I riti e i doveri della giornata non le erano mai sembrati tanto numerosi e lunghi e meschini. Le bambine con la faccetta pallida e i modi furtivi, le novizie irrequiete, le sacerdotesse dal volto austero e sereno ma dall’esistenza che era un groviglio segreto di gelosie e di infelicità e di piccole ambizioni e di passioni sprecate… tutte quelle donne, tra le quali era sempre vissuta, e che formavano per lei tutto il mondo umano, adesso le apparivano patetiche e noiose.
Ma lei, che serviva un grande potere, lei, la sacerdotessa della tetra Notte, era immune da quelle meschinità. Non doveva curarsi della logorante mediocrità della vita comune, dei giorni in cui l’unica gioia era di ottenere sul piatto di lenticchie una cucchiaiata di grasso d’agnello in più della vicina… Lei era completamente libera dai giorni. Sottoterra, non c’erano giorni. C’era sempre e soltanto la notte.
E in quella notte interminabile, il prigioniero: l’uomo bruno, praticante di arti tenebrose, incatenato col ferro e imprigionato nella pietra, che attendeva che lei andasse o non andasse, per portargli acqua e pane e vita, oppure un coltello e un bacile da macellaio e morte, a seconda del capriccio.
Lei non aveva parlato a nessuno di quell’uomo, eccetto a Kossil, e Kossil non l’aveva detto a nessun altro. Lui era ormai da tre notti e tre giorni nella Camera Dipinta, e Kossil non aveva ancora chiesto nulla ad Arha. Forse pensava che fosse morto, e che Arha avesse ordinato a Manan di portare il cadavere nella Camera delle Ossa. Kossil non era il tipo che prendesse qualcosa per scontato; ma Arha si diceva che il suo silenzio non era strano. Kossil voleva tenere tutto segreto, e odiava essere costretta a fare domande. E inoltre lei le aveva detto di non immischiarsi negli affari suoi. Kossil ubbidiva, semplicemente.
Tuttavia, se l’uomo lo si doveva ritenere morto, Arha non poteva chiedere cibo per lui. Quindi, oltre a rubare mele e cipolle secche nelle cantine della Casa Grande, rinunciava a mangiare. Si faceva portare i pasti del mattino e della sera alla Casa Piccola, sostenendo che voleva consumarli da sola, e ogni notte portava i viveri alla Camera Dipinta del labirinto: tutto tranne le zuppe. Era abituata a digiunare anche per quattro giorni di seguito, e non le costava sacrificio. L’uomo nel labirinto divorava quelle magre porzioni di pane e formaggio e fagioli, come un rospo divora una mosca: tac!, sparito. Era chiaro che avrebbe mangiato cinque o sei volte di più; ma la ringraziava sobriamente, come se lui fosse l’ospite e lei la padrona di casa, a una mensa come quelle di cui Arha aveva sentito parlare, le mense del palazzo del re-dio, apparecchiate con carni arrosto e pani imburrati e vini in coppe di cristallo. Era molto strano, quell’uomo.
— Come sono le Terre Interne?
Arha aveva portato uno sgabelletto pieghevole d’avorio, per non restare in piedi mentre l’interrogava; e non voleva sedersi sul pavimento, allo stesso livello.
— Ecco, ci sono molte isole. Quattro volte quaranta, dicono, solo nell’arcipelago, e poi ci sono i mari; nessuno ha mai navigato tutti i mari né contato tutte le terre. E ognuna è diversa dalle altre. Ma la più bella, forse, è Havnor, la grande terra al centro del mondo. Nel cuore di Havnor c’è una vasta baia piena di navi, dove sorge la città di Havnor. Le torri sono di marmo bianco. La casa di ogni principe e di ogni mercante ha una torre, e perciò s’innalzano una sopra l’altra. I tetti degli edifici sono di tegole rosse, e tutti i ponti sui canali sono coperti di mosaico, rosso e azzurro e verde. E le bandiere dei principi sono di tutti i colori, e garriscono sulle bianche torri. Sulla torre più alta sta, come un pinnacolo, la spada di Erreth-Akbe, protesa verso il cielo. Quando il sole si leva su Havnor, lampeggia per prima cosa su quella spada e la fa rifulgere; e quando tramonta, la spada rimane ancora indorata nella sera, per lunghi istanti.
— Chi era Erreth-Akbe? — chiese Arha, subdolamente.
L’uomo alzò lo sguardo verso di lei. Non disse nulla, ma sorrise appena. Poi, come soprappensiero, disse: — È vero, qui dovete sapere ben poco di lui. Solo che venne nelle terre di Kargad, forse. E di questo, quanto ne sai?
— So che perse il suo bastone da incantatore e il suo amuleto e il suo potere… come te — rispose lei. — Sfuggì al sommo sacerdote e riparò in occidente, e i draghi lo uccisero. Ma se fosse venuto qui, nelle tombe, non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento dei draghi.
— È abbastanza vero — disse l’uomo.
Arha non voleva più parlare di Erreth-Akbe, perché intuiva il pericolo di quell’argomento. — Era un signore dei draghi, dicono. E anche tu dici di esserlo. Spiegami cos’è un signore dei draghi.
Il tono di Arha era sempre sarcastico, le risposte del prigioniero sempre dirette e semplici, come se accettasse in buona fede quelle domande.
— Uno con il quale i draghi parlano — disse, — è un signore dei draghi, o almeno questo è il nucleo della questione. Non significa la capacità di dominare i draghi, come crede molta gente. I draghi non hanno padroni. Con un drago, il problema è sempre lo stesso: ti parlerà o ti divorerà? Se puoi essere certo che farà la prima cosa e non la seconda, allora sei un signore dei draghi.
— I draghi sanno parlare?
— Certamente! Nella Lingua Antica, la lingua che noi uomini impariamo con tanta fatica e usiamo tanto malamente, per i nostri incantesimi di magia e di formazione. Nessuno conosce tutta quella lingua… neppure la decima parte. Non c’è il tempo per impararla. Ma i draghi vivono mille anni… Vale la pena di parlare con loro, come puoi immaginare.
— Ci sono draghi, qui in Atuan?
— Non ce ne sono più da molti secoli, credo, e neppure a Karego-At. Ma nella vostra isola più settentrionale, Hur-at-Hur, dicono che tra le montagne esistano ancora grossi draghi. Nelle Terre Interne stanno tutti all’estremo ovest, nel remoto stretto occidentale, su isole dove non vivono gli uomini e dove pochi uomini giungono. Se hanno fame, compiono scorrerie nelle terre a oriente; ma questo avviene di rado. Io ho visto l’isola dove vanno a danzare, tutti insieme. Volano a spirali con le loro ali immense, avanti e indietro, sempre più in alto, sopra il mare occidentale, come una tempesta di foglie gialle in autunno. — Gli occhi dell’uomo, colmi di quella visione, guardavano oltre i neri affreschi alle pareti, oltre le pareti e la terra e la tenebra, e vedevano il mare aperto, intatto nel tramonto, e i draghi aurei nell’aureo vento.
— Tu menti — disse rabbiosamente la ragazza. — Tu stai inventando tutto.
Lui la guardò, sbalordito. — Perché dovrei mentire, Arha?
— Per farmi sentire sciocca, e stupida, e per spaventarmi. Per apparire sapiente e coraggioso e potente, un signore dei draghi e tutto il resto. Tu hai visto la danza dei draghi, e le torri di Havnor, e sai tutto di tutto. E io non so nulla e non sono stata in nessun posto. Ma tu conosci solo le menzogne! Non sei altro che un ladro prigioniero, e non hai anima, e non lascerai mai più questo luogo. Non ha importanza se esistono oceani e draghi e torri bianche e tutto il resto, perché non li rivedrai mai più, e non rivedrai mai più la luce del sole. Tutto ciò che io conosco è la tenebra, la notte sotterranea. Ed è la sola cosa che esista. È la sola cosa che si può conoscere, alla fine. Il silenzio, e la tenebra. Tu sai tutto, mago. Ma io so una cosa soltanto… l’unica cosa vera!
L’uomo chinò la testa. Le lunghe mani, brune con riflessi di rame, erano immobili sulle ginocchia. Arha vide le quattro cicatrici sulla guancia. Si era spinto nella tenebra più lontano di lei: conosceva la morte meglio di lei, perfino la morte… Si sentì pervadere da uno slancio di odio che per un istante la soffocò. Perché se ne stava lì così indifeso eppure così forte? Perché lei non riusciva a sconfiggerlo?
— È per questo che ti lascio vivere — disse all’improvviso, senza riflettere. — Voglio che tu mi mostri i trucchi degli incantatori. Finché avrai qualche arte da mostrarmi, rimarrai vivo. Se non ne conosci, se sono soltanto inganni e menzogne, ti finirò. Hai compreso?
— Sì.
— Benissimo. Continua.
L’uomo nascose la testa fra le mani per qualche attimo, e cambiò posizione. La cintura di ferro gli impediva di trovare una posizione comoda, a meno che si stendesse.
Infine rialzò la faccia e parlò, in tono molto serio. — Ascolta, Arha. Io sono un mago: quello che voi chiamate incantatore. Possiedo certe arti e certi poteri. Questo è vero. È anche vero che qui, nel luogo delle Antiche Potenze, la mia forza è scarsa e le mie arti non mi soccorrono. Potrei operarti illusioni e mostrarti prodigi di ogni genere. Ma è la parte meno importante della magia. Sapevo operare illusioni già quand’ero bambino: posso farlo perfino qui. Ma se tu vi crederai, ti spaventeranno; e forse vorrai uccidermi, se la paura susciterà in te la collera. E se non vi crederai, le vedrai soltanto quali menzogne e inganni, come tu dici; e perciò perderei ugualmente la vita. E il mio scopo, il mio desiderio, in questo momento, è di rimanere vivo.
A queste parole Arha rise, e poi disse: — Oh, resterai vivo per un po’, non capisci? Sei stupido! Avanti, mostrami queste illusioni. So che sono false, e non ne avrò paura. Anzi, non mi spaventerei neppure se fossero reali. Ma procedi. La tua preziosa pelle è salva, almeno per questa notte.
Allora l’uomo rise, come aveva fatto lei un momento prima. Si gettavano avanti e indietro la sua vita, come una palla, giocando.
— Cosa vuoi che ti mostri?
— Cosa puoi mostrarmi?
— Qualunque cosa.
— Continui a vantarti!
— No — disse lui, evidentemente punto sul vivo. — Non mi vanto. O almeno, non ne ho l’intenzione.
— Mostrami qualcosa che secondo te vale la pena di vedere. Qualunque cosa!
Il giovane chinò la testa e si guardò le mani per qualche istante. Non accadde nulla. La candela di sego nella lanterna dava una luce fioca e costante. I neri affreschi alle pareti, le figure alate ma non in volo con gli occhi dipinti di rosso cupo e di bianco, giganteggiavano sopra di lui e sopra di lei. Non si udiva neppure un suono. Arha sospirò, delusa e irritata. Lui era debole: parlava di cose grandi ma non faceva nulla. Non era altro che un abile bugiardo, e neppure un ladro abile. — Bene — disse lei, alla fine, e si raccolse le gonne per alzarsi. La lana frusciò stranamente, quando lei si mosse. Allora abbassò lo sguardo e scattò, sbalordita.
La pesante veste nera che portava da anni era sparita: il suo abito era di seta turchese, lucente e tenero come il cielo serotino. Si allargava a campana dai fianchi, e tutta la gonna era ricamata di sottili fili d’argento e di perle scaramazze e di minuscole briciole di cristallo, e scintillava dolcemente, come la pioggia d’aprile.
Arha guardò il mago, ammutolita.
— Ti piace?
— Dove…
— È simile all’abito che ho visto addosso a una principessa, una volta, alla festa del Ritorno del sole, nella nuova reggia di Havnor — disse il giovane, guardandolo soddisfatto. — Tu mi hai detto di mostrarti qualcosa che valesse la pena di vedere. Io ti mostro te stessa.
— Fallo… fallo sparire.
— Tu mi hai dato il tuo mantello — replicò lui, in tono di rimprovero. — E io non posso darti nulla? Bene, non preoccuparti. È soltanto un’illusione. Guarda.
Non alzò un dito, parve; e certamente non pronunciò una parola; ma l’azzurro splendore della seta svanì, e Arha era avvolta di nuovo nella severità della veste nera.
Rimase immota, a lungo.
— Come posso sapere — chiese infine, — se tu sei davvero ciò che sembri?
— Non puoi saperlo — rispose il giovane. — Io non so cosa ti sembro.
Arha rifletté di nuovo. — Potresti indurmi a vederti come… — S’interruppe perché lui aveva alzato la mano indicando in alto, con un brevissimo abbozzo di gesto. Pensò che stesse lanciando un incantesimo e si affrettò a ritirarsi verso la porta: ma seguendo quel gesto, i suoi occhi incontrarono lassù, nel soffitto ad arco, il minuscolo quadrato che era lo spioncino della stanza del tesoro, nel tempio degli dèi gemelli.
Non irradiava luce, dallo spioncino; lei non poteva vedere nulla, lassù, non udiva nessuno. Ma l’uomo aveva indicato quel punto, e adesso la fissava con aria interrogativa.
Rimasero assolutamente immobili per lunghi istanti.
— La tua magia è solo una follia, buona per gli occhi dei bambini — disse Arha, pronunciando distintamente le parole. — Trucchi e menzogne. Ho visto abbastanza. Verrai dato in pasto ai Senza Nome. Io non tornerò mai più.
Prese la lanterna e uscì, e chiuse rumorosamente, con forza, i catenacci di ferro. Poi si fermò davanti alla porta, sconcertata. Cosa doveva fare?
Cos’aveva visto e udito, Kossil? Cosa stavano dicendo, loro due? Non riusciva a ricordare. Sembrava che non dicesse mai al prigioniero ciò che voleva dirgli. Lui la confondeva sempre parlando di draghi e di torri e dei nomi dei Senza Nome, e dicendo che voleva rimanere vivo e che le era grato per il dono del mantello. Non diceva mai ciò che doveva dire. E lei non aveva mai chiesto nulla del talismano, che adesso portava ancora, nascosto sotto la veste.
Tanto meglio, poiché Kossil stava ascoltando.
Ebbene, non aveva importanza: che male poteva fare, Kossil? E mentre si rivolgeva quella domanda, Arha conosceva già la risposta. Non c’è nulla di più facile che uccidere un falco ingabbiato. L’uomo era indifeso, incatenato nella gabbia di pietra. La sacerdotessa del re-dio poteva mandare Duby, il suo servitore, a strangolarlo, quella notte stessa; oppure, se lei e Duby non conoscevano abbastanza il labirinto per arrivare fin lì, era sufficiente che soffiasse una polvere velenosa nella Camera Dipinta, attraverso lo spioncino. Possedeva cassette e fiale di sostanze malefiche: alcune per avvelenare il cibo o l’acqua, altre che drogavano l’aria e uccidevano se si respirava quell’aria troppo a lungo. E l’indomani mattina lo si sarebbe trovato morto, e tutto sarebbe finito. Non ci sarebbe più stata una luce, sotto le tombe.
Arha si affrettò a percorrere gli stretti corridoi di pietra, verso la porta della cripta, dove Manan l’attendeva, acquattato pazientemente nell’oscurità come un vecchio rospo. Le sue visite al prigioniero lo rendevano inquieto. Lei non gli permetteva di accompagnarla fin là, perciò avevano raggiunto un compromesso. Adesso era lieta che Manan fosse lì, a portata di mano. Di lui, almeno, poteva fidarsi.
— Manan, ascolta. Devi andare nella Camera Dipinta, immediatamente. Di’ all’uomo che vieni a prenderlo per seppellirlo vivo sotto le tombe. — Gli occhietti di Manan s’illuminarono. — Dillo con voce chiara e forte. Apri la catena e conducilo… — Arha s’interruppe, perché non aveva ancora deciso quale poteva essere il nascondiglio migliore.
— Nella cripta — suggerì premuroso Manan.
— No, sciocco. Ti ho detto di dirlo, non di farlo. Aspetta… Quale posto poteva essere al sicuro da Kossil e dalle sue spie?
Solo i luoghi sotterranei più profondi, più sacri e celati del dominio dei Senza Nome, dove lei non osava addentrarsi. Eppure, Kossil non avrebbe forse osato qualunque cosa? Aveva paura dei luoghi tenebrosi, ma era capace di dominare il terrore per realizzare i suoi fini. Era impossibile sapere fino a che punto avesse appreso la planimetria del labirinto, da Thar, o dall’Arha della precedente incarnazione, o addirittura da esplorazioni segrete, compiute nel passato. Arha sospettava che sapesse più di quanto fingeva di sapere. Ma c’era una via che sicuramente non poteva conoscere: il segreto più gelosamente custodito.
— Devi portare l’uomo dove ti condurrò, e dovrai farlo al buio. Poi, quando ti ricondurrò qui, scaverai una fossa nella cripta e preparerai una bara: la deporrai vuota nella fossa e la coprirai di terra, in modo che, se qualcuno la cerca possa trovarla. Una tomba profonda. Capisci?
— No — disse Manan, austero e turbato. — Piccola, questo trucco non è saggio. Non va bene. Non dovrebbe esserci un uomo, qui! Verrà una punizione…
— Un vecchio sciocco finirà con la lingua mozza, sì! Tu osi insegnarmi che cosa è saggio e che cosa non lo è? Io eseguo gli ordini delle Potenze delle Tenebre. Seguimi!
— Scusami, padroncina, scusami…
Ritornarono nella Camera Dipinta. Arha attese nella galleria, mentre Manan entrava e staccava la catena dalla parete. Udì la voce profonda chiedere: — Dove andiamo, Manan? — E la roca voce di contralto rispose, cupamente: — Verrai sepolto vivo, così ha detto la mia padrona. Sotto le Pietre Tombali. Alzati! — Udì la pesante catena schioccare come una frusta.
Il prigioniero uscì, con le braccia legate dalla cintura di cuoio di Manan. L’eunuco lo seguiva, tenendolo come un cane a guinzaglio corto, ma il collare era intorno alla sua vita e il guinzaglio era di ferro. L’uomo voltò gli occhi verso di lei, ma Arha spense la candela e senza dire una parola si avviò nell’oscurità. Subito prese il passo lento ma sicuro che teneva solitamente quando non usava la lampada nel labirinto, sfiorando con la punta delle dita l’una e l’altra parete. Manan e il prigioniero la seguivano, molto più impacciati a causa del guinzaglio, e strascicavano i piedi e incespicavano. Ma dovevano procedere al buio, perché Arha non voleva che nessuno dei due imparasse la strada.
Una svolta a sinistra dalla Camera Dipinta, poi superare due aperture; arrivare fino alle Quattro Vie e oltrepassare l’apertura sulla destra; poi un lungo percorso curvilineo e una scala da scendere, lunga, sdrucciolevole, con i gradini troppo stretti per piedi umani. Arha non si era mai spinta oltre quella scala.
L’aria era più malsana, lì: immobile, e con un odore acuto. Le istruzioni erano chiare nella sua mente, e perfino il tono della voce di Thar che gliele insegnava. Giù per i gradini (il prigioniero incespicò nella tenebra, e lei l’udì ansimare quando Manan lo tenne in piedi con un poderoso strattone alla catena), e ai piedi della scala svoltare subito a sinistra. Poi continuare sulla sinistra per tre aperture, e poi prendere la prima a destra e tenersi sulla destra. Le gallerie curvavano e svoltavano: nessuna procedeva diritta. «Poi devi girare intorno all’Abisso — disse la voce di Thar, nell’oscurità della sua mente. — E la via è molto stretta.»
Arha rallentò il passo, si chinò, tastò il pavimento con la mano. Il corridoio, adesso, proseguiva diritto per un lungo tratto, dando una falsa sicurezza. All’improvviso la sua mano brancolante, che non aveva mai smesso di toccare la roccia, non sentì nulla. C’era l’orlo della pietra: e oltre quell’orlo, il vuoto. Sulla destra, la parete del corridoio scendeva a perpendicolo nell’abisso. Sulla sinistra c’era un cornicione, non più largo di una spanna.
— C’è un abisso. Voltatevi verso la parete a sinistra, e camminate di sbieco. Fate scivolare i piedi. Tieni stretta la catena, Manan… Siete sul cornicione? Diventa più stretto. Non appoggiate il peso sui talloni. Ecco, ho superato l’abisso. Tendimi la mano. Ecco…
Il corridoio procedeva in brevi zigzag, con molte aperture laterali. Da alcune, mentre le superavano, il suono dei passi echeggiava stranamente, cavernosamente; e, cosa ancora più strana, si sentiva una corrente d’aria lievissima, un’aspirazione. Quei corridoi dovevano terminare in abissi, come quello che avevano superato. Forse, sotto quella parete bassa del labirinto, c’era una cavità, una grotta così immensa che al confronto la cripta sarebbe apparsa ben poca cosa, un enorme e nero e vuoto sotterraneo.
Ma sopra quell’abisso, dove procedevano per i bui passaggi, i corridoi si restringevano lentamente e diventavano più bassi finché Arha fu costretta a fermarsi. Quella strada non avrebbe mai avuto fine?
La fine venne all’improvviso: una porta chiusa. Mentre avanzava china, un po’ più svelta del solito, Arha vi urtò con la testa e le mani. Cercò a tentoni il buco della serratura, poi la piccola chiave infilata nell’anello che portava alla cintura, la chiave d’argento con l’asta a forma di drago: entrò, e girò. Arha aprì la porta del Grande Tesoro delle Tombe di Atuan. L’aria — secca, acre, stantia — uscì con un sospiro dall’oscurità.
— Manan, qui non puoi entrare. Attendi fuori dalla porta.
— Lui sì e io no?
— Se entri in questa stanza, non ne uscirai. È la legge che vale per tutti, eccettuata me. Nessun essere mortale, tranne me, ha mai lasciato vivo questa camera. Vuoi entrare?
— Attenderò fuori — disse la voce malinconica, nella tenebra. — Padrona, padrona, non chiudere la porta!
Quell’angoscia la snervò tanto che lasciò la porta socchiusa. In verità quel luogo la riempiva di un cupo spavento, e diffidava del prigioniero sebbene fosse legato. Appena entrata, accese la lampada. Le tremavano le mani. La candela s’infiammò con riluttanza: l’aria era morta e soffocante. Nel chiarore giallognolo, che sembrava fulgido dopo le lunghe gallerie di tenebre, la camera del tesoro giganteggiava intorno a loro, piena di ombre in movimento. C’erano sei grandi cofani, tutti di pietra, tutti coperti da una fine polvere grigia, come la muffa del pane. Nient’altro. Le pareti erano scabre, la volta bassa. C’era freddo, un freddo profondo e privo d’aria che sembrava arrestare il sangue nel cuore. Non c’erano ragnatele: soltanto polvere. Nulla viveva, lì: neppure gli scarsi ragnetti bianchi del labirinto. La polvere era spessa, molto spessa, e ogni granello poteva essere un giorno trascorso lì, dove non c’erano né il tempo né la luce: giorni, mesi, anni, epoche, tutti divenuti polvere.
— Questo è il luogo che cercavi — disse Arha, e la sua voce era ferma. — È il Grande Tesoro delle Tombe. Ci sei arrivato. Non potrai mai lasciarlo.
L’uomo non disse nulla, e il suo volto era quieto, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che la turbò: una desolazione, lo sguardo di chi si sente tradito.
— Hai detto che volevi rimanere vivo. Questo è l’unico luogo dove puoi restar vivo. Kossil ti ucciderà o mi costringerà a ucciderti, Sparviero. Ma qui non può arrivare.
Lui continuò a tacere.
— Non avresti mai potuto lasciare le tombe in nessun caso, non capisci? Qui non è diverso. E almeno sei giunto alla… alla fine del tuo viaggio. Quello che cercavi è qui.
L’uomo si sedette su uno dei grandi cofani, esausto, e la catena tintinnò con un suono aspro sulla pietra. Girò lo sguardo sulle grige pareti e sulle ombre, e poi su di lei.
Arha distolse gli occhi e li posò sui cofani di pietra. Non aveva nessun desiderio di aprirli. Non le interessavano le meraviglie che imputridivano là dentro.
— Non è necessario che tu porti la catena, qui. — Si avvicinò e aprì la serratura della cintura di ferro, e gli sciolse le braccia dalla cintura di cuoio di Manan. — Dovrò chiudere la porta, ma quando verrò qui mi fiderò di te. Tu sai che non puoi andartene… che non devi tentare. Io sono la loro vendetta, io compio la loro volontà. Ma se io li deludessi… se tu tradissi la mia fiducia… allora si vendicherebbero. Non devi tentare di lasciare questa camera, facendomi del male o ingannandomi quando verrò. Devi credermi.
— Farò come tu dici — mormorò lui, gentilmente.
— Ti porterò cibo e acqua, quando potrò. Non sarà molto. Acqua a sufficienza, ma non molto cibo, per un po’: ho fame, capisci? Ma quanto basta per tenerti in vita. Forse non potrò tornare per un giorno o due, o anche di più. Devo mettere fuori pista Kossil. Ma verrò. Lo prometto. Ecco la borraccia. Bevi con parsimonia: non potrò ritornare tanto presto. Ma tornerò.
L’uomo alzò il volto verso di lei. La sua espressione era strana. — Abbiti cura, Tenar — disse.