VI

Mi resi conto del vero potere del governo degli Stati Uniti, per la prima volta, quando la ragazza entrò nel mio appartamento, verso le sette di quella sera. Era una bionda alta, con la chioma che sembrava d’oro filato. Gli occhi erano castani, non azzurri, le labbra carnose, il portamento superbo. Insomma, somigliava sorprendentemente a Shirley Bryant.

E questo significava che mi tenevano d’occhio da parecchio tempo, e osservavano e registravano il tipo di donne che sceglievo di solito: così me ne avevano fornita una che corrispondeva ai requisiti, e senza bisogno di preavviso. Questo voleva dire che pensavano che Shirley fosse la mia amante? Oppure avevano tracciato un profilo collettivo di tutte le mie donne ed avevano trovato una ragazza tipo Shirley perché io, inconsciamente, non facevo altro che scegliere surrogati di Shirley Bryant?

La ragazza si chiamava Martha. Le dissi: «Non sembri affatto una Martha. Le Martha sono piccole e brune e terribilmente intense, con il mento affilato. E hanno sempre odore di sigaretta.»

«Per la verità,» disse Martha, «io mi chiamo Sidney. Ma il governo ha pensato che una ragazza chiamata Sidney non va bene.»

Sidney, o Martha, era meravigliosa. Era troppo bella per essere vera, ed io sospettai che fosse stata creata come un golem in un laboratorio statale, per supplire alle mie esigenze. Le chiesi se era vero e lei rispose di sì. «Più tardi,» disse, «ti mostrerò dove si innesta la presa di corrente.»

«Ogni quanto hai bisogno di ricaricarti?

«Due o tre volte per notte, di solito. Dipende.»

Non aveva ancora raggiunto la ventina, e mi ricordava parecchio le ragazze che circolavano nei dintorni dell’Università. Forse era un robot, forse era una squillo; ma si comportava come se non fosse né l’una né l’altra cosa… era soprattutto un essere umano vivace, intelligente, maturo, che per caso era disposto a prestarsi a compiti del genere. Non osai chiederle se lo faceva regolarmente.

Poiché nevicava, cenammo nel ristorante dell’albergo. Era un locale all’antica, con i candelieri ed i pesanti drappeggi, capi-camerieri in frack e un menù litografato lungo un metro. Fui lieto di vederlo; la novità dei menucubi ormai era superata, ed era simpatico scegliere le portate su di un foglio stampato, mentre un essere umano in carne ed ossa scriveva le ordinazioni con blocco e matita, come nei tempi andati.

Pagava il governo. Mangiammo bene. Caviale fresco, cocktail d’ostriche, zuppa di tartaruga, Chateaubriand per due, poco cotta. Le ostriche erano le piccole, delicate Olympia di Puget Sound. Hanno moltissimi pregi, ma io rimpiango le ostriche vere della mia giovinezza. Le ultime le mangiai nel 1976, alla Fiera del Bicentenario quando costavano già cinque dollari la dozzina, per colpa dell’inquinamento. Posso perdonare all’umanità di avere sterminato il dodo, ma non di aver causato l’estinzione delle ostriche dell’Atlantico.

Molto soddisfatti, salimmo nel mio appartamento. La perfezione della serata venne guastata soltanto da una scena antipatica nell’atrio, quando venni assediato da alcuni giornalisti in caccia di notizie.

«Professor Garfield…»

«… è vero che…»

«… qualche parola sulla sua teoria del…»

«… Vornan-19…»

«No comment.» «No comment.» «No comment.» «No comment.»

Martha ed io ci rifugiammo nell’ascensore. Misi un sigillo di privacy alla mia porta (per quanto l’albergo sia antiquato, è dotato di comodità moderne) e fummo al sicuro. Lei mi guardò con aria civettuola, ma quell’atteggiamento non durò a lungo. Era alta e liscia, una sinfonia rosa e oro, e non era affatto un robot, sebbene io scoprissi come si faceva a ricaricarla. Tra le sue braccia riuscii a dimenticare gli uomini venuti dal 2999, gli Apocalittici che si annegavano, e la polvere che si accumulava sulla mia scrivania, in laboratorio. Se c’è un paradiso per gli assistenti presidenziali, spero che Sandy Kralick vi ascenda, quando verrà il suo momento.

La mattina dopo prendemmo colazione in camera, facemmo la doccia insieme come due sposini novelli e andammo a guardare, dalla finestra, le ultime tracce della nevicata notturna. Martha si vestì: la sua guaina a rete di plastica nera sembrava fuori posto nella luce pallida del mattino, ma lei era sempre deliziosa. Sapeva che non l’avrei rivista mai più.

Quando se ne andò, mi disse: «Un giorno o l’altro, dovrai parlarmi dell’inversione temporale, Leo.»

«Non ne so assolutamente niente. Arrivederci, Sidney.»

«Martha.»

«Per me sarai sempre Sidney.»

Risigillai la porta e chiesi al centralino dell’albergo se era arrivata qualche chiamata per me, dopo che lei se ne fu andata. Come avevo previsto, c’erano state dozzine di telefonate, e tutte erano state respinte. La centralinista voleva sapere se ero disposto a parlare con il signor Kralick. Dissi di sì.

Lo ringraziai per Sidney. Kralick rimase un pochino perplesso. Poi mi chiese: «Potresti venire alla prima riunione della commissione, alle due, alla Casa Bianca? Una specie di incontro preliminare, tanto per prendere contatto.»

«Certamente. Che notizie da Amburgo?»

«Brutte. Vornan ha causato disordini. È entrato in un bar frequentato da duri e ha fatto un discorso. In sostanza ha detto che la più grande conquista storica del popolo tedesco era il Terzo Reich. Sembra che sia tutto quello che sa della Germania, e ha cominciato ad elogiare Hitler confondendolo con Carlomagno; le autorità lo hanno trascinato fuori appena in tempo. Mezzo isolato pieno di nightclub è andato distrutto dalle fiamme prima che arrivassero i mezzi antincendio.» Kralick sogghignò. «Forse non dovrei dirti queste cose. Sei ancora in tempo per piantarci in asso.»

Sospirai e dissi: «Oh, non preoccuparti, Sandy, ormai faccio parte della squadra. È il meno che posso fare per te… dopo Sidney.»

«Ci vediamo alle due. Verremo a prenderti e ti faremo passare per il tunnel, perché non voglio che quei pazzi dei mass media ti divorino. Stattene tranquillo fino a quando verrò a bussare alla tua porta.»

«Bene,» dissi io. Posai il ricevitore, mi voltai, e vidi qualcosa che sembrava una pozzanghera di fanghiglia verde insinuarsi sotto la porta e dilagare nella stanza.

Non era fanghiglia. Era un pickup audio fluido, pieno di orecchie monomolecolari. Mi spiavano dal corridoio. Andai in fretta alla porta e pestai il tacco sulla pozza. Una voce sottile disse: «Non faccia così, dottor Garfield. Vorrei parlarle. Sono dell’Amalgamated Network di…»

«Se ne vada.»

Finii di schiacciare la pozzanghera con il tacco. Asciugai il resto con una salvietta. Poi mi chinai verso il pavimento e dissi alle orecchie che potevano essere rimaste appiccicate al legno: «La risposta è sempre ’No comment’. Se ne vada.»

Finalmente mi ero sbarazzato di lui. Regolai il sigillo di privacy in modo che non fosse possibile infilare sotto la porta neppure qualcosa che avesse lo spessore di una sola molecola, e aspettai che la mattina passasse. Poco prima delle due, Sandy Kralick venne a prendermi e mi fece passare per il tunnel sotterraneo in comunicazione con la Casa Bianca. Washington è un labirinto di passaggi che s’intrecciano nel sottosuolo. Mi hanno detto che si può andare dappertutto, se si conoscono i percorsi e se si conoscono le parole d’ordine quando si viene interpellati attraverso gli schermi televisivi. Le gallerie sono stratificate. Ho sentito dire che c’è un postribolo automatizzato, sei livelli sotto il Campidoglio, riservato ai membri del Congresso; e sembra che lo Smithsonian Institute svolga esperimenti di mutagenesi da qualche parte, sotto il Mall, generando mostruosità biologiche che non vedono mai la luce del giorno. Come tutto ciò che si sente raccontare della capitale, immagino che queste storie siano apocrife; immagino che la verità, se la si sapesse, risulterebbe cinquanta volte più orribile delle favole. Questa è veramente una città diabolica.

Kralick mi condusse in una stanza dalle pareti di bronzo anodizzato, da qualche parte sotto l’Ala Ovest della Casa Bianca. C’erano già quattro persone. Ne riconobbi tre. I quartieri alti dell’establishment scientifico sono popolati da una cricca poco numerosa ed autoperpetuantesi. Ci conosciamo tutti, grazie ai simposi interdisciplinari di vario tipo. Riconobbi Lloyd Kolff, Morton Fields ed Aster Mikkelsen. La quarta persona si alzò, impettita, e disse: «Non mi pare che si siamo mai incontrati, dottor Garfield. F. Richard Heyman.»

«Sì, naturalmente; Spengler, Freud e Marx, non è vero? Lo ricordo con molto piacere.» Gli strinsi la mano. I polpastrelli erano umidi, e immagino che fosse umido anche il palmo, ma lui stringeva la mano in quello strano modo diffidente, tipico dell’Europa centrale, con cui un individuo sospettoso prende le dita dell’altro con fare molto remoto, invece di poggiare palmo contro palmo. Ci scambiammo frasi fatte per esprimere la gioia di aver fatto reciproca conoscenza.

Datemi il massimo dei voti per la mia insincerità. Non avevo una grande opinione del libro di F. Richard Heyman, che mi era parso ponderoso e nel contempo superficiale, un risultato molto raro; non mi piacevano le sue occasionali recensioni, scritte per i rotocalchi, che inevitabilmente erano feroci stroncature dei suoi colleghi; non mi piaceva il suo modo di stringere la mano, e non mi piaceva neppure il suo nome. Come avrei dovuto chiamare un «F. Richard», quando avessimo preso a darci del tu ed a chiamarci per nome? «F»? «Dick»? O «mio caro Heyman»? Era un uomo basso e tozzo, con una testa tonda, una frangia di ruvidi capelli rossi lungo la metà posteriore del cranio, e una folta barba rossiccia che scendeva giù per le guance, fin sulla gola, per nascondere un mento che, ne sono sicuro, era rotondo come la sommità della testa. La bocca da squalo, con le labbra sottili, si scorgeva appena tra quelle fronde. Gli occhi erano acquosi, antipatici.

Non provavo ostilità, invece, nei confronti degli altri membri della commissione. Li conoscevo vagamente, sapevo che erano personaggi molto importanti nelle rispettive professioni, e non mi ero mai trovato in disaccordo con loro nei vari consessi scientifici in cui avevamo avuto occasione d’incontrarci. Morton Fields, dell’Università di Chicago, era uno psicologo, affiliato alla nuova cosiddetta «scuola cosmica», che a quanto ne avevo capito io doveva essere una sorta di buddhismo laico. I suoi aderenti cercavano di districare i misteri dell’anima ponendola in rapporto con l’universo nella sua totalità, il che mi sembrava piuttosto pretensioso. Di persona, Fields sembrava un dirigente industriale in ascesa; un fisico asciutto e atletico, zigomi alti, capelli color sabbia, labbra contratte con gli angoli rivolti in basso, mento sporgente, occhi chiari e indagatori. Mi pareva di vederlo passare dati ad un computer per quattro giorni la settimana e trascorrere i suoi week-end prendendo spietatamente a mazzate una palla da golf. Eppure non era il tipo pedante che sembrava.

Lloyd Kolff, lo sapevo, era il decano dei filologi; un uomo tozzo, massiccio, oltre la settantina, con una faccia segnata e florida e le braccia lunghissime, da gorilla. La sua base operativa era l’Università di Columbia, ed era molto amato dagli studenti laureati per la sua robusta terrestrialità: conosceva più oscenità sanscrite lui di qualunque altro uomo degli ultimi trenta secoli, e le usava tutte, vivacemente e frequentamente. Uno degli interessi secondari di Kolff era la poesia erotica di tutti i secoli e di tutte le lingue. Si diceva che avesse corteggiato sua moglie, filologa anche lei, mormorandole scottanti vezzeggiativi in persiano medio. Sarebbe stato prezioso per il nostro gruppo, un valido contrappeso per quel presuntuoso che sospettavo fosse F. Richard Heyman.

Aster Mikkelsen era una biochimica dell’Università Statale del Michigan, e faceva parte del gruppo che si occupava del progetto della sintesi della vita. L’avevo conosciuta l’anno prima, alla conferenza dell’AAAS a Seattle. Sebbene il suo nome avesse un suono scandinavo, non era una di quelle Giunoni nordiche che mi piacciono scandalosamente. Bruna, ossuta, snella, aveva un’aria fragile e timida. Non superava il metro e cinquantadue, e non credo che pesasse più di quarantacinque chili. Penso che fosse sulla quarantina, ma sembrava più giovane. I suoi occhi avevano un brillio guardingo, i lineamenti erano eleganti. Gli abiti erano una casta sfida, e modellavano la sua figura efebica come per chiarire che lei non aveva nulla da offrire ai voluttuosi. Nella mia mente balenò incogrua la visione di Lloyd Kolff e di Aster Mikkelsen a letto insieme: le pieghe carnose del corpo pesante e peloso di lui spinto contro la forma esile e fragile di lei, le cosce magre e i polpacci affusolati di Aster che cercavano tormentosamente di contenere la forma straboccante, le caviglie premute profondamente in quella ciccia copiosa. L’assurdo abbinamento fisico era così mostruoso che dovetti chiudere gli occhi. Quando osai riaprirli, Kolff ed Aster erano ritti fianco a fianco come prima, lo ziggurath di carne accanto alla ninfa elegante, ed entrambi mi scrutavano allarmati.

«Ti senti bene?» chiese Aster. La voce era acuta e flautata, da ragazzina. «Credevo stessi per svenire!»

«Sono un po’ stanco,» mentii. Non potevo spiegarmi perché quell’immagine fosse comparsa all’improvviso nella mia mente, o perché mi avesse stordito. Per nascondere la confusione, mi rivolsi a Kralick e gli chiesi quanti altri membri della nostra commissione dovevano ancora arrivare. Uno solo, rispose lui: Helen McIlwain, la famosa antropologa, che doveva essere lì da un momento all’altro. Quasi per incanto, la porta scorrevole si aprì, e la divina Helen entrò.

Chi non ha sentito parlare di Helen McIlwain? Che altro posso dire di lei? L’apostola del revivalismo culturale, la signora antropologa che non è una signora, l’ostinata studiosa dei riti della pubertà e dei culti della fecondità che non ha esitato ad offrirsi come donna della tribù e come sorella di sangue? Colei che ha ricercato la conoscenza nelle fogne di Ouagadougou, dividendo con altri un cane allo spiedo, colei che ha scritto il testo fondamentale sulle tecniche della masturbazione, colei che ha imparato di prima mano (per così dire) come vengono iniziate le vergini nelle gelide solitudini del Sikkim? Mi sembrava che Helen fosse sempre stata con noi, passando da un’impresa clamorosa all’altra, pubblicando libri che in un’altra epoca l’avrebbero fatta finire sul rogo, informando solennemente il pubblico televisivo di cose che avrebbero scandalizzato studiosi incalliti. Le nostre strade si erano incrociate molte volte, anche se non di recente. Mi stupì vedere che aveva un aspetto tanto giovanile: doveva avere almeno cinquant’anni.

Era vestita… ecco… in modo sgargiante. Una striscia di plastica le cingeva le spalle; e dalla striscia discendevano fibre nere lavorate abilmente, in modo da sembrare capelli umani. Forse erano davvero capelli umani: formavano una fitta cascata che le scendeva fino a metà coscia, una vera delizia per un feticista, lunga, serica e folta. C’era qualcosa di feroce e di primordiale in quella tenda di capelli che racchiudeva Helen; le mancava soltanto l’osso infilato nel naso e le cicatrici cerimoniali sulle guance. Sotto quella massa di capelli era nuda, credo. Quando si muoveva, si scorgevano balenii rosei che si affacciavano in quella cortina pelosa. Ebbi per un attimo l’illusione di intravvedere la punta di un capezzolo rosato, la curva d’una natica scultorea. Eppure, l’onda sensuale di quelle lunghe, lisce ciocche di capelli avvolgeva quasi interamente il suo corpo, concedendoci soltanto le visioni fuggevoli che Helen voleva permetterci. Le braccia snelle e tornite erano nude. Il collo di cigno sorgeva trionfante dalla massa irsuta, ed i suoi capelli, rossi e fulgidi, non perdevano nulla nel confronto con quell’indumento. L’effetto era spettacolare, fenomenale, sconvolgente e assurdo. Lanciai un’occhiata ad Aster Mikkelsen mentre Helen faceva la sua entrata grandiosa, e la vidi sorridere per un attimo, divertita.

«Mi dispiace, sono in ritardo,» tuonò Helen con quella sua magnifica voce di contralto. «Sono stata allo Smithsonianl. Mi hanno mostrato un splendida collezione di coltelli in avorio per la circoncisione, del Dahomey!»

«E hanno lasciato che li usassi per esercitarti?» le chiese Lloyd Kolff.

«Non siamo arrivati fino a questo punto. Ma dopo questa stupida riunione, Lloyd, tesoro, se vuoi venire di là insieme a me sarò felice di dare una dimostrazione della mia tecnica. Su di te.»

«Sei in ritardo di sessantatré anni,» rombò Kolff, «e dovresti saperlo. Mi sorprende che tu abbia la memoria così corta, Helen.»

«Oh, sì, tesoro! Hai assolutamente ragione! Mille scuse. Avevo dimenticato.» E si precipitò verso Kolff, con un grande svolazzare di capelli neri, e lo baciò sull’ampia guancia. Sanford Kralick si morse le labbra. Evidentemente, quello il suo computer non glielo aveva detto. F. Richard Heyman sembrava a disagio, Fields sorrideva, ed Aster sembrava annoiata. Cominciai a rendermi conto che avremmo avuto di che divertirci.

Kralick si schiarì la gola. «Adesso che ci siamo tutti, se poteste dedicarmi la vostra attenzione per un momento…»

Passò a spiegarci il nostro compito. Si servì di schermi, datacubi, sintetizzatori sonici, ed una batteria di altri apparecchi aggiornatissimi per renderci consapevoli dell’urgenza e della necessità della nostra missione. In sostanza, dovevamo contribuire a far sì che la visita di Vornan-19 nel 1999 risultasse soddisfacente e piacevole; ma avevamo anche l’incarico di sorvegliare strettamente il visitatore, mettere la sordina al suo comportamento più scandaloso, se era possibile, e accertare segretamente se era autentico o se era un abile impostore.

Risultò che il nostro gruppo era diviso, su quest’ultimo punto. Helen McIlwain credeva con fermezza quasi mistica che Vornan-19 fosse venuto veramente dal 2999. Morton Fields era della stessa opinione, sebbene non vociferasse altrettanto per esprimerla. Gli sembrava che fosse simbolicamente appropriato che un messia fosse giunto dal futuro per aiutarci in quei tempi travagliati; e poiché Vornan corrispondeva a quei requisiti, era dispostissimo ad accettarlo. D’altra parte, Lloyd Kolff giudicava l’idea di prendere sul serio Vornan troppo ridicola per parlarne, mentre F. Richard Heyman diventava paonazzo al solo pensiero di abbracciare una nozione tanto irrazionale. Anch’io non me la sentivo di prendere per buone le affermazioni di Vornan. Aster Mikkelsen era neutrale, o forse la parola più esatta è agnostica. Aster possedeva la vera obiettività scientifica: non era disposta a sbilanciarsi, per quanto riguardava il viaggiatore nel tempo, prima di averlo visto con i suoi occhi.

Varii garbati battibecchi accademici si svolsero sotto il naso di Kralick. Poi continuarono a cena, quella sera. Eravamo solo noi sei a tavola, alla Casa Bianca, mentre i servitori silenziosi entravano ed uscivano per offrirci i più squisiti manicaretti a spese dei contribuenti. Bevemmo parecchio. Certe polarità cominciarono ad affiorare nel nostro gruppetto male assortito. Kolff ed Helen, lo si capiva benissimo, erano già stati a letto insieme in passato, e avevano intenzione di farlo ancora; erano entrambi così disinibiti nella loro concupiscenza da sconvolgere Heyman, il quale sembrava in preda ad un grave caso di costipazione, dalla volta cranica alla pianta dei piedi. Anche Morton Fields, sembrava, provava un certo interesse sessuale per Helen, e più beveva e più cercava di esprimerlo, ma Helen non voleva saperne; era troppo presa da quel vecchio, grasso Falstaff che sputacchiava in sanscrito. Perciò Fields rivolse le sue attenzioni ad Aster Mikkelsen, la quale, tuttavia, sembrava asessuale quanto il tavolo, e parava le sue avances piuttosto pesanti con la tranquilla precisione di una donna abituata a imprese del genere. Io ero di umore distaccato, secondo il mio vecchio vizio: ero lì come un osservatore disincarnato, e guardavo i miei illustri colleghi in azione. Era un gruppo scelto meticolosamente per eliminare i conflitti tra personalità ed altre pecche, pensai. Il povero Sandy Kralick era convinto di aver radunato sei immacolati sapienti che avrebbero servito la nazione con zelante dedizione. Eravamo insieme da meno di otto ore, e già si vedevano le linee di frattura. Cosa sarebbe successo quando ci avrebbero portati al cospetto dello sfuggente, imprevedibile Vornan-19? Io avevo una gran paura.

Il banchetto si concluse verso mezzanotte. Una fila zigzagante di bottiglie di vino vuote abbelliva la tavola. Comparvero degli agenti governativi, per annunciarci che ci avrebbero accompagnati al tunnel.

Venni a sapere che Kralick ci aveva distribuiti in alberghi sparsi per la città. Fields fece una piccola scenata da ubriaco perché voleva accompagnare Aster, e lei se ne sbarazzò in qualche modo. Helen e Kolff se ne andarono insieme, a braccetto; quando salirono in ascensore vidi che lui infilava la mano sotto il sudario di capelli che avviluppava l’antropologa. Tornai nel mio albergo. Non accesi lo schermo per scoprire cosa aveva combinato quella sera Vornan-19 in Europa. Sospettavo, giustamente, che ne avrei avuto abbastanza delle sue trovate con il passare delle settimane, e che potevo rinunciare alle notizie di quella sera.

Dormii male. Helen McIlwain ossessionò i miei sogni. Non avevo mai sognato, prima, di venire circonciso da una strega rossochiomata vestita di un manto di capelli umani. Spero di non fare più quel sogno… mai più.

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