— Inutile! — esclamò con asprezza Lamont. — Non ho ottenuto niente. — Aveva un’espressione imbronciata che s’intonava con gli occhi infossati e il lungo mento un po’ asimmetrico. L’espressione imbronciata era presente anche nei suoi momenti migliori, e quello non era uno dei suoi momenti migliori. Il suo secondo colloquio ufficiale con Hallam era stato un fiasco più grosso del primo.
— Non fare il tragico — disse Myron Bronowski, placido.
— Non ti aspettavi niente. Me lo hai anche detto. — Stava gettando in aria delle arachidi che poi acchiappava al volo con la bocca dalle labbra tumide. Non ne sbagliava una. Non era molto alto né molto magro.
— Non è che mi faccia piacere. Ma hai ragione, non importa. Ci sono altre cose che posso fare e ho intenzione di farle e, in più, dipendo da te. Se solo tu riuscissi a scoprire…
— Non finire la frase, Pete. La so a memoria. Tutto quello che devo fare è decifrare il pensiero di un’intelligenza non umana.
— Un’intelligenza migliore di quella umana. Gli esseri del para-universo stanno tentando di farsi capire.
— Può darsi — sospirò Bronowski — ma tentano di farlo tramite la mia intelligenza che è migliore di quella umana, come qualche volta mi capita di pensare, ma non di molto. Qualche volta, la notte, me ne sto sveglio al buio a chiedermi se tra intelligenze diverse la comunicazione sia possibile; oppure, se ho avuto una giornata particolarmente storta, se la frase “intelligenze diverse” abbia addirittura un significato.
— Ce l’ha — disse con impeto Lamont, mentre le mani nelle tasche del camice da laboratorio gli si stringevano a pugno. — Significa Hallam e me. — Significa quell’eroe fasullo, il dottor Frederick Hallam, e me. Noi siamo due intelligenze diverse, perché quando io gli parlo lui non capisce. La sua faccia idiota diventa più rossa, gli si strabuzzano gli occhi e gli si turano le orecchie. Direi persino che il cervello gli smette di funzionare, se avessi la prova che in qualche altro momento funziona.
— Che modo di parlare del Padre della Pompa Elettronica — mormorò Bronowski.
— È proprio questo. Il riverito Padre della Pompa Elettronica. Un bastardo, se mai ne è nato uno. Il suo contributo è stato irrilevante. Io lo so.
— Anch’io lo so. Me lo hai detto un sacco di volte. — E Bronowski lanciò in aria un’altra arachide. Non la mancò.
Era successo un quarto di secolo prima. Frederick Hallam era un radiochimico, con la stampa della tesi di laurea ancora umida e nessun segnale premonitore di essere destinato a sovvertire il mondo.
Quello che diede l’avvio al sovvertimento del mondo fu il fatto che una polverosa bottiglia da reagente con l’etichetta “Tungsteno-Metallo” si trovava sulla sua scrivania. Quella roba non era sua, e lui non l’aveva mai adoperata. Era l’eredità di un lontano giorno in cui uno dei precedenti occupanti di quello stesso ufficio aveva avuto bisogno di tungsteno per un motivo ormai sepolto nell’oblio. E non era nemmeno più tungsteno: erano granuli di un qualcosa molto ossidato, grigio e pieno di polvere. Completamente inutili.
E un giorno Hallam entrò nel laboratorio (ecco, per la precisione era il 3 ottobre 2070), si mise al lavoro, s’interruppe poco prima delle dieci del mattino, fissò attonito la bottiglia, poi la prese in mano. Era coperta di polvere come sempre, con la sua etichetta sbiadita, ma lui gridò: — Perdio! Chi ha pasticciato con questa roba, maledetto lui?
Questa, per lo meno, fu la versione di Denison, che aveva udito per caso l’esclamazione, come la raccontò a Lamont una generazione più tardi. Il resoconto ufficiale della scoperta, come lo riportano i libri, non cita la frase. Se ne ricava l’impressione di un chimico dalla vista acuta che si accorse del cambiamento e ne trasse seduta stante profonde deduzioni.
Non avvenne così. Hallam non sapeva cosa farsene del tungsteno: per lui non aveva il minimo valore e qualunque manomissione non avrebbe avuto importanza. Però, non sopportava che frugassero nella sua scrivania (a molti capita la stessa cosa) e sospettava che gli altri fossero tanto maliziosi da averlo fatto solo per dispetto.
Sul momento nessuno ammise di avere a che fare con la faccenda. Benjamin Allan Denison, colui che aveva sentito per caso la prima osservazione, aveva l’ufficio proprio dirimpetto, dall’altra parte del corridoio, e ambedue le porte erano aperte. Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo accusatore di Hallam.
Hallam non gli piaceva molto (non piaceva molto a nessuno) e per di più la notte aveva dormito male. Perciò, come successe in realtà e come in seguito lui stesso ricordò, fu piuttosto contento di avere sottomano qualcuno su cui sfogare il cattivo umore, e Hallam era il candidato ideale.
Quando Hallam gli mise la bottiglia sotto il naso, Denison la scostò con la mano, disgustato. — Perché, maledizione, dovrebbe interessare a me il tuo tungsteno? — sbottò. — E perché dovrebbe interessare a qualcuno? Se guardi bene la bottiglia, vedrai che quella roba non viene aperta da vent’anni, e se non ci avessi messo sopra le tue luride zampe, avresti visto anche tu che nessuno te l’aveva toccata.
Un rossore collerico si diffuse sulla faccia di Hallam, che disse, a denti stretti: — Senti, Denison, qualcuno ne ha cambiato il contenuto. Questo non è il tungsteno.
Denison si concesse un lieve ma percettibile sbuffo di disprezzo. — E tu come fai a saperlo?
La storia è fatta di cose come questa, meschine malignità e stoccate al buio.
Sarebbe stata in ogni caso un’osservazione poco felice. Il curriculum scolastico di Denison, fresco quanto quello di Hallam, era molto più brillante e lui era il nuovo acquisto più promettente del reparto. Hallam lo sapeva e, ciò che era peggio, lo sapeva anche Denison e non ne faceva un segreto. La domanda “E tu come fai a saperlo?”, con la chiara e inequivocabile enfasi sul tu, fornì ampio motivo per tutto quello che avvenne in seguito. Senza l’insinuazione, Hallam non sarebbe mai diventato il più grande e il più riverito scienziato della storia, per dirla con le precise parole che usò Denison più tardi, durante il suo colloquio con Lamont.
Ufficialmente, quella mattina fatale Hallam era entrato nel laboratorio, si era accorto che i granuli grigi e polverosi erano spariti — non era rimasta nemmeno la polvere sulla superficie interna della bottiglia — e che al loro posto c’era del metallo lucido, grigio ferro. Naturalmente aveva indagato…
Ma mettiamo da parte la versione ufficiale. L’origine di tutto fu Denison. Se si fosse limitato a un semplice no o a un’alzata di spalle, le probabilità dicono che Hallam avrebbe fatto la sua domanda agli altri, poi alla fine, stanco di quel fatterello inesplicabile, avrebbe messo in un canto la bottiglia permettendo così che il futuro fosse determinato dalla tragedia, impercettibile o definitiva (questo in base al tempo che sarebbe trascorso prima della scoperta decisiva), che ne sarebbe derivata. In ogni caso, non sarebbe stato Hallam a salire come un turbine ai vertici della fama.
Invece, con quel “E tu come fai a saperlo?” che lo metteva con le spalle al muro, ad Hallam non restò che replicare di slancio: — Ti farò vedere io come lo so!
Dopo di che niente e nessuno gli avrebbero impedito di andare fino in fondo. L’analisi del metallo contenuto nella vecchia bottiglia diventò il suo scopo prioritario, e la sua meta principale quella di cancellare l’espressione di superiorità dalla faccia affilata di Denison e la perpetua smorfia sarcastica dalle sue labbra pallide.
Denison non dimenticò mai quella scena perché fu la sua replica che portò Hallam al Premio Nobel e lui stesso all’anonimato.
Non aveva modo di sapere (oppure, se lo avesse saputo, non gliene sarebbe importato) che Hallam possedeva un’enorme testardaggine, quel bisogno di proteggere il proprio orgoglio professionale che è dei mediocri insicuri, che lo avrebbe portato allo splendore della scoperta molto più facilmente che tutta la luce dell’ingegno di Denison.
Hallam agì subito e allo scoperto. Portò il suo metallo sconosciuto al reparto della spettrografia di massa, mossa naturale per un chimico delle radiazioni. Conosceva i tecnici di quel reparto, avendo già lavorato con loro, e sapeva come convincerli. Fu talmente convincente, in effetti, che la sua analisi passò avanti a incarichi ben più importanti.
Alla fine il tecnico addetto allo spettrografo disse: — Ecco, non è tungsteno.
La faccia larga e arcigna di Hallam s’increspò in un sorriso acido. — Bene. Lo diremo a Ingegno-brillante Denison. Voglio una relazione e…
— Un momento, dottor Hallam. Ho detto che non è tungsteno, ma questo non vuoi dire che io sappia cos’è.
— Come sarebbe che non sai cos’è?
— Voglio dire che i risultati sono ridicoli. — Il tecnico rifletté un momento. — Impossibili, anzi. Il rapporto carica-massa è tutto sbagliato.
— Tutto sbagliato in che senso?
— Troppo alto. Non può esistere, semplicemente.
— Be’, allora — disse Hallam e, indipendentemente dalle sue motivazioni, la frase successiva lo mise sulla via che portava al Premio Nobel (un premio meritato, si potrebbe persino aggiungere) — scopri la frequenza dei suoi raggi X caratteristici e calcola la carica nucleare. Non startene lì con le mani in mano a dire che qualcosa è impossibile.
Fu un tecnico sottosopra quello che entrò qualche giorno dopo nell’ufficio di Hallam.
Hallam ignorò il turbamento evidente sul viso dell’altro — non era mai stato un uomo sensibile — e cominciò: — Hai trovato… — A quel punto gettò un’occhiata incerta verso Denison, che sedeva alla sua scrivania nel suo ufficio, e andò a chiudere la porta. — Hai trovato la carica nucleare?
— Sì, ma è sbagliata.
— D’accordo, Tracy. Rifa’ i calcoli.
— Li ho rifatti almeno dieci volte. È sbagliata.
— Se l’hai misurata, è quella che è. Non serve discutere i fatti.
Tracy si strofinò un orecchio e disse: — Ho fatto quello che dovevo, dottore. E, se prendo sul serio i miei calcoli, quello che mi avete dato da analizzare è plutonio 186.
— Plutonio 186? Plutonio 186?
— La carica è +94. La massa 186.
— Ma è impossibile! Non c’è un isotopo del genere. Non può esistere.
— È quello che vi avevo detto io. Ma questi sono i risultati delle analisi.
— Ma, se le cose stanno così, al nucleo mancano più di cinquanta neutroni! Non si può ottenere del plutonio 186. Non si possono cacciare dentro a un nucleo novantaquattro protoni con solo novantadue neutroni e pretendere che restino insieme per più di un trilionesimo di trilionesimo di secondo.
— È quello che vi avevo detto io, dottore — ripeté Tracy, pazientemente.
A quel punto Hallam smise di pensare. Il metallo che era scomparso era tungsteno, e uno dei suoi isotopi, il tungsteno 186, era stabile. Il tungsteno 186 aveva nel nucleo 74 protoni e 112 neutroni. Possibile che qualcosa avesse trasformato venti neutroni in venti protoni? No, era impossibile.
— E ci sono tracce di radioattività? — chiese Hallam, cer. cando a tentoni la strada per uscire dal labirinto.
— Ci ho pensato anch’io — disse il tecnico. — Ma è stabile. Assolutamente stabile.
— Allora non può essere plutonio 186.
— È quello che continuo a dirvi, dottore.
Hallam concluse, senza più speranza: — Be’, dammi quella roba.
Rimasto solo, si mise a sedere fissando a occhi sbarrati la bottiglia. L’isotopo del plutonio più vicino a essere quasi stabile era il plutonio 240, dove erano necessari 146 neutroni per tenere uniti 94 protoni con una parvenza di stabilità, per di più parziale.
E adesso cos’avrebbe fatto? La faccenda gli aveva preso la mano, e lui rimpiangeva di averle dato il via. In fondo, lo aspettava il vero lavoro che gli avevano dato da svolgere e quella cosa — quel mistero — non c’entrava. Tracy doveva avere commesso qualche stupido errore, oppure lo spettrometro di massa non funzionava bene, oppure…
Be’, e con questo? Smettila di pensarci sopra e dimenticatene.
Ma Hallam non poteva comportarsi così. Prima o poi Denison sarebbe capitato lì da lui e con quel suo sorrisetto irritante gli avrebbe chiesto notizie del tungsteno. E lui cos’avrebbe risposto? Avrebbe risposto: “Non è tungsteno, proprio come ti avevo detto”.
E, di sicuro, Denison avrebbe chiesto: “E allora cos’è?”, e per niente al mondo lui si sarebbe esposto al tipo di ridicolo che avrebbe fatto seguito alla dichiarazione che quello era plutonio 186. Perciò, doveva scoprire cos’era e scoprirlo da sé. Ovviamente non poteva fidarsi di nessuno.
Così, un paio di settimane dopo entrava nel laboratorio di Tracy in uno stato che si può ben definire furia nera.
— Ehi, non mi avevi detto che quella roba non era radioattiva?
— Quale roba? — replicò automaticamente Tracy, prima di ricordare.
— Quella roba che hai chiamato plutonio 186 — sbottò Hallam.
— Ah. Ecco, era stabile.
— Stabile come il tuo cervello! Se definisci quella roba non radioattiva, è meglio che tu vada a fare l’idraulico.
Tracy corrugò la fronte. — E va bene, dottore. Datemela qua che vediamo. — Poco dopo esclamò: — Che io sia…! È radioattiva. Non molto, ma lo è Non capisco come ho fatto a non accorgermene.
— E adesso come faccio a fidarmi di quella tua balla che sia plutonio 186?
Ormai Hallam c’era dentro fino al collo. Il mistero era diventato talmente esasperante che lo considerava un affronto personale. Chiunque avesse scambiato la bottiglia con un’altra, o avesse scambiato il contenuto con un altro, doveva averlo fatto di nuovo, oppure doveva aver inventato un metallo al solo scopo di prenderlo in giro. A ogni buon conto lui era disposto a fare a pezzi il mondo per risolvere l’enigma, se doveva… e se ci fosse riuscito.
Sostenuto dalla sua testardaggine e da una determinazione che non rendeva facile a nessuno liberarsi di lui, andò difilato da G.C. Kantrowitsch, a quell’epoca nell’ultimo anno della sua notevole carriera. Era difficile ottenere l’aiuto di Kantrowitsch, ma dopo averlo ottenuto si partiva in quarta.
Due giorni dopo, infatti, il vecchio entrò come un fulmine nell’ufficio di Hallam, in preda all’eccitazione. — Avete toccato questo materiale con le mani?
— Un paio di volte.
— Be’, non fatelo più. Neanche se fosse necessario. Emette positroni.
— Eh?
— I positroni più robusti che io abbia mai visto… E i vostri calcoli della sua radioattività sono in difetto.
— In difetto?
— Troppo bassi. Ma c’è una cosa che non mi quadra. Ogni volta che la misuro è di un tantino più alta che la volta precedente.
Bronowski pescò una mela nella capace tasca della giacca e le diede un morso. — Okay. Hai visto Hallam che ti ha preso a calci come ti aspettavi. E adesso?
— Non ho ancora deciso. Ma, qualunque cosa farò, gli finirà su quel grosso deretano. L’avevo già visto una volta, sai? Anni fa, quando ero appena arrivato qui, quando credevo ancora che fosse un grand’uomo. Un grand’uomo… Il peggior mascalzone nella storia della scienza. Ha riscritto la storia della Pompa, sai, l’ha riscritta qui… — Lamont si toccò la tempia con un dito. — Crede alle sue stesse fantasie e le difende a spada tratta. È un pigmeo con un solo talento: l’abilità di convincere gli altri che è un gigante. — Lamont alzò gli occhi sul faccione placido di Bronowski, ora increspato da un sorriso divertito, e riuscì a rimediare una risatina. — D’accordo, anche questo non serve a niente e comunque te ne ho già parlato.
— Parecchie volte — annuì Bronowski.
— Ma mi scoccia talmente che tutti quanti…
All’epoca in cui Hallam aveva preso in mano il suo tungsteno alterato, Peter Lamont aveva due anni. Ne aveva venticinque quando ottenne il posto alla Prima Stazione della Pompa, anche lui con la tesi di laurea fresca di stampa, e contemporaneamente accettò un incarico presso la facoltà di fisica dell’università.
Per uno così giovane erano risultati più che soddisfacenti. La Prima Stazione non aveva il lustro di quelle costruite successivamente, ma era la nonna di tutta la catena di stazioni che ormai faceva il giro completo del pianeta, anche se la tecnologia su cui si basava aveva soltanto una ventina d’anni. Nessun altro progresso tecnico importante si era mai imposto con tanta rapidità e così totalmente. Ma perché non avrebbe dovuto? Significava energia illimitata, gratuita e senza problemi: era il Babbo Natale e la lampada di Aladino del mondo intero.
Lamont aveva accettato il posto per potersi occupare dei problemi relativi alle più elevate astrazioni teoretiche, invece scoprì di provare un grande interesse per la sorprendente storia della nascita e dello sviluppo della Pompa Elettronica. Non era mai stata scritta nella sua interezza da qualcuno che capisse veramente i principi teorici (per quel tanto che potevano essere capiti) e che fosse anche in grado di spiegarne le difficoltà in modo comprensibile al grosso pubblico. Per la verità lo stesso Hallam aveva scritto diversi articoli divulgativi, che però non costituivano una storia organica e ragionata come quella che Lamont aveva un gran desiderio di scrivere.
Per cominciare utilizzò gli articoli di Hallam e le dichiarazioni, pubblicate, di altre persone — i documenti ufficiali per dirla in breve — che si riferivano all’osservazione di Hallam destinata a sovvertire il mondo, la Grande Intuizione, com’era sovente definita (e invariabilmente con le iniziali maiuscole).
In seguito naturalmente, dopo aver sperimentato le prime delusioni, Lamont scavò più a fondo e nella mente gli nacque il dubbio che la grande intuizione di Hallam non fosse stata proprio di Hallam. Era stata esposta per la prima volta alla riunione di esperti e docenti universitari che costituiva il vero inizio della Pompa Elettronica, eppure, a conti fatti, gli fu estremamente difficile ottenere i particolari di quella riunione e del tutto impossibile reperirne le registrazioni sonore.
Alla fine Lamont cominciò a sospettare che la cancellazione delle orme lasciate sulla sabbia del tempo da quella riunione non fosse interamente accidentale. Mettendo insieme numerosi dati con la sua intelligenza, si convinse che esisteva la ragionevole probabilità che John F.X. McFarland avesse detto qualcosa di molto, molto simile alla dichiarazione fondamentale di Hallam… e che lo avesse fatto prima di Hallam.
Andò a trovare McFarland, che non era inserito in alcuna organizzazione ufficiale e che al momento si occupava di ricerche relative all’atmosfera superiore, con particolare riguardo al vento solare. Non era un lavoro di primissimo piano, ma aveva i suoi vantaggi e molto più che qualche attinenza con gli effetti della Pompa. Era evidente che McFarland era riuscito a non finire nel dimenticatoio, evitando il destino che aveva travolto Denison.
Fu abbastanza cortese con Lamont e accettò di parlare di tutto, tranne che di quanto era successo durante quella riunione. Semplicemente, non la ricordava.
Lamont insisté, riferendogli le prove che aveva raccolto.
McFarland tirò fuori la sua pipa, la caricò, ne esaminò il contenuto con grande attenzione, poi disse, con una strana intensità: — Non intendo ricordare, perché non è importante. Sul serio. Facciamo l’ipotesi che io ammetta di aver detto qualcosa. Nessuno lo crederebbe. Farei la figura dell’idiota.
— E Hallam farebbe in modo che vi mettessero subito in pensione.
— Non ho detto questo, ma non vedo a cosa mi servirebbe. Che differenza fa, a ogni modo?
— È una questione di verità storica! — esclamò Lamont.
— Balle. La verità storica è che Hallam non ha mai mollato. Ha trascinato tutti nelle ricerche, volenti o nolenti. Senza di lui, quel tungsteno alla fine sarebbe esploso, causando chissà quante vittime. E forse non ne avremmo mai avuto un secondo campione e non avremmo mai avuto la Pompa. Per questo Hallam ha diritto al merito, anche se non ha diritto al merito, e se questo concetto è senza senso non posso farci niente, perché la storia non ha senso.
Lamont non fu soddisfatto da questa dichiarazione, ma dovette contentarsene, dal momento che McFarland non volle dire altro.
Verità storica!
Un pezzetto di verità storica che pareva assodato fu che era stata la radioattività a portare al successo il “tungsteno di Hallam” (perché era così che veniva chiamato per consuetudine storica). Non ebbe nessuna importanza che fosse o non fosse tungsteno, che fosse stato manomesso oppure no, e nemmeno che fosse o non fosse un isotopo impossibile. Tutto passò in secondo piano davanti alla stupefacente realtà di qualcosa — qualunque cosa fosse — che mostrava un costante aumento nell’intensità della sua radioattività, in circostanze che escludevano l’esistenza di qualsiasi tipo di disintegrazione radioattiva, in qualsiasi quantità, fino ad allora noto.
Dopo qualche giorno Kantrowitsch borbottò: — Sarà meglio suddividerlo. Se lo teniamo in blocchetti misurabili evaporerà oppure esploderà… oppure farà tutt’e due le cose, conta minando mezza città.
Perciò dapprima venne ridotto in polvere, suddiviso, mescolato con tungsteno normale e in seguito, quando anche questo divenne radioattivo, fu mescolato con grafite, che esponeva una minore sezione d’urto alle radiazioni.
Meno di due mesi dopo che Hallam si era accorto del cambiamento avvenuto nella bottiglia, Kantrowitsch, in una relazione inviata al direttore della Nuclear Reviews, annunciò l’esistenza del plutonio 186, facendo il nome di Hallam come coautore. In questo modo la denominazione originale di Tracy ebbe il crisma dell’ufficialità, ma il nome del tecnico non fu menzionato né allora né mai. Da quel momento in poi il tungsteno di Hallam volò verso il successo a una velocità fantastica e Denison cominciò a notare quei cambiamenti che alla fine dovevano fare di lui una nullità.
L’esistenza del plutonio 186 era già una grossa incongruenza, ma che all’inizio l’elemento si fosse dimostrato stabile e solo in seguito avesse sviluppato una strana radioattività in aumento era molto peggio.
Fu perciò organizzata una riunione ufficiale per esaminare il problema. La presiedette Kantrowitsch, il che costituì un evento interessante dal punto di vista storico, poiché quella fu l’ultima volta, nella storia della Pompa Elettronica, che un incontro ad alto livello a essa connesso non ebbe Hallam come presidente. Per la verità, Kantrowitsch morì cinque mesi dopo, e con lui scomparve l’unica personalità dotata di prestigio sufficiente a tenere Hallam nell’ombra.
La riunione fu stranamente infruttuosa fino al momento in cui Hallam espose la sua Grande Intuizione, ma nella versione dei fatti ricostruita da Lamont la vera svolta cruciale si ebbe durante l’intervallo per il pranzo. Fu allora che McFarland, al quale le relazioni ufficiali non attribuirono alcun intervento benché il suo nome fosse registrato nell’elenco dei presenti, disse: — Sapete, qui occorrerebbe un briciolo di fantasia. Supponiamo che…
Parlava con Diderick van Klemens, e van Klemens riportò quello che McFarland aveva detto nei propri appunti, che redigeva in una specie di stenografia personale. Molto prima che Lamont riuscisse a scovarli, van Klemens era morto e, sebbene quegli appunti fossero convincenti, Lamont dovette ammettere che senza altre testimonianze dirette non costituivano una prova sicura. Per di più non esisteva il modo di accertare se Hallam avesse ascoltato, per caso o di nascosto, quella conversazione. Lamont era pronto a scommettere la testa che l’aveva ascoltata, ma purtroppo nemmeno la sua opinione era una prova soddisfacente.
E poi, anche supponendo che potesse provarlo? Forse ne avrebbe sofferto l’orgoglio sconfinato di Hallam, ma la sua posizione non ne avrebbe affatto risentito. Si sarebbe potuto argomentare che, per lo stesso McFarland, si trattava di una fantasia e che era stato Hallam a considerarla qualcosa di più. Era stato Hallam, inoltre, che aveva avuto il coraggio di mettersi di fronte al gruppo di luminari e di esporla in modo ufficiale, rischiando il ridicolo che poteva derivarne. Di certo McFarland non si sarebbe mai sognato di far mettere agli atti il suo “briciolo di fantasia”.
Lamont, da parte sua, avrebbe potuto controbattere che McFarland era un fisico nucleare famoso, con una reputazione da difendere, mentre Hallam era un radiochimico alle prime armi cui era concesso di dire quello che voleva nel campo della fisica nucleare perché, non essendo quest’ultima di sua competenza, non gliene sarebbe derivato alcun danno.
Comunque fosse, secondo la trascrizione ufficiale della riunione, questo fu ciò che Hallam disse: — Signori, non stiamo approdando a niente. Di conseguenza farò io una proposta, non perché abbia obbligatoriamente senso, ma perché rappresenta la meno assurda di tutte quelle che ho udito fino a questo momento… Ci troviamo di fronte a un elemento, il plutonio 186, che non può affatto esistere, nemmeno come elemento momentaneamente stabile, se le leggi naturali dell’universo hanno qualche valore. Perciò ne consegue, poiché esiste ed è esistito all’origine come elemento stabile, che deve essere esistito, per lo meno all’origine, in un luogo o in un tempo o in circostanze in cui le leggi naturali dell’universo erano diverse dalle nostre. Per dirla in breve, l’elemento che stiamo studiando non ha avuto origine nel nostro universo, ma in un altro… un universo alternativo, un universo parallelo, chiamatelo come volete.
“Quando è arrivato qui — e non pretendo di sapere come abbia fatto — era ancora stabile. A questo punto avanzo l’ipotesi che lo fosse perché aveva portato con sé le leggi del suo universo. Il fatto che sia lentamente diventato radioattivo, e poi sempre più radioattivo, significa forse che le leggi del nostro universo sono penetrate lentamente nella sua sostanza… se capite cosa intendo.
“Vi faccio notare che, contemporaneamente alla comparsa del plutonio 186, abbiamo avuto la sparizione di un campione di tungsteno, composto di numerosi isotopi stabili fra cui il tungsteno 186. Può darsi che questo campione sia slittato nell’universo parallelo. In fondo è logico supporre, perché è più semplice, che abbia avuto luogo uno scambio di massa piuttosto che un trasferimento a senso unico. Nell’universo parallelo il tungsteno 186 forse è anomalo come lo è il plutonio 186 nel nostro. Magari in origine è un elemento stabile che poi diventa lentamente radioattivo, e poi sempre più radioattivo. E può servire come fonte di energia là, così come il plutonio 186 servirebbe qui.”
I presenti dovevano averlo ascoltato con notevole sbalordimento, poiché non fu registrata alcuna interruzione, per lo meno fino all’ultima frase riportata sopra, quando Hallam sembrò fare una pausa per riprendere fiato, forse anche sorpreso per la propria temerarietà.
Qualcuno dei presenti (probabilmente Antoine-Jerome Lapin, ma la registrazione non è chiara) chiese se il professor Hallam intendesse suggerire che un agente intelligente del para-universo avesse deliberatamente eseguito lo scambio allo scopo di ottenere una fonte di energia. L’espressione “para-universo”, in apparenza impiegata come abbreviazione di “universo parallelo”, da quel momento entrò nell’uso comune. In quella domanda registrata, infatti, si fa menzione per la prima volta dell’espressione stessa.
Vi fu una breve pausa, poi Hallam, più temerario che mai, disse — e questo fu il nocciolo della Grande Intuizione: — Sì, ritengo di sì, e ritengo anche che la fonte di energia non possa essere di utilità pratica a meno che l’universo e il para-universo non lavorino insieme, ciascuno alla sua metà di una pompa che spinga l’energia da loro a noi e da noi a loro, approfittando della diversità delle leggi naturali dei due universi.
A questo punto Hallam aveva adottato la definizione “para-universo” e l’aveva fatta propria. Inoltre, fu il primo a usare la parola “pompa” (da quel momento in poi sempre con l’iniziale maiuscola) in rapporto all’argomento.
Il resoconto ufficiale tende a dare l’impressione che l’ipotesi di Hallam provocasse subito grande entusiasmo, ma non fu così. Coloro che erano disposti a discuterla non s’impegnarono più che tanto, limitandosi a dire che era una teoria divertente. Kantrowitsch, in particolare, non aprì bocca. E questo fu il punto cruciale della carriera di Hallam.
Hallam non era in grado di scoprire ed elaborare da solo tutte le implicazioni teoriche e pratiche della sua stessa ipotesi. Occorreva un’équipe di ricerca, e la costituirono. Ma nessuno di coloro che ne fecero parte avrebbe voluto vedere il proprio nome collegato apertamente all’ipotesi, se non quando era ormai troppo tardi. Quando, alla fine, il successo fu indubbio, il pubblico si era già abituato a considerarlo il progetto di Hallam e di Hallam solo. Per tutto il mondo era stato Hallam, e Hallam da solo, che aveva per primo scoperto l’elemento, concepito ed espresso la Grande Intuizione, e di conseguenza fu Hallam il Padre della Pompa Elettronica.
Dopo di che, in vari laboratori vennero lasciati in evidenza, e in modo allettante, granuli di tungsteno metallico. Il trasferimento ebbe luogo nella percentuale di uno su dieci, e così si ottennero nuove scorte di plutonio 186. Furono esposti come esca altri elementi chimici, che però vennero rifiutati. Ma non importava dove comparisse il plutonio 186 o chi fosse a inviarlo all’organizzazione centrale di ricerca che si occupava del problema: per il pubblico si trattava sempre di un altro po’ del “tungsteno di Hallam”.
Fu ancora Hallam a esporre al pubblico, e con il maggior successo possibile, alcuni aspetti teorici della questione. Con sua stessa sorpresa (come ebbe a dichiarare in seguito) scoprì di saper scrivere in modo semplice e piano, e che l’opera di divulgazione gli piaceva. Inoltre, il successo possiede una sua propria inerzia, e il pubblico non accettò di essere informato sul progetto da nessuno che non fosse Hallam.
In un articolo, poi famoso, comparso sul North American Sunday Tele-Times Weekly, scrisse: “Non siamo in grado di dire in quanti modi diversi le leggi del para-universo differiscano dalle nostre, ma possiamo supporre con una certa sicurezza che l’interazione forte dei nuclei atomici, che è la forza più potente conosciuta del nostro universo, sia ancora più potente nel para-universo. Forse cento volte di più. Ciò significa che i protoni restano più facilmente uniti contro la loro stessa attrazione elettrostatica e che un nucleo ha bisogno di meno neutroni per essere stabile.
“Il plutonio 186, stabile nel loro universo, contiene troppi protoni, oppure troppo pochi neutroni, per essere stabile nel nostro con la sua interazione nucleare poco efficiente. Perciò, una volta nel nostro universo, il plutonio 186 comincia a irradiare positroni, emettendo nel contempo energia, e, per ogni positrone emesso, all’interno del nucleo un protone si trasforma in un neutrone. Alla fine, dopo che per ogni nucleo venti protoni si sono trasformati in neutroni, il plutonio 186 è diventato tungsteno 186, che in base alle leggi del nostro universo è stabile. Durante il procedimento per ogni nucleo sono stati eliminati venti positroni, i quali si scontrano e si combinano con venti elettroni, annullandoli e liberando altra energia, di modo che, per ogni nucleo di plutonio 186 che ci viene inviato, il nostro universo finisce col perdere venti elettroni.
“Nel contempo il tungsteno 186 che è entrato nel para-universo è colà instabile per la ragione opposta: secondo le leggi del para-universo ha troppi neutroni, oppure troppo pochi protoni. I nuclei del tungsteno 186 cominciano a emettere elettroni, liberando contemporaneamente energia, e per ogni elettrone emesso un neutrone si trasforma in un protone finché, alla fine, si riforma il plutonio 186. Pertanto, con ogni nucleo di tungsteno 186 mandato nel para-universo, quest’ultimo aumenta di venti elettroni.
“Il plutonio/tungsteno può compiere il suo ciclo all’infinito, avanti e indietro dal nostro universo al para-universo, liberando energia prima nell’uno e poi nell’altro. Il risultato totale è il trasferimento di venti elettroni dal nostro universo al loro per ogni nucleo circolante, ma entrambi ricavano energia da quella che è, in realtà, una Pompa Elettronica Inter-Universale.”
La realizzazione pratica di questa teoria e l’effettiva installazione della Pompa Elettronica come una vera ed efficace fonte di energia ebbero luogo a velocità da primato, e ogni passo in avanti coronato da successo non fece altro che accrescere il prestigio di Hallam.
Lamont non aveva alcun motivo di dubitare dei fondamenti di questo prestigio e fu con una certa qual ammirata riverenza (il cui ricordo in seguito lo imbarazzò e che tentò, con qualche successo, di cancellare dalla memoria) che all’inizio si dette da fare per ottenere da Hallam un colloquio, una specie di intervista, relativo alla storia che aveva intenzione di scrivere.
Hallam parve ben disposto. In un quarto di secolo la sua posizione nella stima del pubblico era diventata talmente stratosferica che ci si poteva meravigliare che il naso non gli sanguinasse. Fisicamente era invecchiato con imponenza, se non con grazia. Il suo corpo massiccio suggeriva una gravità di fatto, e lui riusciva a dare alla faccia, sebbene larga e un po’ grossolana, un’espressione di serena dignità intellettuale. Arrossiva ancora con facilità e la sua suscettibilità era proverbiale.
Prima di far entrare Lamont, Hallam aveva preso su di lui, per vie traverse, qualche informazione basilare. Lo accolse così: — Siete il dottor Peter Lamont e avete fatto un buono studio sulla para-teoria, mi dicono. Ricordo vagamente la vostra tesi. Era sulla para-fusione, vero?
— Sì, professore.
— Rinfrescatemi la memoria. Parlatemene. Alla buona, naturalmente, come se aveste a che fare con un profano. In fondo — e a questo punto fece una risatina chioccia — io sono un profano, in un certo senso. Sono soltanto un radiochimico, lo sapete, e neppure un gran teorico, a meno che non vogliate tener conto di qualche concetto, di tanto in tanto.
Sul momento Lamont ritenne sincera quella dichiarazione e in realtà forse non era così palesemente ipocrita come più tardi egli insisté a spergiurare che fosse stata. Era comunque una caratteristica del metodo di Hallam, come Lamont più tardi scoprì, o quanto meno sostenne che così fosse, quella di tentare d’impadronirsi dei punti essenziali dell’opera altrui. Dopo di che era in grado di parlare con disinvoltura dell’argomento, senza sottolineare o addirittura senza accennare nemmeno di sfuggita al nome dell’autore.
Ma l’allora più giovane Lamont si sentì piuttosto lusingato dal discorsetto e attaccò immediatamente, con quell’ardore che uno prova nello spiegare le proprie scoperte: — Non posso dire di aver fatto un gran che, dottor Hallam. Dedurre le leggi naturali del para-universo, le para-leggi cioè, è parecchio complicato. Abbiamo tanto poco su cui basarci! Io sono partito da quel poco che conosciamo e senza porre come premessa assiomi indimostrabili. Con un’interazione nucleare più forte sembra tuttavia ovvio che la fusione dei nuclei piccoli avvenga con maggiore velocità.
— La para-fusione — corresse Hallam.
— Sì, professore. Il problema stava solo nel calcolare quali fossero i particolari aspetti del processo. La matematica relativa era abbastanza indefinibile, ma, dopo aver fatto alcune trasformazioni, le difficoltà hanno cominciato a dissolversi. È risultato, per esempio, che l’idruro di litio può subire la fusione catastrofica a temperature di quattro ordini di grandezza inferiori a quelle del nostro universo. Per far esplodere qui da noi l’idruro di litio occorrono temperature da bomba a fissione, mentre nel para-universo salterebbe per aria soltanto con… si fa per dire… una carica di dinamite. Parrebbe addirittura possibile che per dar fuoco all’idruro di litio nel para-universo basti un fiammifero, ma non è molto probabile. Dal momento che l’energia di fusione poteva essere normale, per loro, gli abbiamo offerto dell’idruro di litio, ma non lo hanno toccato, sapete.
— Sì, questo lo so.
— Evidentemente sarebbe stato troppo pericoloso. Come se noi usassimo tonnellate e tonnellate di nitroglicerina per i motori dei razzi… solo un po’ peggio.
— Bene, bene… e adesso state scrivendo una storia della Pompa.
— Una cosa alla buona, professore. Quando avrò pronta la prima stesura, vi chiederò il favore di leggerla, se me lo consentite, in modo da avvalermi della vostra profonda conoscenza degli avvenimenti. In realtà, vorrei ricorrere anche adesso a questa conoscenza, se avete un po’ di tempo.
— Posso dedicarvi qualche minuto. Cosa volete sapere? — Hallam era sorridente. Fu l’ultima volta che sorrise in presenza di Lamont.
— La realizzazione di una Pompa funzionante ed efficace, professore, avvenne a velocità fantastica — cominciò Lamont. — Dopo che il Progetto Pompa…
— Il progetto della Pompa Elettronica Inter-Universale — precisò Hallam, ancora sorridente.
— Sì, certo — annuì Lamont, poi si schiarì la gola. — Ecco, usavo solo il gergo corrente. Dunque, dopo che il progetto ebbe inizio, i particolari tecnico-costruttivi vennero sviluppati con grande rapidità e con pochissimo spreco di energie.
— È vero — disse Hallam, con una punta di compiacimento. — Molti hanno tentato di convincermi che tutto il merito era mio, perché l’ho diretto con vigore e senza remore, ma non ci tengo particolarmente che voi lo sottolineiate troppo nel vostro libro. Il fatto è che nel progetto avevamo una quantità di talenti, e non vorrei che i meriti dei singoli individui venissero oscurati dando eccessivo rilievo alla parte da me sostenuta.
Lamont scosse la testa, un po’ seccato: trovava inutile quella precisazione. Replicò: — Non mi riferivo a questo. Intendevo parlare dell’intelligenza all’altra estremità… dei para-uomini, per usare la definizione del pubblico. Sono stati loro a dare l’avvio. Noi li abbiamo scoperti dopo il primo trasferimento di plutonio in cambio del tungsteno, ma, per poter effettuare il trasferimento, ci hanno scoperto loro per primi, e basandosi solo su ipotesi teoriche, senza nemmeno il vantaggio dell’indizio che noi avevamo, grazie a loro. E poi c’è la lamina di ferro che ci hanno fatto avere…
Il sorriso di Hallam era ormai scomparso, e per sempre. Con la fronte aggrottata disse, in tono alto: — Quei simboli erano incomprensibili. Niente che li riguardi è stato…
— Le figure geometriche erano comprensibili, professore L’ho esaminata anch’io ed è evidente che ci indicavano gli schemi geometrici della Pompa. A me pare che…
La poltrona di Hallam venne spinta all’indietro con fracasso rabbioso. — Lasciamo perdere l’argomento, giovanotto! — esclamò Hallam. — Il lavoro lo abbiamo fatto noi, non loro!
— Sì… ma non è forse vero che loro?…
— Che loro cosa?
Lamont si accorse finalmente dell’uragano di emozioni che aveva suscitato, ma non riusciva a capirne la causa. Rispose, incerto: — Che loro sono più intelligenti di noi… che il lavoro essenziale lo hanno fatto loro. C’è qualche dubbio in proposito, professore?
Rosso in faccia, Hallam si era alzato. — Ci sono tutti i dubbi possibili! — strillò. — Io non voglio che qui si faccia del misticismo. Ce n’è anche troppo, di quello! Statemi a sentire, giovanotto. — Avanzò fin davanti a Lamont, ancora seduto e completamente sbalordito, e gli scosse l’indice tozzo sotto il naso. — Se il vostro libro intende sostenere che noi siamo stati marionette manovrate dai para-uomini, non verrà mai pubblicato da questo ente. E da nessun altro, se sarà per me. Non voglio che si degradino il genere umano e l’intelligenza umana e non voglio nemmeno che ai para-uomini sia assegnata la parte di dei!
Lamont non poté fare altro che andarsene, perplesso e piuttosto sconvolto per aver dato origine a un profondo risentimento, mentre aveva chiesto solo un po’ di buona volontà.
E subito dopo scoprì che le sue fonti storielle si erano d’un tratto prosciugate: tutti quelli che fino a una settimana prima erano stati abbastanza loquaci adesso non ricordavano più niente e non avevano più tempo per altri colloqui.
Sulle prime ne fu irritato, poi, lentamente, dentro di lui nacque e crebbe la collera. Ristudiò i dati che già possedeva da un’altra angolazione e, mentre prima si limitava a fare domande, adesso cominciò a insistere per scavare più a fondo. Quando lo incontrava in qualche occasione ufficiale, Hallam faceva la faccia scura e lo ignorava, e Lamont, a sua volta, assunse man mano un atteggiamento sempre più sprezzante.
Il risultato definitivo fu che la carriera di Lamont come para-teorico s’interruppe agli inizi, e lui ripiegò, ma con più determinazione di prima, verso la carriera secondaria di storico della scienza.
— Quel maledetto imbecille — borbottò Lamont, ricordando il passato. — Avresti dovuto vederlo, Mike, com’era terrorizzato alla sola idea che fosse l’altra parte la forza motrice del progetto. Quando ci ripenso, mi chiedo sempre… come ho fatto a conoscerlo, anche solo superficialmene, e a non capire subito che avrebbe reagito a quel modo. Tu dovresti ringraziare il Cielo di non aver mai dovuto lavorare con lui.
— Lo ringrazio — disse Bronowski con noncuranza, — anche se qualche volta nemmeno tu sei un angelo.
— Non lamentarti. Col tipo di lavoro che svolgi, tu non sollevi problemi!
— E nemmeno interesse. A chi importa del mio lavoro, tranne che a me e ad altre cinque persone in tutto il mondo? O forse ad altre sei… se ben ricordi.
Lamont ricordava. — Ah, sì — disse.
L’aspetto placido di Bronowski non ingannava nessuno che lo conoscesse anche non troppo bene. Aveva un’intelligenza acuta e macinava un problema finché non ne trovava la soluzione, oppure finché non lo aveva talmente sviscerato da sapere per certo che non esisteva alcuna soluzione.
Prendiamo come esempio le iscrizioni etrusche sulle quali aveva costruito la sua reputazione. La lingua etrusca era stata una lingua viva fino al I secolo d.C, ma l’imperialismo culturale dei Romani aveva fatto tabula rasa ed essa era scomparsa quasi completamente. Le iscrizioni sopravvissute al massacro dell’ostilità o, peggio, dell’indifferenza dei Romani, erano scritte in lettere greche, in modo che i Romani potessero pronunciarle, ma era tutto qui. Pareva che l’etrusco non avesse alcun rapporto con nessuna delle lingue dei popoli circostanti; pareva una lingua arcaica; pareva addirittura che non fosse di ceppo indoeuropeo.
Di conseguenza Bronowski passò a studiare un’altra lingua che pareva non avere alcun rapporto con le lingue dei popoli circostanti, che pareva arcaica e che pareva addirittura non essere di ceppo indoeuropeo… ma che era ancora una lingua viva e parlata in una regione non proprio lontanissima da quella in cui erano vissuti gli Etruschi.
Cosa si poteva dire della lingua basca, infatti?, si chiese Bronowski. E usò il basco come guida. Prima di lui lo aveva già fatto qualcun altro, ma poi aveva rinunciato. Bronowski non rinunciò.
Fu una dura fatica perché il basco, linguaggio già di per sé estremamente difficile, gli forniva solo appigli molto vaghi. Mentre procedeva, Bronowski scoprì un numero via via maggiore di motivi per sospettare che fosse esistito qualche rapporto culturale tra gli antichi abitanti dell’Italia settentrionale e quelli della Spagna settentrionale. Riuscì anche a riscontrare, con una notevole quantità di campioni, la forte probabilità di un’espansione nell’Europa occidentale di Celti primitivi, che possedevano una lingua di cui l’etrusco e il basco erano gli ultimi e pallidi epigoni. In duemila anni, tuttavia, il basco si era evoluto ed era stato non poco contaminato dallo spagnolo. Tentare dapprima di ricavare logicamente la sua struttura grammaticale al tempo dei Romani, e successivamente metterla in rapporto con l’etrusco era un’impresa di una difficoltà inimmaginabile, e Bronowski, compiendola con pieno successo, sbalordì i filologi del mondo intero.
Le traduzioni dall’etrusco, di per sé, erano prodigi di monotonia e di pochissima importanza storica: per la maggior parte si trattava di normali iscrizioni funerarie. Ma il fatto stesso della traduzione era strabiliante e, come risultò in seguito, si dimostrò importantissimo per Lamont.
Non subito, però. Per essere assolutamente sinceri, le traduzioni dall’etrusco erano una realtà quasi cinque anni prima che Lamont venisse a sapere che nell’antichità era esistito un popolo come gli Etruschi. Fu quando Bronowski giunse all’università per tenere una delle solite conferenze annuali ai docenti incaricati e Lamont, il quale normalmente si sottraeva al dovere di assistervi, fu presente a quella particolare conferenza.
Non lo fece perché ne conoscesse l’importanza o se ne sentisse interessato: lo fece perché aveva dato appuntamento a una laureanda della facoltà di Lingue Romanze e l’alternativa alla conferenza era una serata musicale che lui voleva evitare a tutti i costi. La relazione sociale con quella ragazza non era impegnativa; dal punto di vista di Lamont era, anzi, poco soddisfacente e del tutto transitoria, ma lo condusse alla conferenza.
Successe anche che ci si divertì. Per la prima volta la misteriosa civiltà etrusca colpì la sua intelligenza come qualcosa di blandamente notevole, mentre il problema di decifrare una lingua incomprensibile lo affascinò addirittura. Da ragazzo gli era sempre piaciuto risolvere crittogrammi, ma poi aveva messo da parte l’enigmistica, insieme a tutti gli altri giochi infantili, per dedicarsi ai crittogrammi ben più importanti posti dalla natura, tanto che era finito nella para-teoria.
Ma le parole di Bronowski lo riportarono ai lontani entusiasmi giovanili, di quando si riusciva a dare un senso compiuto a ciò che pareva una serie di simboli presi a casaccio, con l’aggiunta di difficoltà sufficienti a rendere il compito degno di lodi e onori. Bronowski era un esperto di crittogrammi su grandissima scala, e fu la descrizione di come l’intelligenza e la logica avessero lentamente avuto ragione del mistero quello che più attrasse Lamont.
Eppure sarebbe stato tutto inutile — la triplice coincidenza dell’apparizione di Bronowski all’università, l’interesse giovanile di Lamont per i crittogrammi e l’insistenza di una ragazza attraente a voler uscire — se proprio il giorno dopo Lamont non avesse avuto il suo colloquio con Hallam e non si fosse decisamente e definitivamente tirato, come scoprì in seguito, la zappa sui piedi.
Meno di un’ora dopo la conclusione del colloquio, Lamont decise di vedere Bronowski. Il motivo contingente era lo stesso che a lui era sembrato così ovvio mentre aveva offeso a morte Hallam. Poiché era stato la causa della sua condanna, si sentiva in dovere di reagire, restituendo ad Hallam la pariglia e proprio in merito al punto controverso. I para-uomini erano più intelligenti degli uomini. Fino a quel momento Lamont ne era stato convinto, ma senza annettervi eccessiva importanza, ritenendolo un fatto ovvio, non vitale. Adesso era diventato vitale: doveva trovarne la prova inconfutabile per ficcarla in gola ad Hallam. Possibilmente di traverso e con tutti gli spigoli più aguzzi all’esterno.
Ormai l’ammirazione provata fino a poco prima per il grand’uomo era talmente lontana da lui, che era deliziato dalla sola prospettiva di una rivincita.
Bronowski era ancora nel campus universitario e Lamont, dopo averlo rintracciato, insisté per parlargli.
Quando alla fine riuscì a incastrarlo, Bronowski si mostrò blandamente cortese.
Lamont mise subito da parte i convenevoli, si presentò seccamente e disse: — Dottor Bronowski, sono felice di avervi trovato prima che partiate. Spero, anzi, di convincervi a rimanere più a lungo.
— Potrebbe non essere difficile — replicò Bronowski. — Mi hanno offerto un incarico in facoltà.
— Lo accetterete?
— Ci sto pensando. Forse.
— Dovete accettarlo. Ve ne convincerete quando avrete ascoltato quello che ho da dirvi. Dottor Bronowski, che cosa vi resta da fare adesso che avete risolto il mistero delle iscrizioni etrusche?
— Non è quella la mia sola occupazione, giovanotto! — (Bronowski aveva cinque anni più di Lamont.) — Io sono un archeologo e, oltre alle iscrizioni, esiste una civiltà etrusca e, oltre agli Etruschi, esiste una civiltà italica preclassica.
— Ma sono sicuro che non esiste niente di altrettanto eccitante e stimolante delle iscrizioni etrusche.
— Questo è garantito.
— Perciò accettereste a braccia aperte qualcosa di ben più eccitante e più stimolante e un trilione di volte più importante delle iscrizioni etrusche?
— Cos’avete in mente, dottor… Lamont?
— Noi possediamo delle iscrizioni che non appartengono né a una civiltà morta né a una civiltà terrestre e nemmeno a una civiltà esistente in questo universo. Abbiamo qui qualcosa che chiamiamo para-simboli.
— Ne ho sentito parlare anch’io. Anzi, li ho visti.
— Quindi, di sicuro vi è venuta la voglia di risolvere il problema, vero, dottor Bronowski? Anche voi desiderate scoprire il loro significato?
— Per niente, dottor Lamont. Perché non esiste alcun problema da risolvere.
Lamont lo fissò con occhi sospettosi. — Volete dire che sapete leggerli?
Bronowski scosse la testa. — Mi avete frainteso. Voglio dire che io non posso leggerli e che non lo può nessun altro. Non esiste una base da cui partire. Nel caso delle lingue terrestri, per morte che siano, esiste sempre la possibilità di scoprire una lingua viva o una lingua morta già decifrata che abbia un rapporto, pur tenue, con quella in esame. E, in mancanza di questo rapporto, sussiste per lo meno il fatto che ogni lingua terrestre è stata scritta da esseri umani, che hanno un modo di pensare umano. Questo è un punto di partenza, per quanto labile. Ma il caso dei para-simboli è completamente diverso, tanto che essi costituiscono un problema che in tutta evidenza non ha soluzione. Un caso insolubile non è un problema.
Solo con difficoltà Lamont si era trattenuto dall’interromperlo. Adesso proruppe: — Vi sbagliate, dottor Bronowski. Non è che io voglia insegnarvi il vostro mestiere, ma voi non conoscete alcuni fatti che il mio mestiere ha reso evidenti. Noi abbiamo a che fare con para-uomini, relativamente ai quali non conosciamo quasi niente. Non sappiamo a cosa somigliano, qual è il loro modo di pensare, in che tipo di mondo vivono. Quasi niente, per quanto sia elementare e fondamentale. Su questo avete ragione.
— Ma questo è il quasi niente che conoscete, non è così? — Bronowski non sembrava impressionato. Tirò fuori di tasca un pacchetto di fichi secchi, lo aprì e se ne mise uno in bocca. Offrì il pacchetto a Lamont, che scosse la testa, rifiutando.
— Giusto — disse, invece. — Conosciamo una cosa d’importanza capitale. Loro sono più intelligenti di noi. Prova prima: possono eseguire lo scambio attraverso la breccia inter-universale, mentre noi svolgiamo solo un ruolo passivo. — S’interruppe, poi chiese: — Voi sapete qualcosa della Pompa Elettronica Inter-universale?
— Qualcosa — rispose Bronowski. — Abbastanza da seguirvi, dottore, se non vi addentrate in particolari troppo tecnici.
Lamont si affrettò a continuare: — Prova seconda: ci hanno mandato le istruzioni per costruire e montare la nostra parte della Pompa. Potevamo non capirne niente, ma eravamo in grado d’interpretare i loro disegni abbastanza bene da afferrarne i concetti principali. Prova terza: non so come, ma loro riescono a sentirci. Quanto meno, si accorgono quando gli lasciamo il tungsteno da scambiare, per esempio. Sanno dove si trova e possono agire su di esso, mentre noi non possiamo fare niente del genere. Vi sono altre prove, ma queste mi sembrano sufficienti a dimostrare che i para-uomini sono senz’altro più intelligenti di noi.
— Immagino, però, che siate in minoranza — commentò Bronowski. — Di certo i vostri colleghi non condividono questa vostra teoria.
— Infatti. Ma come fate a saperlo?
— Perché è evidente, secondo me, che vi sbagliate.
— Le mie prove sono esatte. E, se loro lo sono, come posso sbagliare io?
— Voi state semplicemente dimostrando che la tecnologia dei para-uomini è più progredita della nostra. Cosa c’entra questo con l’intelligenza? Sentite… — Bronowski si alzò per togliersi la giacca, poi tornò a sedersi, in posizione semisdraiata, il corpo grassoccio rilassato in mille pieghe, come se il mettersi fisicamente a suo agio lo aiutasse a pensare meglio — …circa duecento e cinquant’anni fa il comandante in capo della Marina americana Matthew Perry guidò la sua piccola flotta di navi nella rada di Tokyo. I giapponesi, che fino ad allora erano rimasti isolati, si trovarono di fronte una tecnologia notevolmente superiore alla loro e decisero che era poco saggio opporre resistenza. Un intero popolo bellicoso, composto da milioni di individui, rimase impotente di fronte a poche navi provenienti dall’altra sponda dell’oceano. Ciò prova forse che gli americani erano più intelligenti dei giapponesi, oppure soltanto che la civiltà occidentale aveva preso una direzione diversa? Ovviamente questa seconda ipotesi è quella giusta, dal momento che nel giro di cinquant’anni i giapponesi riuscirono a imitare la tecnologia occidentale e in altri cinquanta divennero una delle principali potenze industriali del mondo, nonostante fossero stati sconfitti in una delle guerre dell’epoca.
Serio, Lamont ascoltò fino in fondo, poi disse: — Ci avevo pensato anch’io, dottor Bronowski, anche se non sapevo niente dei giapponesi… mi dispiace di non aver mai avuto il tempo di studiare la storia. Ma il paragone non calza. Qui abbiamo qualcosa di più di una superiorità tecnologica: è una questione di differenza nel grado d’intelligenza!
— Come fate a dirlo, oltre che per supposizione?
— Per il semplice fatto che ci hanno mandato delle direttive. Erano ansiosi che installassimo la nostra parte della Pompa, perciò dovevano metterci in grado di farlo. Non potevano fisicamente attraversare la breccia tra i due universi. Persino le sottili lamine di ferro sulle quali hanno inciso i loro messaggi… il ferro è l’elemento più vicino alla stabilità sia da noi che da loro… sono diventate a poco a poco radioattive, tanto che siamo stati costretti a farle a pezzi, non senza, è ovvio, averne fatto preventivamente delle copie con materiali nostrani. — S’interruppe per tirare il fiato e anche perché si sentiva troppo eccitato, troppo ansioso. Non doveva eccedere se non voleva rovinare tutto.
Bronowski lo osservava incuriosito. — D’accordo, ci hanno mandato dei messaggi. Cosa state cercando di dedurre da questo fatto?
— Che si aspettavano che li capissimo. Oppure erano talmente stupidi da mandarci messaggi piuttosto complicati, e in qualche caso anche molto lunghi, se sapevano che non li avremmo capiti?… Se non fosse stato per i loro disegni, ci saremmo persi per strada. Quindi, se prevedevano che li capissimo, può essere solo perché immaginavano che esseri simili a noi, che possedevano una tecnologia press’a poco avanzata come la loro… e sono stati capaci di valutarla esattamente, anche se non so come, e questo è un altro punto a favore della mia tesi… dovevano anche essere pressappoco intelligenti come loro e non avrebbero incontrato grandi difficoltà a decifrare i loro simboli.
— Questa potrebbe anche essere la dimostrazione della loro ingenuità — disse Bronowski, per niente convinto.
— Volete dire che essi ritengono che esista una sola lingua, scritta e parlata, e credono che un’altra intelligenza, in un altro universo, la parli e la scriva come loro? Ma andiamo!
Bronowski replicò: — Anche se fossi persuaso che avete ragione, cosa vi aspettate che faccia? Ho già esaminato i para-simboli, come credo abbiano fatto tutti gli archeologi e i filologi di questo mondo. Ma non vedo cosa potrei fare… o cosa potrebbe fare qualcun altro. In vent’anni e più, nessuno ha fatto il minimo progresso.
— Il fatto è che in questi vent’anni nessuno ha desiderato fare progressi — disse Lamont, con fervore. — I capi della Pompa non vogliono che i simboli siano decifrati.
— Perché no?
— Perché esiste la seccante probabilità che comunicare con i para-uomini dimostri che sono palesemente più intelligenti di noi. Perché questo dimostrerebbe che gli esseri umani sono, delle due parti in causa, i burattini e non i burattinai, per quanto riguarda la Pompa, e il loro orgoglio ne resterebbe ferito. E, soprattutto — qui Lamont lottò per non dare un tono velenoso alle sue parole, — perché Hallam perderebbe il merito di essere il Padre della Pompa Elettronica.
— Supponiamo invece che avessero voluto fare progressi. Che cosa potevano fare? Volere non è potere, lo sapete anche voi.
— Potevano chiedere e ottenere la collaborazione dei para-uomini. Potevano mandare messaggi al para-universo. Non è stato mai fatto, ma si potrebbe tentare. Un messaggio inciso su una lamina metallica con sopra un granulo di tungsteno.
— Ah! I para-uomini cercano altri campioni di tungsteno con la Pompa già in funzione?
— No, ma si accorgerebbero del tungsteno e capirebbero che lo usiamo per attirare la loro attenzione. Potremmo addirittura incidere il messaggio su una lamina di tungsteno. Se loro la prendono e riescono a dargli un senso, anche il più piccolo, risponderanno con un altro messaggio loro, unendovi quello che hanno capito del nostro. Potrebbero magari inviarci un elenco di parole equivalenti, nostre e loro, oppure mescolare insieme parole nostre e parole loro. Sarebbe una specie di collegamento a doppia spinta, prima dalla loro parte, poi dalla nostra, poi dalla loro e così via.
— Ma la fatica sarebbe quasi tutta loro — commentò Bronowski.
— Sì.
Bronowski scosse la testa. — E tutto il divertimento dove va a finire? No, non mi attira per niente.
Lamont lo fissò con improvvisa collera. — Perché no? Credete che non vi resterebbe abbastanza merito? Che non vi darebbe sufficiente notorietà? Cosa siete, un cacciatore di notorietà? Che bella specie di fama avete ricavato da quelle maledette iscrizioni etrusche! Avete battuto sul tempo cinque persone, in tutto il mondo! Forse sei. Per loro voi siete il non plus ultra, il padrone del vapore, e vi odiano. E poi? Continuerete a tenere conferenze sull’argomento davanti a un pubblico di qualche decina di persone che il giorno dopo avranno già dimenticato come vi chiamate. È questo che volete sul serio?
— Non fate il melodrammatico.
— D’accordo, la smetto. Troverò qualcun altro. Forse ci vorrà del tempo, ma, come avete detto voi stesso, saranno comunque i para-uomini a fare quasi tutto il lavoro. Se sarà necessario, il resto lo farò io.
— Vi hanno dato l’incarico di portare avanti questo progetto?
— No. E con ciò? Oppure questo è un altro motivo per cui non volete averci a che fare? Problemi di etica professionale? Non esiste nessuna legge che proibisca di tentare una traduzione e nessuno può impedirmi di mettere del tungsteno sulla mia scrivania. Però non ho intenzione di riferire i messaggi che otterrò in cambio del tungsteno e a questo punto violerò il codice della ricerca scientifica. Ma, quando la traduzione sarà cosa fatta, chi se ne lamenterà? Siete disposto a lavorare insieme a me, se vi garantisco che sarete al sicuro e che il vostro intervento resterà un segreto? Perdereste qualcosa in notorietà, ma forse date maggior valore alla vostra sicurezza. Oh, be’… — Lamont alzò le spalle. — Se farò tutto da solo, avrò il vantaggio di non dovermi preoccupare della sicurezza di un altro.
Si alzò, pronto ad andarsene. Erano tutti e due arrabbiati e si comportarono con quella rigida cortesia formale che si riserva a una persona che vi è ostile, pur tenendo alle buone maniere.
— Oso sperare, quanto meno, che considererete confidenziale questo colloquio — disse ancora Lamont.
Bronowski si era alzato a sua volta. — Di questo potete star sicuro — disse freddamente, e i due uomini si lasciarono con una rapida stretta di mano.
Lamont riteneva di non rivedere mai più Bronowski, perciò dentro di sé iniziò subito il procedimento per autoconvincersi che sarebbe stato meglio affrontare da solo il problema della traduzione dei messaggi.
Ma due giorni dopo Bronowski entrò nel suo laboratorio e disse, piuttosto brusco: — Sono di partenza, ma tornerò in settembre. Ho accettato una cattedra in questa università e, se v’interesserà ancora, vedrò cosa potrò fare circa quel problema di traduzioni di cui mi avete accennato.
Lamont ebbe appena il tempo di esprimergli un ringraziamento un po’ sorpreso, che Bronowski si congedò, in apparenza più arrabbiato di avergli ceduto che di avergli resistito fino a quel momento.
Col tempo divennero amici e, col tempo, Lamont scoprì come mai Bronowski avesse cambiato idea. Il giorno dopo la loro discussione Bronowski era stato invitato a pranzo al Club di Facoltà, insieme a un gruppo di professori e alti papaveri dell’università, compreso ovviamente il rettore. Aveva annunciato che accettava la cattedra e che a tempo debito avrebbe inviato una lettera di accettazione, secondo la prassi, e aveva espresso i suoi ringraziamenti formali e la sua soddisfazione.
Il rettore aveva risposto: — Sarà una piuma al nostro cappello avere in università il rinomato traduttore delle iscrizioni itasche. Siamo noi a essere onorati.
Nessuno se l’era sentita, ovviamente, di correggere quello strafalcione, e il sorriso di Bronowski, sebbene forzato, non aveva fatto una piega. Poco dopo il preside della facoltà di Storia Antica gli aveva spiegato che il rettore era più uno studioso di antiche civiltà indiane del Minnesota che un esperto di antichità classica e, dal momento che il lago Itasca era la sorgente del grande Mississippi, il lapsus era giustificabile.
Ma, collegandola con l’ironico disprezzo di Lamont verso l’estensione della sua fama, per Bronowski quella frase fu bruciante.
Quando finalmente seppe tutta la storia, Lamont ne fu divertito. — Non c’è bisogno che continui — disse. — Ci sono passato anch’io! Scommetto che ti sei detto: “Perdio, farò qualcosa che persino quella testa di rapa non farà fatica a capire!”.
— Qualcosa del genere — disse Bronowski.
Dopo un anno di fatiche, tuttavia, avevano concluso ben poco. Alla fine erano stati inviati dei messaggi, e altri messaggi erano tornati indietro. Risultato: zero.
— Solo un’idea! — aveva detto febbrilmente Lamont a Bronowski. — Una qualunque misera idea. Prova a cavarne fuori qualcosa!
— È proprio quello che sto facendo, Pete. Perché hai tanta fretta? Ci ho messo dodici anni per le iscrizioni etrusche. Pensi che queste richiederanno meno tempo?
— Sant’Iddio, Mike! Non possiamo metterci dodici anni!
— Perché no? Senti, Pete, non mi è sfuggito il fatto che il tuo comportamento è cambiato. È un mese o giù di lì che sei diventato insopportabile. Credevo che avessimo chiarito fin dal principio che i risultati non sarebbero arrivati in fretta e che avremmo dovuto essere pazienti. Credevo anche che tu avessi capito che io avevo da svolgere i miei compiti regolari all’università. Senti, te l’ho già chiesto un mucchio di volte, ormai. Te lo chiedo ancora. Perché ti è venuta tutta questa fretta?
— Perché ho fretta — rispose Lamont, rabbioso. — Perché voglio finirla alla svelta.
— Bella risposta — replicò Bronowski, secco. — Anch’io lo voglio. Insomma, non mi dirai che stai per morire da un momento all’altro, no? O per caso il tuo medico ti ha scoperto un cancro che non perdona?
— No, no — borbottò Lamont.
— E allora?
— Non importa — disse Lamont, e se ne andò di furia.
Quando, agli inizi, aveva cercato di convincere Bronowski a unire le loro forze, Lamont ce l’aveva soltanto con la meschinità e l’ostinazione di Hallam in merito alla teoria della superiore intelligenza dei para-uomini, ed era per questo, e soltanto per questo, che lottava per ottenerne la prova lampante. Non aveva altre intenzioni… all’inizio.
Ma nel corso dei mesi successivi era stato sottoposto a tensioni e angherie senza fine. Le sue richieste di materiali, di assistenza tecnica, di tempo del computer subirono ritardi immotivati; le sue richieste di fondi per viaggi di lavoro vennero tutte respinte; i suoi interventi alle riunioni d’interfacoltà invariabilmente snobbati.
Il punto di rottura giunse quando Henry Garrison, più giovane di lui come anzianità e decisamente inferiore a lui quanto a competenza, ottenne il posto vacante in un comitato consultivo, una nomina ricca di prestigio, che sarebbe dovuta toccare a lui di diritto. Fu allora che il suo rancore arrivò a un punto tale che non gli bastò più provare a se stesso di aver ragione: desiderò con tutte le sue forze schiacciare Hallam, distruggerlo completamente.
Questo desiderio veniva rinfocolato ogni giorno, quasi ogni ora, dall’inequivocabile atteggiamento di tutti i colleghi della Stazione della Pompa, tanto più che il carattere ruvido di Lamont non era tale da accattivargli la simpatia altrui, sebbene qualche amico se lo fosse fatto.
Persino Garrison fu imbarazzato da quella nomina. Era un giovanotto simpatico, che parlava sempre in modo calmo e ovviamente non andava in cerca di guai, così che la sua espressione, quando si presentò sulla soglia dell’ufficio di Lamont, era un po’ più che intimorita.
Cominciò: — Ciao, Pete. Posso dirti una parola?
— Anche un mucchio, se vuoi — replicò Lamont corruccia to, evitando di guardarlo negli occhi.
Garrison entrò e si mise a sedere. — Pete, non posso rifiutare la nomina — disse, — ma voglio che tu sappia che non ho fatto niente per averla. È stata una sorpresa anche per me.
— Chi ti ha chiesto di rifiutare? Non me ne importa un cavolo!
— Pete, è stato Hallam. Se rifiuto, la darà a qualcun altro, non a te. Cosa gli hai fatto, al vecchio?
Lamont ribatté con una domanda: — Cosa ne pensi, tu, di Hallam? Che tipo di uomo è, secondo te?
Garrison venne colto di sorpresa. Sporse le labbra e si grattò il naso. — Be’… — cominciò, e lasciò che la sillaba svanisse nell’aria.
— È un grand’uomo? Uno scienziato brillante? Un caposcuola ispirato?
— Be’…
— Te lo dirò io, allora. Quello è un pallone gonfiato! Un imbroglione! Si è preso la fama e la posizione che ha, e ci sta seduto sopra tremando di paura! Sa che io l’ho capito e lo conosco per quello che è, ed è per questo che ce l’ha con me!
Garrison fece una risatina incerta. — Non sarai per caso andato da lui a dirgli…
— No, non gliel’ho detto in faccia — lo interruppe Lamont, cupo. — Un giorno o l’altro lo farò. Ma lui lo ha capito lo stesso. Sa che non è riuscito a farmi fesso, anche se non gli ho detto niente.
— Ma, Pete, a cosa ti serve farglielo capire? Neanch’io credo che sia il più grand’uomo del mondo, ma che senso ha strombazzarlo ai quattro venti? Liscialo un po’, invece. È lui che ha in mano la tua carriera.
— Ah, sì? E io ho la sua reputazione nelle mie. E glielo farò vedere. Gliela toglierò di dosso lasciandolo nudo come un verme!
— Come farai?
— Affari miei! — borbottò Lamont, che in quel momento non ne aveva la più pallida idea.
— Ma è ridicolo! — disse Garrison. — Non puoi spuntarla! Sarà lui a distruggerti. Anche se non è un Einstein o un Oppenheimer, agli occhi del mondo è persino più di loro. È lui il Padre della Pompa Elettronica per i due miliardi di abitanti della Terra, e niente di quello che tu potrai fare gli farà cambiare idea, fino a che la Pompa Elettronica sarà la chiave del paradiso terrestre per l’umanità. Finché sarà così, Hallam sarà intoccabile, e tu sei matto se credi il contrario. All’inferno, Pete! Vagli a dire che è un grand’uomo e inghiotti il rospo. Non fare come Denison!
— Ti dico io cosa devi fare tu, Henry! — sbottò Lamont, in un impeto di rabbia. — Fatti gli affari tuoi!
Garrison si alzò di scatto e se ne andò senza più dire una parola. Lamont si era fatto un altro nemico o, quanto meno, aveva perso un altro amico. Tuttavia, il prezzo era equo, decise alla fine, perché un’osservazione di Garrison aveva mandato la palla a rotolare in una nuova direzione.
Garrison aveva detto, in sostanza: “…finché la Pompa Elettronica sarà la chiave del paradiso per l’uomo… Hallam sarà intoccabile”.
Con queste parole che gli rimbombavano nella mente, per la prima volta Lamont distolse la sua attenzione da Hallam per concentrarla sulla Pompa Elettronica.
La Pompa Elettronica era davvero la chiave del paradiso per l’uomo? Oppure c’era, per tutti i cieli, un inghippo?
Non era mai esistito niente, nella storia, che non avesse il suo inghippo. Qual era quello della Pompa Elettronica?
Lamont conosceva abbastanza bene la storia della para-teoria per sapere che anche la questione “inghippo” era stata debitamente presa in esame. Quando, per la prima volta, era stato annunciato che la variazione totale di base nella Pompa Elettronica consisteva nel Pompaggio di elettroni dal nostro universo al para-universo, non era mancato chi aveva immediatamente chiesto: “Ma cosa succederà quando saranno stati pompati di là tutti gli elettroni?”.
Era stato facile rispondere a questa domanda. Alla maggior velocità possibile di Pompaggio la scorta di elettroni sarebbe durata per almeno un trilione di trilioni di trilioni di anni, mentre l’intero universo — e presumibilmente anche il para-universo — non sarebbe durato che una frazione minima di questo tempo.
La successiva obiezione era stata più raffinata. Il Pompaggio di tutti gli elettroni da un universo all’altro era materialmente impossibile. Ricevendo gli elettroni attraverso la Pompa Elettronica il para-universo avrebbe guadagnato al netto una carica negativa e l’universo una carica positiva. Anno dopo anno, accrescendosi il divario tra le due cariche, sarebbe diventato sempre più difficile pompare altri elettroni a causa della forza opposta dalla differenza tra le cariche. Ovviamente, in realtà erano atomi neutri quelli che venivano pompati, ma la distorsione degli elettroni orbitali durante il procedimento dava origine a una carica effettiva, che aumentava in misura enorme con i conseguenti mutamenti radioattivi.
Se la concentrazione di tale carica fosse rimasta nei punti in cui avveniva il Pompaggio, l’effetto degli atomi dall’orbita distorta che vi erano pompati avrebbe bloccato quasi subito l’intero procedimento, ma naturalmente bisognava tenere conto della dispersione. La concentrazione di carica si disperdeva infatti verso l’alto, al di sopra della Terra, e i risultati del funzionamento della Pompa Elettronica erano stati calcolati tenendo presente questa situazione di fatto.
L’aumento della carica positiva della Terra di norma costringeva il vento solare, che ha una carica positiva, a evitare il pianeta a una distanza superiore a quella normale, e di conseguenza la magnetosfera si allargava. Grazie al lavoro di McFarland (il vero ideatore della Grande Intuizione, secondo Lamont), si poté dimostrare che si era raggiunto un preciso punto di equilibrio, quando il vento solare portò via con sé una quantità sempre maggiore di particelle positive respinte dalla superficie della Terra, disperdendole nell’esosfera. A ogni aumento nel ritmo del Pompaggio e a ogni nuova Stazione costruita, la carica positiva sulla Terra cresceva di un poco e la magnetosfera si allargava di qualche chilometro. Il cambiamento, tuttavia, era di relativa importanza, dato che in definitiva la carica positiva veniva portata via dal vento solare e sparsa nello spazio fino ai margini estremi del sistema solare.
Anche così, vale a dire anche ammettendo che la carica si disperdesse alla maggior velocità possibile, sarebbe arrivato il momento in cui il divario tra le cariche dell’universo e del para-universo nei punti di Pompaggio sarebbe aumentato tanto da interrompere il procedimento, e ciò sarebbe avvenuto in una frazione del tempo necessario a consumare tutti gli elettroni: grosso modo in un trilionesimo di trilionesimo di quel tempo.
Ma questo significava che il funzionamento della Pompa Elettronica poteva continuare ininterrotto per un trilione di anni. Per un solo trilione di anni. Era comunque abbastanza: sarebbe bastato. Un trilione di anni, cioè mille miliardi di anni, era ben più di quanto sarebbe durato l’uomo, o l’intero sistema solare, se è per questo! Nel caso, poi, che l’uomo fosse durato tanto a lungo (oppure fosse durata qualche altra creatura che fosse succeduta o avesse soppiantato l’uomo), non c’era dubbio che avrebbe escogitato qualcosa per correggere la situazione. In un trilione di anni si possono fare un mucchio di cose!
Con questo, Lamont dovette dichiararsi d’accordo.
Allora gli venne in mente un’altra ipotesi, un ragionamento che, lo ricordava bene, lo stesso Hallam aveva sviscerato in uno degli articoli di divulgazione che aveva scritto. Non senza disgusto, tirò fuori l’articolo dall’archivio. Era importante che controllasse cos’aveva detto Hallam, prima di andare avanti su quella strada.
Tra l’altro, l’articolo diceva: “A causa dell’onnipresente forza di gravità siamo giunti ad associare l’espressione ’giù per la china’ con il tipo d’inevitabile mutamento necessario a produrre energia idonea a essere trasformata in lavoro utile. Nei secoli trascorsi era l’acqua che, scorrendo ’giù per la china’, faceva girare le ruote, le quali, a loro volta, fornivano energia a macchine come pompe e generatori di elettricità. Ma che cosa succede quando tutta l’acqua è scesa giù per la china?
“Allora non si può più eseguire alcun lavoro, finché l’acqua non sia tornata su per la china… e ciò richiede altro lavoro. In realtà occorre più lavoro per costringere l’acqua a risalire la china di quanto possiamo ricavarne dal suo successivo scorrere giù per la china. Perciò noi lavoriamo costantemente in perdita di energia. Per fortuna, è il Sole che fa tutta la fatica al nostro posto. Fa evaporare gli oceani, in modo che il vapore acqueo salga in alto nell’atmosfera, formi le nuvole e alla fine ricada sotto forma di neve o pioggia. Così l’acqua inzuppa il terreno a tutte le altitudini, riempie le sorgenti e i torrenti, e continua incessantemente a scorrere giù per la china.
“Ma non sarà così in eterno. Il Sole può far salire in alto il vapore acqueo, ma solo perché, in senso nucleare, anch’esso scende giù per la china. Inoltre, scende a una velocità immensamente più elevata di quella cui può andare un qualunque corso d’acqua terrestre e, quando sarà sceso tutto giù per la china, non ci sarà niente a noi noto che potrà farlo risalire.
“Tutte le fonti di energia del nostro universo vanno in discesa, cioè si consumano, e noi non possiamo impedirlo. Ogni cosa scende giù per la china in una sola direzione, e noi possiamo costringerla temporaneamente a risalire, ad andare in senso contrario, soltanto approfittando di qualche china più erta esistente nelle vicinanze. Se vogliamo dell’energia utile che duri in eterno, abbiamo bisogno di una strada che sia in discesa in ambedue le direzioni. Il che nel nostro universo è un paradosso: la logica afferma che qualunque cosa vada in discesa in un senso, va in salita nell’altro.
“Ma è indispensabile restare confinati al nostro solo universo? Pensiamo al para-universo. Anch’esso ha le sue strade, che vanno giù per la china in una direzione e su per la china nell’altra. Queste strade, tuttavia, non coincidono con le nostre. È quindi possibile prendere una strada che porti dal para-universo al nostro universo andando giù per la china, ma che, tornando indietro dal nostro universo al para-universo, vada di nuovo giù per la china… e ciò perché i due universi hanno leggi di comportamento diverse.
“La Pompa Elettronica approfitta di una strada che va in discesa nei due sensi. La Pompa Elettronica…”
Lamont tornò a guardare il titolo dell’articolo. Era: “La strada che è in discesa nei due sensi”.
Si mise a riflettere. Ovviamente il concetto gli era familiare, così come lo erano le sue conseguenze in termodinamica. Ma perché non esaminarne anche i presupposti? Quello era necessariamente il punto debole di ogni teoria. Cosa succede se i presupposti, considerati esatti per definizione, sono invece sbagliati? Quali sarebbero state le conseguenze, nel caso specifico, se si partiva da altri presupposti? Avrebbero contraddetto le prime?
Cominciò al buio, ma dopo un mese provava quella sensazione che ogni scienziato conosce bene: il continuo ticchettio mentale di pezzi che vanno a posto quando uno meno se l’aspetta, mentre le più fastidiose anomalie si rivelano normali corollari. Era la sensazione della raggiunta Verità.
Fu allora che diventò impaziente e si mise a fare pressione su Bronowski.
E un giorno gli disse: — Voglio tornare da Hallam, per parlargli.
Bronowski inarcò le sopracciglia. — Per quale motivo?
— Perché mi cacci via un’altra volta.
— Sì, è così che marci tu, Pete. Ti senti infelice, se i tuoi guai calano un po’.
— Tu non capisci. È importante che si rifiuti di ascoltarmi. Non voglio che dopo possa dire che l’ho scavalcato, che lui non ne sapeva niente.
— Niente di cosa? Della traduzione dei para-simboli? Non c’è ancora niente, in effetti. Non anticipare lo starter, Pete!
— No, no, questo non c’entra — e Lamont non volle dire altro.
Hallam non gli rese facile avvicinarlo: fece passare alcune settimane prima di trovare il tempo di concedergli un colloquio. Ma nemmeno Lamont intendeva rendere il colloquio facile per Hallam: entrò nello studio dell’altro con tutti i suoi invisibili aculei irti e affilati con cura. Hallam lo accolse con una faccia di pietra, ma con gli occhi astiosi.
Disse, di punto in bianco: — Cos’è questa crisi di cui andate parlando?
— È qualcosa che mi è venuta in mente, professore — rispose Lamont, in tono neutro. — Mi è stata ispirata da uno dei vostri articoli.
— Ah. — E subito dopo: — Quale?
— “La strada che è in discesa nei due sensi.” Quello che avete scritto per Teen-ager Life, il settimanale per i giovani, professore.
— E allora?
— Io ritengo che la Pompa Elettronica non funzioni in discesa nei due sensi, se mi è permesso usare la vostra metafora, che, tra parentesi, non è un modo totalmente esatto di descrivere la Seconda Legge della termodinamica.
Hallam si accigliò. — Cosa state cercando di dire?
— Posso spiegarmi meglio, professore, facendo ricorso alle equazioni di campo dei due universi, per dimostrare un’interazione che fino a questo momento non è stata presa in considerazione… per nostra sfortuna, a mio parere.
Così dicendo, Lamont andò alla lavagna e rapidamente cominciò a tracciare le equazioni. Sapeva che Hallam si sarebbe irritato per quel modo di fare e ne sarebbe rimasto anche umiliato perché non era in grado di seguire i calcoli matematici. Lui contava proprio su questo.
Hallam borbottò: — Andiamo, giovanotto! Adesso non ho il tempo d’impegnarmi in una disquisizione su ogni aspetto della para-teoria. Fatemi avere una relazione completa, ma per il momento limitatevi, se volete, a farmi un breve riassunto di quello cui state mirando.
Lamont si allontanò dalla lavagna con un’inequivocabile espressione di disprezzo sulla faccia e disse: — La Seconda Legge della termodinamica descrive un procedimento che inevitabilmente annulla gli estremi. L’acqua non scorre giù per la china. Quello che succede, in realtà, è che il minimo e il massimo del potenziale gravitazionale si uguagliano. L’acqua altrettanto facilmente risalirebbe in superficie, zampillando, se si trovasse sottoterra. Si possono materialmente eseguire i calcoli relativi al confronto tra due diversi livelli di temperatura, ma come risultato finale si avrà sempre una temperatura equilibrata a un livello intermedio, cioè il corpo caldo si raffredderà e il corpo freddo si riscalderà. Il raffreddamento e il riscaldamento sono due aspetti uguali della Seconda Legge e, in determinate circostanze, ugualmente spontanei.
— Non venite a insegnare a me la termodinamica elementare, giovanotto! Cos’è che volete, insomma? Ho davvero poco tempo.
Senza cambiare espressione e nemmeno dimostrare di affrettarsi, Lamont disse: — Si ricava energia dalla Pompa Elettronica mediante un’equalizzazione degli estremi. Nel caso specifico, gli estremi sono le leggi fisiche dei due universi. Le condizioni, quali che siano, che rendono possibili queste leggi vengono per così dire travasate da un universo dentro l’altro, in modo che alla fine dell’intero procedimento si avranno due universi nei quali le leggi di natura saranno identiche… e intermedie se paragonate alla situazione attuale. Dal momento che ciò produrrà mutamenti sconosciuti, ma senz’altro di notevolissima entità in questo universo, mi sembra che si debba prendere in seria considerazione l’eventualità di fermare le Pompe e di sospendere a tempo indeterminato tutta l’operazione.
Lamont aveva previsto che a questo punto Hallam esplodesse, impedendogli di continuare la sua esposizione. E Hallam non venne meno all’aspettativa. Schizzò in piedi, facendo cadere la poltroncina che allontanò con un calcio, e fece i due passi che lo separavano da Lamont.
Tenendolo d’occhio, Lamont si affrettò a scostare la propria sedia e ad alzarsi.
— Cre… tino! — urlò Hallam, quasi balbettando tanto era inferocito. — Credete che nella Stazione nessuno sappia niente dell’equalizzazione delle leggi di natura? Venite a farmi perdere tempo solo per raccontarmi cose che io conoscevo già a memoria quando voi non sapevate ancora l’alfabeto? Uscite… e considerate accettate le vostre dimissioni, in qualunque momento vogliate rassegnarle.
Lamont se ne andò, avendo ottenuto esattamente quello che voleva. Eppure, si sentiva offeso per il modo con cui Hallam lo aveva trattato.
— In ogni modo è servito a sgombrare il terreno — disse Lamont. — Ho tentato di dirglielo. Lui non ha voluto ascoltarmi. Perciò, adesso farò il passo successivo.
— Che sarebbe? — chiese Bronowski.
— Andrò a parlare con il senatore Burt.
— Vuoi dire il presidente della Commissione per la Tecnologia e l’Ambiente?
— Proprio lui. Allora lo conosci.
— Chi non lo conosce? Ma non capisco il tuo scopo, Pete. Che cos’hai da dirgli che possa interessarlo? Non la traduzione. Pete, te lo chiedo ancora una volta. Cos’hai in mente?
— Non posso spiegartelo. Tu non conosci la para-teoria.
— E il senatore Burt sì?
— Un po’ più di te, credo.
Bronowski gli puntò contro l’indice. — Pete, smettila di prendere in giro. Può darsi che io sappia parecchie cose che tu non sai. Non possiamo lavorare insieme, se ci facciamo le scarpe a vicenda. O io sono un socio della nostra piccola società a due, oppure non lo sono. Tu dimmi cos’hai in mente e io, in cambio, ti dirò qualcos’altro. Altrimenti fermiamoci qui e tanti saluti.
— D’accordo — disse Lamont, alzando le spalle. — Se proprio vuoi, te lo dirò. Adesso che ho scavalcato Hallam, forse è bene che tu lo sappia. La questione è che la Pompa Elettronica trasferisce da un universo all’altro le leggi di natura. Nel para-universo l’interazione forte è un centinaio di volte più forte che nel nostro, il che vuol dire che la fusione nucleare avviene più facilmente là che qua, mentre la fissione nucleare avviene più facilmente qua che là. Se la Pompa Elettronica continuerà a funzionare per abbastanza tempo, alla fine si raggiungerà un equilibrio nel quale l’interazione forte nucleare sarà uguale in tutti e due gli universi. Cioè, per la precisione, qui da noi sarà circa dieci volte superiore a quella che è adesso e da loro sarà un decimo di quella che è adesso.
— E nessuno sa una cosa del genere?
— Ah, ma la sanno tutti! Era una cosa ovvia fin quasi dal principio. Persino Hallam la capisce. È stato con questa che ho fatto infuriare il vecchio bastardo. Ho cominciato a esporgliela nei particolari, come se fossi convinto che lui non ne avesse mai sentito parlare prima d’ora, ed è scoppiato come una bomba.
— Ma qual è il problema, allora? È pericoloso che l’interazione arrivi a un equilibrio?
— Naturale! Cosa credi?
— Io non credo un accidenti. Quand’è che arriverà all’equilibrio?
— Al ritmo attuale, tra 1030 anni o giù di lì.
— E quanto tempo sarebbe?
— Abbastanza tempo perché un trilione di trilioni di universi come il nostro nascano, vivano, invecchino e muoiano, uno dopo l’altro.
— Vai a quel paese, Pete! Che cavolo importa, allora?
— Importa perché, per arrivare a quella cifra che è la cifra ufficiale — spiegò Lamont, con calma e pesando le parole, — si è partiti da certi presupposti che io ritengo sbagliati. Mentre, se si parte da certi altri presupposti che io ritengo esatti, siamo nei guai già adesso.
— Che genere di guai?
— Supponi che la Terra si trasformi in una nuvoletta di gas nel giro di circa cinque minuti. Questo, tu lo chiameresti un guaio?
— A causa del Pompaggio?
— A causa del Pompaggio!
— E cosa mi dici dell’universo dei para-uomini? Anche loro sono in pericolo?
— Ne sono sicuro. Corrono un pericolo diverso, ma è sempre un pericolo.
Bronowski si alzò e si mise a camminare su e giù. Aveva folti capelli castani e li portava lunghi, come quelli che una volta venivano chiamati “capelloni”. Adesso, riflettendo, se li scompigliò più volte. Poi disse: — Se i para-uomini sono più intelligenti di noi, perché hanno fatto funzionare la Pompa? Dovevano sapere che era pericolosa anche prima di noi, no?
— Ci ho pensato anch’io — annuì Lamont — e immagino che sia andata così. Hanno cominciato a far funzionare la Pompa perché, come noi, avevano bisogno che funzionasse a causa dei benefici che avrebbe apportato, e si sono preoccupati delle conseguenze solo in un secondo tempo.
— Ma tu mi hai detto che adesso le conseguenze le conosci. E loro sarebbero più lenti di noi nel capirle?
— Dipende da se e quando si sono messi o si metteranno a cercarle. La Pompa è troppo bella e utile per mettersi a cercarne i difetti. Non ci avrei provato nemmeno io, se non fosse stato per… Ma cos’hai tu in mente, Mike?
Bronowski smise di camminare, guardò dritto in faccia Lamont e rispose: — Credo che ci siamo.
Lamont lo fissò per un attimo con occhi ardenti, poi si protese ad afferrare l’amico per la manica. — Con i para-simboli? Racconta, Mike!
— È stato mentre tu eri con Hallam. Proprio mentre eri da lui a parlare. Non sapevo cosa farne, di preciso, perché non ero sicuro che fosse giusta, ma adesso…
— Adesso?…
— Non sono sicuro nemmeno adesso. Comunque, è arrivata una delle loro lamine con cinque simboli incisi…
— Ah!
— …del nostro alfabeto, in lettere latine. Che si possono leggere.
— Cosa?
— Eccola qui.
Con aria da cospiratore Bronowski tirò fuori la lamina. Su di essa, molto diverse dalle delicate e intricate spirali dei para-simboli, che di solito facevano brillare a tratti il metallo, erano incise cinque grosse lettere maiuscole, dal tratto infantile: P-A-U-B-A.
— Secondo te, cosa significa? — chiese Lamont, in tono neutro.
— Per quanto mi sia scervellato, tutto quello che sono riuscito a immaginare è che sia P-A-U-R-A… scritta male.
— È per questo che insistevi a chiedermi cos’avevo in mente? Hai immaginato che qualcuno dall’altra parte avesse paura?
— E mi sono detto che poteva avere qualche rapporto con l’aumento della tua agitazione nell’ultimo mese. Sinceramente, Pete, non mi è piaciuto che tu mi abbia tenuto all’oscuro di tutto.
— Hai ragione. Ma adesso non saltiamo alle conclusioni. Sei tu l’esperto di iscrizioni frammentarie e incomprensibili. Secondo il tuo parere, i para-uomini cominciano ad avere paura relativamente alla Pompa Elettronica?
— Non è detto — rispose Bronowski. — Non so che cosa o quanto possano percepire del nostro universo. Se possono sentire il tungsteno, glielo chiederemo; se invece percepiscono la nostra presenza, forse percepiscono anche il nostro umore. Forse stanno persino cercando di rassicurarci, dicendoci che non c’è ragione di avere paura.
— Perché allora non hanno scritto N-O-N P-A-U-B-A o N-O P-A-U-B-A?
— Perché non conoscono ancora bene la nostra lingua.
— Mmm. Allora non posso portarla a Burt.
— Io non lo farei. Il significato è ambiguo. Anzi, io non andrei dal senatore Burt finché non avessi ricevuto qualcos’altro dal para-universo. Chi può sapere che cosa stanno cercando di dirci?
— No, Mike, non posso aspettare. Io so di avere ragione, e il tempo stringe.
— D’accordo, ma, andando da Burt, ti taglierai tutti i ponti alle spalle. I tuoi colleghi non te la perdoneranno. Non hai pensato di confidarti con gli altri fisici? Da solo non sei in grado di fare abbastanza pressioni su Hallam, ma se sarete in parecchi…
Lamont scosse energicamente la testa. — Neanche parlarne. Il personale di questa stazione sopravvive in virtù delle sue qualità di trasparenza. Non ce n’è uno che gli si metterebbe contro. Tentare di convincere gli altri a fare pressione su Hallam sarebbe come chiedere a una manciata di spaghetti cotti di mettersi sull’attenti.
La placida faccia di Bronowski diventò insolitamente cupa. — Forse non hai torto.
— Io so di aver ragione — replicò Lamont, altrettanto cupo.
C’era voluto parecchio tempo per agganciare il senatore, tempo che Lamont, con rammarico, considerava perso, tanto più che dai para-uomini non era giunto nessun altro messaggio in lettere dell’alfabeto latino. Anzi, nessun messaggio di nessun genere, sebbene Bronowski ne avesse inviati cinque o sei, tutti contenenti una selezionata e accurata combinazione di para-simboli, oltre alle parole P-A-U-B-A e P-A-U-R-A.
Lamont nutriva dubbi sull’importanza di quelle cinque o sei varianti, ma Bronowski era sembrato speranzoso.
Eppure non era successo niente di nuovo, e adesso, finalmente, Lamont era stato ricevuto da Burt.
Il senatore aveva una faccia affilata e gli occhi penetranti, era anziano, e da una generazione era a capo della Commissione per la Tecnologia e l’Ambiente. Prendeva molto seriamente il suo incarico e lo aveva dimostrato in un mucchio di occasioni.
Giocherellando con l’antiquata cravatta che amava ostentare (e che era diventata il suo simbolo), disse subito: — Posso concedervi soltanto mezz’ora, figliolo — e gettò un’occhiata all’orologio da polso.
Lamont non se ne preoccupò: era sicuro di suscitare l’interesse del senatore abbastanza da fargli dimenticare i limiti di tempo da lui stesso posti. Non aveva nemmeno intenzione di cominciare dal principio: si proponeva di agire molto diversamente da come aveva fatto con Hallam.
Disse, infatti: — Non voglio infastidirvi con troppa matematica, senatore, ma presumo che vi rendiate già conto che, mediante il Pompaggio, le leggi di natura dei due universi si mescoleranno insieme.
— Si compenetreranno, con un punto di equilibrio che verrà raggiunto in circa 1030 anni — replicò, calmo, il senatore. — È questa la cifra esatta, vero? — Inarcò e poi riabbassò le sopracciglia, dando al suo viso segnato un’espressione di permanente sorpresa.
— Vero — confermò Lamont. — Ma ci si è arrivati presumendo che le leggi aliene si riversino nel nostro universo e poi dal punto di entrata si propaghino nello spazio esterno alla velocità della luce. Questa, però, è soltanto un’ipotesi e io ritengo che sia errata.
— Perché?
— L’unica velocità di miscelazione misurata è quella del plutonio 186 mandato nel nostro universo. Tale velocità all’inizio è estremamente bassa, con ogni probabilità perché si tratta di un materiale ad alta densità, e aumenta pian piano con il tempo. Se il plutonio viene mescolato con materiale meno denso, la velocità di miscelazione aumenta più rapidamente. Con poche misurazioni di questo tipo si è calcolato che la velocità di compenetrazione totale raggiungerebbe la velocità della luce, se avvenisse nel vuoto. Infatti, occorre un certo tempo perché le leggi aliene si aprano la strada nell’atmosfera, un po’ meno tempo negli strati più alti dell’atmosfera, quindi in un niente di tempo schizzano attraverso lo spazio esterno in ogni direzione alla velocità di 300.000 chilometri al secondo, disperdendosi fino a diventare innocue.
Lamont s’interruppe un momento per pensare al modo migliore di procedere, e il senatore intervenne. — Tuttavia… — incitò, con il modo di fare di chi non vuole perdere tempo.
— Questo è un presupposto, un’ipotesi di convenienza che sembra sensata e sembra anche non causare guai. Ma che cosa succede se non è la materia a offrire resistenza alla compenetrazione delle leggi aliene, bensì lo stesso tessuto fondamentale dell’universo?
— Che cos’è il tessuto fondamentale dell’universo?
— Non posso spiegarvelo a parole. Esiste un’espressione matematica che io ritengo lo rappresenti, ma non sono in grado di tradurla in parole. Il tessuto fondamentale dell’universo è quello che detta le leggi di natura. È il tessuto fondamentale del nostro universo che rende necessaria la conservazione dell’energia. È il tessuto fondamentale del para-universo, che ha una trama, per così dire, un po’ diversa dal nostro, a far sì che la loro interazione nucleare sia cento volte più forte della nostra.
— E allora?
— Se è il tessuto fondamentale che viene compenetrato, senatore, allora la presenza della materia, densa o non densa che sia, non può avere altro che un’influenza secondaria. La velocità di penetrazione è più alta nel vuoto che in una massa densa, è vero, ma non di molto. La velocità di penetrazione nello spazio esterno può essere alta, in misure terrestri, ma è soltanto una piccola frazione della velocità della luce.
— Il che significa?
— Significa che il tessuto alieno non si dissolve tanto rapidamente quanto crediamo noi, ma si accumula, per così dire, all’interno del sistema solare e con una concentrazione molto più elevata di quella che presumiamo.
— Capisco — disse il senatore, annuendo. — E quanto ci vorrà perché lo spazio all’interno del sistema solare raggiunga il punto di equilibrio? Meno di 1030, immagino.
— Molto meno, senatore. Io credo meno di 1010 anni. Forse cinquanta miliardi di anni, con uno scarto di un paio di miliardi in più o in meno.
— Non molto in confronto all’altra cifra, ma sempre abbastanza, no? E non c’è alcun motivo di allarmarsi immediatamente, vero?
— Io ho paura, invece, che vi sia motivo di allarmarsi immediatamente, senatore. Il danno sarà bell’e fatto molto prima che si raggiunga l’equilibrio. A causa del Pompaggio, l’interazione nucleare forte sta diventando di attimo in attimo sempre più forte nel nostro universo.
— Abbastanza forte da poterla misurare?
— Forse no, signore.
— Nemmeno adesso, dopo vent’anni di Pompaggio?
— Forse no, signore.
— Allora, perché dovremmo preoccuparci?
— Perché, senatore, sulla forza dell’interazione nucleare forte si basa la velocità con cui avviene la fusione dell’idrogeno in elio, nel nucleo del nostro Sole. Se l’interazione si rafforza anche di pochissimo, la velocità di fusione dell’idrogeno all’interno del Sole aumenterà notevolmente. L’equilibrio che il Sole mantiene tra l’emissione delle sue radiazioni e l’attrazione gravitazionale è estremamente delicato, e sconvolgerlo a favore delle radiazioni, come noi stiamo già facendo…
— Sì?
— …causerà un’esplosione immane. In base alle nostre leggi di natura è impossibile che una stella piccola come il Sole diventi una supernova. In base alle leggi alterate può non essere così. Dubito anche che avremo un certo preavviso. Il Sole metterà insieme una bella esplosione e, otto minuti dopo, voi e io saremo morti e la Terra evaporerà in pochi attimi in uno sbuffo di gas surriscaldati.
— E non ci si può fare niente?
— Se è troppo tardi per evitare di sconvolgere l’equilibrio, niente. Se non è ancora troppo tardi, bisogna fermare il Pompaggio.
Il senatore si schiarì la voce. — Prima di acconsentire a ricevervi, giovanotto, ho fatto qualche ricerca sul vostro conto, dal momento che non vi conoscevo personalmente. Una delle persone cui ho chiesto informazioni è il dottor Hallam. Immagino che lo conosciate.
— Sì, senatore. — Un angolo della bocca di Lamont si storse, ma la voce restò ferma. — Lo conosco bene.
— Mi informa — continuò il senatore, gettando un’occhiata a un foglio posato sulla sua scrivania, — che siete un cretino piantagrane di dubbia sanità mentale ed esige che mi rifiuti di ricevervi.
Con uno sforzo per mantenere il tono normale, Lamont domandò: — Sono le sue precise parole, senatore?
— Le sue precise parole.
— Perché mi avete ricevuto, allora, senatore?
— Normalmente, se avessi ottenuto un’informazione del genere da Hallam, non vi avrei ricevuto. Il mio tempo è prezioso e il cielo sa che ricevo più cretini piantagrane di dubbia sanità mentale di quanto mi piaccia ricordare, anche tra coloro che mi arrivano con autorevoli raccomandazioni. Nel caso specifico, tuttavia, non mi è piaciuto che Hallam “esigesse”. Non si fanno certe richieste a un senatore, e Hallam avrebbe dovuto saperlo.
— Allora mi aiuterete, signore9
— Aiutarvi a far cosa?
— Ecco… a fare in modo che le Pompe vengano fermate.
— Come? No, assolutamente. È una cosa impossibile.
— Perché no? — insisté Lamont. — Voi siete il presidente della Commissione per la Tecnologia e l’Ambiente, ed è proprio compito vostro dare ordine che si fermi il Pompaggio o qualunque altro procedimento tecnico che provochi danni irreversibili all’ambiente. E non esiste danno più grande o più irreversibile di quello minacciato dalle Pompe Elettroniche.
— Certo, certo. Nel caso che voi abbiate ragione. Ma, a quanto pare, tutta la storia dipende dal fatto che il vostro presupposto è diverso da quello generalmente accettato. Chi può dire quale dei due sia quello giusto?
— Senatore, la teoria da me costruita chiarisce parecchi punti che, in base all’ipotesi corrente, restano dubbi.
— Bene, allora i vostri colleghi dovrebbero approvare la vostra variante, e in questo caso non avrete alcun bisogno di venire da me, suppongo.
— Senatore, i miei colleghi non mi crederanno mai. Andrebbero contro il loro stesso interesse.
— Così come il vostro interesse va contro la possibilità che abbiate torto… Giovanotto, sulla carta i miei poteri sono enormi, ma posso esercitarli soltanto quando l’uomo della strada è disposto a lasciarmi fare. Permettetemi di darvi una lezioncina di politica pratica.
Gettò un’occhiata all’orologio da polso, si appoggiò allo schienale della poltrona e sorrise. Non era solito fare proposte del genere, ma in un articolo di fondo sul Terrestrial Post di quel mattino lo avevano definito “un politico consumato, il più abile di tutto il Parlamento Internazionale”, e la soddisfazione che ne aveva provato non era ancora svanita.
— È un errore — riprese a dire — ritenere che l’uomo della strada voglia che l’ambiente sia protetto o che gli risparmino la vita, e che sia grato agli idealisti che lottano per lui a tale scopo. Quello che l’uomo della strada vuole è la sua personale comodità. L’abbiamo imparato anche troppo bene dall’esperienza fatta durante la crisi ecologica del ventesimo secolo. Una volta assodato che le sigarette favorivano l’insorgere del cancro ai polmoni, il rimedio più ovvio sarebbe stato quello di smettere di fumare, ma il rimedio desiderato e richiesto era una sigaretta che non favorisse il cancro. Quando risultò evidente che il motore a combustione interna inquinava pericolosamente l’atmosfera, il rimedio più ovvio sarebbe stato quello di smettere di usare quel tipo di motore, mentre il rimedio desiderato era che s’inventasse un motore non inquinante. Perciò, giovanotto, non chiedetemi di fermare il Pompaggio Da esso dipendono l’economia e le comodità del mondo intero. Ditemi, invece, come si può impedire alle Pompe Elettro niche di far esplodere il Sole.
Lamont rispose: — Non si può, senatore. In questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di talmente fondamentale che esclude qualunque giochetto. È necessario smettere di pompare.
— Ah, così, secondo voi, possiamo soltanto tornare indietro, cioè tornare alle condizioni in cui eravamo prima dell’esistenza della Pompa Elettronica!
— Ci siamo costretti.
— In questo caso, dovrete darvi da fare per dimostrare con prove irrefutabili che avete ragione voi.
— La prova migliore è quella di far esplodere il Sole — replicò Lamont, rigido. — Ma immagino che non vogliate che io arrivi a tanto.
— Non sarà necessario, forse. Perché non convincete Hallam ad appoggiarvi?
— Perché è un ometto assolutamente insignificante che si è ritrovato a essere il Padre della Pompa Elettronica. Credete che sia disposto ad ammettere che la sua creatura distruggerà la Terra?
— Capisco quello che intendete dire, ma agli occhi del mondo intero lui è appunto il Padre della Pompa Elettronica, e solo la sua parola ha peso sufficiente in proposito.
Lamont scosse la testa. — Non cederà mai. Preferirebbe veder esplodere il Sole.
— Allora forzategli la mano — disse il senatore. — Voi avete una teoria, ma la teoria, da sola, è insignificante. Di certo esisterà qualche sistema per comprovarla. Per esempio, la velocità del decadimento radioattivo del… diciamo dell’uranio, dipende dalle interazioni all’interno del nucleo degli atomi. Questa velocità è per caso cambiata in base a ciò che prevede la vostra teoria ma non quella ufficiale?
Lamont scosse la testa un’altra volta. — La radioattività normale dipende dall’interazione nucleare debole, e purtroppo gli esperimenti su di essa forniscono soltanto prove marginali. Il giorno che queste ultime daranno risultati rivelatori potrebbe essere troppo tardi.
— C’è qualcos’altro, allora?
— Ci sono le interazioni di pioni di un tipo particolare, che potrebbero anche adesso fornire dati inconfutabili. Meglio ancora, ci sono le combinazioni di quark e antiquark, che negli ultimi tempi hanno dato risultati sconcertanti e che io sono sicuro di poter spiegare con…
— Ecco, ci siete.
— Sì, senatore, ma per ottenere questi dati dovrei usare il grande protosincrotrone installato sulla Luna, che però non ha un minuto di tempo disponibile nei prossimi anni. Ho controllato. Niente da fare, a meno che qualcuno non tiri i fili giusti.
— Alludete a me?
— Alludo a voi, senatore.
— Non posso. Non fino a quando il dottor Hallam scriverà queste cose di voi, figliolo. — E il senatore Burt picchiettò con l’indice nodoso sul foglio di carta che aveva davanti a sé. — Vi siete esposto troppo, per i miei gusti.
— Ma l’esistenza del pianeta…
— Provate la vostra teoria.
— Scavalcate Hallam, e io la proverò.
— Provatela, e io scavalcherò Hallam.
Lamont fece un lungo respiro. — Senatore! Supponete che esista una minima probabilità che io abbia ragione. Non vale la pena di lottare anche per una probabilità minima? È in gioco tutto: l’umanità, la Terra…
— Voi vorreste che io lottassi per la buona causa, insomma? Be’, mi piacerebbe. C’è sempre un che di romantico nell’essere sconfitti per una buona causa. E ogni uomo politico appena passabile è abbastanza masochista da sognare, di tanto in tanto, di finire tra le fiamme con l’accompagnamento di cori angelici. Ma, dottor Lamont, per fare una cosa del genere occorre almeno avere una possibilità di lotta. E che il qualcosa per cui si lotta possa, dico solo possa, vincere. Ma, se io vi appoggio, non combinerò niente, perché sarà la vostra parola contro l’immensa utilità e l’infinita desiderabilità del Pompaggio. Come potrei pretendere che ogni uomo rinunci alle sue personali comodità e all’abbondanza cui è ormai abituato grazie alla Pompa, solo perché un singolo individuo grida “Al lupo!”, mentre tutti gli altri scienziati gli sono contro e il riveritissimo Hallam lo definisce un cretino? Nossignore, io non finirò tra le fiamme per niente!
Lamont supplicò: — Aiutatemi almeno a trovare la prova. Non occorre che vi scopriate, se avete paura…
— Io non ho paura — lo interruppe Burt, brusco. — Sono solo pratico. E, dottor Lamont, la mezz’ora che vi avevo concesso è passata da un pezzo.
Per un momento Lamont lo fissò con occhi colmi di delusione, ma l’espressione di Burt, adesso, era inequivocabilmente intransigente. Lamont si congedò.
Il senatore Burt non ricevette subito il visitatore successivo. Per alcuni minuti rimase a fissare con un certo disagio la porta chiusa, giocherellando distrattamente con la cravatta. E se quello scienziato avesse avuto ragione? Esisteva forse una possibilità, anche minima, che avesse ragione?
Doveva ammettere che gli sarebbe piaciuto un sacco fare lo sgambetto ad Hallam, mandarlo a finire con la faccia nella melma e sederglisi sulla schiena finché non fosse schiattato… ma non sarebbe mai successo: Hallam era intoccabile. Aveva avuto un solo scontro con Hallam, una decina d’anni prima: quella volta dalla parte della ragione c’era lui, mentre Hallam aveva torto marcio, come i fatti avrebbero in seguito dimostrato. Eppure, sul momento, Burt era stato umiliato e sconfitto, ed era stato sul punto di perdere la rielezione, come risultato di quello scontro.
Scosse la testa, come per ammonirsi. Avrebbe potuto mettere a repentaglio il suo seggio di senatore, per una buona causa, ma non voleva rischiare di essere umiliato una seconda volta. Segnalò che facessero passare il visitatore successivo e, quando si alzò per accoglierlo, la sua faccia era calma e sorridente.
Arrivato a questo punto, se avesse pensato di aver ancora qualcosa da perdere, professionalmente parlando, forse Lamont avrebbe esitato. Joshua Chen era impopolare dappertutto e chiunque avesse a che fare con lui era immediatamente guardato con sospetto in quasi ogni angolo del Sistema costituito. Chen era la rivoluzione fatta uomo, la cui voce, chissà come, veniva sempre ascoltata, sia perché si dedicava alle cause che prendeva a cuore con un’intensità travolgente, sia perché aveva creato un’organizzazione più forte e compatta di qualsiasi altra assocazione politica del mondo (come più di un uomo politico era disposto a giurare).
Chen era stato uno dei fattori essenziali della velocità con la quale la Pompa era stata messa in funzione per sopperire alle necessità energetiche del pianeta. Le virtù della Pompa erano limpide e ovvie: limpide come la totale assenza d’inquinamento e ovvie come tutto ciò che è gratuito. Tuttavia, se non fosse stato per lui, sarebbe potuta nascere una forte opposizione sotterranea da parte di coloro che preferivano l’energia nucleare, non perché fosse migliore, ma solo perché le erano affezionati fin dall’infanzia.
Però, quando Chen batteva i suoi tamburi, il mondo stava ad ascoltare un po’ più attentamente.
Adesso se ne stava là, seduto, con il suo viso tondo dagli zigomi piatti, prova evidente che almeno tre dei suoi quattro nonni erano cinesi.
Disse, calmo: — Mettiamo le cose in chiaro. Siete qui e parlate solo a titolo personale?
— Sì — rispose Lamont, asciutto. — Non sono appoggiato da Hallam. Anzi, lui afferma che sono matto. A voi serve l’approvazione di Hallam, prima di agire?
— Io non ho bisogno dell’approvazione di nessuno — replicò Chen con prevedibile arroganza, poi tornò a dimostrare un interesse non superficiale. — Dite che i para-uomini sono molto più avanzati di noi nella tecnologia?
Lamont aveva percorso parecchia strada in direzione del compromesso e aveva evitato di affermare che, secondo lui, i para-uomini erano più intelligenti. “Più avanzati nella tecnologia” suonava meno offensivo ed era altrettanto vero.
— È evidente — disse — anche solo dal fatto che loro possono inviare del materiale attraverso la breccia tra i due universi, e noi no.
— Allora perché hanno dato il via alla Pompa, se è pericolosa? E perché continuano a farla funzionare?
Lamont stava imparando ad arrivare al compromesso da più di una direzione. Avrebbe potuto dire a Chen che lui non era il primo a porsi quelle domande, ma così sarebbe parso condiscendente, forse addirittura impaziente. Decise quindi di non farlo.
— Erano ansiosi, proprio come noi, di mettere in funzione qualcosa che in apparenza era il non plus ultra delle fonti di energia — spiegò. — Ma adesso ho ragione di credere che ne siano preoccupati come lo sono io.
— Anche su questo punto abbiamo soltanto la vostra parola. Non avete nessuna prova effettiva del loro modo di pensare.
— Nessuna che io possa presentare all’istante.
— Allora non basta.
— Possiamo forse rischiare di…
— Non basta, professore. Non esiste nessuna prova. Non mi sono guadagnato la mia reputazione sparando a caso o al buio. I miei missili sono filati ogni volta dritti sul bersaglio, perché sapevo quello che facevo.
— Ma se ottengo la prova…
— Allora vi sosterrò. Se la prova mi soddisferà, vi assicuro che né Hallam né lo stesso Congresso saranno in grado di resistere all’ondata che solleverò. Perciò, trovate la prova e poi tornate da me.
— Ma a quel punto potrebbe essere troppo tardi.
Chen si strinse nelle spalle. — Forse. Molto più probabilmente scoprirete di avere torto e non a sarà più bisogno di nessuna prova.
— Io non ho torto. - Dopo un profondo respiro, Lamont riprese, in tono confidenziale: — Signor Chen, con ogni probabilità nel nostro universo esistono trilioni su trilioni di pianeti che ospitano la vita e, fra essi, possono essercene miliardi abitati da esseri intelligenti che possiedono una tecnologia molto progredita. Lo stesso può essere vero nel para-universo. Nella storia dei due universi dev’essere successo parecchie volte che un paio di pianeti sono entrati in contatto e hanno dato inizio a uno scambio come il Pompaggio. È probabile che esistano decine, o addirittura centinaia di Pompe sparse nei punti di intersezione dei due universi.
— Pura illazione. Ma, se anche fosse?
— Allora sarebbe probabile che in decine, oppure in centinaia di casi, la mescolanza delle leggi di natura sia andata avanti abbastanza da far esplodere il sole di quel determinato pianeta. Poi l’effetto dell’esplosione può essersi propagato nello spazio, e l’energia di una supernova, aggiunta al mutamento delle leggi di natura, può aver dato origine a esplosioni a catena di tutte le stelle vicine, che a loro volta ne hanno fatto esplodere altre. Col tempo, forse un intero nucleo galattico, o un braccio galattico finiranno con l’esplodere.
— Queste sono tutte fantasie, frutto della vostra immaginazione, naturalmente!
— Davvero? Ci sono centinaia di quasar nel nostro universo. Corpi relativamente piccoli, delle dimensioni di alcuni sistemi solari ma che brillano della luce di cento galassie di estensione normale.
— Con questo volete dire che le quasar sono ciò che resta di pianeti che hanno fatto funzionare Pompe Elettroniche?
— Secondo me, sì. Nei centocinquant’anni da che sono state scoperte nessun astronomo è ancora riuscito a determinare quale sia la fonte della loro energia. Non c’è niente in questo universo che la giustifichi, niente! Dunque, ne consegue che…
— E nel para-universo? Anche quello è pieno di quasar?
— Non credo. Nel para-universo le condizioni sono diversissime. In base alla para-teoria sembra certo che la fusione nucleare abbia luogo con molta più facilità là che da noi; per cui le stelle, in media, devono essere molto più piccole delle nostre. Dovrebbe anche occorrere una quantità iniziale di idrogeno molto più piccola per produrre la stessa energia che produce il nostro Sole. Un quantitativo uguale a quello del nostro Sole là esploderebbe spontaneamente. Perciò, man mano che le nostre leggi lo compenetreranno, nel para-universo la fusione dell’idrogeno avverrà con un po’ più di difficoltà e le para-stelle cominceranno a raffreddarsi.
— Be’, questo non è un gran disastro — commentò Chen. — Anche loro possono utilizzare la Pompa per ottenere tutta l’energia di cui hanno bisogno. In base alle vostre ipotesi, dunque, stanno benone.
— Non proprio — disse Lamont, che fino a quell’istante non aveva fatto mente locale alla situazione del para-universo. — Non appena noi saremo esplosi, alla fine, il Pompaggio si fermerà. Loro non possono far funzionare la Pompa senza di noi, e ciò significa che si troveranno con una stella che si raffredda sempre di più e senza l’energia della Pompa. Potrebbero stare anche peggio di noi! Noi ce ne andremo in un lampo, senza dolore, mentre la loro agonia sarà lunghissima.
— Avete una bella fantasia, professore — disse Chen, — ma non servirà a convincermi. E non credo di riuscire a far fermare il Pompaggio solo sulla base della vostra fantasia! Lo sapete cosa vuol dire la Pompa per l’umanità? Non vuol dire soltanto energia gratuita, pulita e in abbondanza. Guardate le conseguenze! Vuol dire che l’uomo ben presto non sarà più costretto a lavorare per vivere. Vuol dire che per la prima volta nella storia l’umanità potrà dedicare l’insieme dei suoi cervelli migliori al ben più importante problema dello sviluppo del suo vero potenziale.
“Vi faccio un esempio. Con tutti i progressi che ha fatto la medicina negli ultimi duecento e cinquant’anni, siamo riusciti ad allungare la durata della vita umana appena appena oltre il secolo. I gerontologi continuano a dire e a ripetere che, in teoria, non esistono ostacoli per l’uomo sulla strada dell’immortalità, ma finora a questo problema non è stata dedicata sufficiente attenzione.”
Con ira, Lamont esclamò: — L’immortalità! Chi parla adesso di un sogno irrealizzabile?
— Forse voi siete un buon giudice in materia di sogni irrealizzabili, professore — replicò Chen. — Ma io intendo far cominciare le ricerche sulla questione dell’immortalità. E non cominceranno, se la Pompa smette di funzionare, perché dovremmo tornare all’energia dispendiosa, all’energia in quantità limitata, all’energia sporca! I due miliardi di uomini che vivono sulla Terra dovrebbero rimettersi a lavorare per vivere e il sogno irrealizzabile dell’immortalità resterebbe un sogno irrealizzabile!
— Lo resterà comunque. Nessuno diventerà mai immortale, anzi, nessuno riuscirà ad arrivare in fondo alla sua vita di durata normale!
— Ah, ma questa è solo la vostra teoria!
Lamont soppesò le possibilità che ancora gli restavano e decise di giocare d’azzardo. — Signor Chen, poco fa ho detto che non potevo spiegare come mai conoscessi lo.stato d’animo dei para-uomini. Be’, adesso ci proverò. Da un po’ di tempo stiamo ricevendo loro messaggi.
— Sì, lo so, ma siete riuscito a decifrarli?
— Abbiamo ricevuto una parola in inglese.
Chen corrugò la fronte. Poi, di scatto, infilò le mani in tasca, stese davanti a sé le gambe corte e si appoggiò allo schienale della sua poltrona. — E che parola era?
— Paura! — Lamont non giudicò necessario accennare all’errore di ortografia.
— Paura — ripeté Chen. — E, secondo voi, cosa significa?
— Non è evidente che anche loro hanno paura del fenomeno del Pompaggio?
— Niente affatto. Se ne avessero paura, fermerebbero tutto. Secondo me, hanno paura, d’accordo, ma che lo fermiamo noi. Voi gli avete fatto capire le vostre intenzioni e, se noi lo fermassimo, anche loro sarebbero costretti a farlo, no? L’avete detto voi che non possono far funzionare la Pompa senza di noi! Quindi, è un teorema con due soluzioni, e io non mi meraviglio che abbiano paura!
Lamont rimase in silenzio.
— Vedo che a questo non avevate pensato — riprese Chen. — Be’, allora mi darò da fare per la questione dell’immortalità. Ritengo che sarà una causa più popolare.
— Ah, le cause popolari — disse Lamont lentamente, riflettendo. — Non avevo capito che cosa vi stesse a cuore, in realtà. Quanti anni avete, signor Chen?
Chen batté le palpebre per qualche istante, poi si alzò e uscì dalla stanza a passo svelto, le mani strette a pugno.
In seguito Lamont lesse la sua biografia. Chen aveva sessant’anni e suo padre era morto a sessantadue. Ma non aveva più importanza.
— A vederti, non si direbbe che hai avuto fortuna — disse Bronowski.
Seduto nel suo laboratorio, Lamont si fissava la punta delle scarpe, mentre pensava che gli parevano stranamente consumate. Scosse la testa. — Infatti.
— Anche il grande Chen ti ha scaricato?
— Non vuole muovere un dito e pretende anche lui delle prove. Vogliono tutti delle prove, ma, se gliene dai una, la respingono. In realtà quello che vogliono è la loro stramaledetta Pompa, oppure il loro buon nome o un posto nella storia. Chen, lui, vuole l’immortalità.
— E tu che cosa vuoi, Pete? — chiese Bronowski, pacato.
— La salvezza dell’umanità — rispose Lamont. Poi alzò gli occhi sull’amico, con aria interrogativa. — Non mi credi?
— Ti credo, ti credo. Ma cosa vuoi più di tutto?
— Be’, perdio, in questo caso — e, così dicendo, Lamont diede una gran manata sul piano della scrivania — voglio aver ragione, e voglio che me la diano, perché so di averla!
— Ne sei sicuro?
— Sicurissimo! E non c’è niente che mi spaventi, perché intendo spuntarla. Lo sai che, uscendo dopo aver parlato con Chen, per poco non mi sono sentito un verme?
— Tu?
— Sì, io. Perché no? Pensavo: a ogni passo, Hallam mi blocca. Finché Hallam mi darà torto, tutti avranno una scusa per non credermi. Con Hallam piantato sulla mia strada come un macigno, per forza non combino niente. Allora non sarebbe meglio che me lo lavorassi? Che lo ungessi per benino? Perché non manovrarlo, in modo che mi appoggi, invece di punzecchiarlo col risultato di mettermelo contro?
— Credi di esserne capace?
— No, assolutamente. Ma ero talmente disperato che ho persino pensato… be’, a una quantità di cose. Che avrei potuto andare sulla Luna, magari. Naturalmente, quando me lo sono inimicato, al principio, non si parlava ancora della fine della Terra, ma avevo già fatto di tutto per peggiorare la situazione quando il problema è sorto. Comunque, come hai capito subito anche tu, niente e nessuno lo avrebbero indotto a trovare un solo difetto nella sua Pompa!
— Adesso, però, non mi pare che tu ti senta un verme.
— No, è vero. Perché dal mio colloquio con Chen ho ricavato qualcosa di utile. Mi ha dimostrato che stavo perdendo il mio tempo.
— Parrebbe, no?
— Sì, ma senza necessità. La soluzione non è qui, sulla Terra. Ho detto a Chen che il nostro Sole potrebbe esplodere, mentre il sole del para-universo non esploderà, ma che, tuttavia, i para-uomini non si salveranno perché, dopo l’esplosione del nostro Sole, le Pompe dalla nostra parte si fermeranno e di conseguenza si fermeranno anche le loro. Non possono farle funzionare senza di noi, capisci?
— Certo che capisco!
— Allora perché non capovolgiamo la situazione? Nemmeno noi possiamo far funzionare le Pompe senza di loro! Nel qual caso chi se ne importa se non siamo noi a fermarle? Bisogna convincere i para-uomini a fermarle loro!
— Ah… ma lo faranno?
— Hanno detto P-A-U-B-A. Il che vuol dire che hanno paura. Chen dice che hanno paura di noi, cioè hanno paura che noi fermiamo le Pompe, ma secondo me è assurdo. Loro hanno paura, e basta. Me ne sono stato zitto, quando Chen ha tirato fuori la sua interpretazione, tanto che ha creduto di avermi convinto. Ma si sbagliava. In quel momento mi era venuto in mente che noi dovevamo convincere i para-uomini a fermare tutto. E dobbiamo riuscirci. Mike, io mollo tutto il resto, ma non te. Tu sei la speranza dell’umanità. Cerca di farglielo capire, in qualche modo!
Bronowski si mise a ridere, di un riso allegro, quasi infantile. Poi esclamò: — Pete, sei un genio!
— Già. Te ne sei accorto solo adesso?
— No, parlo sul serio. Sai quello che voglio dirti ancor prima che io te lo dica. In questi ultimi tempi ho mandato un mucchio di messaggi, uno dopo l’altro, adoperando i loro simboli in un modo che speravo volesse dire “Pompa” e mettendoci a fianco anche la nostra parola. E poi ho fatto del mio meglio per riordinare tutti i miei appunti di vari mesi, in modo da tirar fuori qualcosa che significasse disapprovazione e mettendoci di nuovo la parola inglese “male”. Non sapevo affatto se ci avevo azzeccato oppure se ero fuori strada di chilometri, ma, dal momento che non avevo mai ricevuto una risposta, avevo poche speranze.
— Non mi hai parlato di questi tuoi tentativi!
— Be’, questa parte del problema è la mia creatura, no? Forse che tu stai lì a spiegarmi ogni volta la para-teoria?
— E allora? Cos’è successo?
— Allora ieri gli ho mandato due parole. Proprio due, nella nostra lingua. Gli ho scarabocchiato: P-O-M-P-A M-A-L-E.
— E poi?
— E poi stamattina ho ricevuto finalmente risposta. Una bella risposta semplice e diretta. Hanno scritto: S-Ì P-O-M-P-A M-A-L-E M-A-L-E M-A-L-E. Ecco, guarda tu.
La mano di Lamont tremava, nel prendere la lamina metallica. — Non c’è nessun errore, vero? Questa è una conferma, non ti pare?
— A me pare di sì. A chi la mostrerai, adesso?
— A nessuno — rispose Lamont, con decisione. — Non ho più voglia di litigare. Mi direbbero che ho falsificato il messaggio, e non vale la pena che io stia là seduto a incassare. Lascia che i para-uomini fermino le Pompe. Si fermeranno anche dalla nostra parte e nessuno potrà rimetterle in funzione unilateralmente, da qui! Allora sì che tutta la Stazione si darà da fare per provare che io avevo ragione e che la Pompa è pericolosa!
— Come fai a immaginare una cosa del genere?
— Perché sarà per loro l’unico modo per evitare di essere fatti a pezzi dalla folla che pretenderà di avere la sua Pompa in funzione… e che s’infurierà quando non l’avrà. Tu non credi che andrà così?
— Be’, forse. Ma c’è una cosa che mi disturba.
— Cos’è?
— Se i para-uomini sono tanto convinti che la Pompa sia pericolosa, perché non l’hanno già fermata loro? Dopo aver ricevuto il messaggio, tanto per la curiosità ho controllato: la Pompa è sempre là che pompa!
Lamont corrugò la fronte. — Forse non vogliono essere i soli a fermarla. Forse ci considerano loro soci e vogliono il nostro consenso. Non credi che possa essere così?
— Può darsi. Ma può anche darsi che il nostro sistema di comunicare faccia acqua. Non è perfetto, sai? Metti il caso che non abbiano capito il significato della parola M-A-L-E. Da quello che io ho detto loro per mezzo dei loro simboli, che potrei anche avere frainteso, magari pensano che M-A-L-E significhi quello che noi intendiamo con B-E-N-E.
— Oh, no!
— Questa è l’espressione della tua speranza, ma sulle speranze non ci si può far conto.
— Mike, per favore, continua a mandare messaggi. Adopera tutte le parole che usano anche loro, tutte quelle possibili e con tutte le varianti possibili. Sei tu l’esperto, decidi tu. Alla fine avranno imparato un numero sufficiente di parole per dirci qualcosa di chiaro e inequivocabile, e allora potremo spiegargli che siamo d’accordo a fermare la Pompa.
— Non abbiamo l’autorità di fare una simile dichiarazione, Pete.
— Sì, ma loro non lo sapranno e, quando si tireranno le somme, noi due saremo gli eroi che hanno salvato l’umanità.
— Anche se la prima cosa che faranno sarà di metterci al muro?
— Anche allora… È tutto in mano tua, Mike, e sono sicuro che non ci vorrà molto tempo.
Invece, passarono quindici giorni senza che arrivasse un altro messaggio, e la tensione crebbe a dismisura.
Anche Bronowski la tradiva. Il suo solito buonumore era sparito, e quel giorno entrò nel laboratorio di Lamont tetro e silenzioso.
I due si guardarono in faccia, e alla fine Bronowski disse: — In giro si dice che sei stato messo sotto inchiesta.
Quella mattina Lamont non si era fatto la barba, e si vedeva. Anche il laboratorio aveva un’aria di abbandono, come quando si preparano gli scatoloni per un trasloco. — E con questo? — Lamont alzò le spalle. — Non m’importa. Quello che mi preoccupa è il fatto che la Phisical Reviews abbia rifiutato il mio articolo.
— Ma mi avevi detto che te lo aspettavi.
— Sì, ma credevo che mi avrebbero comunicato i motivi del rifiuto. Avrebbero dovuto indicarmi i punti dove, secondo loro, c’erano errori o deduzioni sbagliate o presupposti non dimostrati. Qualcosa a cui avrei potuto controbattere.
— E non l’hanno fatto?
— Neanche una parola. I loro esperti non ritengono l’articolo adatto alla pubblicazione. Punto e basta. Non vogliono toccarlo nemmeno con un dito… È scoraggiante, davvero, la stupidità umana! Credo che non me la prenderei tanto se l’umanità si suicidasse a causa della sua crudeltà o anche solo per la sua temerarietà e imprudenza. Ma è così maledettamente poco dignitoso andare incontro alla distruzione per pura ottusità e stupidità! A cosa serve essere uomini, se poi si deve morire a questo modo?
— Stupidità — ripeté Bronowski, tra sé.
— Tu come la chiameresti? Mi mettono persino sotto inchiesta, perché vorrebbero licenziarmi a causa del gravissimo delitto di avere ragione!
— Pare che tutti sappiano che sei andato a trovare Chen.
— Proprio così! — Lamont posò due dita ai lati del naso e si massaggiò stancamente gli occhi. — È chiaro che l’ho scocciato al punto da indurlo ad andare da Hallam a riferirgli chissà cosa, e adesso mi si accusa di aver tentato di sabotare il Progetto Pompa con tattiche intimidatorie non giustificate e senza prove, violando l’etica professionale. Questo, naturalmente, mi rende inadatto a ricoprire un qualunque incarico presso la Stazione.
— Possono provarlo facilmente, Pete.
— Lo immagino anch’io. Ma non me ne importa.
— Cos’hai intenzione di fare?
— Niente — rispose Lamont, indignato. — Che facciano quello che vogliono! Io conto sulle lungaggini burocratiche. Per ogni atto dell’inchiesta occorreranno settimane, forse mesi, e nel frattempo tu continuerai a lavorare. Prima o poi i para-uomini risponderanno.
Bronowski assunse un’espressione infelice. — Pete, immagina che non succeda. Forse è arrivato il momento che tu ci ripensi.
Lamont alzò gli occhi a guardarlo con attenzione. — Cosa stai cercando di dirmi?
— Ammetti con quelli là di aver avuto torto. Copriti il capo di cenere e battiti il petto. Lascia perdere.
— Mai! Perdio, Mike, in questo gioco la posta in ballo è la Terra, con tutti gli esseri viventi che ci stanno sopra!
— Sì, ma perché te la prendi tanto? Tu non sei sposato. Non hai figli. So che tuo padre è morto, e non mi hai mai parlato di tua madre o di altri parenti stretti. Non credo che vi sia a questo mondo una sola persona a cui tu sia affezionato. Perciò, tira avanti per la tua strada e che vadano tutti all’inferno!
— E tu?
— Io farò la stessa cosa. Sono divorziato e non ho figli. Ho un’amica, una ragazza, ma non è una relazione seria. Finché dura, dura. Viviamo! Divertiamoci!
— E domani?
— Domani è un altro giorno! La morte, quando arriverà, arriverà in fretta.
— Non posso. Io non riesco a pensarla così… Mike, Mike! Perché parli così? Stai cercando di dirmi che non ce la faremo? Che vuoi lasciar perdere i para-uomini?
Bronowski distolse lo sguardo, poi rispose: — Pete, ho ricevuto una risposta. Ieri sera. Avevo deciso di tenerla per me, oggi, e di rifletterci sopra, ma perché dovrei farlo?… Eccola qui.
Gli occhi colmi di domande inespresse, Lamont prese la lamina. Poi la guardò. C’erano molte parole, ma non segni di punteggiatura.
POMPA NON FERMA NON FERMA NOI NON FERMA POMPA NOI NON SENTE PERICOLO NON SENTE NON SENTE VOI FERMA FAVORE FERMA VOI FERMA COSÌ NOI FERMA FAVORE VOI FERMA PERICOLO PERICOLO PERICOLO FERMA FERMA VOI FERMA POMPA
— Al diavolo, sembrano disperati — mormorò Bronowski.
Lamont fissava ancora la lamina e non disse niente.
Bronowski riprese: — Scommetto che dall’altra parte c’è uno come te… un para-Lamont. E neanche lui riesce a convincere il suo para-Hallam a fermare la Pompa. Così, mentre noi li supplichiamo di salvarci, è lui che supplica noi di salvarli.
— Ma se noi mostrassimo questo… — cominciò a dire Lamont.
— Direbbero che è un falso, un imbroglio che tu hai architettato per tenere in piedi l’incubo concepito dalla tua mente malata.
— Lo diranno di me, magari, ma non possono dire una cosa del genere di te. Tu mi appoggerai. Potrai testimoniare che il messaggio l’hai ricevuto tu e come.
Bronowski arrossì. — A cosa servirebbe? Diranno che nel para-universo c’è un fissato come te e che Dio li fa e poi li accompagna. Diranno che il messaggio prova semplicemente che l’autorità costituita del para-universo è convinta che non esiste nessun pericolo.
— Mike, stammi al fianco, a lottare.
— Sarebbe del tutto inutile, Pete. Lo hai detto tu, stupidità. I para-uomini saranno anche più progrediti di noi, o più intelligenti se proprio insisti, ma è lampante che sono stupidi come noi, e questo chiude la questione. L’ha detto bene Schiller, e io gli credo.
— Chi l’ha detto?
— Schiller. Un drammaturgo tedesco di tre secoli fa. In una tragedia su Giovanna d’Arco ha scritto: “Contro la stupidità anche gli dei lottano invano”. Cioè, neanche gli dei possono farci niente. Io non sono un dio e sono stufo di lottare. Lascia perdere, Pete, e va’ per la tua strada. Forse il mondo durerà quanto la nostra vita, ma, se non sarà così, non ci possiamo far niente lo stesso. Mi dispiace, Pete. Hai lottato per una causa giusta, ma hai perso, e io sono stufo.
Se ne andò e Lamont restò solo. Rimase seduto sulla sua poltroncina, con le dita che picchiettavano, picchiettavano senza scopo sulla scrivania. E intanto, all’interno del Sole, i protoni si fondevano insieme con una briciola in più di avidità e a ogni istante quest’avidità aumentava di una briciola e sarebbe arrivato il momento in cui il delicato equilibrio si sarebbe spezzato…
— E sulla Terra non ci sarà più nessuno, vivo, per sapere che avevo ragione — gridò Lamont, battendo e ribattendo le palpebre per trattenere le lacrime.