LA TRAPPOLA

Il giorno seguente, quando ebbe completato i suoi doveri nei vari templi ed ebbe terminato di insegnare le danze sacre alle novizie, Arha tornò furtivamente alla Casa Piccola, oscurò la stanza, aprì lo spioncino e scrutò. La luce non c’era. L’uomo se n’era andato. Lei non aveva pensato che sarebbe rimasto a lungo davanti alla porta inarrendevole: ma era l’unico posto da cui potesse guardare. Come l’avrebbe ritrovato, adesso che si era smarrito?

Le gallerie del labirinto, a quanto lei sapeva dalle spiegazioni di Thar e dalla propria esperienza, si stendevano per più di venti miglia di diramazioni, spirali, tortuosità e vicoli ciechi. In linea retta, probabilmente, il corridoio che si trovava più lontano dalle tombe non distava più di un miglio. Ma laggiù, sottoterra, non c’erano linee rette. Tutte le gallerie s’incurvavano, si dividevano, si ricongiungevano, si ramificavano, s’intrecciavano, si annodavano, tracciavano percorsi complicati che finivano nel punto dove cominciavano, perché non c’erano né principio né fine. Si poteva camminare e camminare e non arrivare mai in nessun posto, perché non c’era una meta cui giungere. Il meandro non aveva un centro, un cuore. E quando la porta era chiusa, non aveva fine. Nessuna direzione inutile.

Sebbene le vie e le svolte che portavano nelle varie camere e nelle varie parti di quel dedalo fossero impresse chiaramente nella memoria di Arha, nelle sue esplorazioni più lunghe lei aveva portato con sé un gomitolo di filo finissimo e l’aveva svolto dietro di sé, riavvolgendolo al ritorno. Se le sfuggiva uno solo dei passaggi e delle svolte che doveva contare, perfino lei avrebbe potuto smarrirsi. Una lampada non serviva a nulla, perché non c’erano punti di riferimento. Tutti i corridoi e le porte e le aperture erano uguali.

L’uomo poteva essere ormai lontano molte miglia di cammino e tuttavia essere ancora a dodici braccia dalla porta da cui era entrato.

Arha andò al palazzo del trono, e al tempio degli dèi gemelli, e nella cantina sotto le cucine; e scegliendo i momenti in cui era rimasta sola, guardò attraverso ciascuno di quegli spioncini nella tenebra densa e fredda. Quando venne la notte, gelida e folgorante di stelle, lei si recò in certi punti della collina e sollevò certe pietre: asportò il terriccio, scrutò di nuovo, e vide la tenebra senza stelle dei sotterranei.

Lui era là. Doveva essere là. Eppure le era sfuggito. Sarebbe morto di sete prima che lei lo trovasse. Avrebbe dovuto mandare Manan nel labirinto a cercarlo, quando fosse stata certa che era morto. E questo era un pensiero insopportabile. Mentre s’inginocchiava nella luce delle stelle, sull’aspro terreno della collina, gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia.

Raggiunse il sentiero che riconduceva giù fino al tempio del re-dio. Le colonne dei capitelli scolpiti splendevano bianche di brina nella luce delle stelle, come pilastri d’avorio. Lei bussò alla porta posteriore, e Kossil la fece entrare.

— Cosa desidera la mia padrona? — chiese, fredda e vigile.

— Sacerdotessa, c’è un uomo nel labirinto.

Kossil fu colta alla sprovvista: una volta tanto era accaduto qualcosa che non si aspettava. Restò immobile, e i suoi occhi sbarrati parvero quasi uscire dalle orbite. Arha pensò fuggevolmente che Kossil somigliava molto a Penthe quando la imitava: una risata folle le salì alla gola, venne repressa e si spense.

— Un uomo? Nel labirinto?

— Un uomo, un estraneo. — Poi, mentre Kossil continuava a guardarla incredula, Arha aggiunse: — So riconoscere un uomo a prima vista, anche se ne ho incontrati pochissimi.

Kossil non badò alla sua ironia. — E come ha potuto entrarvi, un uomo?

— Per mezzo della stregoneria, credo. Ha la carnagione scura, e forse viene dalle Terre Interne. È venuto per derubare le tombe. L’ho trovato la prima volta nella cripta, sotto le Pietre. È corso all’entrata del labirinto quando si è accorto della mia presenza, come se sapesse dove andava. Ho chiuso la porta di ferro dietro di lui. Lui ha operato sortilegi, ma non è bastato per aprire la porta. Questa mattina si è addentrato nei meandri. Ora non riesco più a rintracciarlo.

— Ha una lampada?

— Sì.

— Acqua?

— Una piccola borraccia, e non è piena.

— La sua candela si sarà già consumata — fece pensierosa Kossil. — Quattro o cinque giorni. Forse sei. Poi potrai mandare i miei custodi a trascinarne fuori il cadavere. Il sangue dovrebbe essere offerto al trono e alle…

— No — disse Arha, con improvvisa violenza. — Voglio trovarlo vivo.

La sacerdotessa squadrò la ragazza dall’alto della propria statura massiccia. — Perché?

— Per… per prolungare la sua fine. Ha commesso un sacrilegio contro i Senza Nome. Ha profanato la cripta con la luce. È venuto per derubare le tombe dei loro tesori. Va punito con qualcosa di peggio che sdraiarsi in una galleria a morire.

— Sì — disse Kossil, riflettendo. — Ma come lo catturerai, padrona? È problematico. Ma l’altro modo è sicuro. Non c’è una camera piena di ossa, in qualche punto del labirinto, ossa degli uomini che vi sono entrati e non ne sono più usciti?… Lascia che i Tenebrosi lo puniscano a modo loro, nel modo tenebroso del labirinto. È una morte crudele, la morte per sete.

— Lo so — replicò Arha. Si voltò e uscì nella notte, alzando il cappuccio per proteggersi dal gelido vento sibilante. Non lo sapeva, forse?

Era stata un’azione puerile e stupida, rivolgersi a Kossil. Da lei non avrebbe avuto aiuti. Kossil non sapeva nulla: conosceva solo la fredda attesa e alla fine la morte. Kossil non comprendeva. Non capiva che era necessario trovare l’uomo. Non doveva avvenire com’era avvenuto con gli altri. Lei non l’avrebbe sopportato. Poiché doveva essere la morte, doveva essere rapida, alla luce del giorno. Indubbiamente sarebbe stato più giusto che il ladro, il primo uomo dopo tanti secoli che avesse avuto l’ardire di derubare le tombe, morisse di spada. Non aveva neppure un’anima immortale destinata alla rinascita. Il suo spettro si sarebbe aggirato gemendo nei corridoi. Non si poteva lasciarlo morire di sete lì nell’oscurità.

Quella notte, Arha dormì pochissimo. Il giorno seguente fu pieno di riti e di doveri. A sera, in silenzio e senza lanterna, lei andò da uno spioncino all’altro in tutti gli edifici bui del Luogo e della collina spazzata dal vento. Infine ritornò alla Casa Piccola per riposare, due o tre ore prima dell’alba, ma non trovò requie. Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, si avviò sola nel deserto, verso il fiume che adesso era basso per la siccità invernale, col ghiaccio tra i canneti. Aveva ricordato che una volta, in autunno, si era spinta molto lontano nel labirinto, oltre il Crocicchio delle Sei Vie, e lungo un corridoio curvilineo aveva udito, al di là delle pietre, il suono dell’acqua corrente. Un uomo assetato, se fosse giunto fin là, non vi sarebbe rimasto? C’erano spioncini perfino lì; dovette cercarli, ma Thar glieli aveva mostrati tutti, l’anno precedente, e li ritrovò senza troppe difficoltà. La sua memoria dei luoghi e delle forme era simile a quella di un cieco: sembrava che lei cercasse al tatto la via verso ogni punto nascosto, anziché trovarlo con lo sguardo. Al secondo spioncino, il più lontano dalle tombe, quando alzò il cappuccio per escludere la luce e accostò l’occhio al foro intagliato in una lastra di roccia piatta, vide sotto di sé il fioco barlume della lampada magica.

L’uomo era lì, seminascosto. Lo spioncino si affacciava sull’estremità del vicolo cieco. Arha poteva vedere solo il dorso, il collo piegato, e il braccio destro. Era seduto accanto all’angolo delle pareti e scalpellava le pietre con il coltello, un corto pugnale d’acciaio dall’impugnatura ingemmata. La lama era spezzata. La punta giaceva esattamente sotto lo spioncino. L’uomo l’aveva rotta cercando di svellere le pietre, di raggiungere l’acqua che sentiva scorrere limpida e mormorante nel mortale silenzio del sotterraneo, dall’altra parte dell’impenetrabile muraglia.

I movimenti dell’uomo erano apatici. Dopo quelle tre notti e quei tre giorni era molto diverso dalla figura che aveva sostato agile e calma davanti alla porta di ferro e aveva riso della propria sconfitta. Era ancora ostinato, ma l’energia l’aveva abbandonato. Non possedeva un sortilegio per scostare le pietre, ma doveva servirsi di quell’inutile coltello. Perfino la luce incantata era fioca e fosca. Mentre Arha l’osservava, la luce guizzò abbassandosi: l’uomo alzò la testa con un sussulto e lasciò cadere il pugnale. Poi, caparbiamente, lo raccolse e cercò d’insinuare tra le pietre la lama spezzata.

Distesa tra le canne ghiacciate sulla riva del fiume, senza rendersi conto del luogo dove si trovava e di ciò che stava facendo, Arha accostò la bocca alla fredda bocca della roccia e la riparò con le mani perché il suono non si disperdesse. — Mago! — disse, e la sua voce, scivolando nella gola di pietra, sussurrò freddamente nella galleria sotterranea.

L’uomo trasalì e si rialzò in piedi, e così sparì dal cerchio della visibilità quando lei cercò di vederlo. Arha accostò di nuovo le labbra allo spioncino e disse: — Torna indietro lungo la muraglia dalla parte del fiume, fino alla seconda svolta. La prima svolta a destra, poi saltane una, e poi di nuovo a destra. Alle Sei Vie, di nuovo a destra. Poi a sinistra, a destra, a sinistra, a destra. Rimani lì, nella Camera Dipinta.

Spostandosi per guardare di nuovo doveva aver lasciato che un raggio della luce del giorno saettasse per un momento nella galleria attraverso lo spioncino, perché, quando guardò, l’uomo era rientrato nel cerchio della visuale e guardava in su, verso l’apertura. Il volto, che adesso sembrava segnato da cicatrici, era teso e ansioso. Le labbra erano aride e nere, gli occhi febbrili. Alzò il bastone, portando la luce sempre più vicina agli occhi di Arha. Impaurita, lei si ritrasse, chiuse lo spioncino col coperchio di roccia e con i ciottoli, si rialzò e si affrettò a ritornare al Luogo. Si accorse che le tremavano le mani, e talvolta la vertigine l’invadeva. Non sapeva cosa fare.

Se l’uomo seguiva le sue istruzioni, sarebbe ritornato verso la porta di ferro, nella camera degli affreschi. Là non c’era nulla: non aveva una ragione per andarci. C’era uno spioncino nel soffitto della Camera Dipinta, molto efficiente, nella tesoreria del tempio degli dèi gemelli: forse era per questo che le era venuta l’idea. Non lo sapeva. Perché gli aveva parlato?

Avrebbe potuto calargli un po’ d’acqua attraverso uno spioncino, e poi chiamarlo in quel luogo. Così sarebbe rimasto in vita più a lungo. Fino a quando fosse piaciuto a lei, per l’esattezza. Se gli calava acqua e un po’ di cibo di tanto in tanto, quello avrebbe continuato per giorni e mesi a vagare nel labirinto; e lei avrebbe potuto osservarlo attraverso gli spioncini, e dirgli dove avrebbe trovato l’acqua, e qualche volta dargli indicazioni false in modo che vi andasse invano: ma sarebbe stato sempre costretto ad andare dove lei gli comandava. E così avrebbe imparato a burlarsi dei Senza Nome, a ostentare la sua sciocca virilità nei sepolcreti dei Morti Immortali!

Ma finché l’uomo era là, lei non avrebbe più potuto entrare nel labirinto. Perché no?, si chiese. E si diede la risposta: Perché lui potrebbe fuggire dalla porta di ferro, che dovrei lasciare aperta dietro di me… Ma non potrebbe spingersi più lontano della cripta. La verità era che aveva paura di affrontarlo. Aveva paura del suo potere, delle arti che aveva usato per penetrare nella cripta, della magia che teneva accesa quella luce. Ma era poi tanto temibile? Le potenze che regnavano nei luoghi tenebrosi erano dalla parte di lei, non di quell’uomo. Era evidente che lui non poteva far molto, nel regno dei Senza Nome. Non aveva aperto la porta di ferro, non aveva fatto comparire viveri per magia, non aveva fatto passare l’acqua attraverso la parete, non aveva evocato un mostro demoniaco per abbattere le muraglie, come lei aveva temuto. In tre giorni di vagabondaggi non aveva neppure trovato la strada fino alla porta del Grande Tesoro, che sicuramente aveva cercato. Neppure Arha aveva seguito le istruzioni di Thar per entrare in quella camera, procrastinando quella spedizione per un certo timore, una riluttanza, la sensazione che non fosse ancora venuto il momento.

E adesso si chiese: perché l’uomo non avrebbe dovuto compiere quella spedizione per lei? Poteva guardare quanto voleva i tesori delle tombe. Tanto, non gli sarebbero serviti a niente. E lei avrebbe potuto beffarlo, e dirgli di mangiare l’oro e di bere i diamanti.

Con la fretta nervosa e febbrile che da tre giorni si era impadronita di lei, corse al tempio degli dèi gemelli, aprì la piccola cripta del tesoro, e scoprì lo spioncino accuratamente celato nel pavimento.

Là sotto c’era la Camera Dipinta, ma era immersa nell’oscurità. La via che l’uomo doveva percorrere nel labirinto era molto più lunga, forse di parecchie miglia; e lei l’aveva dimenticato. E senza dubbio, era indebolito e non camminava svelto. Forse avrebbe scordato le sue istruzioni e avrebbe sbagliato a svoltare. Pochissime persone riuscivano a ricordare le istruzioni dopo averle udite una sola volta, come ci riusciva lei. Forse non aveva neppure compreso la lingua che lei parlava. Se era così, allora vagasse pure fino a quando fosse crollato a morire nel buio, lo sciocco, lo straniero, il miscredente. E che il suo spettro gemesse per le strade di pietra delle Tombe di Atuan, fino a quando la tenebra avrebbe divorato anche quello…

La mattina seguente, molto presto, dopo una notte di scarso sonno e di sogni maligni, Arha ritornò allo spioncino nel piccolo tempio. Guardò, e non vide nulla: tenebra. Calò una candela accesa in una piccola lanterna di stagno appesa a una catena. L’uomo era lì, nella Camera Dipinta. Oltre il lume della candela, lei ne vide le gambe e una mano inerte. Parlò nello spioncino, che era grande quanto una piastrella del pavimento: — Mago!

Nessun movimento. Era morto? Era tutta lì, dunque, la sua forza? Arha fece una smorfia; il cuore le batté più forte. — Mago! — gridò, e la sua voce risuonò nella cavità della camera sottostante. L’uomo si mosse, e lentamente si sollevò a sedere, e si guardò intorno frastornato. Dopo un poco alzò la testa, sbattendo le palpebre nel vedere la minuscola lanterna che dondolava dal soffitto. La sua faccia era uno spettacolo terribile, gonfia e scura come un volto di mummia.

Tese la mano verso il bastone che giaceva sul pavimento accanto a lui, ma sul legno non fiorì la luce. Non gli restava più nessun potere.

— Mago, vuoi vedere il tesoro delle Tombe di Atuan?

Lui guardava, stancamente, socchiudendo le palpebre nella luce della lanterna: non poteva scorgere altro. Dopo un po’, con una smorfia che forse era cominciata come sorriso, annuì, una volta sola.

— Esci da questa stanza e va’ a sinistra. Prendi il primo corridoio a sinistra… — Arha elencò la lunga serie di istruzioni, senza pause, e alla fine aggiunse: — Là troverai il tesoro che sei venuto a cercare. E forse troverai l’acqua. Quale preferiresti, ora?

L’uomo si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. Guardando in alto con occhi che non potevano vederla si sforzò di dire qualcosa, ma non c’era voce nella sua gola arida. Scrollò leggermente le spalle e lasciò la Camera Dipinta.

Lei non gli avrebbe dato l’acqua. E l’uomo, del resto, non avrebbe mai trovato la strada della stanza del tesoro. Le istruzioni erano troppo lunghe perché potesse ricordarle tutte; e c’era l’Abisso, se mai fosse giunto tanto lontano. Adesso era al buio. Avrebbe perso la strada, e avrebbe finito col cadere e morire chissà dove, nelle gallerie strette e aride. E Manan l’avrebbe trovato e l’avrebbe trascinato fuori. E quella sarebbe stata la fine. Arha strinse con le dita l’orlo dello spioncino e si dondolò avanti e indietro, avanti e indietro, mordendosi le labbra come per reggere una sofferenza insopportabile. Non gli avrebbe dato l’acqua. Non gli avrebbe dato l’acqua. Gli avrebbe dato la morte, la morte, la morte, la morte, la morte.


In quell’ora grigia della sua esistenza, Kossil venne da lei, entrando a passo pesante nella stanza del tesoro, voluminosa nelle nere vesti invernali.

— Non è ancora morto?

Arha alzò la testa. Non c’erano lacrime nei suoi occhi, nulla da nascondere.

— Credo — disse, alzandosi e spolverandosi le gonne. — La luce si è spenta.

— Potrebbe essere un trucco. I senz’anima sono molto astuti.

— Attenderò un giorno per esserne certa.

— Sì, o due giorni. Poi Duby potrà scendere e portarlo fuori. È più forte del vecchio Manan.

— Tuttavia Manan è al servizio dei Senza Nome, e Duby no. Ci sono luoghi, nel labirinto, in cui Duby non deve andare: e il ladro è in uno di questi.

— Allora è già profanato…

— Verrà purificato dalla sua morte — disse Arha. Capiva, dall’espressione di Kossil, che il suo volto doveva apparire strano. — Questo è il mio dominio, sacerdotessa. Devo prendermene cura come mi comandano i miei Padroni. Non ho bisogno di lezioni sulla morte.

La faccia di Kossil parve ritrarsi nel cappuccio nero, come la testa di una tartaruga del deserto entro il guscio, lenta e acida e fredda. — Sta bene, padrona.

Si separarono davanti all’altare degli dèi gemelli. Arha, senza fretta, si recò alla Casa Piccola, e chiamò Manan perché l’accompagnasse. Da quando aveva parlato con Kossil, sapeva cosa doveva fare.

Insieme a Manan salì la collina, entrò nel palazzo e scese nella cripta. Tirando contemporaneamente la lunga maniglia, aprirono la porta di ferro del labirinto. Poi accesero le lanterne ed entrarono. Arha si avviò per prima verso la Camera Dipinta, e da là si avviò verso il Grande Tesoro.

Il ladro non era arrivato molto lontano. Arha e Manan non avevano percorso più di cinquecento passi nel tortuoso corridoio quando lo trovarono, accasciato nello stretto andito come un mucchio di stracci. Aveva lasciato cadere il bastone, prima di crollare: giaceva piuttosto lontano da lui. Aveva la bocca sanguinante, gli occhi semichiusi.

— È vivo — disse Manan inginocchiandosi e tenendo la grossa mano giallastra sulla scura gola, per sentirne le pulsazioni. — Devo strangolarlo, padrona?

— No, lo voglio vivo. Raccoglilo e seguimi.

— Vivo? — chiese Manan, inquieto. — Perché, padroncina?

— Per farne uno schiavo delle tombe! Taci e fa’ come ti dico.

Con aria più malinconica che mai, Manan si caricò faticosamente sulle spalle il giovane, come un sacco, e seguì barcollando Arha. Non poteva andare molto lontano, con un simile peso. Si fermarono una decina di volte, lungo il percorso di ritorno, perché Manan potesse riprendere fiato. A ogni sosta, il corridoio era sempre lo stesso: le pietre giallo-grigiastre commesse strettamente che salivano a formare una volta, l’irregolare pavimento di roccia, l’aria morta; e Manan gemeva e ansimava, lo sconosciuto giaceva immobile, le due lanterne brillavano fioche in una cupola di luce che si restringeva nell’oscurità lungo il corridoio, in entrambe le direzioni. A ogni sosta, dalla borraccia che aveva portato, Arha versava un po’ d’acqua nell’arida bocca dell’uomo: un poco alla volta, perché la vita, ritornando, non lo uccidesse.

— Alla Camera delle Catene? — chiese Manan quando giunsero nel passaggio che conduceva alla porta di ferro; e a quelle parole, per la prima volta Arha si chiese dove avrebbe dovuto portare il prigioniero. Non lo sapeva.

— No, là no — disse, nauseata dal ricordo del fumo e del fetore e delle facce irsute, mute e cieche. E Kossil poteva andare nella Camera delle Catene. — Deve… deve restare nel labirinto, in modo che non possa recuperare la sua magia. Dove può esserci una camera che…

— La Camera Dipinta ha una porta e una serratura e uno spioncino, padrona. Se credi che lui non possa aprire le porte.

— Non ha poteri, qui. Portalo là, Manan.

E così Manan lo riportò indietro, ripercorrendo la stessa strada che avevano seguito, troppo affaticato e ansimante per protestare. Quando finalmente entrarono nella Camera Dipinta, Arha si tolse il lungo e pesante mantello invernale di lana e lo spiegò sul polveroso pavimento. — Adagialo lì — disse.

Manan la guardò con malinconica costernazione, quasi piagnucolando: — Padroncina…

— Voglio che quest’uomo viva, Manan. E morirebbe di freddo: guarda come trema.

— Il tuo mantello sarà profanato. Il mantello della Sacerdotessa. Lui è un miscredente, un uomo — esclamò Manan, contraendo gli occhietti per l’angoscia.

— Allora brucerò il mantello e me ne farò tessere un altro! Ubbidisci, Manan.

L’eunuco si chinò, docile, e scaricò il prigioniero sul nero manto. L’uomo giacque immobile come un morto, ma il sangue pulsava pesante alla gola e di tanto in tanto un lungo brivido lo scuoteva.

— Dovrebbe essere incatenato — disse Manan.

— Ti sembra pericoloso? — chiese ironicamente Arha; ma quando Manan indicò un occhiello di ferro piantato tra le pietre, al quale era possibile assicurare il prigioniero, lasciò che andasse alla Camera delle Catene a prendere il necessario. Manan si allontanò per i corridoi, borbottando tra sé le istruzioni: già altre volte era andato e venuto dalla Camera Dipinta, ma mai da solo.

Nella luce della lanterna, gli affreschi sulle quattro pareti sembravano muoversi, fremere: le sgraziate forme umane dalle grandi ali abbassate stavano acquattate o erette in uno squallore eterno.

Arha s’inginocchiò e fece sgocciolare l’acqua, un po’ alla volta, tra le labbra del prigioniero. Alla fine lui tossì, e alzò fiaccamente le mani verso la borraccia. Lei lo lasciò bere. Il giovane si abbandonò di nuovo, con la faccia bagnata, macchiata di polvere e di sangue, e mormorò qualcosa, una parola o due in una lingua che Arha non conosceva.

Finalmente Manan ritornò, trascinandosi dietro una catena, e un grosso lucchetto con la chiave, e una banda di ferro, che strinse intorno alla vita dell’uomo, chiudendola. — Non è abbastanza stretta, può sgusciarne fuori — borbottò, mentre fissava l’ultima maglia della catena all’occhiello piantato nella parete.

— No, guarda. — Arha, che adesso temeva assai meno il suo prigioniero, gli mostrò che non riusciva a infilare la mano tra la banda di ferro e le costole dell’uomo. — No, a meno che resti senza mangiare per ben più di quattro giorni.

— Padroncina — disse lamentosamente Manan, — non voglio discutere, ma… ma a cosa servirà come schiavo dei Senza Nome? È un uomo, piccola.

— E tu sei un vecchio sciocco, Manan. E adesso vieni, e finiscila di brontolare.

Il prigioniero li guardava con occhi stanchi e febbrili.

— Dov’è il suo bastone, Manan? Là. Lo prenderò io. È magico. Oh… e questa: prenderò anche questa. — Con un movimento rapido, Arha afferrò la catena d’argento che stava al collo dell’uomo e la sfilò passandogliela sopra la testa, sebbene lui cercasse di agguantarle le braccia per impedirlo. Manan gli sferrò un calcio alla schiena. Arha fece dondolare la catena sopra di lui, fuori dalla sua portata. — È il tuo talismano, mago? È prezioso, per te? Non sembra gran cosa: non potevi permetterti niente di meglio? Te lo custodirò io. — Si fece passare la catena sopra la testa, nascondendo il pendaglio sotto il pesante colletto della veste di lana.

— Tu non sai cosa fartene — disse il giovane, con voce rauca: pronunciava erroneamente le parole della lingua di Kargad, ma in modo abbastanza chiaro.

Manan gli sferrò un altro calcio, e il giovane si lasciò sfuggire un gemito di dolore e chiuse gli occhi.

— Lascialo stare, Manan. Vieni.

Arha uscì dalla camera. Borbottando, Manan la seguì.

Quella notte, quando tutte le luci del Luogo si spensero, Arha risalì di nuovo la collina, da sola. Riempì la borraccia al pozzo, nella stanza dietro il trono, e portò l’acqua e una grande e piatta focaccia azima nella Camera Dipinta del labirinto. La depose a portata del prigioniero, oltre la porta. Lui dormiva, e non si mosse. Arha ritornò alla Casa Piccola, e quella notte il suo sonno fu lungo e sereno.

Nel primo pomeriggio tornò da sola nel labirinto. Il pane non c’era più, la borraccia era vuota, e lo sconosciuto si era messo a sedere, col dorso contro la parete. Il suo volto era ancora sfigurato dal terriccio e dalle croste, ma aveva un’espressione vigile.

Arha rimase lontana, dove lui — così incatenato — non avrebbe potuto raggiungerla, e lo guardò. Poi distolse gli occhi. Ma non c’era nulla di particolare da guardare. Qualcosa le impediva di parlare. Il cuore le batteva, come se avesse avuto paura. Ma non aveva motivo di temerlo: l’uomo era in suo potere.

— È piacevole avere un po’ di luce — disse lui, con quella voce sommessa ma profonda che la turbava.

— Come ti chiami? — chiese lei, perentoria. La sua voce, pensò, suonava stranamente alta e acuta.

— Ecco, quasi sempre vengo chiamato Sparviero.

— Sparviero? È il tuo nome?

— No.

— Qual è il tuo nome, allora?

— Non posso dirtelo. Tu sei l’Unica Sacerdotessa delle Tombe?

— Sì.

— Come ti chiami?

— Sono chiamata Arha.

— Colei che è stata divorata… è questo il significato? — Gli occhi scuri la scrutavano attentamente. L’uomo sorrideva appena. — Qual è il tuo nome?

— Io non ho nome. Non farmi domande. Da dove vieni?

— Dalle Terre Interne, a occidente.

— Da Havnor?

Era l’unico nome di una città o di un’isola delle Terre Interne che lei conoscesse.

— Sì, da Havnor.

— Perché sei venuto qui?

— Le Tombe di Atuan sono famose, tra la mia gente.

— Ma tu sei un infedele, un miscredente.

Il giovane scosse il capo. — Oh, no, sacerdotessa. Io credo nella potenza delle tenebre! Ho incontrato i Senza Nome, in altri luoghi.

— Quali altri luoghi?

— Nell’arcipelago… nelle Terre Interne, vi sono luoghi che appartengono alle antiche potenze della terra, come questo. Ma nessuno è grande come questo. In nessun altro luogo hanno un tempio e una sacerdotessa, e il culto che ricevono qui.

— E tu sei venuto per adorarle — disse lei, sarcastica.

— Sono venuto per derubarle — disse lui.

Arha fissò quel volto grave. — Presuntuoso!

— Sapevo che non sarebbe stato facile.

— Facile! È impossibile. Se non fossi un miscredente lo sapresti. I Senza Nome proteggono ciò che appartiene a loro.

— Ciò che io cerco non è loro.

— È tuo, senza dubbio?

— È mio.

— Che cosa sei, dunque: un dio? Un re? — Arha lo squadrò: incatenato, sporco, esausto. — Non sei altro che un ladro!

Lui non disse nulla, ma cercò il suo sguardo.

— Non devi guardarmi! — esclamò Arha, con voce stridula.

— Mia signora — disse il giovane, — non intendo offenderti. Sono uno straniero, e un intruso. Non conosco le vostre consuetudini, né le cortesie dovute alla sacerdotessa delle tombe. Sono in tuo potere, e se ti ho offesa ti chiedo perdono.

Lei rimase in silenzio, ma dopo un attimo sentì che il sangue le saliva scioccamente alle guance e le faceva ardere. Ma il giovane non la guardava, e non la vide arrossire. Aveva ubbidito, distogliendo lo sguardo degli occhi scuri.

Per lunghi istanti, nessuno dei due parlò. Le figure affrescate intorno a loro li osservavano con occhi tristi e ciechi.

Arha aveva portato un’anfora di pietra, piena d’acqua. Lo sguardo del giovane continuava a posarvisi, e dopo un po’ lei disse: — Bevi, se vuoi.

L’uomo si trascinò subito verso la brocca: la sollevò come una coppa e bevve una lunga, lunga sorsata. Poi vi intrise un lembo della manica e si ripulì mani e faccia, come meglio poté, dalla polvere e dai grumi di sangue e dalle ragnatele. Impiegò un certo tempo, e la ragazza rimase a guardare. Quando ebbe terminato, il suo aspetto apparve un po’ migliore. Ma questa pulizia sommaria aveva messo in mostra le cicatrici su un lato del volto: vecchie cicatrici rimarginate da tempo, biancastre sulla pelle scura, quattro linee parallele che andavano dall’occhio alla mandibola, come lasciate dagli artigli di una zampa enorme.

— Che cos’è? — chiese lei. — Quella cicatrice.

Il giovane non rispose subito.

— Un drago? — chiese Arha, cercando di darsi un tono ironico. Non era forse venuta lì per beffarsi della propria vittima, per tormentarla e ridere della sua impotenza?

— No, non un drago.

— Dunque, almeno non sei un signore dei draghi.

— No — replicò lui, con una certa riluttanza. — Io sono un signore dei draghi. Ma le cicatrici sono antecedenti. Ti ho detto che ho incontrato le Potenze Tenebrose in altri luoghi della terra. Quello che porto sul volto è il marchio di uno della stirpe dei Senza Nome. Ma non è più senza nome, perché alla fine ho scoperto il suo.

— Cosa vuoi dire? Che nome?

— Questo non posso dirtelo — rispose lui, e sorrise, sebbene la sua espressione fosse grave.

— È un’assurdità, una sciocchezza, un sacrilegio. Loro sono i Senza Nome! Tu non sai ciò che dici…

— Lo so meglio di te, sacerdotessa — ribatté il giovane, con voce più profonda. — Guarda ancora! — Girò la testa, perché lei vedesse i quattro terribili segni che gli sfregiavano la guancia.

— Non ti credo — disse Arha, con voce tremante.

— Sacerdotessa — fece lui, gentilmente, — tu non sei molto vecchia: non puoi essere da molto tempo al servizio dei Tenebrosi.

— E invece sì. Da moltissimo tempo! Io sono la Prima Sacerdotessa, la Rinata. Ho servito i miei padroni per mille e mille anni, prima d’ora. Sono la loro ancella, e la loro voce e le loro mani. E sono anche la loro vendetta contro quelli che profanano le tombe e vedono ciò che non devono vedere! Smetti di mentire e di vantarti: non capisci che se dico una sola parola, il mio guardiano verrà qui e ti spiccherà la testa dalle spalle? Oppure, se me ne vado e chiudo questa porta, nessuno verrà mai, e tu morirai qui nell’oscurità, e Coloro che io servo divoreranno la tua carne e la tua anima e lasceranno le tue ossa qui nella polvere.

In silenzio, l’uomo annuì.

Arha balbettò e non trovò null’altro da dire: uscì in fretta dalla stanza e sbarrò rumorosamente la porta. Lui doveva credere che non sarebbe più tornata! Doveva sudare, lì nell’oscurità, e imprecare e rabbrividire e cercare di operare i suoi immondi e inutili sortilegi!

Ma con l’occhio della mente lo vide sdraiarsi per dormire, come l’aveva visto fare accanto alla porta di ferro, sereno come un agnello in un prato soleggiato.

Sputò contro la porta chiusa, tracciò il segno per scongiurare la profanazione, e tornò quasi di corsa verso la cripta.

Quando ne costeggiò la parete, dirigendosi alla botola del palazzo, le sue dita sfiorarono le delicate linee e venature della roccia, simili a trina cristallizzata. L’invase il desiderio di accendere la lanterna, di vedere ancora una volta, solo per un momento, la pietra scolpita dal tempo, l’incantevole scintillio delle pareti. Chiuse strettamente le palpebre e si affrettò a procedere.

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