IL PAZZO

Il pazzo, il Tintore di Lorbanery, stava raggomitolato contro l’albero maestro, con le braccia strette intorno alle ginocchia e la testa china. La massa dei capelli irsuti sembrava nera, nel chiaro di luna. Sparviero si era avvolto in una coperta e si era addormentato a poppa. Nessuno dei due si muoveva. Arren stava seduto a prua: aveva giurato a se stesso di vegliare durante l’intera notte. Se il mago aveva deciso di credere che il passeggero demente non avrebbe aggredito né lui né Arren nel corso della notte, era liberissimo di farlo; ma Arren avrebbe continuato a pensare come voleva, e si sarebbe assunto le proprie responsabilità.

Ma la notte fu lunghissima e molto tranquilla. La luce della luna scendeva immutabile. Rannicchiato accanto all’albero, Sopli russava, con un suono lungo e sommesso. La barca procedeva dolcemente; dolcemente, Arren scivolò nel sonno. Si svegliò con un sussulto, dopo un po’, e vide che la luna era di poco più alta; rinunciò alla decisione di montare di guardia, si assestò più comodamente, e si addormentò.

Sognò ancora, come sembrava che sognasse sempre durante quel viaggio, e all’inizio i sogni furono frammentari ma stranamente dolci e rassicuranti. Al posto dell’albero maestro della Vistacuta cresceva una grande pianta, con i rami arcuati e carichi di foglie; c’erano cigni che guidavano la barca, volando sulle forti ali; lontano, più avanti, sul mare verde come berillo, splendeva una città dalle torri bianche. Poi si trovò in una di quelle torri: saliva la scala a spirale, correndo a passi leggeri e impazienti. Quelle scene cambiavano e ritornavano e portavano ad altre, che passavano senza lasciare tracce; ma all’improvviso Arren fu nel cupo e terrificante crepuscolo della brughiera, e l’orrore crebbe dentro di lui fino a impedirgli di respirare. Ma lui avanzava, perché doveva avanzare. Dopo molto tempo s’accorse che lì avanzare significava procedere in cerchio e ritornare sulle proprie tracce. Eppure doveva andarsene, doveva andare via. L’impulso diventò più incalzante. Si mise a correre. Via via che correva, i cerchi si restringevano e il terreno diventava inclinato. Nell’oscurità sempre più fitta Arren correva sempre più veloce, intorno al ciglio interno di un abisso, un gorgo enorme che sprofondava nella tenebra: e quando se ne accorse, scivolò e cadde.

— Cosa ti succede, Arren?

Sparviero gli aveva parlato dalla poppa della barca. La grigia alba teneva immobili il mare e il cielo.

— Niente.

— L’incubo?

— Niente.

Arren aveva freddo, e il suo braccio destro era intorpidito perché gli stava sdraiato sopra. Chiuse di nuovo gli occhi, di fronte alla luce che diventava più intensa, e pensò: Lui allude a questo e a quello, ma non mi dice mai chiaramente dove stiamo andando o perché, e neppure perché io devo andarci. E adesso si trascina dietro questo pazzo. Ma chi è più demente, il pazzo oppure io che vado con lui? Forse loro due possono intendersi: adesso i maghi sono pazzi, ha detto Sopli. Io potrei essere di nuovo in patria, a casa mia, nel palazzo di Berila, nella mia stanza dalle pareti scolpite, con i tappeti rossi sul pavimento e il fuoco acceso nel camino, e mi sveglierei per andare insieme a mio padre a caccia con i falchi. Perché sono venuto con lui? Perché mi ha condotto con sé? Perché è la mia strada, dice: ma questi sono discorsi da mago, che fanno sembrare le cose più grandi con grandi parole. Ma il significato delle parole è sempre altrove. Se ho una strada da seguire, è quella che conduce alla mia patria, e non a vagare senza ragione attraverso gli stretti. Ho doveri da compiere, in patria, e li sto evitando. Se lui pensa veramente che c’è all’opera un nemico della magia, perché è partito solo, con me? Avrebbe potuto condurre un altro mago che l’aiutasse… o cento maghi. Avrebbe potuto portare un esercito di guerrieri, un’intera flotta. È così che si deve affrontare un grande pericolo, mandando un vecchio e un ragazzo a bordo di una barca? È una follia. Anche lui è pazzo: è come ha detto, cerca la morte. Cerca la morte, e vuole portarmi con sé. Ma io non sono pazzo e non sono vecchio; non voglio morire; non voglio andare con lui.

Si sollevò, puntellandosi sul gomito, e guardò avanti. La luna, che era sorta davanti a loro quando avevano lasciato la baia di Sosara, era di nuovo dinanzi a loro, e stava tramontando. Dietro, a oriente, il giorno spuntava pallido. Non c’erano nubi, ma una lieve foschia malsana. Poi, il sole divenne caldo ma rimase velato, privo di splendore.

Per tutto quel giorno costeggiarono Lorbanery, bassa e verdeggiante sulla loro destra. Un vento leggero spirava dalla terra e gonfiava la vela. Verso sera doppiarono l’ultimo capo, e la brezza cadde. Sparviero chiamò nella vela il vento magico: come un falcone lanciato dal polso del cacciatore, la Vistacuta balzò e volò rapida, lasciandosi indietro l’isola della Seta.

Sopli il Tintore era rimasto per tutto il giorno rannicchiato al suo posto: evidentemente aveva paura della barca e del mare, soffriva il mal di mare ed era intristito e preoccupato. Adesso parlò, con voce rauca: — Stiamo andando verso occidente?

Aveva il tramonto proprio in faccia; ma Sparviero, paziente anche di fronte alle sue domande più stupide, annuì.

— A Obehol?

— Obehol è a ovest di Lorbanery.

— Molto più a ovest. Forse il posto è là.

— Com’è, quel posto?

— Come posso saperlo? Come potevo vederlo? Non è a Lorbanery? L’ho cercato per anni, quattro anni, cinque anni, nel buio, la notte, chiudendo gli occhi, e sempre lui chiamava «Vieni, vieni», ma io non potevo andare. Io non sono un signore dei maghi, capace di riconoscere le vie nell’oscurità. Ma c’è un luogo dove si può giungere nella luce, sotto il sole. È questo che mia madre e Mildi non volevano capire. Continuavano a guardare nell’oscurità. Poi il vecchio Mildi è morto, e mia madre ha perso il senno. Ha dimenticato gli incantesimi che usavamo per tingere, e questo ha menomato la sua mente. Voleva morire, ma io le ho detto di attendere. Di attendere fino a quando io avessi trovato quel posto. Deve esserci. Se i morti possono tornare alla vita nel mondo, dev’esserci nel mondo un posto dove succede.

— I morti ritornano alla vita?

— Credevo che tu le sapessi, queste cose — disse Sopli, dopo una pausa, guardando Sparviero di sottecchi.

— Cerco di saperle.

Sopli non replicò. Il mago lo guardò all’improvviso con uno sguardo diretto ed energico, sebbene il suo tono fosse gentile. — Stai cercando una via per vivere in eterno?

Sopli ricambiò lo sguardo per un momento; poi nascose tra le braccia l’irsuta testa bruno-rossiccia, intrecciando le mani sulle caviglie, e si dondolò avanti e indietro. Sembrava che assumesse quella posizione quando era Impaurito; e quando l’assumeva, allora non parlava, non mostrava di accorgersi di ciò che gli veniva detto. Arren gli voltò le spalle, disgustato e disperato. Come avrebbero potuto resistere insieme a Sopli, per giorni e settimane, a bordo di una nave lunga sei braccia? Era come condividere un corpo con un’anima malata…

Sparviero raggiunse Arren a prua e appoggiò un ginocchio sulla fiancata, guardando nella sera olivastra. Disse: — Quell’uomo ha uno spirito gentile.

Arren non rispose. Chiese invece, freddamente: — Cos’è Obehol? È un nome che non ho mai sentito.

— Conosco il nome e la sua ubicazione sulle carte, nient’altro… Guarda là: le compagne di Gobardon!

La grande stella color topazio era più alta, adesso; e sotto di lei, appena al di sopra del mare scuro, brillavano una stella bianca a sinistra e una biancazzurra a destra, formando un triangolo.

— Hanno nomi?

— Il Maestro dei Nomi non li conosceva. Forse gli uomini di Obehol e di Wellogy hanno dato loro un nome. Non so. Ci addentriamo in mari sconosciuti, Arren, sotto il Segno della Fine.

Il ragazzo non replicò, guardando con una specie di ripugnanza le fulgide stelle senza nome sopra le acque infinite.


Mentre navigavano verso occidente, un giorno dopo l’altro, il tepore della primavera meridionale si stendeva sulle acque, e il cielo era sereno. Tuttavia, ad Arren sembrava che la luce fosse offuscata, come se scendesse obliqua attraverso un vetro. Il mare era tiepido, quando s’immergeva per nuotare, e gli dava scarso ristoro. I viveri salati non avevano sapore. Non c’era nulla di fresco e di vivido tranne la notte, quando le stelle ardevano con uno splendore più intenso di quanto lui avesse mai visto. Si sdraiava e le guardava fino a quando si addormentava. E quando dormiva, sognava: era sempre il sogno della brughiera o del baratro o di una valle circondata da strapiombi o di una lunga strada che scendeva sotto un cielo basso; e sempre la luce fioca e l’orrore che l’invadeva, e l’inutile tentativo di fuggire.

Non ne parlava a Sparviero, mai. Non parlava di nulla che fosse importante per lui, ma solo dei piccoli incidenti quotidiani della navigazione; e Sparviero, al quale era sempre stato difficile strappare qualche parola, adesso taceva abitualmente.

Arren si rendeva conto, adesso, di essere stato sciocco ad affidarsi corpo e anima a quell’uomo inquieto e misterioso, che si lasciava guidare dall’impulso e non cercava di tenere in pugno la propria vita e neppure di salvarla. Perché adesso sembrava impazzito; era così, pensava Arren, perché non osava affrontare il suo fallimento… il fallimento della magia quale grande potere al cospetto degli uomini.

Ormai era evidente che, per quanti conoscevano i segreti, non c’erano molti segreti nell’arte magica da cui Sparviero e tutte le generazioni d’incantatori e di maghi avevano acquisito tanta fama e tanta potenza. Non era molto di più dell’uso del vento e delle intemperie, la conoscenza delle erbe medicamentose, e un abile sfoggio di illusioni come nebbie e luci e metamorfosi, che potevano incutere soggezione agli ignoranti ma che erano soltanto trucchi. La realtà restava immutata. Non c’era nulla, nella magia, che assicurasse a un uomo un vero potere sugli altri uomini; ed era inutile contro la morte. I maghi non vivevano più a lungo degli uomini comuni. Tutte le loro parole segrete non potevano procrastinare neppure di un’ora la venuta della loro morte.

Neanche nelle piccole cose valeva la pena di far conto sulla magia. Sparviero era sempre avaro delle sue arti: viaggiavano spinti dal vento del mondo quand’era possibile, pescavano per procurarsi da mangiare, e razionavano l’acqua come tutti i marinai. Dopo quattro giorni di bordeggi interminabili in un vento contrario che arrivava a raffiche convulse, Arren gli domandò se non poteva chiamare un vento favorevole nella vela; e quando il mago scosse la testa, lui disse: — Perché no?

— Non chiederei mai a un uomo malato di partecipare a una gara di corsa — rispose Sparviero, — né aggiungerei una pietra a un dorso già troppo carico. — Era impossibile capire se parlava di se stesso o del mondo in generale. Le sue risposte erano sempre burbere, e difficili da comprendere. Quello, pensò Arren, era il vero cuore della magia: alludere a significati grandiosi mentre non si diceva nulla, e far sì che l’inazione apparisse come il supremo coronamento della saggezza.

Arren si era sforzato d’ignorare Sopli, ma era impossibile: comunque, ben presto si trovò legato al pazzo da una specie di alleanza. Sopli non era pazzo, o almeno non così semplicemente come lo facevano sembrare quei suoi capelli scarmigliati e il suo eloquio frammentario. In verità, l’aspetto più folle del suo carattere era forse il terrore che provava per l’acqua. Per salire su una barca aveva dovuto attingere a un coraggio disperato, e non era mai riuscito a smussare la paura: teneva la testa bassa per non dover vedere l’acqua che si gonfiava e lambiva intorno a lui. Stare in piedi gli dava le vertigini: si aggrappava all’albero. La prima volta che Arren decise di nuotare un po’ e si tuffò dalla prua, Sopli lanciò grida d’orrore; quando il ragazzo risalì a bordo, il poveraccio era verde. — Credevo che volessi annegarti — disse, e Arren dovette ridere.

Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?

— Certo che no.

— Lui sì — disse Sopli, indicando Sparviero con un piccolo movimento della mandibila.

— Perché dici questo?

Arren aveva assunto un tono di principesca alterezza che per la verità gli veniva naturale; e Sopli l’accettò con la stessa naturalezza, sebbene avesse dieci o quindici anni più di lui. Rispose prontamente e con cortesia, anche se in quel suo solito modo frammentario. — Lui vuole andare nel luogo segreto. Ma non so perché. Lui non vuole… Non crede nella… nella promessa.

— Quale promessa?

Sopli alzò bruscamente gli occhi verso Arren, con un’espressione di umanità devastata; ma la volontà di Arren era più forte. Rispose, a voce molto bassa: — Lo sai. La vita. La vita eterna.

Un grande gelo invase le membra di Arren. Ricordò i suoi sogni: la brughiera, il gorgo, gli strapiombi, la luce fosca. Quella era la morte; quello era l’orrore della morte. Doveva sottrarsi alla morte, trovare la via. E sulla soglia stava la figura incoronata d’ombra, che protendeva una luce minuscola, non più grande di una perla, lo scintillio della vita immortale.

Arren incontrò per la prima volta gli occhi di Sopli: erano castani, molto chiari. E in quegli occhi vide che lui aveva finalmente compreso e che Sopli condivideva la sua conoscenza.

— Lui — disse il Tintore, indicando di nuovo Sparviero con un movimento della mandibola — non vuole rinunciare al suo nome. Nessuno può portare al di là il suo nome. La via è troppo stretta.

— Tu l’hai vista?

— Nella tenebra, nella mia mente. Non basta. Voglio arrivarci: voglio vederla. Nel mondo, con i miei occhi. E se… e se morissi, e non riuscissi a trovare la via, il posto? Molti non possono trovarlo: non sanno neppure che esiste. Solo alcuni di noi hanno il potere. Ma è difficile, perché si deve rinunciare al potere per arrivarci… Niente più parole. Niente più nomi. È troppo difficile farlo nella mente. E quando uno… muore, la sua mente… muore. — Ogni volta, s’impuntò sulla parola. — Io voglio sapere che potrò tornare. Voglio andare là. Dalla parte della vita. Voglio vivere, essere al sicuro. Odio… odio quest’acqua…

Il Tintore rattrappì le membra come fa un ragno quando cade, e ritrasse la testa fulva e ispida tra le spalle, per escludere la vista del mare.

Ma dopo quella volta Arren non evitò più di conversare con lui, poiché sapeva che Sopli non condivideva soltanto la sua visione ma anche la sua paura; e che, se si fosse arrivati al peggio, forse avrebbe potuto aiutarlo contro Sparviero.

Continuavano ad avanzare lentamente, tra le bonacce e le brezze irregolari, verso occidente, dove Sparviero affermava che Sopli li stava guidando. Ma Sopli non li guidava affatto: non sapeva nulla del mare, non aveva mai visto una carta nautica, non era mai salito su una barca, temeva l’acqua con un terrore morboso. Era il mago, a guidarli, e li conduceva volutamente fuori strada. Adesso Arren se ne rendeva conto, e ne capiva la ragione. L’arcimago sapeva che loro, e altri come loro, cercavano la vita eterna: ne avevano ricevuto la promessa, ne venivano attratti, e avrebbero potuto trovarla. Nel suo orgoglio, il suo schiacciante orgoglio di arcimago, temeva che la trovassero: li invidiava, e li temeva, e non voleva permettere che un altro uomo diventasse più grande di lui. Aveva intenzione di spingersi nel mare aperto, al di là di tutte le terre, finché si fossero perduti completamente e non potessero più ritornare nel mondo; e allora sarebbero morti di sete. Perché era disposto a morire anche lui, pur d’impedire loro di raggiungere la vita eterna.

Di tanto in tanto veniva il momento in cui Sparviero parlava ad Arren di piccole cose relative al governo della barca, o nuotava insieme a lui nel caldo mare, e gli augurava la buonanotte, sotto le grandi stelle: e al ragazzo, allora, tutte quelle idee sembravano completamente assurde. Guardava il suo compagno e vedeva quel volto duro, aspro, paziente e pensava: questo è il mio signore e amico. E gli pareva incredibile di aver dubitato. Ma poco dopo dubitava ancora, e lui e Sopli si scambiavano occhiate per mettersi reciprocamente in guardia contro il nemico comune.

Ogni giorno il sole splendeva ardente, e tuttavia opaco. La sua luce era come una patina invetriata sulle lente onde del mare. L’acqua era azzurra e il cielo era azzurro, senza mutamenti, senza sfumature. Le brezze spiravano e cadevano, e loro giravano la vela per sfruttarle e avanzavano lentamente, senza una meta.

Un pomeriggio, finalmente, incontrarono un leggero vento propizio; e Sparviero tese il braccio in direzione del tramonto, dicendo: — Guarda. — In alto, sopra l’albero, una fila di oche marine tremolava come una runa nera tracciata attraverso il cielo. Le oche volavano verso occidente; e, seguendole, il giorno successivo la Vistacuta giunse nei pressi di una grande isola.

— Eccola — disse Sopli. — Quella terra. È là, che dobbiamo andare.

— Il luogo che cerchi è là?

— Sì. Dobbiamo sbarcare. Non possiamo andare oltre.

— Quella terra dev’essere Obehol. Più oltre, nello Stretto Meridionale, c’è un’altra isola, Wellogy. E nello Stretto Occidentale ci sono isole ancora più a ovest di Wellogy. Ne sei certo?

Il Tintore di Lorbanery s’incollerì, e l’espressione agghiacciante riapparve nei suoi occhi; ma non parlò da pazzo, pensò Arren, come invece aveva fatto quando avevano parlato per la prima volta con lui, molti giorni prima, a Lorbanery. — Sì. Dobbiamo sbarcare qui. Siamo andati abbastanza lontano. Il posto che cerchiamo è qui. Devo giurare che lo so? Vuoi che giuri sul mio nome?

— Non puoi — disse Sparviero, con voce dura, levando lo sguardo verso Sopli, che era più alto di lui: Sopli si era alzato, aggrappandosi all’albero, per guardare l’isola davanti a loro. — Non tentare di farlo, Sopli.

Il Tintore fece una smorfia, di sofferenza o di rabbia. Guardò le montagne inazzurrate dalla distanza, davanti alla barca, sulla tremula pianura delle acque, e disse: — Tu mi hai preso come guida. Il luogo è questo. È qui, che dobbiamo sbarcare.

— Sbarcheremo comunque; abbiamo bisogno d’acqua dolce — replicò Sparviero, e andò al timone. Sopli si sedette al suo solito posto, borbottando. Arren lo sentì dire: — Lo giuro sul mio nome. Sul mio nome. — Lo ripeté molte volte; e ogni volta che lo diceva, faceva di nuovo una smorfia, come se soffrisse.

Si avvicinarono all’isola, sospinti da un vento che soffiava dal nord, e la costeggiarono cercando una baia o una spiaggia per sbarcare, ma i frangenti battevano tuonando nel caldo sole lungo tutta la costa settentrionale. Nell’entroterra, le verdi montagne cuocevano in quella luce, ammantate d’alberi fino alle vette.

Doppiarono un capo, e giunsero finalmente in vista di una profonda baia a forma di mezzaluna, con spiagge di sabbia bianca. Lì le onde arrivavano quiete, smorzate dal promontorio, e una barca poteva toccare la riva. Non si scorgeva traccia di presenza umana, sul lido o nelle foreste; non avevano visto una barca, o un tetto, o un filo di fumo. La leggera brezza cadde appena la Vistacuta entrò nella baia. C’erano silenzio, immobilità, afa. Arren prese i remi, Sparviero si mise al timone. Lo scricchiolio dei remi negli scalmi era l’unico suono. Le verdi vette torreggiavano sopra la baia, cingendola. Il sole stendeva sull’acqua drappi di luce incandescente. Arren si sentiva il sangue rombare negli orecchi. Sopli aveva abbandonato il sostegno dell’albero e si era accovacciato a prua, aggrappandosi alla frisata, guardando la terra e protendendosi in avanti. Il volto scuro e sfigurato di Sparviero luccicava di sudore, come se fosse unto di olio; il suo sguardo andava continuamente dai bassi frangenti alle alture schermate dal fogliame.

— Ora — disse ad Arren e alla barca. Arren diede tre grandi colpi di remi, e la Vistacuta salì leggera sulla sabbia. Sparviero balzò fuori per spingere avanti la barca, sull’ultimo slancio delle onde. Quando tese le mani per spingere, incespicò e quasi cadde, afferrandosi alla prua. Con uno sforzo poderoso trascinò la barca indietro, nell’acqua, nel deflusso dell’onda, e scavalcò la frisata mentre la Vistacuta stava sospesa fra mare e spiaggia. — Rema! — ansimò, e si acquattò carponi, sgocciolante d’acqua, cercando di riprendere fiato. Stringeva una lancia, una lancia dalla punta di bronzo, lunga mezzo braccio. Dove l’aveva presa? Un’altra lancia apparve mentre Arren indugiava frastornato sui remi; colpì di taglio un sedile, scheggiando il legno, e rimbalzò. Sulle basse alture sopra la spiaggia, sotto gli alberi, c’erano figure che si muovevano, correvano e si chinavano. Nell’aria c’erano lievi sibili ronzanti. All’improvviso Arren ritrasse la testa tra le spalle, piegò la schiena e remò a bracciate poderose: due per uscire dalle acque basse, tre per far virare la barca, e via.

Sopli, che stava a prua, dietro le spalle di Arren, cominciò a gridare. Il ragazzo si sentì afferrare bruscamente le braccia, e i remi uscirono fulminei dall’acqua. Uno lo colpì alla bocca dello stomaco, e per un attimo lui restò accecato, ansimante. — Torna indietro! Torna indietro! — gridava Sopli. La barca balzò all’improvviso nell’acqua, e ondeggiò. Arren si voltò, furioso, appena ebbe riafferrato i remi. Sopli non era a bordo.

Intorno a loro, la profonda acqua della baia ondeggiava e scintillava abbagliante nel sole.

Stordito, Arren guardò di nuovo indietro, poi guardò Sparviero, accovacciato a poppa. — Là — disse il mago, tendendo il braccio: ma non c’era nulla, solo il mare e i barbagli del sole. Una lancia cadde a poche braccia dalla barca, entrò nell’acqua senza far rumore, e svanì. Arren remò, dieci o dodici bracciate energiche, poi si fermò per guardare di nuovo Sparviero.

Aveva il braccio sinistro e le mani insanguinati, e si teneva contro la spalla un pezzo di tela da vela. La lancia dalla punta di bronzo giaceva sul fondo della barca. Non era esatto dire che lui la tenesse in mano, quando Arren l’aveva vista per la prima volta: gli si era piantata nell’incavo della spalla. Sparviero scrutava l’acqua tra loro e la bianca spiaggia, dove alcune figure minuscole saltavano e ondeggiavano nel confuso bagliore del caldo. Infine disse: — Va’.

— Sopli…

— Non è riemerso.

— È annegato? — chiese Arren, incredulo.

Sparviero annuì.

Arren continuò a remare fino a quando la spiaggia fu soltanto una linea bianca sotto le foreste e le grandi vette verdi. Sparviero sedeva accanto al timone, premendosi il tampone di tela contro la spalla ma senza curarsi della ferita.

— È stato colpito da una lancia?

— Si è buttato.

— Ma… non sapeva nuotare. Aveva paura dell’acqua.

— Sì. Una paura mortale. Voleva… voleva andare a terra.

— Perché ci hanno attaccati? Chi sono?

— Devono averci creduto nemici. Ti dispiace… darmi una mano, un momento? — Arren vide che la tela premuta contro la spalla era intrisa di sangue.

La lancia aveva colpito tra la giuntura della spalla e la clavicola, lacerando una delle grandi vene, e la ferita sanguinava abbondantemente. Seguendo le istruzioni di Sparviero, Arren strappò a strisce una camicia di lino e fasciò la ferita. Sparviero gli chiese la lancia: quando Arren gliela posò sulle ginocchia, mise la mano destra sulla punta, lunga e sottile come una foglia di salice, di bronzo rozzamente martellato; sembrò sul punto di parlare, ma dopo un attimo scosse la testa. — Non ho forza per un incantesimo — disse. — Più tardi. Guarirà. Puoi portarci fuori dalla baia?

In silenzio, il ragazzo ritornò ai remi. Piegò la schiena con impegno, e ben presto, poiché in quel suo corpo agile c’era una grande forza, portò la Vistacuta fuori dalla baia a mezzaluna, nel mare aperto. Regnava la lunga bonaccia meridiana, e la vela pendeva inerte. Il sole sfolgorava attraverso un velo di foschia, e le verdi vette sembravano tremolare e pulsare nel calore. Sparviero si era sdraiato sul fondo della barca, con la testa appoggiata al sedile, accanto al timone; era immobile, con le labbra e le palpebre socchiuse. Arren preferiva non guardarlo in faccia, e fissava oltre la poppa della barca. La foschia tremolava sull’acqua, come se veli di ragnatela s’intessessero nel cielo. Gli tremavano le braccia per la fatica, ma continuava a remare.

— Dove ci stai portando? — chiese Sparviero con voce rauca, sollevandosi un po’. Voltatosi, Arren vide che la baia incurvava di nuovo le verdi braccia intorno alla barca, e la bianca linea della spiaggia stava davanti a loro, e le montagne si ergevano nell’aria. Aveva girato la barca senza accorgersene.

— Non posso più remare — disse, ritirando i remi, e andò ad accovacciarsi a prua. Continuava ad avere la sensazione che Sopli fosse dietro di lui, a bordo, accanto all’albero. Avevano vissuto insieme molti giorni, e la sua morte era stata troppo improvvisa e immotivata perché lui potesse comprenderla. Tutto era incomprensibile.

La barca si dondolava sull’acqua, con la vela afflosciata. La marea, che incominciava a entrare nella baia, girò lentamente la Vistacuta di traverso rispetto alla corrente e la spinse avanti a piccoli colpetti verso la lontana linea bianca della spiaggia.

Vistacuta - disse il mago in tono carezzevole, e aggiunse una o due parole nella Vecchia Lingua; e dolcemente la barca ondeggiò e girò la prua verso il mare, scivolando sull’acqua sfolgorante, lontano dalle braccia della baia.

Ma altrettanto dolcemente, dopo meno di un’ora, smise di avanzare, e la vela si afflosciò di nuovo. Arren si voltò indietro e vide che il suo compagno era sdraiato come prima; ma la testa era leggermente ripiegata all’indietro, e gli occhi erano chiusi.

Fino a quel momento Arren aveva provato un orrore pesante e morboso che cresceva e gli impediva di agire, come se avvolgesse il suo corpo e la sua mente in fili sottilissimi. Non trovava il coraggio di combattere contro quella paura: c’era solo una specie di cupo risentimento contro la sua sorte.

Non doveva lasciare che la barca andasse alla deriva verso le spiagge rocciose di un’isola i cui abitanti attaccavano i forestieri: questo era chiaro, nella sua mente, ma non significava molto. Cosa doveva fare, invece? Remare fino a Roke? Era perduto, irreparabilmente perduto senza speranza, nell’immensità dello stretto. Non avrebbe mai potuto riportare la barca verso una terra amichevole, con un viaggio di settimane. Poteva riuscirci solo con la guida del mago, e Sparviero era stato ferito e immobilizzato, all’improvviso e insensatamente, così com’era morto Sopli. Il suo volto era mutato, giallastro e inerte: forse stava morendo. Arren pensò che doveva portarlo sotto il tendone per ripararlo dal sole e dargli un po’ d’acqua: chi ha perso sangue deve bere. Ma da giorni era a corto d’acqua: il barile era quasi vuoto. Che importanza aveva? Tutto era inutile. La buona sorte li aveva abbandonati.

Le ore trascorsero, e il sole continuava a picchiare, e il calore grigiastro avviluppava Arren. E lui stava seduto immobile.

Un alito di frescura gli passò sulla fronte. Alzò la testa. Era sera: il sole era tramontato, e l’occaso era rosso-cupo. La Vistacuta si muoveva lentamente, spinta da una lieve brezza che veniva dall’est aggirando le scoscese coste boscose di Obehol.

Arren si mosse e si prese cura del suo compagno, sistemando un pagliericcio sotto il tendone e facendogli bere un po’ d’acqua. Fece tutte queste cose in fretta, distogliendo gli occhi dalla fasciatura, che doveva essere cambiata perché la ferita non aveva smesso completamente di sanguinare. Sparviero, illanguidito dalla debolezza, non parlava; mentre beveva avidamente chiuse gli occhi e scivolò di nuovo nel sonno, che era la sua sete più grande. Giaceva in silenzio; e quando, nell’oscurità, la brezza cadde, non venne un vento magico a sostituirla, e la barca si dondolò di nuovo pigramente sulle onde lunghe. Ma adesso le montagne che incombevano sulla destra spiccavano nere contro un cielo fulgido di stelle, e Arren restò a lungo a guardarle. I contorni delle costellazioni gli sembravano familiari, come se li avesse già visti, come se li avesse sempre conosciuti.

Quando si sdraiò per dormire si girò verso sud: e là, alta nel cielo sopra il mare vuoto, ardeva la stella Gobardon. Più sotto c’erano le due che formavano un triangolo, e sotto queste ne erano sorte tre, in linea retta, formando un triangolo ancora più grande. Poi, liberandosi dalle liquide pianure nere e argentee, ne seguirono altre due, con l’avanzare della notte; erano gialle come Gobardon, sebbene più fioche, e inclinate da destra verso sinistra alla base del triangolo. Dunque erano otto delle nove stelle che, si diceva, formavano la figura di un uomo, o la runa hardese Agnen. Agli occhi di Arren quella costellazione non sembrava affatto un uomo, a meno che fosse stranamente distorto, come avviene sempre nelle figure formate dalle stelle; ma la runa era nitida, con l’uncino e il tratto trasversale, e per completarla mancava solo l’ultimo tratto, la base, la stella che non era ancora sorta.

E mentre la cercava con lo sguardo, attendendola, Arren si addormentò.

Quando si svegliò, all’alba, la Vistacuta era stata spinta dalla deriva ancora più lontano da Obehol. La nebbia nascondeva le spiagge, rivelando solo le vette delle montagne, e si diradava in una foschia sopra le acque violette del sud, affievolendo le ultime stelle.

Arren guardò il suo compagno. Sparviero aveva il respiro irregolare, come avviene quando la sofferenza serpeggia sotto la superficie del sonno senza infrangerla. Il suo volto era vecchio e segnato, nella fredda luce senza ombre. Mentre lo guardava, Arren vide un uomo al quale non restavano più potere né magia né forza, e neppure la giovinezza: più nulla. Non aveva salvato Sopli, non aveva distolto da sé la lancia. Li aveva portati fra i pericoli e non li aveva salvati. Adesso Sopli era morto, e Sparviero era moribondo, e Arren sarebbe morto: tutto a causa di quell’uomo, e invano, per niente.

Perciò Arren lo guardava con i limpidi occhi della disperazione e non vedeva nulla.

Non rammentava più la fontana sotto l’albero di rowan, o la bianca luce incantata nella nebbia, a bordo della nave dei razziatori di schiavi, o le piantagioni esauste della Casa dei tintori. Né si ridestava in lui l’orgoglio o l’ostinazione della volontà. Guardò l’alba ascendere sul mare tranquillo, dove le onde lunghe e basse correvano, colorate di pallido ametista, ed era tutto come un sogno, sbiadito, senza la presa e il vigore della realtà. E nel profondo del sogno e del mare c’era il nulla… una lacuna, un vuoto. La profondità non c’era.

La barca si muoveva lenta, irregolarmente, seguendo l’umore capriccioso del vento. Più indietro, i picchi di Obehol rimpicciolirono, neri contro il sole che sorgeva; e da quella direzione veniva il vento, che portava la barca lontano dall’isola, lontano dal mondo, fuori, sul mare aperto.

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