XIV

Non fummo costretti a rientrare furtivamente in albergo. Un cordone di cercatori era stato steso tutto intorno, per diversi isolati; pochi attimi dopo essere sfuggiti alla schiuma, Vornan fece scattare un segnale d’identità, e alcuni degli uomini di Kralick ci raccolsero. Kralick era nell’atrio del palazzo; sorvegliava gli schermi dei monitor e pareva fuori di sé per l’ansia. Quando Vornan gli si avvicinò, tenendo ancora stretta a sé la tremante apocalittica, pensai che a Kralick venisse un colpo. Blandamente, Vornan si scusò per il fastidio che aveva causato, e chiese di venire condotto in camera sua. La ragazza lo accompagnò. Appena i due scomparvero, io ebbi un imbarazzante colloquio con Kralick.

«Come ha fatto a uscire?» domandò.

«Non lo so. Ha manomesso il sigillo della sua stanza, immagino.» Tentai di convincere Kralick che avevo avuto intenzione di dare l’allarme, quando Vornan aveva lasciato l’albergo, ma le circostanze me l’avevano impedito. Dubito molto di esserci riuscito, ma se non altro gli feci capire che avevo compiuto del mio meglio per impedire che Vornan si mettesse nei guai con gli Apocalittici, e che l’intera impresa non era stata opera mia.

Nelle settimane che seguirono, ci fu una stretta di freni per quanto riguardava la sicurezza. In effetti, Vornan-19 divenne il prigioniero, e non semplicemente l’ospite del governo degli Stati Uniti. Era sempre stato, più o meno, un prigioniero onorato, perché Kralick aveva ritenuto poco saggio lasciare che si muovesse liberamente: ma a parte i sigilli e le guardie piazzati alla sua porta di notte, non si era cercato d’imporgli restrizioni fisiche. Lui era riuscito a sbarazzarsi chissà come del sigillo e aveva drogato le guardie, ma Kralick impedì che la cosa si ripetesse usando sigilli migliori, allarmi automatici, ed un numero maggiore di guardie.

Il sistema funzionò, nel senso che Vornan non compì altre spedizioni non autorizzate. Ma credo fosse più una scelta di Vornan che le conseguenze delle precauzioni aggiuntive di Kralick. Dopo la sua esperienza con gli Apocalittici, Vornan parve calmarsi considerevolmente: diventò un turista più ortodosso, che guardava questo e quello, ma si asteneva dal fare i suoi commenti più diabolici. Avevo paura di quella versione addolcita del nostro ospite, come ne avrei avuta di un vulcano addormentato. Ma per la verità non commise altre scandalose trasgressioni della decenza, non pestò i piedi a nessuno, e sotto molti punti di vista fu un modello di tatto e di delicatezza. Io mi chiedevo che cosa ci stava preparando.

Le settimane della visita si trascinavano. Ci recammo a Disneyland insieme a Vornan, e sebbene il parco fosse stato visibilmente risistemato, lo annoiò. Non gli interessava neppure vedere le ricostruzioni artificiali di altri tempi e di altri luoghi: voleva un’esperienza diretta degli Stati Uniti del 1999. A Disneyland, badava più agli altri frequentatori che ai divertimenti in se stessi. Gli facemmo visitare il parco senza preannunci di sorta, muovendoci in un piccolo gruppo compatto, ed una volta tanto lui attirò pochissima attenzione. Si sarebbe detto che chi vedeva Vornan a Disneyland lo ritenesse parte di esso, un’ingegnosa imitazione dell’uomo venuto dal futuro, e passare oltre senz’altra manifestazione che un cenno del capo ed un sorriso.

Lo portammo a Irvine e gli mostrammo l’accelleratore da un trilione di volt. Era stata un’idea mia: volevo un’occasione per tornare all’università per qualche giorno, visitare il mio ufficio e la mia casa, ed essere sicuro che tutto andava bene. Lasciare avvicinare Vornan all’acceleratore era un po’ un rischio calcolato, pensavo, tenendo conto dal caos che aveva prodotto nella villa di Wesley Bruton; ma facemmo in modo che Vornan non arrivasse mai a portata di mano degli apparecchi dei comandi. Lui mi stava accanto, osservava con aria grave gli schermi, mentre io disintegravo gli atomi per lui. Sembrava interessato: ma era l’interesse superficiale che avrebbe potuto dimostrare un bambino. Gli piacevano quei bei motivi luminosi.

Per un momento, dimenticai tutto, nella gioia di manovrare l’enorme macchina. Stavo al quadro dei comandi, tra apparecchiature per miliardi di dollari che si stendevano sopra di me e davanti a me, premendo interruttori e tirando leve con la stessa gaiezza che Wesley Bruton aveva mostrato quando aveva fatto compiere prodigi alla sua casa. Polverizzai atomi di ferro lanciando folli spruzzi di neutroni. Inviai un getto di protoni ed innestai l’iniettore di neutroni, in modo che lo schermo si chiazzò delle fulgide esplosioni delle linee di frattura. Evocai quark ed antiquark. Eseguii tutto il mio repertorio; e Vornan annuiva innocentemente, sorridendo e additando. Avrebbe potuto sgonfiarmi come aveva fatto con il presidente della Borsa di New York, chiedendomi semplicemente che senso avevano quegli ingombranti apparecchi, ma non lo fece. Non sono certo se il suo autocontrollo fosse un atto di cortesia nei miei confronti (perché mi lusingavo che Vornan fosse più vicino a me che a tutti gli altri suoi accompagnatori) o se, cosa più semplice, in quel momento la sua vena maliziosa si fosse esaurita, e lui si accontentasse di stare rispettosamente a guardare.

Poi lo portammo alla centrale a fusione sulla Costa. Pure quella fu opera mia, anche se Kralick ammise che avrebbe potuto essere utile. Nutrivo ancora una speranza, sia pure fioca, di estorcere a Vornan qualche dato sulle fonti energetiche della sua epoca. Mi spronava la coscienza troppo sensibile di Jack Bryant. Ma il tentativo fu un insuccesso. Il direttore della centrale spiegò a Vornan che avevamo catturato la furia dello stesso Sole, avviando una reazione protone-neutrone entro una morsa magnetica, e attingendo energia dalla trasformazione dell’idrogeno in elio. Vornan fu autorizzato a entrare nella sala in cui il plasma veniva regolato per mezzo di sensori che operavano al di sopra dello spettro visibile. Ciò che vedevamo non era il vero plasma puro (era impossibile vederlo direttamente) bensì una simulazione, una ricostruzione, una curva che seguiva, culmine per culmine, ogni fluttuazione del mare di nuclei denudati entro la vasca. Erano passati anni da quando avevo visitato la centrale per l’ultima volta, ed ero affascinato e pieno di soggezione. Vornan stette zitto. Ci aspettavamo commenti sprezzanti; non ne fece. Non si prese il disturbo di paragonare i nostri risultati scientifici medievali con la tecnologia della sua era. Quel nuovo Vornan era privo di mordente.

Poi tornammo indietro attraverso il Nuovo Messico, dove gli indiani Pueblo abitavano in un museo antropologico vivente. Fu il grande momento di Helen McIlwain. Ci guidò per il polveroso villaggio di fango, irradiando dati antropologici. All’inizio della primavera non era ancora incominciata la stagione turistica regolare, e perciò avevamo il pueblo tutto per noi. Kralick si era accordato con le autorità locali per chiudere la riserva agli estranei, per quel giorno, in modo che nessun maniaco di Vornan potesse arrivare da Albuquerque o da Santa Fe a combinare guai. Gli indiani uscirono dalle case dai tetti piatti per curiosare, ma penso che molti di loro non sapessero chi era Vornan, e che la cosa non importasse a nessuno. Erano individui grassocci, con le facce tonde e i nasi piatti, ben diversi dagli indiani aquilini delle leggende. Mi facevano pena. In un certo senso, erano dipendenti federali, pagati per stare lì e vivere nello squallore. Sebbene siano autorizzati ad avere televisori, automobili ed elettricità, non possono costruire case di stile moderno, e debbono continuare a macinare il granturco, ad eseguire le danze cerimoniali, e a produrre vasellame da vendere ai visitatori. È così che noi proteggiamo il nostro passato.

Helen ci presentò ai maggiorenti del villaggio; il governatore, il capo, ed i capi di due delle cosiddette società segrete. Sembravano uomini svegli e sofisticati, che avrebbero potuto benissimo dirigere concessionarie automobilistiche ad Albuquerque. Ci fecero visitare alcune case, ci portarono nel kiva, il centro religioso del villaggio, un tempo sacrosanto. Alcuni bambini eseguirono per noi una specie di danza. In un negozio sulla piazza ci mostrarono il vasellame ed i gioielli d’argento e di turchese prodotti dalle donne del villaggio. Una vetrina conteneva vasi più vecchi, fatti all’inizio del ventesimo secolo, bellissimi, ben rifiniti e con motivi semiastratti di uccelli e di cervi; ma quei pezzi costavano centinaia di dollari l’uno, e mi bastò un’occhiata alla faccia della commessa per capire che in realtà non erano neppure in vendita; erano tesori tribali, ricordi di tempi migliori. La merce vera e propria era costituita da piccole fiasche fragili e mediocri. Helen disse, sprezzante: «Vedete che danno la vernice dopo che il pezzo è stato cotto, adesso? È deplorevole. Questo può farlo anche un bambino. L’Università del Nuovo Messico sta cercando di riesumare i vecchi sistemi, ma la gente, qui, sostiene che i turisti preferiscono la roba fasulla. È più colorata, più vistosa… e costa meno.» Vornan si attirò un’occhiata acida da parte di Helen quando espresse l’opinione che la merce prodotta per i turisti fosse più attraente del vasellame più antico. Penso che lo dicesse solo per punzecchiarla, ma non ne sono sicuro; i criteri estetici di Vornan erano sempre insondabili, e probabilmente la scadente merce attuale gli sembrava un prodotto autentico del remoto passato quanto il vasellame veramente bello della vetrina.

Al pueblo ci fu un solo incidente degno di Vornan. La commessa era un’esile bellezza adolescente dai lunghi, morbidi capelli neri e lucidi e dai lineamenti fini che sembravano più da cinese che da indiana; ci aveva incantato tutti, e Vornan sembrava ansioso di aggiungerla alla sua collezione di conquiste. Non so cosa sarebbe successo se avesse chiesto alla ragazza di fornirgli adeguate prestazioni nel suo letto, quella notte. Per fortuna, non arrivò a tanto. Stava adocchiando la ragazza con evidente concupiscenza mentre si aggirava nella stanza; io me ne accorsi, e se ne avvide anche Helen. Quando uscimmo, Vornan si voltò come per tornar dentro ad annunciare il suo desiderio. Helen gli bloccò la strada, più che mai simile ad una strega, con gli occhi sfolgoranti sotto il ciuffo fiammeggiante di capelli rossi.

«No,» disse rabbiosamente. «Non puoi

Fu tutto. E Vornan obbedì. Sorrise, si inchinò a Helen e se ne andò. Non me lo sarei mai aspettato.

Il nuovo, docile Vornan era una rivelazione per tutti noi, ma il pubblico in generale preferiva le rivelazioni del Vornan che aveva imparato a conoscere in gennaio e febbraio. Contro ogni verosimiglianza, l’interesse per le azioni e le parole di Vornan diventava più appassionato con il trascorrere delle settimane; quello che avrebbe potuto essere un breve miracolo stava diventando la sensazione del secolo. Un furbo pubblicitario mise insieme in fretta e furia un volumetto su Vornan e l’intitolò La Nuova Rivelazione. Conteneva le trascrizioni di tutte le conferenze stampa e di tutte le apparizioni televisive di Vornan-19 a partire dal suo arrivo per Natale, con uno sbrigativo commento che teneva insieme tutto quanto. Il libro uscì alla metà di marzo, e un’idea della sua importanza si può avere dal fatto che uscì non solo in edizioni su nastro, su cubo e in facsim, ma anche in un testo stampato… un libro, cioè, nel vecchio senso della parola. Un editore californiano lo pubblicò in uno smilzo volumetto in brossura con la copertina rossovivo ed il titolo in incandescenti lettere d’ebano: un’edizione di un milione di copie che andò esaurita in una settimana. Poco dopo, cominciarono a spuntare dappertutto edizioni pirate, stampate clandestinamente, nonostante i frenetici tentativi del proprietario del copyright. Innumerevoli milioni di copie della Nuova Rivelazione inondarono il paese. Ne comprai una anch’io, per ricordo. Vidi Vornan leggerne un’altra copia. Ma l’edizione genuina e le varie fasulle avevano lo stesso schema cromatico nero-su-rosso, così che a prima vista non si distinguevano, e durante le prime settimane di primavera quei volumetti in brossura coprirono la nazione come una strana nevicata rossa.

Il nuovo credo aveva il suo profeta, e adesso aveva anche il suo vangelo. Non riesco a capire quale conforto spirituale si potesse trarre dalla Nuova Rivelazione, perciò credo che il libro fosse più un talismano che una sacra scrittura; non serviva per trarne consigli, ma per portarselo in giro, traendo energia dal contatto delle lucenti copertine strette fra le mani. Quando viaggiavamo con Vornan e si radunava una folla di devoti, quelli sventolavano i libri come i flashcards ad una partita di football tra universitari, creando uno sfondo rosso compatto, chiazzato dalle nere lettere del titolo.

Ci furono le traduzioni. I tedeschi, i polacchi, gli svedesi, i portoghesi, i francesi, i russi, avevano tutti le loro versioni della Nuova Rivelazione. Un incaricato di Kralick le raccoglieva e ce le faceva pervenire dovunque andassimo. Di solito, Kralick le spediva a Kolff, che mostrava uno strano, amaro interesse per ogni nuova edizione. Il libro arrivò in Asia, e ci arrivò in giapponese, in parecchie lingue dell’India, in mandarino e in coreano. Apparve appropriatamente un’edizione in ebraico, la lingua più adatta per un libro sacro. Kolff amava disporre in fila i libretti rossi, cambiando spesso l’ordine. Parlava in tono sognante di farne personalmente una traduzione in sanscrito, o forse in antico persiano; non sono certo che dicesse sul serio.

Dopo l’episodio del suo colloquio con Vornan, Kolff stava scivolando in una sorta di marasma senile. Era stato molto scosso dal giudizio del computer sul campione linguistico di Vornan; l’ambiguità della relazione aveva sgonfiato l’esaltante convinzione di aver udito la voce del futuro e adesso, mortificato e umiliato, era receduto dal primo verdetto entusiastico. Non era più sicuro che Vornan fosse autentico, o che lui stesso avesse veramente udito spettri di parole nel liquido flusso del suo chiacchierio. Kolff aveva perduto fiducia nel proprio giudizio, nella propria competenza, e ormai lo vedevamo sgretolarsi. Quel grosso Falstaff era almeno parzialmente un impostore, come avevamo scoperto durante i nostri viaggi; sebbene fosse straordinariamente dotato e coltissimo, sapeva che la sua reputazione da decenni ormai era immeritata, e all’improvviso si era trovato smascherato. Preso da pietà per lui, chiesi a Vornan di concedergli un secondo colloquio e di ripetere ciò che gli aveva recitato la prima volta. Vornan non volle saperne.

«È inutile,» disse; e non si lasciò smuovere.

Un Kolff avvilito non sembrava più neanche Kolff. Mangiava poco, parlava meno, ed al principio di aprile era dimagrito al punto di diventare irriconoscibile. I vestiti e persino la pelle gli pendevano di dosso. Veniva con noi da un luogo all’altro, ma si muoveva alla cieca, quasi ignaro di ciò che accadeva intorno a lui. Kralick, preoccupato, avrebbe voluto sollevarlo dall’incarico e rimandarlo a casa. Discusse la cosa con gli altri del nostro gruppo, ma l’opinione di Helen fu decisiva. «Ne morirebbe,» disse. «Penserebbe di essere stato liquidato per incapacità.»

«È malato,» disse Kralick. «Questi viaggi…»

«Hanno una funzione utile.»

«Ma lui non è più utile,» osservò Kralick. «Da settimane non ha più dato il minimo contributo. Se ne sta lì seduto a giocare con le copie del libro. Helen, non posso assumermi questa responsabilità. Il suo posto sarebbe in un ospedale.»

«Il suo posto è qui con noi.»

«Anche se questo lo uccide?»

«Anche se questo lo uccide,» disse vigorosamente Helen. «Meglio morire in sella che doversene andare convinto di essere un vecchio sciocco.»

Kralick gliela diede vinta, ma noi eravamo impauriti, perché vedevamo la cancrena interiore diffondersi nel vecchio Lloyd, giorno per giorno. Ogni mattina, mi aspettavo di sentirmi annunciare che era morto nel sonno; ma ogni mattina lui era lì, scarno, grigiastro in volto, con il naso ormai sporgente come una piramide dal volto rattrappito. Andammo nel Michigan, perché Vornan potesse vedere il progetto di sintesi della vita di Aster; e mentre camminavamo per le corsie di quello strano laboratorio, Kolff si trascinava dietro di noi, come un delegato dei morti venuto ad assistere alla nascita della vita artificiale.

Aster disse: «Questo è stato uno dei nostri primi successi, se lo si può chiamare così. Non siamo mai riusciti a capire in quale phylum andava inserito, ma non c’è dubbio che è vivo e che si riproduce perfettamente, e quindi in tal senso almeno l’esperimento è andato bene.»

Guardammo in un’immensa vasca in cui cresceva una quantità di piante acquatiche. Tra le fronde verdi nuotavano sottili creature celesti, lunghe da quindici a venti centimetri; non avevano occhi, si muovevano per mezzo di ondeggiamenti di una pinna dorsale lunga quando loro, ed erano coronate da bocche spalancate e orlate da tentacoli agili e traslucidi. Nella vasca ce n’era almeno un centinaio. Alcuni sembravano in base di geminazione: rappresentanti più piccoli della specie spuntavano dai loro fianchi.

«Avevamo intenzione di creare dei celenterati,» spiegò Aster. «Fondamentalmente, ecco che cosa abbiamo qui: un anemone di mare gigante, che nuota liberamente. Ma i celenterati non hanno pinne, e questo ne ha una, e sa come servirsene. Non siamo stati noi a progettare quella pinna: si è sviluppata spontaneamente. C’è anche l’accenno di una struttura corporea segmentata, che è un attributo appartenente ad un phylum superiore. Metabolicamente, l’essere è capace di adattarsi al suo ambiente in modo più soddisfacente della maggior parte degli invertebrati; vive in acqua dolce o salata, si trova bene in una gamma di temperature di circa cento gradi, e si nutre di ogni genere di cibo. Quindi abbiamo un supercelenterato. Ci piacerebbe vedere come se la cava in condizioni naturali, magari scaricandone alcuni in un laghetto qui vicino, ma francamente abbiamo paura di lasciarli liberi.» Aster sorrise, come se si vergognasse un po’. «Abbiamo tentato anche la sintesi dei vertebrati, recentemente, ma i risultati sono meno notevoli. Ecco…»

Indicò un contenitore in cui una piccola creatura bruna giaceva inerte sul fondo, muovendosi di tanto in tanto con un fremito casuale. Aveva due braccia che sembravano prive d’ossa, ed una sola gamba: sembrava che l’altra non l’avesse mai avuta. Agitava debolmente una coda a frusta. A me sembrò una sorta di salamandra triste. Aster, tuttavia, ne pareva molto fiera, perché aveva uno scheletro ben sviluppato, un sistema nervoso decente, un paio d’occhi sorprendentemente efficienti, e una dotazione completa d’organi interni. Però non si riproduceva. Stavano ancora lavorando su quel particolare. Nel frattempo, ognuno di quei vertebrati sintetici doveva venire costituito cellula per cellula dal materiale genetico di base, il che limitava in modo considerevole la portata dell’esperimento. Ma già quel risultato era abbastanza sconvolgente.

Aster, adesso, era nel suo elemento, e ci faceva instancabilmente da guida, lungo una corsia della lunga sala luminosa, e poi lungo l’altra, davanti a giganteschi flaconi smerigliati e sinistre centrifughe incombenti, lungo alcove occupate da colonne frazionatrici, dentro a stanzini in cui gli agitatori meccanici si muovevano indaffarati nelle vasche di reazione contenenti scuri fluidi ambrati e iridescenti. Guardammo nei lunghi telescopi a fibre ottiche per spiare dentro a camere sigillate in cui la luce, la temperatura, la radiazione e la pressione erano meticolosamente controllate. Vedemmo ingrandimenti di fotomicrografie elettroniche e di ologrammi al rubino che mostravano le strutture interne di misteriosi gruppi cellulari. Aster innaffiava il suo commento incessante di parole cariche di significati simbolici, un gergo di laboratorio che aveva un suo ritmo mistico: sentimmo parlare di titolatori fotometrici, di crogioli di platino, di pletismografi idraulici, microtomi rotanti, densitometri, batterie a elettroforesi, sacche di collodio, microscopi a infrarossi, flussometri, burette a pistoni, cardiotachimetri: un vocabolario incomprensibile e meraviglioso. Meticolosamente, Aster ci rivelò come le catene delle proteine viventi venivano messe insieme e poste in grado di riprodursi; spiegò tutto in modo semplice e chiaro, e lì c’erano i celenterati fasulli e le flaccide pseudosalamandre che ci parlavano dei suoi successi. Era veramente prodigioso.

Mentre ci faceva da guida, Aster andava a caccia di ciò che più le stava a cuore: i commenti di Vornan. Sapeva che nei tempi del visitatore esistevano esseri viventi non del tutto umani, perché in uno dei primi incontri ci aveva parlato in termini ambigui dei «servitori», che non avevano la piena posizione sociale di esseri umani in quanto erano geneticamente inumani, esseri viventi costruiti partendo dalle «forme inferiori». A giudicare da quanto aveva detto, quei servitori non sembravano creazioni sintetiche, ma piuttosto creature composite, costruite partendo dal plasma germinale più umile, tratto da esseri viventi: persone-cani, persone-gatti, persone-gnu. Naturalmente, Aster avrebbe voluto saperne di più, e altrettanto naturalmente, da Vornan-19 non era riuscita a farsi dire nient’altro. Adesso ci stava riprovando, ma senza ottenere nulla. Vornan rimase educato e distante. Fece alcune domande: Fra quanto tempo, voleva sapere, Aster sarebbe stata in grado di sintetizzare imitazioni di esseri umani? Aster sembrava un po’ sconcertata. «Cinque, dieci, quindici anni,» rispose.

«Se il mondo durerà tanto,» disse ironicamente Vornan.

Ridemmo tutti, e fu più un’esplosione delle nostre tensioni che una vera espressione di divertimento. Persino Aster, che non aveva mai dato prova di un gran senso dell’umorismo, ebbe un rapido sorriso meccanico. Poi si voltò ed indicò una vasca montata in una capsula pressurizzata.

«Questo è il nostro progetto più recente,» disse. «Non so bene a che punto sia, adesso, poiché come sapete tutti sono lontana dal laboratorio fin da gennaio. Qui vedete un tentativo di sintetizzare un embrione di mammifero. Abbiamo diversi embrioni in vari stadi di sviluppo. Se volete avvicinarvi…»

Guardai, e vidi un certo numero di cosi simili a pesci, con piccole cellule legate da membrane. Mi sentii stringere lo stomaco per la reazione nervosa, alla vista di quelle piccole creature macrocefale, nate da un guazzabuglio di aminoacidi, avviate verso chissà quale maturità. Persino Vornan mi sembrava impressionato.

Lloyd Kolff grugnì qualcosa in una lingua che non compresi: tre o quattro parole impastate, aspre, gutturali. La sua voce aveva una sfumatura d’angoscia. Lo guardai, e vidi che stava rigido, con un braccio alzato ad angolo acuto sul petto, l’altro teso, diritto. Sembrava stesse eseguendo un passo di balletto estremamente complicato, e si fosse bloccato a metà di una piroetta. Aveva la faccia di un blu scuro, il colore delle porcellane Ming; gli occhi orlati di rosso erano spalancati, spaventosi. Restò così per un lungo istante, poi emise un piccolo suono stridulo dal fondo della gola e si appoggiò in avanti, al piano di pietra di un tavolo da laboratorio. Cercò, convulsamente, di afferrarsi a qualcosa: matracci e bruciatori scivolarono e caddero schiantandosi sul pavimento. Le grosse mani si abbrancarono al bordo d’una piccola vasca e la rovesciarono, versando una dozzina di piccoli, lucidi celenterati sintetici, che sussultarono e fremettero ai nostri piedi. Lentamente Lloyd si afflosciò, allentando la stretta sul bordo del tavolo e, cadendo a stadi successivi, finì riverso sul pavimento. Aveva gli occhi ancora aperti. Pronunciò una sola frase, con una dizione straordinariamente chiara: l’addio al mondo di Lloyd Kolff, probabilmente in qualche lingua antica. Nessuno di noi seppe identificarla, in seguito, o ricordarne una sola sillaba. Poi morì.

«Rianimazione!» gridò Aster. «Presto!»

Due assistenti di laboratorio accorsero precipitosamente con un apparecchio mobile di rianimazione. Kralick, nel frattempo, si era lasciato cadere accanto a Kolff e stava tentando la respirazione bocca a bocca. Aster lo scostò, si rannicchio accanto alla forma immobile e ingombrante di Kolff, gli strappò gli abiti, mettendo allo scoperto il petto incavato, irto di peli grigi. Fece un gesto, ed uno dei suoi assistenti le porse un paio di elettrodi. Lei li piazzò, trasmise una scossa elettrica al cuore di Kolff. L’altro assistente stava già togliendo il copripunta a una siringa ipodermica; poi la premette contro il braccio di Kolff. Udimmo il ronzio della canna ultrasonica, mentre entrava in funzione. Il grosso corpo di Kolff rabbrividì, quando gli ormoni e l’elettricità l’investirono simultaneamente; la mano destra si sollevò di quache centimetro, a pugno chiuso, e poi ricadde. «Reazione galvanica,» mormorò Aster. «Nient’altro.»

Ma non si arrese. L’apparecchio di rianimazione aveva una dotazione completa di strumenti d’emergenza, e lei li usò tutti. Un compressore toracico eseguì la respirazione artificiale; Aster iniettò sostanze refrigeranti nel sangue per impedire la decomposizione del cervello; gli elettrodi assalivano ritmicamente le valvole del cuore. Kolff era quasi nascosto dall’assortimento degli strumenti che lo coprivano.

Vornan s’inginocchiò e fissò attento gli occhi sbarrati di Kolff. Osservò i lineamenti allentati. Protese incerto la mano per toccare la guancia chiazzata del filologo. Notò i meccanismi che pompavano e premevano e pulsavano addosso al corpo disteso. Poi si alzò e mi chiese, sottovoce: «Cosa stanno cercando di fargli, prego?»

«Riportarlo in vita.»

«Allora questa è la morte?»

«La morte, sì»

«Che cosa gli è accaduto?»

«Il cuore ha smesso di funzionare, Vornan. Sai che cos’è il cuore?»

«Sì, sì.»

«Il cuore di Kolff era stanco. Si è fermato. Aster sta cercando di rimetterlo in moto. Non ci riuscirà.»

«Accade spesso, questa cosa di morte?»

«Almeno una volta, nella vita di ciascuno,» dissi io, amaramente. Era stato chiamato un medico. Estrasse altri strumenti dall’apparecchio di rianimazione e cominciò a praticare un’incisione sul petto di Kolff. Io dissi a Vornan: «Come viene la morte, nella tua epoca?»

«Mai all’improvviso. Mai così. Io ne so pochissimo.»

Sembrava affascinato dalla presenza della morte molto più di quanto lo fosse stato dalla creazione della vita, in quella stessa sala. Il medico si dava da fare; ma Kolff non reagiva, e noi stavamo in cerchio, immobili come statue. Soltanto Aster si muoveva: raccoglieva gli esseri che Kolff aveva fatto cadere nella sua ultima convulsione. Alcuni erano morti anch’essi, per l’esposizione all’aria o perché calpestati da piedi noncuranti. Ma alcuni erano sopravvissuti. Li rimise dentro una vasca.

Alla fine il medico si alzò, scuotendo il capo.

Guardai Kralick. Piangeva.

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