I PRIGIONIERI

I passi di Kossil risuonarono lungo il corridoio della Casa Piccola, lenti e decisi. L’alta figura pesante riempì il vano della porta: parve rimpicciolire quando la sacerdotessa s’inchinò piegando un ginocchio sul pavimento, crebbe di nuovo quando si rialzò in tutta la sua statura.

— Padrona.

— Che c’è, Kossil?

— Finora mi è stato permesso di occuparmi di certe cose riguardanti il dominio dei Senza Nome. Se così ti piace, è ormai tempo che tu apprenda, e veda, e ti addossi queste cose, che non hai ancora rammentato nella vita attuale.

La ragazza era seduta nella sua stanza priva di finestre, come se meditasse; ma in realtà non faceva nulla, e quasi non pensava. Trascorse qualche momento prima che l’espressione cupa e altezzosa del suo volto cambiasse. Tuttavia cambiò, sebbene lei cercasse di dissimularlo. Disse, con una certa timidezza: — Il labirinto?

— Non entreremo nel labirinto. Ma sarà necessario attraversare la cripta.

Nella voce di Kossil c’era un tono che poteva essere paura, e poteva essere una finzione di paura, voluta per spaventare Arha. La ragazza si alzò, senza fretta, e disse in tono indifferente: — Sta bene. — Ma in cuor suo, mentre seguiva la pesante figura della sacerdotessa del re-dio, esultava: Finalmente! Finalmente! Vedrò finalmente il mio dominio!

Aveva quindici anni. Da un anno era diventata donna e aveva assunto nel contempo i pieni poteri di Unica Sacerdotessa delle Tombe di Atuan, somma tra le somme sacerdotesse delle Terre di Kargad, colei alla quale neppure il re-dio poteva dare ordini. Adesso tutti piegavano il ginocchio davanti a lei, perfino le austere Thar e Kossil. Tutte le parlavano con elaborata deferenza. Ma non era cambiato nulla. Non accadeva nulla. Dopo le cerimonie della sua consacrazione, i giorni avevano ripreso a scorrere come sempre. C’era la lana da filare, la stoffa nera da tessere, il grano da macinare, i riti da compiere; c’erano i Nove Canti da cantare ogni sera, le porte da benedire, le Pietre da aspergere di sangue di capro due volte l’anno, le danze del novilunio da eseguire davanti al trono vuoto. E così era trascorso l’intero anno, esattamente com’erano trascorsi gli altri anni; e nello stesso modo dovevano forse passare tutti gli anni della sua vita?

Qualche volta la noia era così intensa che lei la sentiva come un terrore: l’afferrava alla gola. Non molto tempo prima, era stata costretta a parlarne. Doveva parlare, si era detta, o sarebbe impazzita. E aveva parlato a Manan. L’orgoglio le impediva di confidarsi con le altre ragazze, e la prudenza la tratteneva dal confessarsi con le donne più anziane: Manan invece non era nulla, un vecchio sciocco fedele, e non aveva importanza ciò che gli diceva. E con suo grande stupore, lui aveva avuto una risposta da darle.

— Molto tempo fa — le disse, — lo sai, piccola, prima che le nostre quattro terre si unissero in un unico impero, prima che un re-dio regnasse su tutti noi, c’erano moltissimi reucci e principi e capi. Erano sempre in dissidio tra loro. E allora venivano qui per risolvere i loro contrasti. Ecco cosa capitava: giungevano dalla nostra terra, Atuan, e da Karego-At, e da Atnini, e perfino da Hur-at-Hur, tutti i capi e i principi, con i loro servitori e i loro eserciti; e domandavano cosa dovevano fare. E allora la sacerdotessa si recava davanti al trono vuoto, e riferiva loro il giudizio dei Senza Nome. Ebbene, questo avveniva tanto tempo fa. Dopo molti anni, i re-sacerdoti divennero signori di tutto Karego-At, e ben presto s’impadronirono di Atuan; e adesso, da quattro o cinque generazioni, i re-dèi regnano sulle Quattro Terre, e le hanno trasformate in un impero. Perciò le cose sono cambiate. Il re-dio può domare i capi indisciplinati e risolvere da sé i dissidi. E poiché è un dio, capisci, non è necessario che consulti spesso i Senza Nome.

Arha tacque, riflettendo. Il tempo non significava molto, lì nel deserto, sotto le Pietre immutabili, quando si conduceva un’esistenza che era sempre stata vissuta nello stesso modo fin dall’inizio del mondo. Lei non era abituata a pensare ai mutamenti, alle cose vecchie che morivano, alle nuove cose che si affermavano. La turbava, vedere la realtà in quella prospettiva. — I poteri del re-dio sono molto inferiori ai poteri di Coloro che io servo — disse, aggrottando la fronte.

— Senza dubbio… Senza dubbio… Ma questo non puoi andare a dirlo a un dio, mio piccolo favo di miele. E neppure alla sua sacerdotessa.

E Arha, vedendo lo scintillio di quegli occhietti bruni, pensò a Kossil, somma sacerdotessa del re-dio, che lei aveva temuto fin dal giorno in cui era giunta nel Luogo: e comprese ciò che intendeva dire Manan.

— Ma il re-dio, e la sua gente, stanno trascurando il culto delle Tombe. Non viene mai nessuno.

— Be’, il re-dio invia qui i prigionieri per i sacrifici. Questo non lo trascura. E non dimentica neppure i doni dovuti ai Senza Nome.

— I doni! Il suo tempio viene ridipinto ogni anno, ci sono più di cento libbre d’oro sull’altare, e nelle lampade brucia l’essenza di rosa! E guarda il palazzo del trono: falle nel tetto, crepe nella cupola, muri pieni di topi e di gufi e di pipistrelli… Eppure durerà più del re-dio e di tutti i suoi templi e di tutti i re che verranno dopo di lui. Esisteva prima di lui, e quando quelli saranno tutti scomparsi sarà ancora qui. È il centro delle cose.

— È il centro delle cose.

— Ci sono grandi ricchezze: Thar me ne parla, qualche volta. Abbastanza per riempire dieci volte il tempio del re-dio. Oro e trofei donati secoli fa, cento generazioni addietro, chissà quando. Sono tutti rinchiusi nelle fosse e nelle copte, sottoterra. Non vogliono ancora condurmi là, mi fanno aspettare e aspettare. Ma io so com’è. Ci sono camere sotto la sala, sotto l’intero Luogo, sotto il punto dove stiamo adesso. C’è un grande meandro di gallerie, un labirinto. È come una grande città buia, sotto la collina. Piena d’oro, e di spade di antichi eroi, e di vecchie corone, e di ossa e di anni e di silenzio.

Arha aveva parlato come in estasi, rapita. Manan la scrutava. La sua faccia pesante non esprimeva mai altro che una solida e prudente mestizia, e adesso era più triste che mai. — Bene, e tu sei la padrona di tutto questo — disse. — Il silenzio e la tenebra.

— Sì. Ma loro non vogliono mostrarmi nulla: soltanto le camere al pianterreno, dietro il trono. Non mi hanno neppure mostrato gli ingressi dei sotterranei: si limitano a parlottarne, qualche volta. Mi negano il mio dominio! Perché continuano a farmi aspettare?

— Tu sei giovane. E forse — disse Manan con quella sua roca voce di contralto — forse loro hanno paura, piccola. Non è il loro dominio, dopotutto: è il tuo. Loro sono in pericolo, quando vi penetrano. Non c’è mortale che non tema i Senza Nome.

Arha non disse nulla, ma i suoi occhi lampeggiarono. Ancora una volta, Manan le aveva mostrato un modo nuovo di vedere le cose. Thar e Kossil le erano sempre apparse così formidabili, così fredde, così forti, che non aveva mai immaginato che potessero avere paura. Eppure Manan aveva ragione. Temevano certi luoghi, i poteri di cui lei era parte, i poteri cui apparteneva. Avevano paura di addentrarsi nei luoghi tenebrosi, paura di essere divorate.

E ora, mentre scendevano insieme a Kossil la scalinata della Casa Piccola e il ripido sentiero gradinato verso il palazzo del trono, ricordò quel colloquio con Manan, ed esultò di nuovo. Dovunque la conducessero, qualunque cosa le mostrassero, lei non avrebbe avuto paura. Avrebbe saputo cosa fare.

Kossil, che era un poco più indietro di lei sul sentiero, parlò: — Uno dei doveri della mia padrona, come lei ben sa, è di sacrificare certi prigionieri, criminali di nobile nascita, che col sacrilegio o il tradimento hanno peccato contro il nostro signore il re-dio.

— O contro i Senza Nome — disse Arha.

— In verità è così. Ora, non è giusto che la divorata debba compiere tale dovere finché è ancora bambina. Ma la mia padrona non è più una bambina. Nella stanza delle catene ci sono i prigionieri, inviati un mese fa, per grazia del nostro signore il re-dio, dalla sua città di Awabath.

— Non sapevo che fossero arrivati i prigionieri. Perché non sono stata informata?

— I prigionieri vengono portati di notte, e in segreto, per la via prescritta anticamente dai rituali delle tombe. È la via segreta che la mia padrona seguirà se prenderà il sentiero che conduce lungo il muro.

Arha si allontanò dal sentiero per seguire il grande muro di pietra che cingeva le tombe, dietro il palazzo a cupola. I massi che lo formavano erano enormi: il più piccolo pesava più di un uomo, e i più grandi avevano le dimensioni di carri. Sebbene non fossero stati levigati, erano adattati e congiunti con estrema cura. In certi tratti, tuttavia, la sommità del muro era crollata, e i massi giacevano in mucchi informi. Solo un tempo lunghissimo poteva riuscire a tanto: i giorni roventi e le gelide notti dei secoli nel deserto, i millenari e impercettibili movimenti delle stesse colline.

— È facilissimo scalare il muro delle tombe — disse Arha, mentre lo costeggiavano.

— Non abbiamo abbastanza uomini per ricostruirlo.

— Abbiamo pure abbastanza uomini per custodirlo.

— Soltanto schiavi. Non possiamo fidarci, di loro.

— Possiamo fidarci, se hanno paura. Si stabilisca che la punizione sia per loro la stessa comminata all’estraneo cui permettessero di porre piede sul sacro suolo all’interno del muro.

— Qual è la punizione? — Kossil non lo chiese per conoscere la risposta. Era stata lei stessa a insegnarla ad Arha, molto tempo addietro.

— Essere decapitato davanti al trono.

— È la volontà della mia padrona che venga posta una guardia al muro delle tombe?

— Sì — rispose la ragazza. Nelle lunghe maniche nere, le sue dita si contrassero euforicamente. Sapeva che Kossil non avrebbe desiderato assegnare neppure uno schiavo al compito di sorvegliare il muro, e per la verità era un dovere inutile: quando mai veniva lì qualche estraneo? Non era probabile che qualcuno capitasse a meno di un miglio dal Luogo, per caso o volutamente, senza essere avvistato; e di certo non sarebbe riuscito ad avvicinarsi alle tombe. Ma una guardia era un onore dovuto, e Kossil non poteva opporsi. Doveva ubbidire ad Arha.

— Qui — disse la sua fredda voce.

Arha si fermò. Aveva percorso spesso quel sentiero, intorno al muro delle tombe, e lo conosceva come conosceva ogni spanna del Luogo, ogni sasso e ogni roveto e ogni cardo. Il grande muro di roccia si innalzava alla sua sinistra, tre volte più alto di lei; sulla destra la collina digradava in una valle arida e poco profonda, che presto risaliva verso la catena occidentale. Girò lo sguardo sul terreno, tutt’intorno, e non vide nulla che non avesse già visto.

— Sotto le rocce rosse, padrona.

Poche braccia più in basso, sul pendio, uno spuntone di lava rossa formava una scala o un piccolo strapiombo nella collina. Quando Arha scese e si fermò davanti alle rocce, si accorse che sembravano una porta rudimentale, alta poco più di un braccio.

— Cosa devo fare?

Aveva imparato ormai da molto tempo che nei luoghi sacri è inutile cercare di aprire una porta se non si sa come si fa ad aprirla.

— La mia padrona ha tutte le chiavi dei luoghi tenebrosi.

Fin dai riti per la sua maggiore età, Arha portava alla cintura un anello di ferro cui erano appesi un pugnaletto e tredici chiavi, alcune lunghe e pesanti e altre minuscole come ami da pesca. Alzò l’anello e allargò le chiavi. — Quella — disse Kossil, indicandola, e poi posò il tozzo indice su una crepa tra due rosse superfici di pietra corrosa.

La chiave, una lunga asta di ferro con due guardie ornate, si inserì nella crepa. Arha la girò verso sinistra, usando entrambe le mani perché era rigida: tuttavia girò senza difficoltà.

— E ora?

— Insieme…

Spinsero insieme la pietra scabra a sinistra della serratura. Pesantemente, ma senza intoppi e con pochissimo rumore, una sezione irregolare della roccia rossa rientrò, mostrando una stretta fenditura. All’interno c’era la tenebra.

Arha si chinò ed entrò.

Kossil, che era pesante e pesantemente vestita, stentò a insinuarsi attraverso quell’apertura. Appena fu entrata si appoggiò con le spalle alla porta e la chiuse, premendola.

Era assolutamente buio. Non c’era neppure un filo di luce. L’oscurità sembrava opprimere gli occhi aperti, come feltro bagnato.

Stavano chine, quasi piegate in due, perché l’andito dove si trovavano era alto poco più di un braccio e così stretto che le mani brancolanti di Arha toccavano la pietra umida a destra e a sinistra.

— Hai portato una lampada?

Bisbigliava, come succede quando si è al buio.

— Non ne ho portate — rispose Kossil, dietro di lei. Anche la voce di Kossil era bassa; ma aveva un suono strano, come se la donna stesse sorridendo. Kossil non sorrideva mai. Il cuore di Arha diede un tuffo: il sangue le pulsò nella gola. Si disse, rabbiosamente: questo è il mio posto, e non avrò paura.

Non disse nulla, a voce alta. Si avviò. C’era una sola direzione possibile: il passaggio si addentrava nella collina, in discesa.

Kossil la seguì, respirando pesantemente, e le sue vesti frusciavano contro la roccia e la terra.

All’improvviso, la volta si alzò; Arha poté raddrizzarsi, e quando tese le mani non sentì più le pareti. L’aria, che prima era viziata e sapeva di terra, adesso le sfiorava il volto con un’umidità più fresca, e il suo lieve movimento dava la sensazione di una grande ampiezza. Arha mosse qualche passo, cautamente, nella tenebra assoluta. Un ciottolo, scivolando sotto il suo sandalo, colpì un altro ciottolo, e quel suono minutissimo destò gli echi, molti echi, remoti, ancora più remoti. La caverna doveva essere immensa, alta e ampia, e tuttavia non vuota: e qualcosa in quella tenebra (superfici di oggetti invisibili, o pareti divisorie) spezzava l’eco in mille frammenti.

— Qui dovremmo essere sotto le Pietre — mormorò la ragazza; e il suo bisbiglio corse nella tenebra cavernosa e si sfilacciò in fili di suono esili come ragnatele, che aderirono all’udito per molto tempo.

— Sì. Questa è la cripta. Va’ avanti. Non posso rimanere qui. Segui il muro a sinistra. Supera tre aperture.

Il respiro di Kossil era sibilante (e sibilavano anche i minuscoli echi). Aveva paura, aveva veramente paura. Non amava essere là, tra i Senza Nome, nelle loro tombe, nelle loro grotte, nella tenebra. Non era il suo posto, quello.

— Verrò qui con una torcia — disse Arha, orientandosi lungo la parete della grotta al tocco delle dita, sorprendendosi delle forme strane della roccia, incavi e protuberanze e curve finissime e spigoli, qua irregolari come un merletto, là levigati come il bronzo: senza dubbio un bassorilievo. Forse l’intera caverna era opera degli scultori di un lontano passato?

— Qui la luce è proibita. — Il sussurro di Kossil era tagliente. E mentre Kossil pronunciava queste parole, Arha comprese che doveva essere così. Quella era la patria della tenebra, il centro della notte.

Per tre volte le sue dita incontrarono una breccia nella complessa oscurità rocciosa. La terza volta cercò di misurare a tastoni l’altezza e l’ampiezza del varco, e vi entrò. Kossil la seguì.

In quella galleria, che adesso saliva lievemente, passarono davanti a un’apertura sulla sinistra, e poi, a una diramazione, svoltarono a destra: sempre a tentoni, brancolando nella tenebra e nel silenzio sotterranei. In un passaggio come quello, era necessario protendere quasi ininterrottamente le mani per toccare le pareti laterali, per non farsi sfuggire una delle aperture che bisognava contare, o la biforcazione che doveva essere seguita. Il tatto era l’unica guida: non era possibile vedere la via, bisognava seguirla con la mano.

— Questo è il labirinto?

— No. Questo è il meandro minore, situato sotto il trono.

— Dov’è l’ingresso del labirinto?

Ad Arha piaceva quel gioco al buio: e adesso aspirava a un enigma più grande.

— La seconda apertura che abbiamo superato nella cripta. Adesso cerca una porta sulla destra, una porta di legno. Forse l’abbiamo già passata…

Arha udì le mani di Kossil che brancolavano inquiete lungo la parete, strusciando contro la roccia scabra. Lei continuava a tenere i polpastrelli posati leggermente sulla pietra, e dopo un istante sentì la liscia grana del legno. Spinse, e la porta si aprì cigolando, senza difficoltà. Lei rimase immobile per un momento, abbacinata dalla luce.

Entrarono in una grande camera bassa, dalle pareti di pietra intagliata, illuminata da un’unica torcia fumigante appesa a una catena. L’aria era ammorbata dal fumo della torcia, che non aveva sfogo. Gli occhi di Arha presero a bruciare e lacrimare.

— Dove sono i prigionieri?

— Là.

Infine lei si accorse che i tre mucchi informi, in fondo alla camera, erano uomini.

— La porta non è chiusa a chiave. Non ci sono guardie?

— Non è necessario.

Lei avanzò un poco di più nella camera, esitante, scrutando nella fumosa foschia. I prigionieri erano assicurati per le caviglie e per un polso a grandi anelli fissati nella roccia della parete. Se uno di loro voleva distendersi, il braccio vincolato rimaneva appeso alla catena. I capelli e la barba avevano formato un groviglio che congiurava con le ombre per nascondere i loro volti. Uno era semisdraiato, gli altri due stavano accovacciati. Erano nudi. L’odore che esalavano era ancora più forte del fetore del fumo.

Uno dei tre sembrava intento a scrutare Arha; le parve di scorgere lo scintillio degli occhi, ma non ne era sicura. Gli altri non si erano mossi, non avevano alzato la testa.

Arha si distolse. — Non sono più uomini — disse.

— Non lo sono mai stati. Erano demoni, spiriti di belve, che complottavano contro la sacra vita del re-dio! — Gli occhi di Kossil brillavano nella luce rossastra della torcia.

Arha guardò di nuovo i prigionieri, turbata e incuriosita. — Com’è possibile che un uomo aggredisca un dio? Come è avvenuto? Tu: come hai osato attaccare un dio vivente?

L’uomo la fissò attraverso il nero cespuglio dei capelli, ma non disse nulla.

— Hanno tagliato loro la lingua prima che li mandassero qui da Awabath — disse Kossil. — Non parlare con loro, padrona. Sono immondi. Sono tuoi, ma non perché tu parli con loro o li guardi o pensi a loro. Sono tuoi perché tu li dia ai Senza Nome.

— Come devono essere sacrificati?

Arha non guardava i prigionieri. Era girata verso Kossil, traendo forza da quel corpo massiccio e da quella voce fredda. Si sentiva stordita, e il fetore del fumo e del sudiciume le dava la nausea; eppure sembrava che pensasse e parlasse con calma perfetta. Non l’aveva già fatto molte altre volte, in passato?

— La Sacerdotessa delle Tombe sa meglio di chiunque altro quale morte piacerà ai suoi Padroni, e spetta a lei scegliere. Ci sono moltissimi modi.

— Che Gobar, il capitano delle guardie, tagli loro la testa. E il sangue verrà versato davanti al trono.

— Come se fosse un sacrificio di capri? — Kossil pareva deridere la sua scarsa immaginazione. Arha restò muta. Kossil proseguì: — Inoltre, Gobar è un uomo. Nessun uomo può entrare nei luoghi tenebrosi delle tombe, e sicuramente la mia padrona lo ricorda. Se entrerà, non potrà uscire…

— Chi li ha portati qui? Chi dà loro da mangiare?

— I guardiani che servono il mio tempio, Duby e Uahto; sono eunuchi, e possono entrare qui al servizio dei Senza Nome, come posso farlo io. I soldati del re-dio hanno lasciato i prigionieri legati all’esterno del muro, e io e i guardiani li abbiamo portati qui attraverso la Porta dei Prigionieri, la porta nelle rocce rosse. È sempre stato cosi. Il cibo e l’acqua vengono calati da una botola, in una delle stanze dietro il trono.

Arha alzò la testa e vide, accanto alla catena cui era appesa la torcia, un riquadro di legno incastonato nella volta di pietra. Era troppo piccolo perché un uomo potesse passare: ma una corda poteva calare esattamente alla portata del prigioniero centrale. Lei si affrettò a distogliere lo sguardo.

— E allora, che non gli si portino più né cibo né acqua. Che la torcia si spenga.

Kossil s’inchinò. — E i cadaveri, quando saranno morti?

— Dubi e Uahto li seppelliranno nella grande caverna che abbiamo attraversato, la cripta — disse la ragazza, e la sua voce divenne acuta e concitata. — Dovranno farlo al buio. I miei Padroni divoreranno i corpi.

— Sarà fatto.

— Così va bene, Kossil?

— Così va bene, padrona.

— Allora andiamo — disse Arha, in toni striduli. Si voltò e si affrettò a raggiungere la porta lignea e a uscire dalla Camera delle Catene, nell’oscurità della galleria. Le parve dolce e pacifica come una notte senza stelle, silente, senza luce né vita. Si immerse in quella tenebra pulita e l’attraversò, come un nuotatore che si muove nell’acqua. Kossil si affrettò a seguirla, ma rimase indietro, ansimante, muovendosi pesantemente. Senza esitare, Arha seguì le svolte omesse e scelte all’andata, costeggiò l’immensa cripta echeggiante, e procedette, china, nell’ultimo lungo corridoio fino alla porta chiusa di pietra. Si acquattò e cercò a tentoni la lunga chiave appesa all’anello che portava alla cintura. La trovò, ma non riuscì a rintracciare la serratura. Non c’era un solo puntolino di luce nella parete invisibile che le stava davanti. Le sue dita brancolarono, cercando una serratura o un chiavistello o una maniglia, e non trovarono nulla. Dove andava inserita la chiave? Come poteva uscire?

— Padrona!

La voce di Kossil, ingigantita dagli echi, sibilò e tuonò lontano, dietro di lei.

— Padrona, la porta non si aprirà dall’interno. Non si può uscire. Non si può tornare.

Arha si rannicchinò contro la roccia. Non disse nulla.

— Arha!

— Sono qui.

— Vieni!

Lei andò, trascinandosi carponi lungo il corridoio, come un cane, fino alle gonne di Kossil.

— Sulla destra. Affrettati! Io non devo indugiare qui. Non è il mio posto. Seguimi.

Arha si alzò in piedi e si aggrappò alle vesti di Kossil. Avanzarono, seguendo per un lungo tratto sulla destra la parete stranamente scolpita della caverna, e poi entrarono in una breccia nera nell’oscurità. Adesso salivano, lungo le gallerie, su per le scale. La ragazza si teneva ancora aggrappata alle vesti della donna. Aveva gli occhi chiusi.

C’era una luce, rossa attraverso le sue palpebre. Pensò che fosse ancora la camera piena di fumo e rischiarata dalla torcia, e non riaprì gli occhi. Ma l’aria aveva un odore dolciastro, asciutto e muffito, un odore familiare; e i suoi piedi erano su una scala ripida, quasi una scala a pioli. Lasciò la veste di Kossil e guardò. Sopra la sua testa c’era una botola aperta. La varcò, seguendo Kossil. Si trovò in una stanza che conosceva, una piccola cella di pietra che conteneva un paio di scrigni e di casse di ferro, nel dedalo delle camere dietro la sala del trono. La luce del giorno brillava grigia e fioca nel corridoio oltre la soglia.

— L’altra, la Porta dei Prigionieri, conduce soltanto nelle gallerie. Non conduce fuori. Questa è l’unica via d’uscita. Se ce n’è un’altra, io non la conosco, e non la conosce neppure Thar. Tu dovresti ricordarla, se c!è. Ma non credo che esista. — Kossil parlava ancora a bassa voce, e con una sfumatura sprezzante. Il suo volto pesante, entro il cappuccio nero, era pallido e madido di sudore.

— Non ricordo le svolte per trovare questa via d’uscita.

— Te le dirò io. Una volta sola. Devi ricordarle. La prossima volta non verrò con te. Questo non è il mio posto. Dovrai andare sola.

La ragazza annuì. Levò gli occhi verso il volto della donna e pensò che era strano: pallido per la paura dominata a stento e tuttavia trionfante, come se Kossil si compiacesse della propria debolezza.

— Dopo questa volta, andrò da sola — disse; e poi, mentre cercava di voltarsi per allontanarsi da Kossil, sentì che le gambe cedevano, e vide la stanza roteare. Cadde svenuta, in un mucchietto nero, ai piedi della sacerdotessa.

— Imparerai — disse Kossil, immobile, respirando ancora pesantemente. — Imparerai.

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