore.
— Come mai noi viaggiamo su quel bidone e voi due prendete a nolo un tassi della JAL? — domandò Case, evitando deliberatamente gli occhi dell’altro.
— È stato Zion a suggerire di usarlo. Una buona copertura quando ci spostiamo. Ho una barca più grande pronta all’uso, ma il rimorchiatore dà un tocco simpatico.
— E io? — domandò Molly. — Ho incarichi per oggi?
— Voglio che tu salga fino all’estremità opposta dell’asse, per lavorare a zero-g. Domani forse potrai fare un viaggetto in senso contrario. — Straylight, pensò Case.
— Quanto manca? — domandò.
— Poco — rispose Armitage. — Case, mettiti in moto.
— Capo, te la stai cavando di lusso, eccome — disse Maelcum mentre aiutava Case a sgusciare dalla rossa tuta da vuoto della Sanyo. — Aerol dice che te la cavi proprio bene. — Aerol l’aveva aspettato a uno dei moli da diporto alla fine del fuso, vicino all’asse senza peso. Per raggiungerlo, Case aveva preso un ascensore che scendeva nel guscio e aveva poi viaggiato su un treno a induzione in miniatura. A mano a mano che il diametro del fuso si restringeva, diminuiva anche la gravità. Case decise che da qualche parte sopra la sua testa dovevano esserci la montagna scalata da Molly, il velodromo, i punti di lancio per parapendio e piccoli ultraleggeri.
Aerol l’aveva traghettato fino al Marcus Garvey a cavallo del telaio scheletrico di uno scooter azionato da un motore chimico.
— Due ore fa ho preso in consegna mercanzia di Babilonia per voi, un bello yacht con ragazzo giapponese, davvero grazioso, tanto — aggiunse Maelcum.
Una volta libero dalla tuta da vuoto, Case si spinse con cautela fino all’Hosaka e con movenze goffe si assicurò alle cinghie della ragnatela. — Bene. Ora vediamo.
Maelcum tirò fuori un grumo di gommapiuma bianca leggermente più piccolo della testa di Case, prelevò da un taschino dei calzoni lisi un coltello a serramanico incrostato di madreperla assicurato a un cordoncino di nylon verde e tranciò con cautela la plastica. Dopo averne estratto un oggetto rettangolare lo passò a Case. — È un pezzo di qualche arma, amico?
— No — rispose Case, rigirandolo. — È un’arma. È un virus.
— Non su questo rimorchiatore, capo — asserì Maelcum, allungando la mano verso la cassetta d’acciaio.
— Un programma. Un programma-virus. Non può entrare dentro di te. Non può neppure entrare nel tuo software. Devo interfacciarmi tramite il deck prima che possa funzionare su qualcosa.
— Bene, capo giapponese lui dice Hosaka qui dire tutto e come, tutto che vuoi sapere.
— Va bene. Adesso lasciami fare, d’accordo?
Maelcum s’allontanò con un calcio, fluttuando verso la consolle del pilota dove si diede da fare con una pistola a spruzzo per calafatare. Case distolse rapidamente lo sguardo dalle fronde ondeggianti del calafataggio trasparente. Non avrebbe saputo spiegare perché, ma avevano qualcosa che gli faceva riemergere la solita nausea.
— Cos’è quest’affare? — chiese all’Hosaka. — Un pacco per me.
— Trasferimento dati dalla Bockris Systems GmbH, Francoforte, che informa, con trasmissione in codice, che il contenuto della spedizione è un programma di penetrazione Kuang Grade Versione Undici. Inoltre la Bockris informa che l’interfaccia con l’Ono-Sendai Cyberspace 7 è interamente compatibile e possiede capacità di penetrazione ottimali, con particolare riguardo per i sistemi militari esistenti…
— E che dice di una IA?
— Sistemi militari esistenti e intelligenze artificiali.
— Gesù Cristo… com’è che l’hai chiamato?
— Kuang Grade Versione Undici.
— È cinese?
— Sì.
— Via. — Case assicurò la cassetta-virus sul lato dell’Hosaka con un pezzo di nastro isolante, ripensando alla storia di Molly dei suoi giorni a Macao. Armitage aveva attraversato il confine entrando a Zhongshan. — Ah — fece, cambiando idea. — Domanda: chi possiede la Bockris… la società di Francoforte?
— Ritardo per trasmissione interorbitale — rispose l’Hosaka.
— Codificala. Codice commerciale standard.
— Fatto.
Case tamburellò con le dita sull’Ono-Sendai.
— La Reinhold Scientific AG, Berna.
— Riprova. Chi possiede la Reinhold?
Ci vollero altri tre passaggi nella scala gerarchica per arrivare alla Tessier-Ashpool.
— Dixie — chiese Case, collegandosi — che ne sai dei virus informatici cinesi?
— Non molto.
— Mai sentito di un sistema ad azione progressiva chiamato Kuang Versione Undici?
— No.
Case sospirò. — Bene, ho qui un icebreaker cinese user-friendly. Certa gente di Francoforte dice che entra in una IA.
— Possibile. Anzi, certo, se è militare.
— Sembra proprio che lo sia. Ascolta, Dix, dimmi tutto quello che sai, d’accordo? Pare che Armitage stia preparando una spedizione contro una IA appartenente alla Tessier-Ashpool. Il mainframe si trova a Berna, ma è collegato con un altro a Rio. Ed è quello di Rio che ti ha segato la prima volta. Pare che si colleghino tramite Straylight, la base della T-A giù in fondo al fuso, e noi dovremo penetrare l’icebreaker cinese. Così, se è Invernomuto che regge tutto il gioco, ci sta pagando perché lo bruciamo. Vuole bruciare se stesso. E qualcosa che si fa chiamare Invernomuto sta cercando di appellarsi al mio buon cuore, forse perché io siluri Armitage. Cosa sta succedendo?
— Motivazione — disse il costrutto. — Un vero problema di motivazione, con una IA. Non è umana, capisci.
— Già, ovvio.
— Niente da fare. Voglio dire, non è umana. E non puoi trovarci un appiglio. Neppure io sono umano, ma reagisco come se lo fossi. Capito?
— Aspetta un momento. Tu sei senziente… o no?
— Mah, ho la sensazione di esserlo, ragazzo, ma in effetti sono soltanto un mucchio di ROM. È uno, ehm, di quegli interrogativi filosofici, immagino, che… — La sensazione di una risata sgradevole riverberò lungo la schiena di Case. — Ma è improbabile che mi metta a scriverti poesie… se riesci a seguirmi. La tua IA potrebbe anche farlo. Però non è umana sotto nessun aspetto.
— Così pensi che non riusciremo ad arrivare alla sua motivazione?
— Ma ne ha il controllo?
— Come cittadino svìzzero, ma la T-A possiede il software di base e il mainframe.
— Questa è buona — commentò il costrutto. — È come se io fossi padrone del tuo cervello e di ciò che sei, ma i tuoi pensieri avessero la cittadinanza svizzera. Sicuro. Buona fortuna, IA.
— Così si sta preparando a bruciare se stesso. — Case cominciò a picchiare sui tasti del terminale a caso, nervosamente. La matrice comparve, confusa, si definì, e Case vide il complesso di sfere rosa che rappresentava un impianto di acciaierie nel Sikkim.
— L’autonomia, ecco lo spauracchio per quanto riguarda la tua IA. La mia ipotesi, Case, è che tu andrai dentro per tagliare i vincoli intrinseci che impediscono a questo bimbo di diventare più intelligente. E non vedo come potresti distinguere fra, diciamo, una mossa fatta dalla compagnia madre e qualche altra mossa fatta dalla IA in proprio, di modo che forse è qui che si genera la confusione. — Di nuovo quella sua non-risata. — Vedi, quelle cose possono lavorare sodo, trovare il tempo per scrivere libri di cucina o qualunque altra cosa, ma nel minuto, voglio dire nel nanosecondo in cui qualcuna comincia a immaginare qualche mezzuccio per diventare più intelligente, Turing la spazzerebbe via. Nessuno si fida di quelle fottute bastarde, lo sai. Ogni IA che sia mai stata costruita ha una pistola elettronica collegata alla tempia.
Case fissò furibondo le sfere rosa del Sikkim.
— E va bene — disse alla fine. — Sto lanciando questo virus. Voglio che tu dia uno sguardo alle sue istruzioni e mi dica cosa ne pensi.
La vaga sensazione che qualcuno gli stesse leggendo da sopra la spalla scomparve per pochi secondi, poi tornò. — Merda, Case. È un virus ad azione lenta. Impiega sei ore, secondo stima, per sfondare un obiettivo militare.
— Oppure una IA. — Case sospirò. — Puoi dirigerlo?
— Certo, a meno che tu non abbia una morbosa paura di morire.
— Talvolta ti ripeti, amico.
— È la mia natura.
Quando tornò all’Intercontinental, Molly stava dormendo. Si sedette sul terrazzo a osservare un ultraleggero con le ali in polimero dei colori dell’iride mentre si levava alto seguendo la curva del Freeside, la sua ombra triangolare a tracciare un sentiero sui prati e sulle cime dei tetti, fino a quando non sparì dietro la fascia del sistema Lado-Acheson.
— Voglio farmi — disse, rivolto all’artefatto azzurro del cielo. — Voglio davvero volare alto, sai. Pancreas truccato, spine nel fegato, sacchetti che si sciolgono… che vadano a farsi fottere tutti quanti. Voglio strafarmi.
Uscì senza svegliare Molly (ma con quei suoi occhiali non si poteva mai essere sicuri). Scrollò energicamente le spalle per liberarsi dalla tensione ed entrò in ascensore. Salì insieme a una ragazza italiana che indossava un abitino d’un bianco immacolato, gli zigomi e il naso chiazzati di cerone nero antiriflesso. Le scarpe di nylon bianco avevano tacchetti di acciaio, l’oggetto dall’aria costosa che teneva in mano assomigliava a un incrocio fra un remo in miniatura e un busto ortopedico. Stava andando a fare una veloce partitella d’un qualche tipo di sport, ma Case non aveva la minima idea di che cosa potesse essere.
Sul prato del tetto si fece strada in mezzo alla selva di alberi e ombrelloni fino a quando non trovò una piscina, dove i corpi nudi luccicavano sulle piastrelle turchese. Si spostò all’ombra di un tendone e premette il chip contro una piastra di vetro scuro. — Sushi, quello che avete. — Dieci minuti più tardi un entusiasta cameriere cinese arrivò con l’ordinazione. Case si mise a masticare tonno crudo e riso mentre osservava la gente che si stava abbronzando. — Cristo — esclamò, rivolto al tonno. — Sto perdendo le rotelle.
— Non me lo dica — replicò qualcuno. — Lo so già. Lei è un gangster, vero?
Case guardò la donna in tralice contro la fascia solare. Un lungo corpo giovane e un’abbronzatura a incremento forzato di melanina, però non uno di quei lavori che facevano a Parigi.
La donna si accovacciò accanto alla sua sedia, facendo gocciolare l’acqua sulle piastrelle. — Cath — disse.
— Lupus. — Dopo una pausa.
— Che razza di nome è?
— Greco — rispose Case.
— È davvero un gangster? — L’incremento della melanina non aveva impedito la formazione di efelidi.
— Sono un drogato, Cath.
— Di che genere?
— Stimolanti. Attivatori del sistema nervoso centrale. Induttori del sistema nervoso centrale estremamente potenti.
— Be’, ne ha qualcuno? — Cath si fece più vicino. Gocce d’acqua clorurata caddero sui calzoni di Case.
— No. È questo il mio problema, Cath. Sai dove possiamo trovarne?
Cath si dondolò all’indietro sui talloni abbronzati e si leccò una ciocca di capelli castani che le si era incollata accanto alla bocca. — Che preferenze hai?
— Niente coca o amfe, o roba del genere… ma più su, voglio andare molto più su. - Basta così, si disse, cupo, continuando a sorriderle.
— Betafenetilammina — disse la donna. — Non è difficile. Ce l’hai sul tuo chip.
— Stai scherzando — esclamò il partner e compagno di stanza di Cath quando Case gli ebbe spiegato le peculiari proprietà del pancreas che gli avevano trapiantato a Chiba. — Voglio dire, non puoi fargli causa o qualcosa del genere? Per incompetenza professionale? — Si chiamava Bruce. Pareva una versione di Cath al maschile, fino all’ultima efelide.
— Be’, sapete come vanno le cose. Come la compatibilità dei tessuti e tutto il resto — rispose Case. Ma gli occhi di Bruce erario già intorpiditi dalla noia. Ha la stessa attenzione di un moscerino, si disse Case, studiando gli occhi castani del ragazzo.
La loro camera era più piccola di quella che Case divideva con Molly, e si trovava a un altro livello, più prossima alla superficie. Cinque giganteschi Cibachrome di Tally Isham erano appiccicati con nastro adesivo alla finestra del terrazzino, suggerendo così una permanenza prolungata.
— Non sono favolose? — chiese Cath, vedendo che lui sbirciava le enormi diapo. — Mie. Le ho scattate alla piramide S/R, l’ultima volta che siamo scesi in fondo al pozzo… sulla Terra, voglio dire. Lei era così vicina e mi ha sorriso e basta, in modo così naturale. Ed era davvero brutto, Lupus… era il giorno dopo che quei terroristi di Cristo Re avevano messo la cocaina nell’acqua, sai.
— Già — mormorò Case, d’un tratto a disagio. — Una cosa terribile.
— Allora — li interruppe Bruce. — A proposito di questa beta che vuoi comprare…
— Il fatto è… posso metabolizzarla? — Case inarcò le sopracciglia.
— Sai che ti dico? Fai un assaggio. Se per il tuo pancreas è okay, offre la casa. La prima volta è gratis.
— Questa l’ho già sentita — disse Case, prendendo il derma azzurro vivo che Bruce gli passava sopra il copriletto nero.
— Case? — Molly si rizzò a sedere sul letto e scostò i capelli dalle lenti.
— Chi altri, tesoro?
— Cosa ti ha preso? — Gli specchi lo seguirono attraverso la stanza.
— Ho dimenticato come si pronuncia — rispose lui, sfilando una striscia arrotolata di dermi azzurri dal taschino.
— Cristo, proprio quello che ci serviva.
— Mai furono dette parole più vere.
— Ti perdo di vista per due ore, e subito mi freghi e ti procuri una dose. — Molly scosse la testa. — Spero che tu sia pronto per la nostra grande cena con Armitage. In quel locale stile ventesimo secolo. Dovremo anche sorbirci Riviera che ostenta la sua menata.
— Già — replicò Case, inarcando la schiena, con il sorriso bloccato in un rictus di piacere. — Magnifico.
— Amico, se quell’affare riesce a passare attraverso quello che i chirurghi ti hanno fatto a Chiba, sarai nello stato più triste che si possa immaginare, quando l’effetto sarà finito.
— Maledetta puttana — replicò Case, slacciandosi la cintura. — Triste, da fine del mondo… È tutto quello che sento. — Si sfilò i calzoni, si tolse la camicia e la biancheria intima. — Credo che dovresti avere quel minimo di buon senso da approfittare del mio stato innaturale. — Abbassò gli occhi. — Voglio dire, guarda che stato innaturale.
Molly scoppiò a ridere. — Non durerà.
— E invece sì — ribatté lui, salendo sulla termopiuma color sabbia. — Ecco cos’ha di tanto innaturale.
— Case, qualcosa che non va? — chiese Armitage mentre il cameriere li faceva accomodare al tavolo del Vingtième Siècle. Era il più piccolo e il più costoso dei numerosi ristoranti galleggianti su un laghetto vicino all’Intercontinental.
Case rabbrividì. Bruce non aveva parlato di strascichi. Cercò di afferrare un bicchiere di acqua ghiacciata, ma le mani gli tremavano troppo. — Qualcosa che ho mangiato, forse.
— Vorrei che ti facessi vedere da un medico — disse Armitage.
— È soltanto la reazione all’istamina — mentì Case. — Mi capita ogni tanto quando viaggio e mangio roba diversa.
Armitage indossava un abito scuro, troppo formale per quel posto, e una camicia bianca di seta. Il suo braccialetto d’oro tintinnò quando sollevò il bicchiere e ne sorseggiò il contenuto. — Ho già ordinato per voi — li informò.
Molly e Armitage mangiarono in silenzio, mentre Case tagliava con mano tremante la propria bistecca, riducendola a frammenti grandi come bocconi che si limitò a far navigare nell’abbondante salsa, rinunciando a mangiarli.
— Gesù, dalla a me — esclamò Molly, il suo piatto ormai vuoto. — Sai quanto costa? — Prese il piatto di Case. — Devono allevare un intero animale per anni, e poi ucciderlo. Questa non è roba delle vasche. — Si riempì la bocca con una forchettata e cominciò a masticare.
— Non ho appetito — riuscì a dire Case. Il suo cervello era stato fritto a puntino. No, decise in seguito, era stato buttato nel grasso bollente e lasciato a mollo, e il grasso si era raffreddato, un untume denso e opaco s’era coagulato sui lobi arricciati, venato da lampi violacei di dolore.
— Hai un aspetto tremendo — commentò Molly con brio.
Case assaggiò il vino. A causa dei postumi della betafenetilammina sembrava di bere iodio.
Le luci si abbassarono.
— Le Restaurant Vingtième Siècle è orgoglioso di presentare il cabaret olografico del signor Peter Riviera — disse una voce disincarnata con un marcato accento dello Sprawl. Sparuti applausi si levarono dagli altri tavoli. Un cameriere accese un’unica candela e la posò al centro del loro tavolo, poi cominciò a portare via i piatti. Poco dopo una candela tremolava su ciascuno dell’altra dozzina di tavoli del ristorante, e vennero serviti i drink.
— Cosa sta succedendo? — domandò Case, rivolto ad Armitage, che non rispose.
Molly si pulì i denti con un’unghia borgogna.
— Buona sera — salutò Riviera, salendo su un piccolo palco all’estremità opposta della sala. Case sbatté le palpebre: nel suo malessere non aveva notato la presenza del palcoscenico. Non aveva visto da dove fosse sbucato Riviera. L’inquietudine crebbe.
In un primo momento aveva pensato che l’uomo fosse illuminato da un riflettore.
Invece Riviera brillava di suo, la luce aderiva su di lui come una seconda pelle, illuminando i tendaggi scuri in fondo al palco. Era lui a proiettare la luce.
Riviera sorrise. Indossava uno smoking bianco sul cui bavero carboni azzurri ardevano nelle viscere di un garofano nero. Le unghie balenarono quando sollevò la mano in un gesto di saluto, un abbraccio rivolto al suo pubblico. Case sentì lo sciabordio dell’acqua bassa che lambiva il fianco del ristorante.
— Questa sera vorrei esibirmi per voi in un numero più lungo del solito. Un nuovo lavoro — annunciò Riviera, con i lunghi occhi che brillavano. La fredda luce di un rubino si concretizzò sul palmo della mano destra sollevata. Lo lasciò cadere. Una colomba grigia si levò con un frullar d’ali dal punto dell’impatto e scomparve fra le ombre. Qualcuno fischiò, altri applaudirono.
— S’intitola La bambola. - Riviera abbassò le mani. — Vorrei dedicare la première di stasera a Lady 3Jane Marie-France Tessier-Ashpool. — Uno scroscio di applausi di cortesia. Non appena si placarono, gli occhi di Riviera parvero fissare il loro tavolo. — E a un’altra signora.
Le luci del ristorante si spensero del tutto, per qualche secondo, lasciando soltanto il bagliore delle candele. L’aura olografica di Riviera s’era fatta più fioca insieme alle luci, ma Case riusciva ancora a vederlo, in piedi, a testa china.
Cominciarono a formarsi fievoli linee di luce, verticali e orizzontali, delineando un cubo aperto intorno al palcoscenico. Le luci di sala erano ricomparse, fioche, ma l’intelaiatura che circondava il palco poteva benissimo essere stata costruita con raggi di luna ghiacciati. La testa china, gli occhi chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi, Riviera pareva fremere per la concentrazione. D’un tratto quel cubo spettrale si riempì, diventò una stanza, una stanza alla quale mancava la quarta parete, permettendo al pubblico di vederne il contenuto.
Riviera parve rilassarsi un tantino. Sollevò la testa ma tenne gli occhi chiusi. — Sono sempre vissuto in questa stanza — disse. — Non riesco a ricordare di essere mai vissuto in nessun’altra stanza. — Le pareti della camera erano rivestite d’intonaco ingiallito. Conteneva due mobili: una brutta sedia di legno e il telaio d’un letto dipinto di bianco. La vernice era scheggiata e squamata, facendo trasparire il ferro nero. Il materasso era spoglio. La fodera, a strisce marrone sbiadite, era disseminata di macchie. Una singola lampadina penzolava sopra il letto, appesa a un filo elettrico nero, contorto. Case poteva vedere il denso strato di polvere sulla curva superiore del bulbo. Riviera aprì gli occhi.
— Sono stato sempre e soltanto in questa stanza. — Prese posto sulla sedia, girato verso il letto. I carboni azzurri bruciavano ancora nelle viscere del fiore nero sul bavero. — Non so quando è stata la prima volta che ho cominciato a sognare di lei, ma ricordo che all’inizio era soltanto una nebbia, un’ombra.
C’era qualcosa sul letto. Case sbatté le palpebre. Scomparso.
— Non riuscivo a trattenerla, a trattenerla nella mente, ma volevo stringerla a me, sì, strìngerla forte… — La voce suonava chiara e scandita nel silenzio del ristorante. Un cubetto di ghiaccio sbatté contro la parete di un bicchiere. Qualcuno ridacchiò. Qualcun altro bisbigliò una domanda in giapponese. — Decisi che se fossi riuscito a visualizzare una parte, anche soltanto una piccola parte di lei, se fossi riuscito a vedere quella parte in maniera perfetta, nei più precisi dettagli…
Adesso sul materasso era posata la mano di una donna, palmo all’insù, bianche dita pallide.
Riviera si sporse in avanti, afferrò la mano e cominciò ad accarezzarla dolcemente. Le dita si mossero. Riviera sollevò la mano portandola alla bocca e cominciò a leccare i polpastrelli. Le unghie erano coperte da uno smalto color borgogna.
Case si accorse che non era una mano mozza: la pelle proseguiva liscia, ininterrotta e senza cicatrici. Ricordò allora una losanga di pelle tatuata artificiale nella vetrina d’una boutique chirurgica a Ninsei. Riviera continuava a tenere la mano accostata alle labbra, leccandone il palmo. Le dita gli accarezzavano esitanti il viso. Ma adesso una seconda mano giaceva sul letto. Quando Riviera cercò di afferrarla, le dita della prima erano serrate intorno al suo polso, un braccialetto di carne e ossa.
Lo spettacolo progrediva con una propria logica surreale. Poi fu la volta delle braccia. Dei piedi. Delle gambe. Le gambe erano bellissime. Case si sentiva pulsare la testa. Aveva la gola secca. Trangugiò l’ultimo goccio di vino.
Adesso Riviera era steso sul letto. Nudo. I suoi indumenti erano stati parte della proiezione, ma Case non riusciva a ricordare di averli visti dissolversi. Il fiore nero era caduto ai piedi del letto, ancora vivido della sua interiore fiamma azzurra. Poi si formò anche il tronco, e Riviera ne accompagnò la comparsa a suon di carezze. Era bianco, senza testa, perfetto, luccicante per un sottilissimo strato di sudore.
Il corpo di Molly. Case fissò la scena a bocca aperta. Ma non era Molly. Era Molly come l’immaginava Riviera. Il petto era sbagliato, i capezzoli più grossi, troppo scuri. Riviera e il tronco senz’arti si rigirarono insieme sul letto. Le mani dalle unghie smaglianti strisciavano sui due corpi. Adesso il letto era tutto una piega di quel merletto marcio e ingiallito che si sfaldava al tocco. Particelle di polvere ribollivano intorno a Riviera e agli arti che si agitavano, alle mani che si muovevano veloci, pizzicando, accarezzando.
Case lanciò un’occhiata a Molly. Il suo viso era inespressivo, i colori della proiezione di Riviera sussultavano e roteavano sugli specchi. Armitage si era sporto in avanti, la mano intorno allo stelo del calice. I suoi occhi pallidi erano inchiodati sul palcoscenico, sulla stanza abbacinante.
Adesso gli arti e il tronco si erano fusi, e Riviera fu scosso da un tremito. C’era anche la testa, l’immagine era completa. Il volto di Molly, con il liscio mercurio che affogava gli occhi. Riviera e l’immagine di Molly cominciarono ad accoppiarsi con rinnovata intensità, poi l’immagine allungò lentamente una mano artigliata e sfoderò le sue cinque lame. Con una languida, sognante determinazione lacerò la schiena di Riviera. Case intravide la colonna vertebrale affiorare dalla pelle, ma ormai era già in piedi e correva incespicando verso la porta.
Vomitò da una balaustra di palissandro nelle tranquille acque del lago. Qualcosa che era parso rinchiudersi intorno alla sua testa come una morsa l’aveva lasciato libero. Inginocchiato, con la guancia appoggiata al legno fresco, fissò oltre le acque basse del lago l’alone luminoso della rue Jules Venie.
Aveva visto altre volte quel genere di spettacolo: quand’era adolescente, nello Sprawl, li chiamavano “sogni veri”. Ricordava i magri portoricani sotto i lampioni dell’East Side che facevano “sogni veri” al rapido ritmo dei balli da strada, con le ragazze sognate che piroettavano sussultanti e gli spettatori che battevano le mani a tempo. Ma per riuscirci erano necessari un furgone pieno di apparecchiature e un goffo casco costellato di elettrodi.
Quello che Riviera sognava era quello che si vedeva. Case scrollò la testa e sputò nel lago.
Poteva immaginare la conclusione, il gran finale. C’era una simmetria invertita: Riviera mette insieme la ragazza del sogno, la ragazza del sogno lo fa a pezzi. E con quelle mani. Il sangue sognato che inzuppa il tessuto marcio del materasso.
Applausi dal ristorante. Evviva. Case si drizzò, facendo scivolare le mani sul vestito. Si girò per fare ritorno all’interno del Vingtième Siècle.
La sedia di Molly era vuota. Il palcoscenico era deserto. Armitage era rimasto solo al tavolo, sempre con lo sguardo fisso sul palco, lo stelo del calice serrato fra le dita.
— Dov’è Molly? — chiese Case.
— È andata via — rispose Armitage.
— È andata da lui?
— No. — Si udì un tink sommesso. Armitage abbassò lo sguardo sul bicchiere. La mano sinistra si sollevò reggendo il bulbo del calice con la sua dose di vino rosso. Lo stelo spezzato sporgeva come ghiaccio argenteo. Case gli prese il bulbo di mano e versò il vino in un bicchiere per l’acqua.
— Dimmi dov’è andata, Armitage.
Le luci si riaccesero. Case guardò dentro quei pallidi occhi. Là dentro non c’era assolutamente nulla. — È andata a prepararsi. Non la vedrai più. Sarete insieme durante l’operazione.
— Perché Riviera le ha fatto un tiro del genere?
Armitage si alzò in piedi, sistemandosi il bavero della giacca. — Vai a farti una dormita, Case.
— Allora, è per domani?
Armitage esibì quel suo sorriso privo di significato, poi si allontanò verso l’uscita.
Case si massaggiò la fronte e si guardò intorno. I commensali si stavano alzando, le donne sorridevano mentre gli uomini facevano delle battute di commento. Per la prima volta Case osservò la balconata, dove le candele tremolavano ancora nell’oscurità più intima. Sentì il tintinnio delle stoviglie d’argento, i rumori sopiti d’una conversazione. Le candele proiettavano ombre danzanti sul soffitto.
Il volto della ragazza comparve con la stessa subitaneità delle proiezioni di Riviera, le sue piccole mani sul legno lucido della balaustra. La giovane si sporse in avanti, con il viso rapito, almeno così gli parve, gli occhi scuri inchiodati verso qualcosa là in fondo. Il palcoscenico. Era un volto che colpiva, ma non esattamente bello. Triangolare, gli zigomi alti eppure stranamente fragili, bocca ampia e ferma, controbilanciata in maniera strana da un sottile naso a becco dalle narici dilatate. E poi non sparì. Era tornata alle risate intime e al danzare delle candele.
Mentre lasciava il ristorante, Case notò i due giovani francesi e la loro amica in attesa del battello che portava verso il casinò più vicino.
La loro stanza era silenziosa, la termopiuma liscia come una spiaggia dopo il rifluire della marea. La borsa di Molly non c’era più. Cercò un biglietto. Niente. Passarono parecchi secondi prima che la visione oltre la finestra penetrasse il muro della tensione e dell’infelicità. Quando sollevò lo sguardo vide il panorama di Desiderata, negozi costosissimi, Gucci, Tsuyako, Hermès, Liberty.
Case studiò la scena, poi scosse il capo e si avvicinò alla vetrata che non si era dato la pena di esaminare. Spense gli ologrammi per essere ricompensato dalla vista dei condominii che costellavano l’opposto pendio.
Prese il telefono e lo portò fuori con sé al fresco del terrazzo.
— Mi dia il numero del Marcus Garvey - disse al banco. — È un rimorchiatore, iscritto al registro del gruppo di Zion.
La voce del chip recitò un numero di dieci cifre. — Signore, la registrazione in questione è panamense — aggiunse poi.
Maelcum rispose dopo il quinto squillo. — Sì?
— Case. Hai un modem, Maelcum?
— Sì. Sul computer di navigazione, lo sai.
— Puoi metterlo da parte per me, amico? Collegalo al mio Hosaka. Poi accendi il mio terminale. È quello pieno di solchi.
— Come te la passi là dentro, amico?
— Bene. Ma ho bisogno di un po’ di aiuto.
— Ora mi muovo, capo. Prendo il modem.
Case restò in ascolto del debole crepitio elettrostatico mentre Maelcum attuava il semplice collegamento telefonico. — Metti l’ice — ordinò all’Hosaka appena sentì il bip.
— Stai parlando da una località massicciamente controllata — lo informò con alterigia il computer.
— Che vadano a farsi fottere — ribatté Case. — Lascia perdere l’ice. Niente ice. Dammi accesso al costrutto. Dixie?
— Ehilà, Case. — Il Flatline parlava attraverso la voce del chip dell’Hosaka, e perciò quel suo accento attentamente elaborato andava perduto.
— Dix, stai per digitarti fin qua dentro per scoprire qualcosa per me. Potrai essere diretto finché vuoi. Molly si trova da qualche parte qua dentro, voglio sapere dove. Io mi trovo al 335W, all’Intercontinental. Anche lei era registrata qui, ma non so che nome ha usato. Usa questo telefono ed esamina per me i dati.
— Neanche il tempo di dirlo — rispose il Flatline. Case percepì il rumore bianco dell’intrusione. Sorrise. — Fatto. Rose Kolodny. Partita. Mi ci vorranno alcuni minuti per scardinare la loro rete di sicurezza e agganciarmi.
— Vai.
Il telefono gemette e ticchettò sotto gli sforzi del costrutto. Case lo riportò in stanza e mise il ricevitore a faccia in su sulla termopiuma. Intanto andò nel bagno a lavarsi i denti. Quando uscì, il monitor del sistema audiovideo Braun della stanza si accese. Una popstar giapponese adagiata sopra cuscini metallici. Un intervistatore invisibile le pose una domanda in tedesco. Case seguì la scena. Lo schermo sussultò, riempiendosi delle frastagliature di alcune interferenze azzurre. — Case, bimbo, stai perdendo la testa?
La voce era calma, familiare.
La vetrata del terrazzino si riaccese con la vista di Desiderata, ma il panorama della strada si deformò, si offuscò, divenne l’interno del Jarre de The, a Chiba, vuoto, con il neon rosso ripetuto all’infinito dentro le pareti a specchio.
Lonny Zone si fece avanti, alto e cadaverico, muovendosi con la grazia sottomarina della sua assuefazione. Era solo fra i tavoli quadrati, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni grigi di pelle di squalo. — Davvero, amico, hai un’aria molto dissociata.
La voce usciva dagli altoparlanti del Braun.
— Invernomuto — disse Case.
Il ruffiano scosse languidamente le spalle e sorrise.
— Dov’è Molly?
— Non preoccuparti. Stai dando i numeri stasera, Case. Il Flatline stava facendo suonare campanelli d’allarme in tutto il Freeside. Non immaginavo che l’avresti fatto, amico. È estraneo al tuo profilo.
— Allora dimmi dove si trova Molly, e io lo richiamo.
Zone scosse la testa.
— Non riesci proprio a seguire le tue donne, vero, Case? Tu continui a perderle, in un modo o nell’altro.
— Manderò tutto in malora.
— No. Non sei quel tipo d’uomo. L’ho capito. Vuoi sapere una cosa, Case? Immagino che tu abbia sospettato che sono stato io a dire a Deane di far fuori quella fichetta a Chiba.
— No — rispose Case, facendo involontariamente un passo verso la finestra.
— E invece non sono stato io. E che importanza ha, comunque? Fino a che punto importa sul serio, Case? Piantala di illuderti. Io conosco la tua Linda, amico. Conosco tutte le Linde. Le Linde sono un prodotto genetico del mio lavoro. Sai perché ha deciso di derubarti? Per amore. A te non importa una sega. L’amore. Vuoi parlare di amore? Lei ti amava. Io lo so. Per quel poco che valeva, ti amava. Tu non sapevi che fartene. Adesso è morta.
Il pugno di Case rimbalzò sul vetro.
— Non fregarti le mani, amico. Tra poco ti serviranno.
Zone scomparve, sostituito dalla notte del Freeside e dalle luci dei condominii. Il Braun si spense.
Dal letto, il telefono belava incessante.
— Case? — Il Flatline stava aspettando. — Dove sei stato? Ce l’ho, anche se non è molto. — Il costrutto snocciolò un indirizzo. — Il posto aveva uno stranissimo ice tutt’intorno, per essere un night club. È tutto quello che sono riuscito a strappare senza lasciare un biglietto da visita.
— E va bene — replicò Case. — Ordina all’Hosaka di dire a Maelcum di staccare il modem. Grazie, Dix.
— È stato un piacere.
Case rimase seduto sul letto molto a lungo, assaporando quella nuova sensazione, un vero tesoro.
La rabbia.
— Ehi, Lupus. Ehi, Cath, è l’amico Lupus. — Bruce era nudo sulla soglia, tutto gocciolante, le pupille enormi. — Stiamo giusto facendo una doccia. Ti dispiace aspettare? Vuoi farti una doccia?
— No, grazie. Voglio una mano. — Scostò il braccio del ragazzo ed entrò nella stanza.
— Ehi, ma davvero, amico, stiamo…
— Per aiutarmi. Siete davvero contenti di vedermi. Perché siamo amici, vero? Vero?
Bruce ammiccò più volte. — Giusto.
Case snocciolò l’indirizzo che il Flatline gli aveva fornito.
— Sapevo che era un gangster — gridò Cath, allegra, dalla doccia.
— E io ho una tri-Honda — aggiunse Bruce, con un sorriso vacuo.
— Ci andiamo subito — dichiarò Case.
— È il livello dei cubicoli — spiegò Bruce, dopo aver chiesto a Case di ripetergli l’indirizzo per l’ottava volta. Risalì sulla Honda. La condensa sgocciolava dal tubo di scappamento delle celle a idrogeno, mentre lo chassis di fibra di vetro rossa oscillava sugli ammortizzatori cromati. — Ci metti molto?
— Che ne so? Ma voi aspettate.
— Aspetteremo, sì. — Il ragazzo si grattò il petto nudo. — Credo che quell’ultima parte si riferisca a un cubicolo. Il numero quarantatré.
— Sei atteso, Lupus? — Cath allungò il collo sopra la spalla di Brace. La corsa le aveva asciugato i capelli.
— Non proprio — disse Case. — È un problema?
— Scendi al livello e cerca il cubicolo del tuo amico. Se ti lasceranno entrare, bene. Se non vorranno riceverti… — Cath scrollò le spalle.
Case si voltò e scese una scala a chiocciola di ferro battuto dai motivi floreali. Dopo sei svolte raggiunse un night club. Fece una sosta per accendersi una Yeheyuan, dando un’occhiata ai tavoli. D’un tratto il Freeside gli parve avere un senso. Affari: poteva sentirli ronzare nell’aria. Questo era il punto in cui succedevano le cose. Non la facciata, il volto luccicante di rue Jules Verne, ma la roba vera, sostanziale. Il commercio. La danza. La folla era mista: forse una metà erano turisti, l’altra metà residenti delle isole.
— Giù — disse a un cameriere di passaggio. — Voglio andare di sotto. — Mostrò il chip del Freeside. L’uomo gli indicò con un gesto il fondo del locale.
Case attraversò in fretta i tavoli affollati, sentendo frammenti di una mezza dozzina di lingue europee mentre li costeggiava.
— Voglio un cubicolo — disse rivolto alla ragazza seduta dietro al basso bancone, con un terminale sulle ginocchia. — Il livello inferiore. — Le porse il chip.
— Preferenze di sesso? — La ragazza passò il chip davanti a una lastra di vetro sulla superficie del terminale.
— Femmina — rispose Case automaticamente.
— Numero trentacinque. Telefoni, se non è soddisfacente. Se vuole, può avere accesso alla nostra lista di servizi speciali. — Gli sorrise mentre gli restituiva il chip.
Un ascensore si aprì alle sue spalle.
Le luci del corridoio erano azzurre. Case uscì dalla cabina e scelse una direzione a caso. Porte numerate. Un silenzio come quello d’una clinica esclusiva.
Trovò il suo cubicolo. Stava cercando Molly. Disorientato, sollevò il chip e l’appoggiò contro un sensore nero piazzato subito sotto la piastra con il numero.
Serrature magnetiche. Il rumore gli ricordò il Cheap Hotel.
La ragazza si rizzò a sedere sul letto e disse qualcosa in tedesco. I suoi occhi erano morbidi e immobili. Pilota automatico. Azzeramento neurale. Case uscì in retromarcia dal cubicolo chiudendo la porta.
La porta del quarantatré era come le altre. Esitò. Il silenzio del corridoio confermava che i cubicoli erano insonorizzati. Era inutile tentare con il chip. Batté le nocche contro il metallo smaltato. Niente. La porta pareva assorbire il suono.
Appoggiò il chip contro la piastra nera.
Il chiavistello scattò.
In qualche modo lei parve colpirlo ancora prima che Case riuscisse ad aprire la porta. Lui si ritrovò in ginocchio, con la porta d’acciaio premuta contro la schiena, le lame dei pollici irrigiditi della ragazza che vibravano a pochi centimetri dai suoi occhi…
— Gesù Cristo — disse Molly, appioppandogli un buffetto sulla tempia mentre si rialzava. — Sei proprio un idiota a tentare una cosa del genere. Come diavolo hai fatto ad aprire quella serratura? Case… Case, tutto bene? — Tornò a chinarsi su di lui.
— Il chip — spiegò Case, cercando di riprendere fiato. Il dolore si stava propagando a partire dal torace. Molly lo aiutò ad alzarsi e lo spinse dentro il cubicolo.
— Hai corrotto l’inserviente di sopra?
Case scosse la testa mentre si lasciava cadere sul letto.
— Inspira — gli ordinò lei. — Conta. Uno, due, tre, quattro. Trattieni il fiato. Adesso espira. Conta…
Case si strinse lo stomaco.
— Mi hai tirato un calcio — riuscì a balbettare.
— Avrebbe dovuto finire più basso. Vorrei restare sola. Sto meditando, capisci? — Molly gli si sedette accanto. — E sto ricevendo istruzioni. — Gli indicò un piccolo monitor incassato nella parete di fronte al letto. — Invernomuto mi sta parlando di Straylight.
— Dov’è il pupazzo di carne?
— Non c’è. Quello è il servizio speciale più costoso di tutti. — Molly si alzò in piedi. Indossava jeans di cuoio e una camiciona scura. — L’operazione è per domani, secondo Invernomuto.
— Cos’era tutta quella menata al ristorante? Come mai sei scappata?
— Perché se fossi rimasta rischiavo di uccidere Riviera.
— Perché?
— Per quello che mi ha fatto. Lo spettacolo.
— Non capisco.
— Questo costa un sacco di quattrini — proseguì Molly, allungando la mano destra come se reggesse un frutto invisibile. Le cinque lame scivolarono all’esterno, poi si ritrassero, rapide. — Costa andare a Chiba, costa la chirurgia, costa fare in modo che ti colleghino il sistema nervoso in modo che i riflessi ingranino con le apparecchiature… Sai come ho trovato i soldi, quando ho cominciato? Qui, forse? No, non qui, ma in un posto come questo, nello Sprawl. Cominciare è uno scherzo, visto che una volta che ti piantano dentro il chip di sottrazione ti sembrano soldi facili. Talvolta ti svegli dolorante, ma è tutto. Affitti la merce, tutto qua. Tu non sei dentro quando succede. La casa ha il software di qualunque cosa il cliente sia disposto a pagare… — Fece scrocchiare le nocche delle dita. — Bene. Mi sono fatta i miei soldi. Il guaio era che il chip di sottrazione e i circuiti che le cliniche di Chiba inseriscono non erano compatibili. Insomma, le ore di “lavoro” cominciarono a filtrare, e io potevo ricordarle… Ma erano soltanto brutti sogni, non tutti così brutti. — Sorrise. — Poi, cominciò a diventare strano. — Tirò fuori le sigarette dalla tasca e ne accese una. — La casa scoprì quello che facevo con i soldi. Mi avevano già inserito le lame, ma la neuromotilità fine avrebbe richiesto altri tre viaggi. Non potevo ancora lasciar perdere il lavoro come pupazzo di carne. — Inspirò, poi esalò una voluta di fumo, coronandola con tre anelli perfetti. — Così il bastardo che dirigeva il posto fece preparare un software su misura. Berlino, è il posto giusto per gli snuff, per quei film, sai, in cui qualcuno finisce ucciso sul serio. Grande mercato per le porcate, Berlino. Non ho mai saputo chi scriveva il programma che m’inserivano, ma era basato su tutti i classici.
— Sapevano che capivi quello che succedeva, che eri cosciente mentre lavoravi?
— Non ero cosciente. È come il cyberspazio, ma è vuoto. Argentato. Odora di pioggia… Puoi vedere te stesso mentre hai l’orgasmo, è come una piccola nova che spunta dai confini dello spazio. Purtroppo cominciavo a ricordare. Come se fossero sogni, sai. E loro non me l’avevano detto. Avevano cambiato il software cominciando ad affittarmi ai mercati specializzati.
Sembrava che parlasse da molto lontano. — E io lo sapevo, ma me n’ero rimasta zitta e buona. Avevo bisogno dei soldi. I sogni divennero sempre peggiori, ma mi dicevo che alcuni almeno erano soltanto sogni, però a quel punto avevo capito che il mio capo aveva tutta una piccola clientela legata a me. Niente è abbastanza buono per Molly, mi dice il capo, e mi dà quell’aumento di merda. — Scosse la testa. — Quel coglione si faceva pagare otto volte di più di quello che passava a me, e credeva che non lo sapessi.
— Ma per cosa si faceva pagare?
— Brutti sogni. Sogni veri. Una notte… una notte ero appena tornata da Chiba. — Molly lasciò cadere la sigaretta, la schiacciò sotto il tacco e si sedette, appoggiandosi alla parete. — In quel viaggio i chirurghi erano andati parecchio a fondo. Un casino. Dovevano aver disturbato il chip di sottrazione. E rinvenni… rinvenni proprio in mezzo a quella routine con un cliente… — Affondò le dita nella termopiuma. — Era un senatore. Ho riconosciuto subito la sua faccia obesa. Eravamo tutti e due coperti di sangue. Non eravamo soli. Lei era tutta… — Diede uno strattone alla termopiuma. — Morta. E quel grasso coglione stava dicendo: “Cosa c’è? Cosa ti prende?”. Sì… perché non avevamo ancora finito.
Molly cominciò a tremare.
— Così credo di aver dato al senatore quello che voleva sul serio, sai. — Il tremito cessò. Molly lasciò andare la termopiuma e si passò le dita tra i capelli scuri. — La casa assoldò qualcuno perché mi facesse fuori. Mi toccò restarmene nascosta per un po’.
Case la fissò.
— E così… Riviera ha toccato un nervo scoperto, ieri sera — proseguì Molly. — Immagino che voglia che lo detesti sul serio, di modo che sia indotta a seguirlo.
— Seguirlo?
— Lui è già là. A Straylight. Su invito di Lady 3Jane, e questo piega la sua dedica. Lei era là, presente, nel suo palco privato, come…
Case ricordava la faccia che aveva intravisto. — Hai intenzione di ucciderlo?
Molly sorrise, gelida. — Morirà, sì, presto.
— Anch’io ho ricevuto una visita — disse Case, e le raccontò della finestra, impaperandosi su quello che la replica di Zone gli aveva detto di Linda. Molly annuì.
— Forse vuole che anche tu cominci a odiare.
— Forse odio Invernomuto.
— Forse odii te stesso, Case.
— Com’è stato? — chiese Brace, quando Case montò sulla Honda.
— Dovresti provarlo, una volta — rispose lui, massaggiandosi gli occhi.
— Non riesco a vederti come uno che cerca pupazzi — disse Cath con tono infelice, premendosi un derma fresco contro il polso.
— Possiamo andare a casa, adesso? — chiese Bruce.
— Certo. Scaricatemi lungo la Jules Verne, dove ci sono i bar.
Rue Jules Verne era un viale circolare che attorniava il punto mediano del fuso, mentre Desiderata si estendeva per tutta la sua lunghezza, terminando a entrambi i capi con i montanti delle pompe del sistema Lado-Acheson. Lasciando Desiderata girando a destra e seguendo la Jules Verne per un tratto sufficiente si trovava di nuovo Desiderata sul lato sinistro.
Case osservò Bruce triciclettare finché non scomparve alla vista, poi si girò e s’incamminò, passando davanti a una gigantesca edicola vivacemente illuminata dove le copertine di una decina di riviste giapponesi mostravano i volti delle nuove stelle simstim del mese.
Direttamente sopra la sua testa, lungo l’asse ora notturno, il cielo olografico scintillava di fantasiose costellazioni che suggerivano carte da gioco, le facce dei dadi, un cappello a cilindro, un bicchiere di Martini. L’incrocio fra Desiderata e Jules Verne formava una specie di stretta gola in cui i gradoni terrazzati delle ripide pareti del Freeside spiccavano un balzo dopo l’altro fino ai pianori erbosi di un altro complesso adibito a casinò. Case ammirò un ultraleggero telecomandato virare con grazia lungo una corrente ascensionale al bordo verdeggiante di una mesa artificiale, illuminato per qualche secondo dal morbido bagliore dell’invisibile casinò. Era una specie di biplano senza pilota fatto di sottilissimo polimero, con le ali serigrafate in modo da assomigliare a un’enorme farfalla. Poi il telecomandato scomparve, al di là del ciglio della mesa. Case aveva visto un barbaglio di neon riflesso sul vetro, o una lente oppure le torrette del laser. Quei velivoli facevano parte del sistema di sicurezza del fuso, controllato da qualche computer centrale.
E dove? A Straylight? Case continuò a camminare, passando davanti a bar che rispondevano ai nomi di Hi-Lo, Paradise, Le Monde, Cricketeer, Shozoku Smith’s, Emergency. Case scelse l’Emergency perché era il più piccolo e il più affollato, ma gli ci vollero soltanto pochi secondi per rendersi conto che era un locale per turisti. Non tirava aria d’affari, là dentro, soltanto un’esplicita tensione sessuale. Pensò per un attimo al club senza nome sopra il cubicolo affittato da Molly, ma l’immagine degli occhi a specchio inchiodati sul piccolo schermo lo dissuase. Che cosa le stava rivelando, in quel posto, Invernomuto? La pianta di villa Straylight? La storia dei Tessier-Ashpool?
Prese un boccale di Carlsberg e trovò un posto a ridosso della parete. Chiudendo gli occhi, cercò di percepire il nodo di rabbia, il piccolo tizzone ribollente della sua collera. Era ancora là. Da dove veniva? Ricordava di aver provato soltanto una vaga perplessità quando l’avevano menomato a Memphis, nessuna reazione quando a Night City aveva ucciso per difendere i propri interessi di spacciatore, e una nausea e un odio alquanto blandi dopo la morte di Linda sotto il pallone gonfiabile. Ma nessuna rabbia. Piccola e remota, sullo schermo della mente, una parvenza di Deane colpì l’analoga parvenza della parete di un ufficio in un’esplosione di sangue e materia grigia. Allora capì: la rabbia era nata nella sala giochi, quando Invernomuto aveva annullato il fantasma simstim di Linda Lee, cancellando la semplice promessa animalesca di cibo, calore e un letto per dormire. Ma non ne era diventato consapevole fino al suo colloquio con l’olo-costrutto di Lonny Zone.
Era una cosa strana. Non riusciva a valutarla.
— Stordito — si disse. Era stordito da molto tempo, da anni. Tutte le sue notti a Ninsei, le sue notti con Linda, stordito a letto e stordito nel gelido sudore nel bel mezzo di ogni traffico di droga. Ma adesso aveva trovato quella piccola cosa calda, quel chip di morte. “Carne” diceva una parte di lui. “È la carne che parla. Ignorala.”
— Gangster.
Aprì gli occhi. Cath era ferma accanto a lui con addosso un abito da sera nero, i capelli ancora scarmigliati dopo la corsa sulla Honda.
— Pensavo che fossi tornata a casa — disse Case, e dissimulò la propria confusione con un sorso di Carlsberg.
— Gli ho chiesto di mollarmi davanti a quel negozio. Ho comprato questo. — Cath passò il palmo della mano sul tessuto, fino alla cintura che le cingeva i fianchi. Case vide il derma azzurro sul polso della ragazza. — Ti piace?
— Sicuro. — Case esaminò automaticamente le facce intorno, poi riportò lo sguardo sulla compagna. — Cosa speri di combinare, tesoro?
— Ti è piaciuto il beta che ti abbiamo dato, Lupus? — Si era fatta più vicina, irradiando calore e tensione, gli occhi ridotti a fessure sopra le enormi pupille e un tendine del collo teso come la corda di un arco. Fremeva, vibrava invisibilmente per l’eccitazione. — Sei partito?
— Già. Ma il risultato è stato uno schifo.
— Allora te ne serve un altro.
— Dove vuoi arrivare?
— Ho una chiave. Sulla collina, dietro il Paradise, il posticino più carino che si possa immaginare. Quelli che ci abitano sono in fondo al pozzo per affari, stanotte, se mi segui…
— Se ti seguo?
La ragazza gli prese una mano fra le sue, calde e asciutte. — Tu sei uno yak, vero, Lupus? Un soldato gajin della Yakuza.
— Hai occhio per certe cose, eh? — Case ritrasse la mano e si frugò in tasca alla ricerca di una sigaretta.
— Come mai hai tutte le dita, allora? Credevo che te ne tagliassero una ogni volta che scazzi.
— Non faccio mai cazzate. — Case si accese la sigaretta.
— Ho visto quella ragazza con cui stai. Il giorno che ti ho incontrato. Cammina come Hideo. Mi fa paura. — Cath gli rivolse un sorriso troppo smagliante. — Mi piace. A lei piace farsela con le ragazze?
— Non me l’ha mai detto. Chi è Hideo?
— Quello che 3Jane chiama il suo servo. Il servo di famiglia.
Case si costrinse a guardare con occhio annoiato la folla che gremiva l’Emergency mentre parlava. — Di Jane?
— Lady 3Jane. È ricca sfondata. Suo padre possiede tutto quello che vedi.
— Questo bar?
— Il Freeside!
— Merda! Ti dai a compagnie di classe, eh? — Inarcò un sopracciglio, poi le passò un braccio intorno alla vita e le appoggiò la mano sul fianco. — Allora, come hai fatto a incontrare questi aristocratici, Cathy? Sei una specie di debuttante dell’alta società sotto mentite spoglie? Tu e Bruce avete per caso incassato qualche vecchia eredità, eh? — Allargò le dita, massaggiandole la pelle sotto il leggero tessuto nero. Lei si strinse contro di lui assecondando il suo movimento. E rise.
— Oh, sai, le piacciono i party. Bruce e io facciamo il giro dei ricevimenti… Per lei le cose stanno diventando davvero noiose, là dentro. Il suo vecchio la lascia uscire di tanto in tanto, sempre che si porti dietro Hideo perché si prenda cura di lei — disse la ragazza, con le palpebre calate a metà in quella che doveva essere intesa come un’espressione pudibonda.
— Dov’è che diventa noioso?
— La chiamano villa Straylight. È lei che me l’ha detto… oh, è un bel posto, con tutte le piscine e i gigli. È un castello, un vero castello, tutto pietre e tramonti. — Si rannicchiò contro di lui. — Ehi, Lupus, amico, hai bisogno di un derma. Così potremo stare assieme.
Portava una minuscola borsetta di cuoio con una sottile cinghia da tracolla. Le unghie masticate fino alla carne erano di un rosa vivace sullo sfondo dell’abbronzatura potenziata. Aprì la borsetta per estrarne una bolla di carta trasparente con dentro un derma azzurro. Qualcosa di bianco cadde sul pavimento. Cath si chinò a raccoglierlo. Un origami a forma di gru.
— Me l’ha dato Hideo — spiegò. — Ha tentato di mostrarmi come si fa, ma io non riesco mai a farlo saltar fuori giusto. I colli mi vengono sempre piegati nel modo sbagliato. — Ricacciò nella borsetta il pezzo di carta ripiegato. Lui la seguì con lo sguardo mentre lacerava la bolla, staccava il derma dalla base e gliel’applicava al polso, facendolo aderire sul lato interno.
— 3Jane ha un viso affilato, il naso come il becco di un uccello? — Case osservò le proprie mani mentre abbozzava un profilo. — Capelli neri? Giovane?
— Credo di sì. Ma è ricca sfondata, sai. Con tutti quei soldi.
La droga lo colpì come un treno espresso, una bianca colonna incandescente che gli saliva lungo la schiena dalla regione della prostata illuminando le suture del suo cranio con raggi X di energia sessuale in cortocircuito. I suoi denti risuonarono nelle cavità come diapason, ognuno perfettamente intonato e limpido quanto l’etanolo. Le ossa, sotto il nebuloso involucro della carne, erano cromate e lucide, le giunture lubrificate con uno strato di silicone. Tempeste di sabbia infuriavano radenti sulla base del cranio, generando sottili e intense ondate elettrostatiche che si frangevano dietro i suoi occhi, sfere del più puro cristallo, che si dilatavano…
— Su — disse la ragazza, prendendolo per mano. — Adesso ci sei. Ci siamo tutti e due. Durerà per tutta la notte.
La rabbia stava esplodendo, spietata, esponenziale. Erompeva sull’impeto della betafenetilammina come un’onda portante, un fluido sismico, ricco e corrosivo. La sua erezione era una sbarra di piombo. I volti intorno a loro, lì nell’Emergency, erano come quelli delle bambole dipinte, il rosa e il bianco intorno e dentro la bocca si muovevano, si muovevano, le parole ne spuntavano come bolle separate di suono. Case guardò Cath e vide ogni singolo poro della pelle abbronzata, gli occhi piatti come vetro opaco, una sfumatura da metallo smorto, un gonfiore appena accennato, le minuscole asimmetrie del seno e delle clavicole, il… qualcosa lampeggiò bianco dietro i suoi occhi.
Case lasciò ricadere la mano e corse incespicando verso la porta, allontanando a spintoni chiunque gli ostacolasse il passaggio.
— Vai a farti fottere! — gli gridò Cath. — Stronzo di merda!
Case non riusciva più a sentire le gambe. Le usava come trampoli, dondolando follemente sul lastricato della Jules Verne, un lontano brontolio di tuono nelle orecchie, quello del proprio sangue, sciabolate di luce taglienti come rasoi che gli sezionavano il cranio da una dozzina di angoli diversi.
E poi si trovò paralizzato, ritto con i pugni serrati contro i fianchi, la testa inarcata, le labbra arricciate, tremanti, mentre osservava lo zodiaco del giocatore d’azzardo del Freeside, le costellazioni da night club nel cielo olografico, che si spostavano, slittando fluide lungo l’asse del buio, per sciamare come creature viventi nell’epicentro della realtà. Fino al momento in cui non si disposero, individualmente e a centinaia, a formare un gigantesco, singolo ritratto, un supremo monocromo punteggiato come le stelle contro il cielo notturno. Il volto di Linda Lee.
Quando finalmente fu in grado di guardare altrove, di abbassare gli occhi, Case scoprì che tutte le facce per strada erano rivolte verso l’alto, le facce dei turisti a passeggio immobilizzati dalla meraviglia. E quando le luci in cielo si spensero, un fragoroso evviva si sollevò dalla rue Jules Verne, rimbalzando in mille echi sui gradoni e sulle file di terrazzi di cemento lunare.
Da qualche parte, un orologio cominciò a scandire i suoi rintocchi, qualche antica campana arrivata dall’Europa.
Mezzanotte.
Case camminò fino al mattino.
L’eccitazione si dissolse, lo scheletro cromato si corrose a ogni ora che passava, la carne diventò sempre più solida, la carne della droga fu sostituita dalla carne della sua vita. Non riusciva a pensare. Gli piaceva moltissimo, essere cosciente ma incapace di pensare. Gli pareva quasi di riuscire a trasformarsi in qualunque cosa vedesse di fronte a sé: la panchina di un parco, uno sciame di falene bianche intorno a un antico lampione, un robot giardiniere a strisce diagonali nere e gialle.
Un’alba registrata avanzò lenta lungo il sistema Lado-Acheson, rosea e spettrale. Case si costrinse a mangiare un’omelette in un caffè sulla Desiderata, a bere un sorso d’acqua, a fumare l’ultima delle sue sigarette. Il giardino sulla sommità dell’Intercontinental cominciava ad animarsi quando l’attraversò. La folla mattutina della prima colazione intenta a bere caffè e a mangiare croissant sotto gli ombrelloni a strisce.
Sentiva ancora la rabbia. Era un po’ come essere aggredito in un vicolo e scoprire di avere ancora il portafoglio in tasca, indenne. Si riscaldò al suo fuoco, incapace di darle un nome o un obiettivo.
Scese in ascensore fino al proprio livello, frugandosi in tasca per cercare il chip di credito del Freeside che fungeva da chiave. Il sogno stava diventando reale, era qualcosa che avrebbe potuto fare. Stendersi sulla termopiuma e ritrovare il buio.
Lo stavano aspettando, in tre. I loro perfetti abiti sportivi e le abbronzature a stencil facevano risaltare le eleganti finiture tessute a mano della mobilia. La ragazza sedeva sul divano di vimini, con una pistola automatica appoggiata accanto, sul motivo a foglie stampato sul cuscino.
— Turing — disse. — Ti dichiaro in arresto.